Il nucleare in Italia. Parte IV. La parola fine.


... "Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser senza 'infamia e senza lodo" .

Dante


PARTE IV
Apparente ripresa dei progetti di costruzione di centrali elettro-nucleari
Nel dicembre 1971 l’Enel aveva deliberato di iniziare le procedure per l’ordinazione della quinta centrale, per la quale fu avviata la gara nel dicembre 1972, seguendo la stessa procedura utilizzata per la centrale di Caorso. Le offerte tecniche giunsero all’Enel nel giugno 1973 e nel novembre quelle economiche. La centrale richiesta doveva avere una potenza tra 800 e 1.000 MW, e l’ente si riservava l’opzione di ordinare, entro un anno dall’aggiudicazione della gara, una seconda unità con caratteristiche analoghe. Essendo stato scartato il reattore a gas, alla gara furono invitate la Elettronucleare Italiana (licenziataria Westinghouse), per un reattore ad acqua in pressione (PWR), l’Amn (licenziataria General Electric) per un reattore ad acqua bollente (BWR), e la canadese Aecl (associata con Italimpianti). L’Enel aveva anche predisposto una serie di ipotesi sulle possibili localizzazioni delle future centrali, riassunte in un documento riservato del febbraio 1973. Nel dicembre del 1973, però, in considerazione delle assicurazioni ricevute dal governo, l’Enel decise di ordinare non solo una quinta, ma anche una sesta unità nucleare, riprendendo alla lettera la proposta avanzata da Angelini nell’aprile 1972. Il consiglio di amministrazione dell’Enel, quindi, ordinò la quinta e la sesta centrale alla Elettronucleare e all’Amn, lasciando cadere l’offerta dell’Aecl, con la quale sarebbero stati poi stipulati accordi di portata più ridotta e di tipo diverso in relazione al progetto CIRENE. L’Enel si riservava anche di esercitare, entro l’estate del 1974, l’opzione per il raddoppio dell’ordine a entrambe le società aggiudicatarie. Si giunse così, nell’estate 1974, all’ordinazione della settima e ottava unità nucleare, gemelle rispettivamente della quinta e della sesta. La variazione terminologica (non si parla più di centrali nucleari ma di unità) non era casuale: in effetti la settima e l’ottava unità altro non erano che nuovi reattori da localizzare nello stesso sito delle due unità gemelle, realizzando di fatto il raddoppio della quinta e della sesta centrale; tant’è che nel caso del quinto e del settimo reattore fu addirittura previsto l’uso comune di alcune parti della centrale e degli impianti. Le nuove centrali avrebbero dovuto essere ubicate in Molise (quinta e settima unità) e nell’Alto Lazio (sesta e ottava). «Il problema più pressante – avvertiva la relazione del direttore generale per il 1974 – è posto dalla tempestiva disponibilità dei siti; pertanto l’obiettivo di ottenere le necessarie autorizzazioni per l’inizio della costruzione e in particolare la licenza edilizia entro i tempi più brevi è stato perseguito con continuità e grande impegno». Se dunque i problemi finanziari sembravano superati, adesso era la localizzazione il vero problema: una questione in verità incombente anche per gli impianti termoelettrici tradizionali e perfino per le linee della rete elettrica, ma la localizzazione incontrava resistenze particolarmente forti nel caso delle centrali nucleari. A questo punto il governo ottenne l’approvazione di una legge (legge 393 dell’agosto 1975), che regolava le procedure di localizzazione. Nel 1975, a seguito degli ulteriori aumenti del prezzo del petrolio, il governo elaborò, su proposta del Ministro dell’Industria Carlo Donat-Cattin, il Piano Energetico Nazionale, approvato dal CIPE il 23 dicembre 1975. In esso il governo si impegnava ad avviare la realizzazione di nuove centrali nucleari della potenza unitaria di 1.000 MW ciascuna con l’obiettivo di averne in funzione ben 20 nel 1985. All’iniziativa del governo fece seguito un’indagine parlamentare sui problemi dell’energia promossa nell’autunno 1976 dalla Commissione Industria della Camera, e conclusa con l’approvazione unanime (!!!) di un documento finale che il 28 aprile 1977 confermava la scelta nucleare. Tale scelta fu ribadita il 5 ottobre 1977 da una risoluzione approvata con ampio consenso politico: nel frattempo il programma del terzo governo Andreotti (della cui maggioranza faceva parte anche il Pci) prevedeva l’avvio immediato delle centrali già decise e la predisposizione immediata di un piano di localizzazioni. In conseguenza di tutti questi impegni politici, nel corso del 1977 l’Enel diramò inviti a presentare offerte tecniche in vista della fornitura di altre otto unità da 1.000 MW. Peraltro, alla fine di quell’anno, prendendo atto dell’allungamento dei tempi di costruzione delle centrali e delle difficoltà di localizzazione, il Cipe approvava (23 dicembre 1977) una nuova versione del Piano Energetico in cui, fermi restando gli obiettivi generali, la previsione al 1985 veniva ridimensionata sulla produzione di “almeno 6.000 MW” da fonte nucleare.

