Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

Pareri diversi sulle elezioni politiche del febbraio 2013.

Impresa Oggi, raramente, affronta temi di politica interna. Vogliamo comunque, in relazione a questa tornata elettorale, riportare tre commenti apparsi sulla stampa di quotidiani di diversa collocazione politica.

Quasi nessuno crede alle promesse dei politici. Quindi andremo a votare al buio, consapevoli che - chiunque vinca - non farà quello che si è impegnato a fare. Il fatto che sia irrazionale, irragionevole o quantomeno ingenuo credere a quello che i politici ci raccontano in campagna elettorale, non impedisce però di fare delle previsioni sul loro comportamento futuro. L’elettore, infatti, ha almeno un vantaggio sui politici: ormai li conosce. E, conoscendoli, sa che cosa aspettarsi da ciascuno di essi. Può usare il loro passato per indovinare il futuro che ci potranno riservare. E’ questo l’esercizio di traduzione che vorrei proporre, un esercizio personale ovviamente, ma che ognuno può ripetere in proprio prima di mettere la crocetta sul simbolo sbagliato. Per capire che cosa ci aspetta davvero, la prima domanda da farsi è la seguente: qual è la stella polare di Bersani, Berlusconi e Monti? (di Grillo non parlo, perché la sua stella polare è chiara: «mandarli a casa tutti»). Bene, secondo me la stella polare di Bersani è, come sempre per la sinistra, la spesa pubblica. Si tratta di trovare il modo di farla crescere, allentando il patto di stabilità interna (tradotto: lasciando che i Comuni che hanno soldi li spendano). E rinegoziando i vincoli europei (tradotto: lasciateci fare un po’ più di deficit), nella speranza che l’economia riparta. La diagnosi è chiara: abbiamo avuto troppo rigore, è giunta l’ora di varare qualche stimolo all’economia. Il che, nella mentalità della cultura di sinistra, significa sempre «trovare» le risorse, piuttosto che liberarle, nell’illusione che il Pil cresca perché lo Stato spende di più, e non perché lascia più soldi nelle tasche dei produttori. Quanto alle tasse, una patrimoniale sui ceti medio-alti non è esclusa (specie se ci fosse necessità di una manovra aggiuntiva), mentre è esclusa una significativa riduzione della pressione fiscale. Si potrebbe pensare che la mia sia una lettura maliziosa del programma del Pd, ma in realtà è la conseguenza aritmetica di una cosa che a sinistra è stata ripetuta fino alla noia: le tasse diminuiranno nella misura in cui riusciremo a farle pagare agli evasori. E’ strano che nessuno lo faccia notare, ma diminuire le aliquote prendendo i soldi dagli evasori significa una cosa soltanto: che la pressione fiscale resta costante, e quel che cambia è solo la sua ripartizione fra economia sommersa ed economia emersa. Un fatto senz’altro positivo, ma che si fonda sull’idea (secondo me erronea) che l’Italia possa tornare a crescere con una pressione fiscale elevata come quella attuale. Passiamo al centro-destra. Qui le stelle polari sono due. C’è la stella polare personale di Berlusconi, che è salvare sé stesso dai processi e le sue imprese dalle possibili conseguenze di leggi «contra personam» minacciate dalla sinistra, ad esempio in materia di conflitto di interessi e concessioni pubbliche. E poi c’è la stella polare dei governi guidati da Berlusconi, che è sempre stata la riduzione delle tasse, senza però ridurre la spesa, e dunque creando deficit pubblico. Con l’aggravante che oggi i mercati ci punirebbero senza pietà, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Italia e quindi i nostri risparmi. Naturalmente so benissimo che esiste anche il «vasto programma» di Brunetta: tagliare in cinque anni 80 miliardi di spesa pubblica e restituirli ai cittadini sotto forma di minori tasse. Ma non lo prendo in considerazione perché la sua attuazione richiederebbe un vero governo di unità nazionale, tipo quello con cui Merkel e Schröder salvarono la Germania dal