L'estinzione dei dinosauri di stato. La Repubblica, i governi di transizione, l'Iri.


Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde: «Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant


Copertina

Con questo secondo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie. Il libro può essere acquistato in libreria oppure on line presso la casa editrice Mind.
Per il Capitolo I clicca QUI.


CAPITOLO I - LA REPUBBLICA
Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdica in favore di Umberto II. Il re di maggio cerca di salvare la monarchia; percorre l’Italia in uno sforzo dignitoso e patetico, ma la sua è una missione disperata. La monarchia si era suicidata con la fuga da Roma e il repubblicano “vento del Nord” soffiava già impetuoso. Il 2 giugno gli italiani sono chiamati a votare per il referendum istituzionale e per l’Assemblea costituente; votano anche le donne, per la prima volta nella storia del Paese. L’ordine pubblico è affidato al socialista Giuseppe Romita, all’Interno, e a Palmiro Togliatti, alla Giustizia. La pubblicistica monarchica alimenterà per anni il sospetto che la vittoria della Repubblica sia stata ottenuta con la manipolazione dei voti da parte del ministero dell’Interno sotto le pressioni e le minacce del Pci, ma queste accuse non hanno mai avuto il sostegno di prove tangibili (Montanelli, 1985). D’altra parte, i due più stretti collaboratori di Romita – il comandante dei carabinieri Brunetti e il capo della polizia Ferrari – erano entrambi monarchici. Umberto II rifiuta di riconoscere il responso del referendum e, dopo drammatici incontri con Alcide De Gasperi, con altezzoso risentimento lascia l’Italia per il Portogallo. Giova notare che l’altezzoso risentimento finisce nella successione dinastica degli anni 2000 a reclamizzare cetrioli, con regale noncuranza.
La Costituente
Il 2 giugno 1946 le elezioni della Costituente danno alla DC (Democrazia Cristiana) il 35,2% dei voti, allo Psiup (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) il 20,7%, al Pci (Partito Comunista Italiano) il 18,9%, ai liberali dell’Unione Democratica Nazionale il 6,8%, all’Uomo Qualunque il 5,1%, al Pri (Partito Repubblicano Italiano) il 4,4%, ai monarchici del Blocco Nazionale della Libertà il 2,8%, al PdA (Partito d’Azione) l’1,4%.
Con la vittoria dei tre partiti di massa, l’Italia si libera definitivamente del notabilato legato ai vecchi equilibri e ai vecchi giochi dell’Italia prefascista. La vittoria della DC è propiziata dall’appoggio della Santa Sede, dall’Azione Cattolica, dalla Fuci e dalle organizzazioni fiancheggiatrici, come la Coldiretti e le Acli. La vittoria è sfruttata dal segretario della DC Alcide De Gasperi «per un’operazione tattica di grande rilievo: la presentazione della DC, che è l’asse portante dello schieramento conservatore, come un partito al centro dello schieramento politico globale» (Galli, 1993), operazione che si rivelerà il cardine dei cinquant’anni di politica democristiana. Giova notare che il confronto tra il referendum istituzionale e le elezioni per la Costituente dà un segnale che sarà all’origine della politica ondivaga della DC. «Circa sette milioni di democristiani hanno votato per la monarchia, mostrando che l’elettorato democristiano è più a destra della maggior parte dei dirigenti del partito» (Galli, 2001).
Lo Psiup, nato nell’agosto 1943 dalla fusione tra il Psi di Pietro Nenni e il Movimento di Unità Proletaria di Lelio Basso, riscuote un successo insperato. I socialisti erano stati frantumati dalle scissioni, tra il 1921 e il 1924, e solo la paziente opera di Nenni aveva permesso, nel 1930, di operare una ricucitura. Essi, inoltre, erano stati scarsamente presenti durante il Ventennio, sottoposti alla concorrenza dei comunisti e del movimento di Giustizia e Libertà, che li accusavano di non essere riusciti a contrastare il fascismo, pur disponendo, nel 1919, dell’unica organizzazione di massa in campo politico. Nell’autunno 1944 i socialisti confermano il patto d’azione stipulato nel settembre del 1943 con il Pci.
La delusione nel Pci per le elezioni nella Costituente è grande, il partito si rende conto, per la prima volta, che al pieno delle piazze non corrisponde automaticamente il pieno elettorale e dell’esistenza di una maggioranza moderata che rappresenta il vero ago della bilancia politica in Italia. Dopo la sconfitta, Pietro Secchia, trovando appoggio in Giuseppe Longo, impone la “svolta di Firenze”; sono costituite le cellule di strada e di fabbrica, è inaugurata l’era zdanoviana del controllo ideologico sugli intellettuali, nasce l’agit-prop, anche se Togliatti prosegue nel suo disegno di alleanza tattica con la DC.
Il Partito d’Azione sparisce dall’agone politico. Gli azionisti pagano l’ostilità dei partiti di massa e la loro intransigenza sulla necessità di procedere all’epurazione di coloro che, durante il fascismo, occupavano i gangli vitali della vita del Paese. L’ostinazione a far valere i “principi” è tacciata di “velleitarismo” e si scontra con la sottocultura del popolo italiano, che non accetta la responsabilizzazione e vede nel laicismo un nemico. Solo al quarto posto, con meno del 7% dei voti, si colloca l’Unione Democratica Nazionale (Udn), nella quale erano confluiti i voti dei liberal-conservatori; il liberalismo classico, in contrapposizione a quello del Partito d’Azione, era rinato a Roma attorno a Benedetto Croce e vi erano rappresentati gli interessi degli agrari del Sud e di casa Savoia. L’Udn era capeggiata da “quattro vecchi” dell’Italia pre-fascista – Croce, Ivanoe Bonomi, Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando – aggrappati all’heri dicebamus, indifferenti ai valori della Resistenza, sordi alle nuove esigenze e alle aspettative del Paese. Ricorda Indro Montanelli: «La loro immagine, storicamente gloriosa, era sembrata all’elettorato troppo vecchia, troppo debole, troppo compromissoria» (Montanelli, 1985).
Nel giugno 1946, Togliatti, come ministro della Giustizia, promulga un’amnistia che segna la fine delle epurazioni e, con un colpo di spugna, cancella reati e responsabilità del fascismo. La decisione di Togliatti consente anche di non perseguire penalmente migliaia di partigiani per i reati e le vendette commessi dopo il 25 aprile 1945, facendo calare il silenzio sul ruolo dei partigiani italiani negli eccidi perpetrati in Venezia Giulia e Dalmazia e nei massacri delle foibe (Oliva, 2002). Il processo di rinnovamento dell’Amministrazione statale (Ginsborg, 1989) si è risolto in un fallimento. Ostacolato dal Governo Bonomi, il rinnovamento è stato tentato solo dal Governo dell’azionista Ferruccio Parri, sincero fautore della necessità di fare pulizia nei confronti di coloro che erano incorsi nelle maggiori responsabilità, quindi di colpire in alto e indulgere in basso. Ma Parri era una persona timida e orgogliosa, adatta a tutto tranne che a guidare l’Italia nella situazione complessa del dopoguerra. È così costretto a passare la mano a De Gasperi, che aveva ben diversa sottigliezza politica; cattolico fervente, portava in sé l’impronta di una grande scuola di democrazia, il Parlamento di Vienna. Con il Governo De Gasperi, le forze della conservazione e la cultura del perdonismo hanno il sopravvento, e le epurazioni si trasformano in una commedia. L’amnistia distingue tra crimini effettuati a mezzo di torture normali, che vengono perdonati, e sevizie particolarmente efferate (Guerri, 1997). Sono colpiti alcuni fascisti dei livelli più bassi, mentre i funzionari più alti in grado, come questori e prefetti, restano ai propri posti. L’Amministrazione statale rimane, pertanto, affidata alla burocrazia in servizio sotto il regime fascista: la magistratura non viene toccata, e, nel 1960, si constaterà che 62 dei 64 prefetti erano stati funzionari durante il fascismo.