Nuovi contesti internazionali
Nel 1973 un’altra legge (la 856 del 18 dicembre) autorizzava l’Enel a partecipare alla costituzione di una società con la francese Edf e la tedesca Rwe, per la realizzazione di centrali nucleari a “neutroni veloci”. «L’importanza strategica dei reattori a neutroni veloci – scrive Carlo Lombardi – deriva dalla possibilità di realizzare un ciclo di combustibile in grado di sfruttare al massimo il contenuto energetico dell’uranio presente in natura». Coi reattori veloci si realizza infatti un uso dell’energia dell’uranio pari a quasi cento volte quella realizzabile con i reattori termici ad acqua leggera che sono di gran lunga i più comuni. I reattori ad acqua leggera usano infatti uranio arricchito, cioè con percentuali di uranio 235, l’isotopo fissile, più elevate di quelle contenute nell’uranio naturale, mentre quelli veloci usano come combustibile il plutonio, elemento transuranico che si crea per la trasformazione dell’isotopo non fissile uranio 238 in seguito all’irraggiamento dell’uranio naturale; e l’uranio 238 è contenuto nella percentuale del 99,3% nell’uranio naturale. Questi reattori sono anche detti autofertilizzanti, perché il plutonio che vi viene immesso può a sua volta produrre altro plutonio partendo da uranio naturale che viene sistemato attorno al nocciolo del reattore, chiudendo su se stesso il ciclo del combustibile. Da un lato, infatti, viene a cadere la necessità di costruire impianti di arricchimento dell’uranio, dall’altro il ritrattamento del combustibile utilizzato dai reattori tradizionali fornirebbe le cariche di plutonio necessarie per l’avviamento dei reattori veloci. Angelini si era fatto promotore in sede europea di una collaborazione in questo campo fra gli enti nucleari di Stato e l’industria nucleare, assecondato da Salvetti, che da sempre era stato un sostenitore di questo tipo di ricerca. Verso il 1971 cominciò a prendere forma un’iniziativa europea trilaterale, per la costruzione di due reattori veloci in Francia e in Germania. L’Enel si proponeva come obiettivo un ritorno in termini di produzione elettrica e un ritorno in termini di esperienza industriale e di commesse per le imprese italiane. Nel 1974, l’Enel sottoscrisse due quote di partecipazione del 33% nella società tedesca Esk, proprietaria della centrale Snr-2 da realizzare in Germania, e nella società francese Nersa, controllata da Edf (51%), che avrebbe curato la realizzazione di un reattore veloce a Creys Malville: si trattava del futuro Superphénix. Da questa iniziativa risultarono importanti accordi industriali fra la Nira (Nucleare Italiana Reattori Avanzati) e la francese Novatome, per la fornitura della caldaia nucleare della centrale, e fra la stessa Nira e il Cea (l’ente nucleare francese) per la condivisione delle conoscenze sviluppate sul reattore veloce.
