Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

L'economia italiana negli anni '90. Declino delle imprese di stato.

Se otterrò qualcosa di positivo non so dire, preferisco comunque, che mi manchi il successo e mai la fiducia.

Seneca Lettere morali a Lucilio


LOGO

Nella primavera del '90, viene introdotta la liberalizzazione dei movimenti di capitali e, nel gennaio del '93, nasce il mercato unico. Le leggi comunitarie stabiliscono un limite agli interventi di sostegno dei singoli stati, cosicché il potere pubblico italiano non può più coprire impunemente le perdite delle imprese statali e, quindi, deve rinunciare a mantenere quella ridondante struttura parastatale che è sempre stata il perno del sistema clientelare. Si comincia a parlare in concreto di privatizzazioni, la libertà di movimento dei capitali consente agli italiani di investire all'estero e finisce la dipendenza dai Bot e dai Cct.

Nell'estate del '96. Il commissario Ue, Mario Monti, scrive sul Corriere, «Il Dpef non fa altro che formalizzare la rinuncia dell'Italia a partecipare fin dall'inizio all'unione monetaria europea». Monti trascurava che in Italia non è mai mancata la disponibilità a seguire una politica economica rigorosa; era necessario, però, che un governo gliene offrisse la possibilità. La cura da cavallo alla quale sono sottoposti gli italiani, tra il '92 e il '98, sortisce l'effetto voluto, e l'Italia entra nell'Euro con i primi paesi.

Il 25 giugno 1993, viene approvata dal Parlamento una nuova legge di riforma della Rai, i consiglieri di amministreazione vengono ridotti da sedici a cinque, la cui nomina spetta ai presidenti delle Camere. Spadolini e Napolitano nominano tre professori Claudio Demattè (Presidente), Feliciano Benvenuti e Tullio Gregory, un giornalista, Paolo Murialdi e un'editrice Elvira Sellerio, tutti animati da una forte tensione moralizzatrice. Quel Consiglio, che taglia i lauti strordinari e ridimensiona il numero di dirigenti con incentivi  al prepensionamento, è ricordato ancora come un incubo dai superprotetti e superpagati dipendenti di quel servizio pubblico.

Nell'agosto del 1993, le azioni Ferfin vengono svalutate da 1000 lire di nominale a 5 lire; in mano a 50.000 risparmiatori rimane un pugno di mosche. Il crack del gruppo Ferruzzi e lo sfascio dell'impresa pubblica mettono in evidenza la necessità di togliere il cuore del sistema produttivo dalle mani delle grandi famiglie, che operano in regime monopolistico e dello stato; entrambi tendono, infatti, a creare condizioni di oligopolio che consentono di acquisire posizioni di vantaggio al di fuori delle leggi di mercato, con il risultato di far perdere efficienza alle imprese e di scaricare poi sugli azionisti o sulla spesa pubblica, il peso delle perdite.

Il capitalismo privato

Se il capitalismo di stato soffre di anemia cronica si può affermare che anche il capitalismo privato ha sofferto e soffre di gravi carenze.
 
Va innanzi tutto osservato che le grandi famiglie del capitalismo italiano si reggono su un «equilibrio sbilanciato», che consente un enorme potere di controllo a fronte di un modesto impegno patrimoniale, grazie all'utilizzo del meccanismo delle scatole cinesi.

Questi «furbi», come li chiamava Luigi Einaudi, sono più interessati al mantenimento di un potere di controllo, ma anche di immagine e presenzialismo sui media, che non all'aumento di valore delle aziende controllate. Ancora negli anni '90, con la tecnica dei controlli a cascata e incrociati i grandi gruppi familiari controllano senza mettere troppi quattrini. Ad esempio, De Benedetti controlla il suo gruppo con solo il 2% di reale possesso, mentre il possesso della famiglia Agnelli nel gruppo Fiat è pari al 6%. La Banca d'Italia effettua, negli anni, diverse ricerche sul sistema imprenditoriale del Paese e arriva sempre alla conclusione che «l'obiettivo prioritario e assoluto del capitalismo privato italiano è l'assicurare la persistenza del controllo familiare e la difesa da possibili scalate».
Le aziende così blindate, al riparo da mani ostili, sono veri e propri oligopoli indifferenti alle leggi del mercato e della concorrenza. Mediobanca, il cosiddetto salotto buono del capitalismo italiano, il santuario delle "famiglie" fa venire in mente un'osservazione di Adam Smith «Quando più uomini d'affari si riuniscono a discutere in un circolo chiuso, è probabile che stiano tramando contro la libera competizione sul mercato e quindi contro il bene comune». La storia economica del Paese mostra che l'abilità dei «capitani di sventura» nostrani, come li definiva Marco Borsa, sta nello scaricare sugli azionisti che non contano (la stragrande maggioranza) le perdite e i loro errori di gestione, e, nel frattempo, nel mantenere e rafforzare il controllo delle imprese.