Il 25 giugno 1946 la Costituente elegge il proprio presidente nel socialista Giuseppe Saragat e, per compensare la sconfitta dell’Italia monarchica, i partiti convengono che il primo Capo dello Stato repubblicano debba essere una personalità filo-monarchica e meridionale. De Gasperi indica Enrico De Nicola, napoletano, ex consigliere della corona e giurista, che il 28 giugno è eletto Presidente provvisorio della Repubblica.
I governi di transizione (1946-1953)
Il 13 luglio 1946 è costituito il secondo gabinetto De Gasperi, terzo di “unità nazionale” (i precedenti furono il Badoglio II e il Parri), formato da DC, Psiup, Pci, Pri e dal liberale Epicarmo Corbino. Il primo Governo dopo la costituzione della Repubblica accentua la posizione centrale della DC e segna l’inizio del controllo dei ministeri chiave da parte del partito di maggioranza.
Nel novembre 1946, in occasione delle elezioni amministrative in alcune città, la DC subisce una serie di sconfitte, vincono i comunisti a sinistra e i qualunquisti a destra. De Gasperi si rende conto che l’accordo con le sinistre premia il Pci, che, pur essendo al Governo, alimenta il malcontento nelle piazze; lo statista democristiano teme che, per questo motivo, la gerarchia ecclesiastica possa abbandonare il partito. De Gasperi si sente peraltro accerchiato: repubblicani, liberali e Confindustria criticano la linea economica e l’elevato tasso di inflazione e anche gli americani hanno cambiato atteggiamento. Terminata la luna di miele rooseveltiana con la Russia, gli Usa si avviano, con Harry Truman, a percorrere la strada della guerra fredda. Pio XII, tramite il cardinale Giovanni Battista Maria Montini, esercita forti pressioni su De Gasperi perché rompa con comunisti e socialisti; il 22 dicembre 1946, durante un’omelia in Piazza San Pietro, lancia l’antico grido di battaglia: «O con Cristo o contro di Cristo». Lo Psiup nel frattempo è sempre più nel gorgo delle lotte intestine. Pietro Nenni non riesce ad approfittare della vittoria elettorale, esalta la “natura operaia” del partito, a scapito delle classi medie, perde l’occasione storica di creare un grande partito riformista rifiutando la proposta di Giuseppe Saragat di fare dello Psiup «non la retroguardia del bolscevismo, ma l’avanguardia della democrazia». L’11 gennaio 1947, anche sotto l’incalzare della crisi con la Jugoslavia, al congresso socialista nell’aula magna dell’Università di Roma, si consuma la scissione. Lo Psiup si scinde nel Psi e nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani che si trasferisce a Palazzo Barberini. Dei 115 deputati socialisti della Costituente ben 52 passano con il Psli di Saragat. La scissione avrà due effetti: l’imbalsamazione del Psli prima, e del Psdi dopo, e la sua degenerazione in partito vassallo della DC, nonché la colonizzazione da parte del Pci dei socialisti che impiegheranno anni per trovare una propria autonomia politica. Nel dicembre 1946, per iniziativa di un gruppo di reduci della Repubblica di Salò, nasce il Movimento Sociale Italiano (Ignazi, 1994). La crisi di Governo del gennaio 1947, innescata dalla scissione dello Psiup, approda al tripartito DC-Pci-Psi, con il terzo ministero De Gasperi, quarto di “unità nazionale” (2 febbraio-31 maggio 1947), che dà ai comunisti l’impressione che l’accordo con i cattolici sia un processo irreversibile; così si spiega anche il voto comunista in favore dell’inserimento nella Costituzione dei Patti lateranensi, con il carico di illiberalità che essi contengono.
Il 10 febbraio 1947 l’ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna firma il trattato di pace, un vero e proprio diktat. Solo De Gasperi cerca disperatamente di contrastare le perdite territoriali a Occidente e a Oriente, nell’assoluta indifferenza delle sinistre e di parte della stampa. Per effetto del trattato, l’Italia perde Briga e Tenda, Zara, la quasi totalità della Venezia Giulia, l’isola di Saseno, l’Etiopia, l’Eritrea, la Libia, il Dodecanneso, la concessione cinese di Tientsin, e deve concedere larga autonomia all’Alto Adige. All’Italia viene assegnato un mandato temporaneo sulla Somalia.
Trieste resta sotto l’amministrazione alleata con il territorio circostante e torna all’Italia solo nel 1954. «In questa corona di spine, la spina che più pungeva era Trieste. La città aveva subito l’occupazione da parte dei miliziani di Tito, ricordata con terrore dagli abitanti, e le foibe carsiche s’erano riempite dei cadaveri di italiani che vi erano stati gettati a volte per essere stati fascisti, a volte semplicemente per essere italiani. La Jugoslavia, spalleggiata dall’Urss e, in sordina, dal Pci voleva che non solo Trieste, ma una larga fetta di territorio italiano passasse sotto la sua sovranità» (Montanelli, 2000). Trieste si salvò grazie al fatto che tra Usa e Urss era scoppiata la guerra fredda e a Washington si guardava a Italia e Germania con un’ottica diversa, non più da vincitori a vinti.
Mentre la classe politica dell’epoca, ammalata di quella che Vittorio Emanuele Orlando definì «cupidigia e servilismo», non riesce a – e non vuole – difendere lembi di suolo italiano, pur tra le devastazioni lasciate dalla guerra e nonostante l’umiliazione di Parigi, l’Italia va riprendendosi con portentosa vitalità, come se un potenziale di energie e di creatività avesse trovato finalmente una valvola di sfogo per liberarsi e mostrare l’ingegno della gente comune.