L’avvio della costruzione di Superphénix avvenne alla fine del 1976, e la centrale raggiunse la prima criticità nel settembre 1985, entrando in servizio commerciale all’inizio del 1986. Una delle ragioni per cui lo sviluppo dei reattori veloci era ritenuto interessante dall’Enel era la sua possibile complementarietà con il Cirene, il reattore a uranio naturale e acqua pesante di progettazione italiana al quale il Cise lavorava fin dal 1957, sotto la direzione di Silvestri. Le ragioni che avevano spinto il Cise verso questo tipo di filiera sono legate alla storia e alle condizioni di sviluppo del progetto di reattore nazionale avviato nel 1946: la possibilità di alimentare il reattore con uranio naturale evitava i condizionamenti politici e tecnici cui era invece legata l’importazione di uranio arricchito, la cui produzione autonoma avrebbe richiesto uno sforzo tecnologico, industriale e finanziario improponibile per l’Italia. Su questi presupposti il gruppo diretto da Silvestri realizzò uno studio di fattibilità per un reattore moderato ad acqua pesante e raffreddato ad acqua naturale bollente. Il nome Cirene (Cise Reattore a Nebbia) indicava una soluzione originale, nell’ambito di una filiera sul cui sviluppo puntavano anche i canadesi, che poi in effetti ne realizzarono la commercializzazione con il reattore di tipo Candu, gli inglesi e i giapponesi. Dopo il referendum e la chiusura delle attività nucleari molti miei colleghi, manager e ricercatori si trasferirono in Canada per essere impiegati nella progettazione della filiera Candu. L’Enel manifestò il proprio interesse per il Cirene ordinando nel 1972 all’Amn la costruzione del prototipo, da realizzare a Latina, nello stesso sito dove era già attiva la centrale a gas ex SIMEA. Il lavoro, peraltro, fu completato solo nel 1987-1988. Giova osservare che sul finire degli anni Settanta cominciò a verificarsi, a livello globale, un rallentamento nello sviluppo del nucleare. Le ragioni sono varie, a cominciare dall’allungamento dei tempi di costruzione delle centrali. Negli Stati Uniti il tempo medio di realizzazione degli impianti nucleari passò dai 6 anni per quelli entrati in funzione nel 1973 agli 11-12 anni per quelli posti in servizio nel 1978. Oggi un tempo di costruzione dell’ordine dei 10-12 anni è considerato la norma. Negli anni Settanta, inoltre, cominciarono a farsi più pressanti i rischi derivanti dalla proliferazione degli armamenti e dalla violazione del sistema di controlli internazionali. Il 18 maggio 1974 l’India fece esplodere un ordigno atomico realizzato con il plutonio prodotto da una centrale sottoposta ai controlli dell’Aiea. Proprio per i rischi di proliferazione, all’inizio del 1977 Jimmy Carter, eletto presidente alla fine del 1976, annunciò un rallentamento dei programmi statunitensi relativi ai reattori veloci e al ciclo del combustibile. A concludere questo decennio intervenne poi, il 28 marzo 1979, l’incidente della centrale di Three Mile Island, incidente che segnò l’inizio delle contestazioni contro il nucleare.n
Vorrei soffermarmi sul fatto che negli anni ottanta io ero responsabile del Dipartimento materiali del Cise. In tale ambito con i miei collaboratori conducevo studi sul danneggiamento che i neutroni (sia termici che veloci) potevano provocare sui materiali dei componenti strutturali dei reattori. Queste ricerche, classificate, erano condotte unitamente ad altri Centri di ricerca come il Commissariat à l'énergie atomique di Fontenay e Saclay (Francia), l’Oak Ridge National Laboratory (Usa), l’Argonne National Laboratory (Usa), il Brookhaven National Laboratory (Usa), il Chalk River National Laboratory (Canada). Il danneggiamento neutronico era simulato, con effetto moltiplicatore, con i protoni da 8 MeV ottenuti con il Van de Graaf del Cise.

Van dee Graafl

Acceleratore Van de Graaf da 8 MeV del Cise, per la simulazione, con protoni, dell'irraggiamento neutronico.