Il quadro del sistema economico italiano non è completo senza uno sguardo alle rovine di quella che si definisce la stampa italiana. I grandi giornali italiani non fanno capo a editori puri, ma a gruppi industriali; Stampa e Corriere, alla Fiat, Repubblica a De Benedetti, Il Giornale a Berlusconi, Il Tempo e Il Mattino ai Caltagirone, il potentissimo Il Sole24 Ore alla Confindustria.
Senza entrare nel merito del modesto livello di professionalità dei giornalisti, la reattività della stampa italiana, la sua capacità di analisi critiche neutrali, la denuncia dei soprusi dei grandi gruppi, la difesa dei gruppi economici minoritari, in particolare delle piccole e medie imprese sono praticamente nulli. «Sappiamo che chi il coraggio non ce l'ha, non se lo può dare; mal messi quei paesi che sono ridotti a contare sugli eroi, anche nella stampa».

Ma, come per i gruppi pubblici è stata inventata la medicina delle privatizzazioni, la medicina dei gruppi privati sarà l'Unione europea che abbattendo le barriere tra gli stati, costringerà gli oligopoli privati a porsi obiettivi di valorizzazione aziendale più che di preservazione del potere. I prodromi di un'aria nuova sono, ad esempio, il crack Ferruzzi, l'ingresso di nuovi soci nel sindacato di controllo della Fiat e poi l'accordo con la General Motors, l'ingresso di Auchan nel Gruppo Rinascente, il passaggio dell'Olivetti, data per morta, a Colaninno, che la rivitalizza.

Quale capitalismo?

In Italia un modello di capitalismo libero e non protetto non è mai realmente esistito, se non nella piccola e media impresa; per di più l'Italia è stata sede di sperimentazione dell'economia corporativa, durante il fascismo, sperimentazione che è sfociata poi nel capitalismo di stato dei governi democristiani.

Negli Usa il vetero capitalismo famiglie-stato è stato soppiantato, addirittura negli anni venti, dal capitalismo manageriale delle public company a proprietà diffusa. Già negli anni trenta, il 65% delle società americane è controllato dal management, la cosiddetta tecnostruttura che, forte del know-how tecnologico, riesce a imporre a un azionariato molto disperso la propria strategia. Nell'economia degli Usa la presenza dello stato, oggi, è irrilevante e si limita alla politica fiscale e monetaria così come le dinastie imprenditoriali sono solo un lontano ricordo; lo stato, grazie a una ferrea regolamentazione, funge da attento garante del libero mercato e della tutela della concorrenza.

Tra gli addetti ai lavori non sempre il modello americano è considerato il migliore; nella discussione su Quale capitalismo? Michel Albert tra il modello neo-liberista americano, che privilegia la deregulatione, quello renano-giapponese che, sempre in un'economia di mercato, sottolinea l'importanza del quadro istituzionale per garantire la sicurezza degli individui e delle imprese, pende decisamente a favore di questo secondo.
A favore del capitalismo americano parlano però i numeri: il tasso di disoccupazione è andato calando negli ultimi vent'anni, raggiungendo valori inferiori al 4% (fine 2000), contro un 10-11% europeo, l'economia ha vissuto, fino alla fine del millennio, di un periodo di prosperità, che il rallentamento del 2001 non scalfisce. D'altra parte negli anni 2001-2002 l'economia Usa ha sperimentato la grave crisi energetica della California e il tracollo del colosso elettrico Enron mettendo in evidenza che un'economia completamente libera ha bisogno di regole e controlli certi e incorruttibili. Contro il capitalismo renano-giapponese, spesso condizionato da lacci e lacciuoli imposti dallo stato sociale, parlano la grave crisi dell'economia nipponica, che, iniziata nel 1989, non sembra arrestarsi, e le difficoltà dell'economia tedesca a mantenere il patto di stabilità nel 2002.

La diade proposta da Albert può essere ricondotta al dualismo tra la visione weberiana, secondo cui il puro razionalismo logico e l'etica protestante, con il suo ascetismo intramondano e la sua durezza, creerebbero l'humus necessario per un capitalismo che può, a ragione, porsi come obiettivo il danaro, e quella compromissoria, che fa risalire il capitalismo alla fioritura laica delle città-stato.

Questo capitalismo compromissorio ebbe i sui primi teorici in Albertano da Brescia, notaio e moralista del duecento, che cercò di conciliare la dottrina cattolica con il possesso e il governo di ricchezze e, nel tardo medioevo, in Antonino da Firenze e in Bernardino da Siena, che superarono il principio etico dell'improduttività del denaro e giustificarono il guadagno proveniente da un investimento, affermando che esso era eticamente lecito se rappresentava il rimborso di un'attività.

Eugenio Caruso

Nella versione PDF oltre agli aspetti economici viene illustrato, anche, dettagliatamente, lo scenario storico.


LOGO

Il portale IMPRESA OGGI vi offre un servizio?
Dateci una mano a sostenerne i costi!
Cliccate sulla striscia pubblicitaria in alto. Grazie!!


1

www.impresaoggi.com