Nell’aprile 1947 la DC subisce un’altra sconfitta. Alle elezioni regionali in Sicilia (che, con Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige, ha ottenuto un’assemblea regionale e più ampie autonomie) scende dal 33,6%, al 20,5% di consensi. Questo è un segnale inequivocabile per De Gasperi; d’altra parte, i Patti lateranensi sono stati approvati, ed è quindi possibile procedere alla rottura con le sinistre. Il 1° maggio 1947, a Portella della Ginestra, la mafia risponde in modo deciso e immediato all’avanzata dei comunisti e invia il messaggio che nulla cambierà nell’isola. La banda di Salvatore Giuliano spara sulla folla raccolta per celebrare la festa dei lavoratori, uccidendo 11 persone e lasciando sul campo 65 feriti. Il 13 maggio De Gasperi si dimette e De Nicola affida l’incarico a Francesco Saverio Nitti. Il vecchio liberale non si raccapezza nel magma della nuova politica italiana e rinuncia. La crisi viene superata il 31 maggio, quando la Costituente dà la fiducia al quarto Governo De Gasperi, un monocolore democristiano integrato da due liberali a titolo personale (Luigi Einaudi è alla vicepresidenza e al Bilancio) e alcuni indipendenti (31 maggio 1947-23 maggio 1948). È chiamato il Governo “della rinascita e della salvezza” e segna sia la fine della coalizione antifascista, nata dalla Resistenza, sia l’avvio dell’era della DC.
Il liberale Luigi Einaudi da quel momento prende in mano il timone dell’economia italiana. Egli si propone, innanzitutto, di correggere le degenerazioni di una ripresa che era travolgente, ma accompagnata da forti spinte inflazionistiche e dalla febbre della speculazione. La Borsa si sgonfia, gli speculatori si disperano, ma i lavoratori non vedono più il loro potere di acquisto eroso da un’inflazione a due cifre. Corre l’obbligo di sottolineare che la “cura da cavallo” imposta da Einaudi fu duramente ostacolata dalla sinistra e da parte della DC, che ne vedevano solo gli effetti sul breve periodo. La ridotta liquidità fece fallire alcune imprese, ma valorizzò quelle sane, che non avevano bisogno della svalutazione della lira per sopravvivere.
Il rimpasto del dicembre 1947 vede entrare nel Governo i socialisti del Psli, i repubblicani e i liberali. Nasce così quell’accordo politico “centrista” che, più o meno stabilmente, reggerà fino alla costituzione del centro-sinistra. Nel dicembre 1947 la DC tiene il suo secondo congresso, conferma Attilio Piccioni come segretario e propone l’allargamento del Governo ad altre forze moderate. All’interno della DC iniziano a mettersi in evidenza i professorini, un gruppo di docenti dell’Università Cattolica di Milano (Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti, Arrigo Boldrini) che si riuniscono periodicamente nell’eremo dei Camaldoli, sull’Appennino toscano. Lo scopo di questi incontri è elaborare un codice di politica economica e sociale. Il Codice di Camaldoli confuta sia le teorie del liberismo economico, sia quelle del marxismo collettivista e propone un modello che concilia le corporazioni medioevali, basate sulla socialità dell’impresa, con le teorie keynesiane (Bernabei, 1999). Se non si tiene conto del Codice di Camaldoli non si possono comprendere né Fanfani, Ezio Vanoni e Giorgio La Pira né la politica delle partecipazioni statali attuata in Italia. La base ideologica del gruppo di Camaldoli sostiene che l’uomo può influire sulle sorti della propria vita, ma anche su quelle dei popoli, e quindi l’iniziativa politica può trasformare la società. La destra DC (ma anche lo stesso Aldo Moro) ha invece una visione deterministica: la vittoria del comunismo è un fatto inevitabile, pertanto la miglior politica, per tenere più lontano possibile il momento della transizione, è l’immobilismo, la resistenza passiva.
Il 22 dicembre 1947 viene approvata la Costituzione e con essa si chiude definitivamente l’era della collaborazione tra cattolici e marxisti, nata durante la lotta di Liberazione prima, e sulle ceneri del fascismo, poi. La Costituzione nasce immiserita da preoccupazioni politiche ed elettorali, imbrigliata dal bisogno di assicurare reciproche garanzie, piuttosto che ispirata dalla necessità di realizzare forti istituzioni democratiche: essa brilla, insomma, per la mancanza di coraggio. La “religione della democrazia”, che, secondo i padri costituenti, avrebbe dovuto costituire l’anima della Costituzione, resta un concetto puramente astratto, che si perde nel tentativo di conciliare cattolicesimo, marxismo e liberalismo (Guerri, 1997). La prima parte – che ancora oggi è considerata perfetta, sacra e intoccabile – è proprio quella che andrebbe completamente riscritta, perché è costituita da una serie di astrazioni e di principi discutibili. Osserva Ida Magli: «[…] è un trattato sulla specie, sull’essere umano, fuori dalla realtà: con un’imposizione etica assoluta, con un delirio di presunzione e di onnipotenza da parte di coloro che l’hanno scritta […] Si tratta della “religione” di pochi uomini convinti di essere Dio, di avere capito tutto, di potere realizzare tutto, e che nulla potrà più essere pensato, capito, desiderato, se non ciò che è stato pensato, capito, desiderato e imposto da loro» (Magli, 1996).
Mentre in Germania il ricordo della debole Repubblica di Weimar induce a costruire una democrazia forte, in Italia prevale l’idea che il pericolo della dittatura si possa contrastare solo con un’articolata distribuzione del potere. L’opposizione può disporre di un potere di veto che non si riscontra in nessun’altra democrazia occidentale e che fa venir meno il principio primo della responsabilità, ossia il dovere di governare da parte delle maggioranze. La Costituzione – che prevede un potere esecutivo in balia del Parlamento, e un Parlamento ostacolato nel suo lavoro dalla presenza di due Camere con le stesse competenze – pone le basi per assicurare la centralità dei partiti e, quindi, per favorire la logica compromissoria contro quella della competizione. Non solo la Costituzione sarà la testimonianza di quel «riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato», ma tutta l’azione politica del periodo 1945-1948 sarà caratterizzata dal trionfo del continuismo (Bobbio, 1984).
I Costituenti risuscitano, per le elezioni politiche, il sistema elettorale proporzionale, allo scopo sia di impedire che un solo partito possa diventare troppo forte, sia di dare visibilità anche ai partiti minori. Gli inconvenienti del sistema proporzionale puro sono descritti con precisione dallo storico inglese Denis Mack Smith: «[…] un ovvio svantaggio era l’impossibilità di tenere saldamente insieme un variegato ventaglio di piccoli gruppi politici, e quindi di dar vita a una maggioranza stabile e omogenea. Con dieci e più partiti presenti in Parlamento, in maggioranza per giunta divisi al loro interno in fazioni rivali, un gabinetto poteva arrivare ad includere quattro partiti e una dozzina di correnti: una situazione che scoraggiava qualunque iniziativa legislativa ed era destinata a creare divisioni […] Prese così forma la combinazione di instabilità politica e immobilismo» (Mack Smith, 1997).
I Costituenti avevano inoltre stabilito che il voto degli elettori non venisse richiesto per candidature in collegi nominali ma in liste di candidati preparate dai partiti per ciascuna circoscrizione. Questo meccanismo permette ad alcuni uomini politici di diventare estremamente potenti, in quanto capaci di controllare il destino dei candidati di un’intera circoscrizione (ricordiamo Vito Lattanzio e Moro in Puglia, Amintore Fanfani in Toscana, Antonio Bisaglia e Mariano Rumor in Veneto, Antonio Gava a Napoli, Ciriaco De Mita ad Avellino, Giulio Andreotti a Roma e in Sicilia, Emilio Colombo in Basilicata, Remo Gaspari in Abruzzo, Arnaldo Forlani nelle Marche).