Critiche all’Enel
Le critiche rivolte all’Enel nel corso degli anni Settanta erano essenzialmente di due tipi: da un lato si rimproverava l’ente elettrico per l’eccessiva prudenza nei programm nucleari degli anni Sessanta, per cui l’Italia si era trovata nella crisi del 1973 posizionata peggio del resto d’Europa non potendo contare su un adeguato livello di produzione elettronucleare; dall’altro si criticava l’impostazione di programmi di sviluppo che, si diceva, non tenevano conto dei limiti del sistema industriale italiano, e in genere dell’arretratezza gestionale del “sistema Italia”. Alle prime critiche l’Enel rispondeva affermando che la prudenza dei programmi nucleari italiani aveva consentito al Paese di far tesoro dell’esperienza altrui nella scelta delle filiere per le nuove centrali, In queste autodifese non si faceva menzione delle difficoltà economiche, che nei documenti interni e nelle relazioni annuali dell’ente erano invece chiaramente indicate come la principale ragione della battuta d’arresto del programma nucleare, forse perché le vere giustificazioni mettevano in cattiva luce il processo della nazionalizzazione. Quanto alle seconde critiche, il sovradimensionamento dei programmi rispetto alle capacità industriali e gestionali del “sistema Italia”, l’Enel e le industrie direttamente interessate ne rigettavano la fondatezza. “Circa la potenzialità dell’industria italiana – scriveva nel marzo 1975 il presidente dell’Ansaldo Ambrogio Puri – oggi essa è in grado di avviare la costruzione di tre centrali nucleari all’anno e può portarsi rapidamente (in due o tre anni) a un ritmo di avvio di cinque centrali nucleari”. Si trattava di dati di fatto: come ricorda un documento di Confindustria del 1978, l’industria elettromeccanica italiana si era aggiudicata, tra il 1977 e i primi mesi del 1978, oltre il 40% delle gare internazionali di appalto nel mercato delle centrali elettriche; questo mercato si andava però orientando in misura crescente verso le centrali nucleari, e l’industria italiana rischiava di perdere le proprie posizioni proprio a causa delle mancate ordinazioni interne. Come spiegava lo stesso Puri in un documento inviato ad Angelini nel marzo 1976, l’industria italiana era infatti in grado di produrre tutte le componenti di una centrale nucleare, ed era capace di effettuare una gestione “attiva” delle licenze, ma non poteva sviluppare adeguatamente, se non sul campo, le capacità sistemistiche che contraddistinguevano l’impianto di una centrale nucleare. Man mano che cresceva l’esperienza acquisita dai concorrenti sui propri mercati interni, quindi, si andava verso una perdita di competitività tecnologica. All’occhio della storiografia, risulta paradossale il comportamento dei partiti che sostenevano con ampio consenso, a livello centrale, il programma nucleare dell’Enel, mentre poi i loro esponenti locali avversavano qualunque ipotesi di ubicazione di impianti sul proprio territorio. Né d’altra parte a livello centrale si volle mai ricorrere a quelle procedure autorizzative che pure la legge del 1975 in qualche modo consentiva: evidentemente non si riteneva la questione abbastanza rilevante da sfidare i gruppi dirigenti locali. Ed è precisamente su tale questione e sulla mancanza di una forte volontà politica che nella seconda metà degli anni Settanta il programma nucleare dell’Enel si arenò definitivamente. Molto accesa fu l’opposizione incontrata per la localizzazione della quinta e settima unità in Molise, dove le amministrazioni locali chiedevano al governo pesanti contropartite infrastrutturali, e dove alla fine gli organi collegiali formularono al Cipe un parere negativo; questo costrinse l’Enel a riallocare le due unità in Lombardia e in Piemonte, dove però l’iter autorizzativo si scontrò contro un vero e proprio muro di gomma da parte delle autorità regionali. Nel Lazio, invece, la regione indicò, tra i siti proposti dall’Enel, quello di Pian dei Cangani vicino a Montalto di Castro. L’assenso degli enti locali e della regione non fu però sufficiente a spegnere l’opposizione della popolazione locale, che produsse una sorta di conflittualità permanente, che rese molto faticosi i lavori per la centrale; d’altra parte la nomenclatura politica che possedeva ville e poderi nella vicina Capalbio soffiava sul fuoco dello scontento locale. Alla fine degli anni Settanta era ormai abbastanza chiaro che delle quattro nuove centrali del programma Enel solo quella di Montalto aveva una certa probabilità di essere realizzata. Il clima internazionale alla fine degli anni settanta, infine, non giovò certamente ai programmi nucleari italiani.
Il decennio successivo vede nel 1981 il varo di una nuova edizione del Piano Energetico Nazionale, con la previsione di tre nuove centrali da 2.000 MW da ubicare in Piemonte, Lombardia e Puglia. Lo stesso Piano introduce il concetto di impianto standard: è il cosiddetto Pun, Progetto Unificato Nucleare, basato sulla filiera PWR della Westinghouse. È questo l’ultimo tentativo serio di programmazione nucleare realizzato in Italia. Mentre nulla si muoveva, salvo la faticosa realizzazione della centrale di Montalto di Castro, nel marzo 1986 il Parlamento approvava il nuovo Piano Energetico, programmando il raddoppio di Trino e l’installazione di altre centrali per 4.000 MW in Veneto, Sicilia, Campania e Basilicata. Un mese dopo si verificò l’incidente di Chernobyl, in seguito al quale il Parlamento italiano decise di convocare, nel febbraio 1987, una Conferenza Nazionale sull’Energia, con l’obiettivo di valutare la compatibilità del Piano Energetico con la sicurezza delle popolazioni e la salvaguardia dell’ambiente. Frattanto, in ottobre, la centrale di Caorso, che aveva avuto una fermata per manutenzione ordinaria, non fu fatta riavviare, nonostante i pareri favorevoli di tutti gli organismi di controllo, anche internazionali. La conferenza sull’energia si concluse in modo complessivamente favorevole alla prosecuzione del programma nucleare. Ma nel frattempo era stato indetto un referendum, i cui quesiti prendevano di mira alcune disposizioni di legge sull’ubicazione degli impianti. La consultazione popolare si tenne nel novembre 1987, e l’affluenza al voto fu la più bassa fino ad allora registrata nonostante le forze politiche fossero praticamente tutte schierate a favore dei quesiti referendari. La percentuale dei “si” fu all’incirca dell’80% e l’Italia uscì così dall’energia nucleare. Il referendum dimostrò tre realtà: uno, le forze politiche non avevano mai creduto nell’energia nucleare, due la carenza di cultura tecnologica della popolazione italiana, tre la mancanza di credibilità dell'Enel nell'azione di contrasto alle motivazioni antinucleari.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 15 agosto 2009 della cosiddetta “Legge Sviluppo”, l’Italia si apprestò a ritornare al nucleare. Questo in un rinnovato contesto internazionale, noto come nuclear renaissance, in cui il nucleare è percepito come parte imprescindibile della soluzione al problema energetico e di lotta alle cause dei cambiamenti climatici. Ma il 12 giugno 2011 un secondo referendum ha posto ancora una volta la parola fine alla storia dell’energia nucleare in Italia. Con questo secondo referendum, alle realtà citate per il primo, si sommò, anche, l'assoluta perdita di credibilità del governo Berlusconi e di Berlusconi stesso.

L’Enel, le previsioni sballate e la mancanza di credibilità
Giova, per concludere, fare un po’ il punto sulle politiche energetiche del paese dal dopoguerra a oggi. Gli anni sessanta hanno rappresentato un importante snodo della politica dei governi in campo energetico; i socialisti, infatti, impongono la nazionalizzazione del settore, con la costituzione dell'Enel. Il punto è che, nonostante le tariffe elettriche siano fissate dal Comitato interministeriale dei prezzi (Cip) e che, nel 1961, sia stata completata l'unificazione delle tariffe elettriche su tutto il territorio nazionale, le società elettriche private fanno utili che distribuiscono agli azionisti e la cosa è ritenuta peccaminosa nella chiesa socialista. È interessante notare che il massimo teorizzatore della programmazione nazionale, Pasquale Saraceno, è contrario a questa nazionalizzazione; egli sostiene, infatti, che due grandi società elettriche la meridionale Sme e la piemontese Sip, sono già pubbliche, essendo di proprietà dell'Iri, e che queste società potrebbero fare una politica di investimenti e di prezzi, costringendo i privati a seguirle. I nazionalizzatori affermano che un produttore unico sarebbe in grado di realizzare tali economie di scala da consentire vistose riduzioni delle tariffe. Nella cruda realtà dei fatti questo calo tariffario non si vedrà mai; infatti, appena costituito l'ente, i lavoratori chiedono che i loro stipendi siano adeguati agli stipendi dei lavoratori delle altre aziende statali. Il costo del lavoro pro capite, a lira corrente, aumenta, rapidamente, portandosi, all'inizio