Gli istituti del regime fascista diventano l’ossatura della Repubblica: forze armate, magistratura, burocrazia centrale e periferica, professori universitari, associazioni di coltivatori diretti, federazioni di consorzi agrari, Iri, Imi, Ferrovie dello Stato, Inps saranno lo zoccolo duro della conservazione, che si opporrà con tutte le proprie forze alla trasformazione e alla modernizzazione della Pubblica Amministrazione, perpetuando privilegi e ingiustizie. Si dovrà attendere il 2008 perché il ministro Brunetta, del Berlusconi quater, tenti una riforma in termini efficientistici della Pubblica Amministrazione.
Storia dell’Iri
L’Iri, acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale, era stato istituito nel 1933 per iniziativa di Benito Mussolini, al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma), che detenevano forti pacchetti azionari delle maggiori imprese nazionali provate dalla crisi economica mondiale del 1929. Nel dopoguerra l’Iri allarga progressivamente i propri settori di intervento e, nel 1980, diventa un gruppo di circa mille società con più di 500mila dipendenti.
Per molti anni l’Iri è la più grande azienda industriale del pianeta, escludendo gli Usa. Ha scritto Sergio Ricossa: «Il vero italiano vede con occhiali Salmoiraghi (Iri), si serve di elettricità della Finelettrica (Iri), ascolta programmi della Rai con dischi Cetra e pubblicità Sipra (Iri), telefona con l’Iri, affida i risparmi alle banche dell’Iri, legge giornali sostenuti dalla pubblicità dell’Iri» (Ricossa, 1996).
Al momento della creazione dell’Iri, Alberto Beneduce, primo presidente dell’istituto, riuscì a far valere il principio in base al quale era interesse del Paese lasciare allo Stato la totalità della proprietà di settori essenziali dell’industria nazionale, affidandone la gestione a dirigenti di provata esperienza. Questi avrebbero avuto libertà d’azione nell’elaborare le strategie produttive più consone agli interessi del Paese a patto di adottare, nel perseguirle, saldi criteri di razionalità economica. Questa impostazione, chiamata “capitalismo manageriale”, era al centro del dibattito tra gli economisti dell’epoca ed era servita a F.D. Roosevelt per superare la crisi delle industrie statunitensi a seguito della Grande Depressione. Ancora nel 1955 Henry Ford II affermava: «Il moderno capitalismo manageriale ha largamente sostituito il capitalismo dei magnati. Il manager-proprietario è stato sostituito da una classe di manager di professione che si dedica più a far progredire e sviluppare l’impresa che a far arricchire i proprietari o gli azionisti, pur senza perdere di vista l’obiettivo di realizzare utili».
Nel dopoguerra, per circa 25 anni il capitalismo manageriale delle imprese italiane a partecipazione statale ha conseguito risultati di non poco rilievo. Esso ha contribuito a costruire in pochi anni la rete autostradale italiana, a portare la produzione annua di acciaio dai 2 milioni di tonnellate del 1950 ai 24 milioni del 1975. La capacità dei manager dell’industria pubblica comincia a venir meno quando lo Stato azionista, controllato dalle forze politiche al Governo, inizia a premere affinché essi perseguano fini poco attinenti agli obiettivi industriali (assunzione di personale raccomandato dai partiti, localizzazione di fabbriche in aree poco indicate, acquisizione di imprese “decotte”, lontane dal core business dell’impresa di Stato).
Esasperazione dello scontro politico
Pietro Nenni, perseverando nella politica di autolesionismo e di cecità, commette un altro errore: convince Togliatti a presentarsi alle elezioni politiche con liste comuni. Il 4 gennaio 1948 il congresso del Pci approva la costituzione del Fronte popolare, rappresentato dall’effigie di Giuseppe Garibaldi, per un Governo rivoluzionario delle sinistre unite. L’Italia si prepara alle elezioni, con spirito da crociata e con la messa in stato di allerta di questori ed ex partigiani, per parare l’eventuale colpo di Stato, che ciascun contendente paventa dalla parte avversa. Il ministro dell’Interno, Mario Scelba, rafforza la polizia di 20mila unità e mette a punto un piano antisommossa. Pio XII lancia un appello ai cattolici perché combattano uniti contro il materialismo ateo. In effetti, con queste elezioni si gioca il destino dell’Italia: con esse, infatti, sarebbero scattati gli accordi stretti tra sovietici e americani a Yalta, Teheran e Potsdam. Roosevelt e Josif Stalin si erano divisi le rispettive aree di influenza prendendo come linea di demarcazione il corso dei fiumi Oder e Neiße: al di là influenza sovietica, al di qua influenza americana. Grecia e Italia erano rimaste fuori da questo accordo: per loro avrebbero deciso libere elezioni. Dopo la recente apertura degli archivi del Cremlino, la lettura della fitta corrispondenza tenuta nel 1948 tra Pci e Pcus mostra in modo inequivocabile che l’ordine di Mosca ai compagni italiani è che la conquista del potere da parte del Pci deve avvenire solo per via parlamentare. Pochi erano, ovviamente, al corrente dello stato delle cose: la Chiesa maschera la debolezza strutturale e organizzativa della DC gettando nella mischia un’enorme struttura volontaristica e i comitati civici, la grande finanza laica e liberale mette a disposizione finanziamenti e organizzazione, i capi comunisti strutturano una possente macchina organizzativa, “una sezione per ogni campanile”, «federazioni per ogni provincia, sezioni in ogni Comune o frazione, funzionari a tempo e stipendio pieno, migliaia di agit-prop, manifesti, giornali. Una macchina propagandistica impressionante per forza, intelligenza, efficacia» resa possibile grazie al fiume di dollari che l’Urss riversa sul Pci (Bernabei, 1999). I comunisti si sentono sicuri della vittoria e Togliatti arriva ad affermare di «avere pronti scarponi chiodati» con cui prendere a calci nel sedere De Gasperi per allontanarlo dal seggio di primo ministro. Nelle memorie di Sergio Zavoli, molti uomini della sinistra, anni dopo quel 1948, ammisero che la sconfitta del Fronte non era stata messa in conto; ma anche la maggioranza dei democristiani riteneva ineluttabile un accordo di Governo con comunisti e socialisti (Zavoli, 1999).
De Gasperi, che rivela doti di grande statista, opera per evitare che si crei in Italia una contrapposizione di tipo bipolare: la DC deve presentarsi come un partito di centro che marcia verso sinistra. Per evitare possibili alternative a Governi a guida democristiana, la tattica della DC dovrà essere da una parte quella di dividere la sinistra e dall’altra quella di impedire la crescita di un blocco conservatore alla sua destra.