degli anni settanta, su tassi di crescita superiori al 10% l'anno. Il numero degli addetti sale vertiginosamente. L'ente è costretto ad acquistare impianti e componenti sul mercato nazionale da altre aziende pubbliche, spesso inefficienti e fuori mercato, perdendo la possibilità di acquistare il meglio al minor costo. L'opzione nucleare viene bloccata, prima per l'opposizione dello stato all'iniziativa privata, successivamente per il "caso Ippolito", poi per le indecisioni sul tipo di reattore e per i problemi finanziari dell'Enel, impegnata a indennizzare gli azionisti delle società nazionalizzate e, infine, per le opposizioni delle comunità locali. L'unica centrale che verrà realizzata dall'Enel sarà quella da 840 megawatt di Caorso, che avviata nel 1968 e terminata, dopo enormi ritardi, nel 1981, andrà soggetta a una serie innumerevole di inconvenienti tecnici fino al fermo definitivo. Una delle motivazioni per la creazione delle aziende pubbliche era l'affermazione che il settore privato non sarebbe stato in grado di creare una cultura manageriale, cultura che sarebbe, invece, cresciuta nell'industria di stato. Se analizziamo la storia dell'Enel possiamo affermare che essa è caratterizzata da una serie interminabile di errori commessi proprio dai suoi manager. La legge istitutiva dell'ente assegna all'Enel il compito di sviluppare il proprio potenziale produttivo per soddisfare le future richieste del mercato, cosicché i grandi programmatori dell'ente si mettono al lavoro. Una grossa centrale elettrica richiede un decina d'anni per essere completata, pertanto la programmazione deve essere fatta con proiezioni di almeno quindici anni. Nel 1975 i grandi manager di stato dell'Enel prevedono che nel 1990 la richiesta di energia elettrica sarà tra i 420 e i 520 terawattore (un terawattore equivale a un miliardo di kWh), i dati a consuntivo del 1995 daranno poco più di 200 terawattore, molto meno della metà; la previsione del 1980, sempre per il 1990, si attesta tra 330 e 380 terawattore. Le ragioni di questi enormi scarti tra previsioni e consuntivi possono essere tante, ma il dato di fatto è che vengono commessi clamorosi errori. Conseguentemente, la storia dell'Enel è costellata di mastodontici piani di investimento. Nel 1967 il direttore generale dell'ente pronostica che entro il 1980 l'Enel avrebbe avuto installati 6.500 megawatt nucleari. Nel 1975 si prevede la costruzione di 20.000 megawatt nucleari da realizzarsi entro il 1985. Il primo Piano energetico nazionale (Pen), sempre nel 1975, prevede addirittura, entro il 1990, l'entrata in funzione tra 46.000 e 62.000 megawatt nucleari. Il secondo Pen, nel 1977, prevede "solo" 12.000 megawatt nucleari entro il 1985. Nel 1979, i piani dell'Enel prevedono la costruzione di quattordici impianti a carbone da 640 megawatt ciascuno. Il Pen del 1981, approva la scelta nucleare più carbone, con la trasformazione a carbone di centrali termoelettriche per 3.700 megawatt e la costruzione ex novo di impianti a carbone per 17.000 megawatt. Il Pen del 1985 conferma i 12.000 megawatt nucleari e riduce a 12.000 megawatt gli impianti a carbone. Fortunatamente, questi giganteschi piani non vengono realizzati perché il management dell'Enel, ancora una volta, non mette in conto le difficoltà riguardanti la scelta dei combustibili (si alternano, via via le ipotesi olio, nucleare, nucleare più carbone, carbone, policombustibili, gas), le difficoltà finanziarie e autorizzative, i tempi di realizzazione. Questo elenco di problemi rallenta lo sviluppo di una produzione che sarebbe stata enormemente in eccesso rispetto alla domanda. L'Enel, con il passare degli anni, perde credibilità e potere contrattuale, tanto che qualunque amministrazione locale è in grado di porre il veto alla costruzioni di qualsiasi tipo di nuova centrale. Questa situazione conduce l'Enel, negli anni ottanta, dai faraonici piani di produzione endogena, alla necessità di ingenti acquisti di energia elettrica dall'estero. Se i programmi di costruzione sono sempre stati al di sopra degli effettivi fabbisogni, gli ordinativi effettivamente emessi, grazie all'inefficienza dell'ente, sono stati largamente al di sotto dei programmi, compensando quindi gli errori di previsione. Gli investimenti hanno avuto un andamento di forte irregolarità con periodi di