Le elezioni del 18 aprile 1948 vedono una schiacciante vittoria della DC, che conquista il 48,5% dei voti, e una dura sconfitta del Fronte (31%), che viene penalizzato sia da errori interni, come la demagogia operaista e frontista e la secessione saragatiana, sia da avvenimenti esterni, come l’imperialismo staliniano, il colpo di Stato comunista a Praga e l’avvio della guerra fredda. Lo storico Giordano B. Guerri afferma che la DC sconfigge le sinistre e riesce a governare per cinquant’anni perché è l’unico partito capace di modellarsi sugli italiani, con i loro pregi e vizi, che promette modifiche della società senza cambiare niente, che ha la capacità di adattarsi agli eventi, senza mai produrli e che, infine, comprende come il potere non derivi più dal possesso delle terre, ma dal controllo delle risorse statali, con la relativa inesauribile fonte di consensi elettorali costituita dal “posto sicuro” (Guerri, 1997). I moderati cattolici e, loro malgrado, laici, hanno trovato rifugio sotto le insegne della Democrazia Cristiana, che sembra assicurare stabilità e conservazione; è interessante ricordare che De Gasperi scriveva a Pio XII: «[…] banche, istituti economici, grandi editori, grosse industrie sono in mano a uomini che possono considerarsi in fondo degli anticlericali rinsaviti dalla paura del comunismo». Le sinistre – incapaci di un’autocritica che consideri il mutato stato d’animo degli italiani rispetto ai primi giorni della Liberazione e la trasformazione che sta vivendo il Paese – accusano il comportamento della Chiesa (con i relativi risvolti pittoreschi, come madonne piangenti e pellegrine), i comitati civici di Luigi Gedda, il “microfono di Dio” di padre Riccardo Lombardi (con i suoi scenari apocalittici) e gli americani, con il loro programma di aiuti economici. La sinistra non è capace di trarre un insegnamento essenziale: una grande percentuale degli italiani è priva di cultura politica, aborre rivoluzioni e alchimie politiche e chiede riferimenti stabili. Proprio partendo da questi presupposti gli italiani ebbero un’inconscia consapevolezza che il Paese avrebbe avuto maggiore prosperità e maggiore democrazia stando dalla parte degli Stati Uniti e rifiutarono la promessa del “paradiso in terra” fatta dai comunisti. La sinistra uscita dalla Liberazione avrebbe dovuto offrire agli italiani unpartito socialdemocratico di ispirazione europea, da opporre a uno schieramento conservatore; ha invece consentito il sopravvento dei fautori dello scontro ideologico, imbrigliando l’Italia in quella forma politica che Giorgio Galli ha chiamato «bipartitismo imperfetto». Il Pci si chiude nella “fortezza del socialismo accerchiato”, Luigi Longo chiarisce che l’articolo 2 dello statuto del partito, che prevede si possa essere membri del Pci indipendentemente dalle idee religiose e filosofiche, è di fatto abrogato. Si avvia così l’era del dottrinarismo ideologico. Non potendo sfruttare la mitologia dei valori nazionali, monopolizzata da democristiani e partiti di destra, la sinistra punta sul mito dei Paesi comunisti, dove “ogni problema sociale è stato risolto” e il “vero paradiso” è diventato un traguardo a portata di mano.
L’analisi delle preferenze arreca altre amarezze al Psi, che scopre di portare alla Camera solo poche decine di deputati: i suoi rappresentanti sono stati confinati, infatti, nelle fasce basse delle liste elettorali del Fronte popolare. A rendere ancora più amara la pillola ai socialisti è l’ottimo risultato ottenuto dal partito di Saragat, con il 7% dei consensi.
La vittoria della DC è anche quella di De Gasperi, riconosciuto da amici e da avversari politici come la persona giusta al posto giusto, nel momento giusto. Egli sarà forse l’unico vero statista della Repubblica italiana; la sua capacità di coniugare progetti di sviluppo e solidarietà avranno pochi uguali in Italia. Gli storici gli riconoscono anche una certa autonomia rispetto alla Chiesa; autonomia che gli consente di resistere alle ingerenze di papa Pacelli, il quale insisteva perché gli anticlericali venissero subito estromessi dal Governo. Tale indipendenza può essere ben colta nelle parole di Montanelli: «De Gasperi, che agli occhi di molti italiani passava per l’uomo dei preti, è stato in realtà l’unico presidente di questo dopoguerra che abbia difeso lo Stato dalle interferenze della Chiesa […] Questo fervente cattolico, quando era in gioco lo Stato, non piegava la testa nemmeno davanti al papa» (Montanelli, 1985). Come il binomio Adenauer-Erhard, in Germania tra il 1949 e il 1963, riesce a creare condizioni irreversibili per federalismo, liberismo e Welfare State, così il binomio De Gasperi-Einaudi avrebbe potuto lasciare all’Italia un’eredità altrettanto solida. Ma i due grandi vecchi sono troppo soli per influenzare la generazione che incalza e che porta con sé il grave handicap dell’ideologismo. Inoltre molti cavalli di razza della DC che saranno protagonisti del dopo De Gasperi sono nati e cresciuti durante il fascismo, e di questo periodo e di questa cultura portano tracce indelebili.
L’11 maggio 1948 Luigi Einaudi viene eletto Presidente della Repubblica. Con questa nomina inizia ufficialmente l’era dello Stato repubblicano, con la sua Costituzione, il suo Parlamento e il suo Presidente. Il 23 maggio si insedia il quinto De Gasperi (23 maggio 1948-27 gennaio 1950), il primo Governo “centrista” (DC, Psli, Pli e Pri), nel quale la DC detiene tutte le posizioni chiave. Si realizza, così, un aspetto importante della strategia degasperiana: la confluenza nella coalizione di Governo, ma in posizione subalterna, della borghesia progressista e di quella conservatrice. Giovanni Gronchi e Ivanoe Bonomi sono rispettivamente presidenti di Camera e Senato. La coalizione perderà prima il Pli, con il sesto De Gasperi (27 gennaio 1950-26 luglio 1951), e poi lo Psli, con il settimo De Gasperi (26 luglio 1951-16 luglio 1953).
Il 4 aprile 1949 l’Italia è uno dei 12 Paesi firmari a Washington del trattato del Patto Atlantico, chiamato Nato (North Atlantic Treaty Organization), un accordo militare puramente difensivo. La volontà statunitense di volere nel Patto l’Italia, che era stato un Paese belligerante nemico, fu una chiara dimostrazione che gli Usa non avrebbero tollerato interferenze da parte dell’Urss. L’adesione dell’Italia fu preceduta da dibattiti parlamentari convulsi e tumultuosi e da violente manifestazioni che surriscaldarono il clima politico e gli animi delle piazze. Il 9 gennaio 1950, per bloccare una violenta manifestazione organizzata a Modena per la situazione di crisi delle fonderie Orsi, gli agenti fecero fuoco e sei morti restarono sul terreno. Secondo una ricostruzione di Andreotti, i manifestanti erano muniti di bombe a mano, mazze ferrate, spranghe e bulloni. La voglia di rivoluzione non era stata accantonata nello zoccolo duro del Pci, ma non trova una sponda nella dirigenza comunista e tantomeno nel Pcus.