investimenti e periodi di calma piatta; di converso, fortunatamente, più regolare è stato l'andamento dell'entrata in servizio degli impianti a causa di una cattiva programmazione e di un cattivo controllo dei tempi di realizzazione. Ancora una volta due inefficienze di segno opposto si sono sommate salvando il sistema elettrico. Nel frattempo il settore evolve spensieratamente verso una completa dipendenza dagli idrocarburi. Contestualmente, la lunga fase espansiva delle economie industrializzate ha determinato una richiesta enorme di materie prime e quindi anche di petrolio e gas, i produttori di petrolio si associano in un cartello l'Opec (Organization of petroleum exporting countries), cosicché il potere di mercato passa dalla domanda all'offerta. Nel 1973, quando scoppia la guerra del Kippur tra Egitto e Israele, si assiste alla prima grave crisi petrolifera. Il petrolio viene usato come arma economica dai paesi arabi che ne riducono la produzione. I continui rincari del greggio costringono i paesi consumatori a varare misure di emergenza. Agli inizi degli anni ottanta, la contrazione del consumo energetico rispetto al pil, porta ad una riduzione dei consumi e il contro-shock petrolifero, del 1985, alla brusca caduta del prezzo del petrolio. Questa situazione determina uno stato di euforia, il periodo espansivo dell'economia mondiale sembra inarrestabile e tutti si dimenticano del problema energetico, anche se, dal 1985, i consumi tornano ad aumentare a ritmo sostenuto. L'Enel, imbozzolata dalle sue sballate previsioni, dalle sue lentezze e dai soliti problemi finanziari, e sempre tallonata da enti locali e ambientalisti, si trova impreparata all'impennata dei consumi ed è costretta a importare energia elettrica dall'estero, in particolare dalla Francia che si ritrova un eccesso di capacità produttiva grazie alla politica nucleare portata avanti nel corso degli anni. Nel 1989 tali importazioni raggiungono il 15% del consumo totale; è inutile sottolineare quanto questa situazione costi al Paese in termini di mancati investimenti e mancati posti di lavoro, che potrebbero essere coperti se quel 15% di produzione fosse endogena. Nel 1988 il consiglio di amministrazione dell'Enel vara un piano di emergenza da 3000 megawatt, che poggia sulla costruzione di impianti policombustibili, sul ripotenziamento degli impianti esistenti con turbime a gas e sulla costruzione di sistemi a ciclo combinato; il progetto viene approvato dal piano energetico del 1988. Sintetizzando la storia dell'Enel, dalla nazionalizzazione fino all'era di Testa e Tatò, si possono fare alcune considerazioni: sulle scelte del tipo di impianto da realizzare l'ente si è trovato quasi sempre spiazzato rispetto alle condizioni al contorno. Alla vigilia della crisi petrolifera del 1973, l'Enel aveva deciso di acquistare centrali a olio combustibile. Dopo la crisi petrolifera c'è stata la scelta nucleare, ma, ritardi e tergiversazione sul tipo di reattore non hanno consentito di attuare una minima riserva di impianti, come stava avvenendo in tutti i paesi industrializzati. Il fallimento del nucleare ha indirizzato la programmazione verso il carbone con successi veramente modesti. Dopo il contro shock petrolifero, l'Enel ha puntato sugli impianti policombustibili (carbone/gas), molto costosi, con il prezzo del gas in rapida ascesa e l'ostracismo dei comuni all'uso del carbone. Infine c'è stata la scelta degli impianti a ciclo combinato a gas, ma anche in questo caso l'Enel è rimasta al palo indecisa tra repowerig e costruzione di nuovi impianti. Al termine della storia, l'Enel è rimasta con le sue centrali a olio combustibile e con la necessità di acquistare il costosissimo combustibile a basso tenore di zolfo per rispettare le normative ambientali. L'ente non ha mai adottato una strategia proattiva ma è sempre stato, solo reattivo alle vicissitudine dell'ambiente esterno. La nazionalizzazione aveva creato l'ennesimo carrozzone caratterizzato da inefficienza e deresponsabilizzazione. Mentre l'Enel si dibatte tra i suoi dubbi amletici, in tutto il mondo, tra il 1970 e il 1980 la produzione di energia elettrica da fonte nucleare passa da 150 miliardi a 620 miliardi di kWh.
Per consultare la Parte III clicca QUI.

Eugenio Caruso
30 dicembre 2012


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