L’atteggiamento realista di Togliatti in politica interna, bilanciato tra lotta di classe e accordo istituzionale, non trova però un punto di razionalità nei giudizi che il leader comunista dà di Stalin e dei Paesi dell’Est. Il suo atteggiamento influenzerà i comunisti italiani, che resteranno all’oscuro della realtà, e che vivranno per decenni in una sorta di ghetto culturale, sognando il mito del paradiso socialista. Il 6 marzo 1953 l’Unità titola a tutta pagina: «È morto l’uomo che più ha fatto per la liberazione del genere umano»; l’iperbole si riferisce a Stalin. Il 28 giugno 1956, a Poznan, in Polonia, una manifestazione di operai, durante uno sciopero generale, viene stroncata dall’esercito. Il 3 luglio Togliatti pubblica sull’Unità un articolo in cui la rivolta di Poznan è presentata come opera di provocatori. Il grido di dolore di intellettuali e operai durante la rivoluzione ungherese, repressa nel sangue dai carri armati sovietici il 5 novembre 1956, non intacca la fede del popolo comunista nel paradiso socialista. Eppure, al XX congresso del Pcus, il 25 febbraio del 1956, Nikita Chrušcëv aveva condannato il culto della personalità, aveva fatto decadere il dogma della “guerra inevitabile” e, il 17 aprile successivo, aveva sciolto il Cominform.
Oggi, rileggendo i comportamenti di Togliatti e del Pci di quegli anni, non si può non restare inorriditi di fronte alle menzogne, all’occultamento di fatti noti a tutto il mondo e al male che i comunisti hanno perpetrato nei confronti di tutto il popolo italiano, inoculando nel Paese le tossine dell’odio di classe e della rivoluzione necessaria.Togliatti, nel suo giudizio sui Paesi del blocco comunista, non sarà rimasto insensibile ai finanziamenti dall’Urss. Afferma Paolo Emilio Taviani: «Gli aiuti finanziari dell’Urss al Pci, a quanto risultava ai nostri servizi segreti, ebbero inizio nel 1947» e, sempre secondo Taviani: «[...] la spaccatura della classe dirigente della Resistenza si consumò unicamente sulla politica estera, poiché il Pci mostrava di essere al servizio della politica estera dell’Urss» (Montanelli, 1985). Secondo Ettore Bernabei: «Di soldi americani, direttamente alla DC, ne arrivarono pochi e, comunque, niente che possa essere paragonato al flusso costante e cospicuo con cui Mosca finanziava, in dollari, il Pci» (Bernabei, 1999). Per anni la politica del Pci sarà caratterizzata, quindi, da fedeltà all’Unione Sovietica in politica estera, e da pragmatismo e atteggiamento riformista in politica interna.
L’ordinamento parlamentare prevede che alcune leggi possano essere promulgate in Commissione con il voto favorevole dell’80% dei membri? Il Pci si accorda con la maggioranza in uno scambio do ut des. La maggior parte delle votazioni avviene a scrutinio segreto? Il Pci soccorre la DC quando è sottoposta all’indisciplina dei suoi parlamentari. Al blocco dell’alternanza a livello governativo si contrappone la cooperazione a livello parlamentare, in definitiva è stato creato il sistema che Luciano Cafagna ha chiamato del «polarismo collusivo». Lo storico tedesco Michael Braun osserva che « […] lo Stato italiano è stato caratterizzato da tre peculiarità: a livello di governo, dall’alternanza bloccata, a livello di Parlamento, dalla collusione tra maggioranza e minoranza e a livello segreto, da uno Stato parallelo con il compito di provvedere che l’avanzata della sinistra procedesse entro un percorso ben delimitato e non portasse all’ingresso del Pci nel Governo» (Braun, 1995).
Al congresso democristiano di Venezia, del giugno 1949, la sinistra della DC tenta la scalata alla segreteria; l’operazione non ha successo a causa del blocco formato dagli ex popolari e dai dirigenti dell’Azione Cattolica, che eleggono Paolo Emilio Taviani. Il congresso di Venezia è comunque uno snodo importante della storia della DC, perché permette alla sinistra di proporre una nuova strategia, incentrata sulle questioni sociali e sulla programmazione economica e mirata a un profondo rinnovamento delle strutture del partito. Fanfani, in particolare, è convinto che la DC non possa continuare a basare la propria organizzazione sul volontarismo dei militanti cattolici, ma che debba attrezzarsi sul modello del Pci. Dice Bernabei: «Fanfani voleva un partito-macchina da contrapporre al rullo compressore di Botteghe Oscure. E soprattutto voleva andare a togliere argomenti all’opposizione comunista con una politica sociale più avanzata». La sinistra DC ritenta la scalata alla segreteria al congresso di Roma del 1951; neanche questa volta l’operazione riesce, ancora a causa del blocco degli ex popolari e della destra, che eleggono segretario Guido Gonella. Il periodo che va dalla Liberazione alla nascita della Repubblica e dei suoi primi Governi pone le basi dello Stato e crea le condizioni per esaltare le virtù, ma anche i vizi strutturali italiani. La ripresa del Paese avviene grazie al concorrere di almeno tre fattori:
1. l’intesa “fra gentiluomini” che De Gasperi stringe con l’establishment laico-liberale, in base al quale a quest’ultimo è affidata la conduzione dell’economia e della finanza, in cambio della prevalenza dei cattolici nella conduzione politica del Paese;
2. il ricordo della guerra, che attenua le pretese individuali e valorizza il principio della solidarietà;
3. il ruolo della famiglia.
Nei primi mesi del 1952, in occasione delle elezioni comunali di Roma, papa Pacelli tenta di interferire ancora nella vita politica italiana. Nelle intenzioni di Pio XII, tormentato da una visione irrealistica per l’Italia di quegli anni – “socialcomunisti da una parte, tutti gli altri dall’altra” – è necessario dar vita a un listone anticomunista che comprenda anche monarchici e missini, guidato da Luigi Sturzo. De Gasperi si oppone decisamente alla proposta del “partito romano” della Curia, consapevole che l’unica politica realizzabile è quella di togliere voti allo schieramento di sinistra. Le elezioni del 25 maggio 1952 danno ragione a De Gasperi: DC, Psdi, Pri e Pli conquistano il Campidoglio. Ma tra De Gasperi e Pio XII scende un grande gelo, che si manifesta anche con l’“umiliazione” subita e sofferta da De Gasperi, al quale non viene concessa un’udienza privata (Riccardi, 2002).
Per Roma De Gasperi ha avuto ragione ma nel Sud si registra una forte crescita della destra a spese della DC, in particolare a Napoli dove Achille Lauro, padre e padrino del Pnm, diventa sindaco. In questa occasione De Gasperi matura il progetto di una nuova legge elettorale.
Egemonia culturale della sinistra
Per affrontare l’argomento della cultura italiana del dopoguerra occorre fare un salto indietro e parlare di fascismo e cultura. Tralasciando le note vicende che riguardano Gabriele D’Annunzio, Benedetto Croce e Giovanni Gentile giova osservare che Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, per la sua rivista letteraria Primato, poté contare tra il 1940 e il 1943 su gran parte degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, degli storici, dei giornalisti più promettenti del tempo, tra i quali: Corrado Alvaro, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Arrigo Benedetti, Enzo Biagi, Romano Bilenchi, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Vincenzo Cardarelli, Carlo Emilio Gadda, Leo Longanesi, Eugenio Montale, Indro Montanelli, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Bonaventura Tecchi, Giuseppe Ungaretti, Cesare Zavattini. E poté contare anche «su musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni, su artisti come Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Renato Guttuso, […] Aligi Sassu, […], Mario Mafai […]» (Vespa, 2004).
Dopo la caduta del fascismo moltissimi artisti passarono nelle fila dei partiti della sinistra, soprattutto nel Pci; alcuni parteciparono alla Resistenza, alcuni vi persero la vita. Questa “transumanza” nel Pci ha tre ragioni ben precise: in primo luogo, Togliatti, con il suo fare da fine intellettuale, aveva un discreto ascendente sugli artisti; poi, il leader comunista aveva sempre mantenuto un collegamento con la sinistra fascista, tanto che il Pci clandestino, su Stato Operaio dell’agosto 1936, dichiarava di approvare il programma fascista del 1919, proprio allo scopo di trovare un’intesa con quelle frange del fascismo più sensibili agli aspetti sociali; infine, per opportunismo.
Dopo la guerra, con la sua riorganizzazione, il Pci non trascura la cultura e fonda Rinascita, una casa editrice che diventa il punto di riferimento degli autori marxisti nel solco tracciato della rivista La Rinascita, fondata da Togliatti nel giugno 1944. Nel 1945 Elio Vittorini pubblica Il Politecnico, edito da Einaudi; nel 1946 Luigi Longo dà vita a Vie Nuove, rivista alla quale collaboreranno molti intellettuali marxisti; nel 1953 Alberto Carocci e Alberto Moravia fondano Nuovi Argomenti, rivista che accoglie articoli di intellettuali marxisti italiani e stranieri; nel 1959 Vittorini e Italo Calvino fondano il Menabò.
La casa editrice Einaudi, creata nel 1933 da Giulio Einaudi, figlio di Luigi, dopo la guerra diventa una casa editrice fiancheggiatrice della cultura marxista. Nel 1953 nasce Editori Riuniti, dalla fusione di due case editrici vicine al partito comunista: le Edizioni Rinascita e le Edizioni di Cultura Sociale, dirette da Roberto Bonchio, che resterà alla guida della nuova casa editrice per molti decenni. Nel campo della letteratura per ragazzi i libri di Gianni Rodari conoscono una fortuna che dura ancora oggi.Nel 1954 Romano Bilenchi, Carlo Salinari e Antonello Trombadori fondano Il Contemporaneo, una rivista che si prefigge il compito di intervenire con gli strumenti della cultura marxista nei campi della produzione letteraria, del cinema, delle arti figurative e del teatro. Nel 1954 Giangiacomo Feltrinelli, rampollo di una delle più ricche famiglie italiane, fonda l’omonima casa editrice che, oltre a sfornare libri dei più importanti scrittori marxisti, ottiene grandi successi editoriali con Il dottor Živago e Il Gattopardo.
A contrastare l’egemonia della sinistra nella cultura del dopoguerra, troviamo Leo Longanesi che, nel 1945, fonda l’omonima casa editrice e, nel 1949, la rivista Il Borghese. Etichettato come “nostalgico” e “passatista”, in realtà Longanesi con Il Borghese insegue il proprio progetto di descrivere vizi e virtù degli italiani.Tra gli intellettuali più prestigiosi che si dichiaravano “anticomunisti” cito Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Indro Montanelli, Dino Buzzati, Manlio Lupinacci e lo stesso Longanesi.
A fare da spartiacque tra le riviste della sinistra e Il Borghese troviamo Il Mondo di Mario Pannunzio, cofondatore del Partito Liberale Italiano prima e del Partito Radicale poi. Il Mondo si distingue per le sue inchieste sulla speculazione edilizia, sulla cementificazione delle periferie e sugli intrecci tra imprenditoria e politica. Il testimone fu raccolto da L’Espresso di Arrigo Benedetti.
Politica economica dei governi di transizione
Il periodo post-bellico è caratterizzato dall’esigenza della ripresa economica. Fortunatamente il sistema produttivo italiano non ha subito grandi danni: essi ammontano, infatti, a circa il 10% del valore che esso aveva nel 1938. Evidentemente gli Alleati avevano ritenuto le nostre industrie talmente obsolete da non valere le bombe necessarie per distruggerle; sul finire della guerra gli industriali del Nord avevano, inoltre, mantenuto contatti con gli anglo-americani al fine di avere salve le proprie fabbriche. Il Paese gode, peraltro, di un enorme bacino di manodopera essendo, nel 1945, gli occupati nell’agricoltura ben il 50% di tutta la forza lavoro.
I primi passi dell’economia italiana vengono guidati da Luigi Einaudi (prima come governatore della Banca d’Italia e poi come ministro del Bilancio), che, grazie al grande prestigio di cui gode, riesce a ribaltare la politica inflazionistica dei Governi di coalizione e a imporre come obiettivo prioritario la stabilità della moneta. Nel 1948, con una severa restrizione del credito, l’inflazione, che aveva toccato su base annua il 50%, è domata. L’operazione – che rallenta inizialmente lo sviluppo, facendo crescere il numero dei disoccupati – avrà effetti positivi nel corso degli anni e sarà alla base della sorprendente crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1950 la produzione industriale torna ai livelli prebellici e gli anni successivi sono caratterizzati da un progresso continuo dell’economia, con ritmi che l’Italia non aveva mai toccato.
Nel 1946, all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale, Nenni, convinto che l’Agip sia solo il frutto della megalomania di Benito Mussolini, chiede e ottiene che l’impresa venga messa in liquidazione. Giuseppe Dossetti propone Enrico Mattei come commissario liquidatore; Mattei accetta ma, prima di liquidare, fa alcune verifiche. Convince Raffaele Mattioli, il banchiere della Comit, a emettere un prestito di un miliardo per continuare le perforazioni nella Pianura Padana. E trova il metano.
Nel 1948 De Gasperi, che culturalmente era più un costruttore che un demolitore, di fronte ai risultati ottenuti da Mattei, annulla la decisione della liquidazione. I primi governanti del Paese sono convinti della necessità di una liberalizzazione degli scambi, come reazione agli anni del dirigismo e dell’autarchia fascista, ma sono anche convinti della necessità di una forte presenza dello Stato nel sistema produttivo e nei servizi. Restano inascoltati i moniti di Einaudi, secondo cui nelle aziende pubbliche, con il tempo, gli aspetti sociali avranno il sopravvento su quelli economici e le direttive della politica sulle decisioni dei manager, con il risultato di creare le condizioni per avere imprese perennemente in perdita. Einaudi è stato buon profeta anche quando ha ammonito sulle difficoltà a quantificare le perdite delle aziende pubbliche, perché «le vie che la contabilità apre per sfuggire alle cifre in rosso sono infinite». I giochi delle scatole cinesi che verranno utilizzati dai vari manager dell’Iri per nascondere perdite e debiti gli daranno ragione. Lo stesso Pasquale Saraceno, il padre della pianificazione economica, dovrà ammettere: «[…] in media trascorre un triennio fra l’anno in cui le perdite si producono in un’impresa e l’anno in cui, attraverso le finanziarie, le perdite vengono accertate, in generale sotto forma di svalutazione del capitale, nel bilancio dell’Iri». Al liberismo monetario fa, quindi, da contraltare la volontà politica della pianificazione degli snodi strutturali e una difesa degli elementi caratteristici del corporativismo e dello statalismo. Per fortuna, le imprese pubbliche si trovano a essere gestite, in genere, da buoni manager: ciò consente di ammorbidire il principio della pianificazione in un più moderato capitalismo manageriale di Stato, che inizialmente produrrà buoni risultati.
Nel giugno 1949, durante il terzo congresso della DC, i dossettiani propongono la pianificazione dello sviluppo economico del Paese, che troverà la prima teorizzazione nel 1948 con Saraceno (Saraceno, 1969) e, successivamente, con il documento Schema di sviluppo del reddito e della occupazione in Italia nel decennio 1955-1965, presentato dal ministro Ezio Vanoni nel 1954. Il documento prevede forti investimenti nell’edilizia abitativa e nelle opere pubbliche, in particolare attraverso le imprese di Stato, interventi che si sommano a quelli attuati sulla base del documento Saraceno, ossia la riforma agraria, il programma di edilizia popolare e la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno.
Sul versante sindacale, dopo i grandi scioperi dei braccianti delle campagne settentrionali del 1948-1949, gli anni Quaranta si chiudono con le violente proteste dei contadini del Sud, che, oppressi da secolari condizioni di degrado, sembrano conquistare una coscienza collettiva che consente di superare sfiducia e fatalismo. Le stragi di Melissa e di Portella della Ginestra scuotono il Paese e il Parlamento, sconfiggendo il partito dei baroni e del notabilato meridionale, approva una legge che, come più importante provvedimento, prevede l’espropriazione di una parte dei grandi latifondi, quelli meno produttivi, e la loro ridistribuzione ai contadini. Tale riforma rappresenta il primo tentativo nella storia d’Italia di colpire la proprietà fondiaria assenteista, responsabile dell’immobilismo del Sud, favorendo i contadini. Secondo Denis Mack Smith fu «forse il più ardito tentativo di riforma agraria compiuto nei Paesi non comunisti; oltre due milioni di acri di terra non coltivata furono sottratti ai latifondisti (costretti a vendere) e distribuiti» (Mack Smith, 1997).
All’interno del sindacato unico – la Cgil – i contrasti tra comunisti, socialisti, cattolici e repubblicani sono aspri. La componente comunista sostiene che la situazione economica è in continuo peggioramento perché «adattata e subordinata alle esigenze dell’economia americana». L’unità sindacale si spezza. Il 22 luglio 1949 esce dalla Cgil la componente cattolica, seguita un anno dopo da quelle socialdemocratica e repubblicana, che fondano la Fil. Successivamente la Fil si dissolve e, nel 1950, nascono la Cisl filo-democristiana di Giulio Pastore e la Uil, che raccoglie per lo più le istanze repubblicane e del Psli.
L’11 maggio 1949, al XXIX congresso dello Psi, si rifà vivo il tarlo dello scissionismo: esce il gruppo che fa capo a Giuseppe Romita, il quale fonda il Partito Socialista Unitario, che tiene il suo primo congresso nel dicembre 1949. Al suo secondo congresso (gennaio 1951) viene approvata l’unificazione con il Psli; nel gennaio 1952 i partiti di Saragat e Romita si unificano nel Partito Socialista Democratico Italiano (Psdi).
Le finanze del Vaticano
Ai primi cenni dell’imminente guerra mondiale Pio XII si era preoccupato di salvaguardare l’ingente liquidità di cui il Vaticano disponeva grazie all’Obolo di San Pietro, conferendo l’incarico a Massimo Spada, il segretario amministrativo dello Ior, la banca vaticana creata nel 1942 sempre da Pio XII. Spada conferma la propria abilità di finanziere consigliando al papa di convertire tutta la liquidità in sterline oro. Alla fine della guerra quel patrimonio è diventato enorme sia rispetto alle lire e alle amlire, sia in rapporto al dollaro. Il Vaticano si trova a essere la più potente istituzione finanziaria del Paese e lo Ior inizia la propria avventura come azionista di molte imprese italiane. Nel giro di pochi anni Massimo Spada accumula una trentina di partecipazioni di comando o di co-comando in imprese nei cui consigli di amministrazione fa il bello e il cattivo tempo. Spada siede anche nel Cda dell’Iri, ove acquista un ruolo sempre crescente. Giova ricordare che fu proprio lo Ior che fornì a Enrico Mattei la liquidità per comprare la Egyptian Oil Company, la prima società estera dell’Eni che consentì a Mattei di lanciare un guanto di sfida alle Sette Sorelle. Come presidente della Lancia, che aveva accumulato una montagna di debiti, Spada fu l’artefice della vendita della fabbrica automobilistica di Carlo Pesenti (con i relativi debiti) alla Fiat; il prezzo simbolico fu fissato in una lira per azione. Lo Ior fu anche protagonista di un’operazione di ingegneria finanziaria senza eguali in Italia e nel mondo. La Italmobiliare, da controllata di Italcementi, diventò la controllante del colosso cementifero, grazie a una serie di operazioni che oggi sarebbe impossibile compiere e che vide transitare da un soggetto all’altro ben 200 miliardi di lire. Fulcro di tutta l’operazione fu proprio lo Ior. Con questa operazione Pesenti realizzò il sogno della sua vita, essere un banchiere (Panerai, 2010). Alla morte di Carlo, il figlio Gianpiero, con la supervisione di Enrico Cuccia, con il quale il padre non aveva mai voluto dialogare, mise in vendita la Ras, il secondo gruppo assicurativo italiano, e vendette anche le banche. Un errore imperdonabile perché ciò che Carlo Pesenti aveva intuito si avverò: di lì a poco i valori di banche e assicurazioni salirono alle stelle e il gruppo avrebbe avuto la possibilità di diventare il primo gruppo industriale italiano.
La potenza finanziaria del Vaticano iniziò a calare con l’arrivo alla presidenza dello Ior di Paul Casimir Marcinkus, capo dei servizi di sicurezza del papa, che divenne socio e protettore di due grandi bancarottieri e faccendieri come Michele Sindona e Roberto Calvi. Per rivedere la grande finanza cattolica giocare un ruolo di primo piano in Italia si dovrà attendere la fondazione di Comunione e Liberazione prima, e della Compagnia delle Opere dopo.

LOGO

4 febbraio 2013

Eugenio Caruso



www.impresaoggi.com