declino cui fino a pochissimi anni fa sembrava avviata (molti si sono scordati che, fino al 2007, era la Germania «the sick man of Europe», ovvero l’economia europea più in difficoltà). Resterebbe Monti, di cui per fortuna abbiamo un ricordo sufficientemente fresco da spegnere ogni illusione. Monti è stato l’unico leader che la possibilità di fare quel che ora promette - un governo che tagli le ali estreme e faccia le riforme - l’ha avuta sul serio. Quando venne chiamato a «salvare l’Italia» avrebbe potuto fare cose impensabili per i suoi predecessori e, temo, anche per i suoi successori. Ha sciupato quasi del tutto quell’opportunità, muovendosi con una prudenza eccessiva, un rimprovero questo che in questi mesi gli è stato ripetutamente rivolto dai suoi stessi allievi bocconiani. Nemmeno sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, tipico cavallo di battaglia della cultura liberale, il suo governo ha avuto il coraggio di prendere una posizione, preferendo nascondersi dietro una consultazione pubblica destinata a finire nel nulla. Ora ci racconta che quel che di buono ha fatto è stato nonostante i partiti, e quel che non è riuscito a fare è a causa delle loro resistenze. Può darsi (anzi sicuramente è), ma come può pensare che la forza che i partiti non gli hanno dato ieri, quando erano terrorizzati e intimiditi, gliela possano dare oggi, che sono tornati ringalluzziti e protervi più che mai? Che cosa potremmo dunque aspettarci, realisticamente, da un governo Monti, o da un governo molto condizionato da Monti? La stella polare di Monti è il rigore, ossia l’equilibrio dei conti pubblici imposto dall’Europa. I comportamenti passati del suo governo fanno pensare che Monti sia convinto che la via maestra per fermare la crescita del rapporto debito-pil sia azzerare il deficit, o meglio azzerare il deficit «corretto per il ciclo», il che in buona sostanza significa chiedere all’Europa di poter sforare un po’. Questa visione e la linea di condotta che ne deriva hanno alcune conseguenze positive e altre negative. La conseguenza positiva più importante è che, con il rigore sui conti pubblici, diventa meno probabile un collasso finanziario immediato, che finirebbe per provocare una forte riduzione della ricchezza delle famiglie. Quel rischio è invece molto forte in caso di ritorno al governo di Berlusconi, e non è assente nel caso Bersani si trovasse a ripetere la triste commedia dell’ultimo governo Prodi, paralizzato - come l’asino di Buridano - dalle «diverse sensibilità» dei suoi ministri (per inciso: un governo Bersani-Monti-Vendola ci regalerebbe l’asino di Buridano perfetto). Quasi nessuno crede alle promesse dei politici. Quindi andremo a votare al buio, consapevoli che - chiunque vinca - non farà quello che si è impegnato a fare. Il fatto che sia irrazionale, irragionevole o quantomeno ingenuo credere a quello che i politici ci raccontano in campagna elettorale, non impedisce però di fare delle previsioni sul loro comportamento futuro. L’elettore, infatti, ha almeno un vantaggio sui politici: ormai li conosce. E, conoscendoli, sa che cosa aspettarsi da ciascuno di essi. Può usare il loro passato per indovinare il futuro che ci potranno riservare. E’ questo l’esercizio di traduzione che vorrei proporre oggi, un esercizio personale ovviamente, ma che ognuno può ripetere in proprio prima di mettere la crocetta sul simbolo sbagliato. Per capire che cosa ci aspetta davvero, la prima domanda da farsi è la seguente: qual è la stella polare di Bersani, Berlusconi e Monti? (di Grillo non parlo, perché la sua stella polare è chiara: «mandarli a casa tutti»). Bene, secondo me la stella polare di Bersani è, come sempre per la sinistra, la spesa pubblica. Si tratta di trovare il modo di farla crescere, allentando il patto di stabilità interna (tradotto: lasciando che i Comuni che hanno soldi li spendano). E rinegoziando i vincoli europei (tradotto: lasciateci fare un po’ più di deficit), nella speranza che l’economia riparta. La diagnosi è chiara: abbiamo avuto troppo rigore, è giunta l’ora di varare qualche stimolo all’economia. Il che, nella mentalità della cultura di sinistra, significa sempre «trovare» le risorse, piuttosto che liberarle, nell’illusione che il Pil cresca perché lo Stato spende di più, e non perché lascia più soldi nelle tasche dei produttori. Quanto alle tasse, una patrimoniale sui ceti medio-alti non è esclusa (specie se ci fosse necessità di una manovra aggiuntiva), mentre è esclusa una significativa riduzione della pressione fiscale. Si potrebbe pensare che la mia sia una lettura maliziosa del programma del Pd, ma in realtà è la conseguenza aritmetica di una cosa che a sinistra è stata ripetuta fino alla noia: le tasse diminuiranno nella misura in cui riusciremo a farle pagare agli evasori. E’ strano che nessuno lo faccia notare, ma diminuire le aliquote prendendo i soldi dagli evasori significa una cosa soltanto: che la pressione fiscale resta costante, e quel che cambia è solo la sua ripartizione fra economia sommersa ed economia emersa. Un fatto senz’altro positivo, ma che si fonda sull’idea (secondo me erronea) che l’Italia possa tornare a crescere con una pressione fiscale elevata come quella attuale. Passiamo al centro-destra. Qui le stelle polari sono due. C’è la stella polare personale di Berlusconi, che è salvare sé stesso dai processi e le sue aziende dalle possibili conseguenze di leggi «contra personam» minacciate dalla sinistra, ad esempio in materia di conflitto di interessi e concessioni pubbliche. E poi c’è la stella polare dei governi guidati da Berlusconi, che è sempre stata la riduzione delle tasse, senza però ridurre la spesa, e dunque creando deficit pubblico. Con l’aggravante che oggi i mercati ci punirebbero senza pietà, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Italia e quindi i nostri risparmi. Naturalmente so benissimo che esiste anche il «vasto programma» di Brunetta: tagliare in cinque anni 80 miliardi di spesa pubblica e restituirli ai cittadini sotto forma di minori tasse. Ma non lo prendo in considerazione perché la sua attuazione richiederebbe un vero governo di unità nazionale, tipo quello con cui Merkel e Schröder salvarono la Germania dal declino cui fino a pochissimi anni fa sembrava avviata (molti si sono scordati che, fino al 2007, era la Germania «the sick man of Europe», ovvero l’economia europea più in difficoltà). Resterebbe Monti, di cui per fortuna abbiamo un ricordo sufficientemente fresco da spegnere ogni illusione. Monti è stato l’unico leader che la possibilità di fare quel che ora promette - un governo che tagli le ali estreme e faccia le riforme - l’ha avuta sul serio. Quando venne chiamato a «salvare l’Italia» avrebbe potuto fare cose impensabili per i suoi predecessori e, temo, anche per i suoi successori. Ha sciupato quasi del tutto quell’opportunità, muovendosi con una prudenza eccessiva, un rimprovero questo che in questi mesi gli è stato ripetutamente rivolto dai suoi stessi allievi bocconiani. Nemmeno sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, tipico cavallo di battaglia della cultura liberale, il suo governo ha avuto il coraggio di prendere una posizione, preferendo nascondersi dietro una consultazione pubblica destinata a finire nel nulla. Ora ci racconta che quel che di buono ha fatto è stato nonostante i partiti, e quel che non è riuscito a fare è a causa delle loro resistenze. Può darsi (anzi sicuramente è), ma come può pensare che la forza che i partiti non gli hanno dato ieri, quando erano terrorizzati e intimiditi, gliela possano dare oggi, che sono tornati ringalluzziti e protervi più che mai? Che cosa potremmo dunque aspettarci, realisticamente, da un governo Monti, o da un governo molto condizionato da Monti? La stella polare di Monti è il rigore, ossia l’equilibrio dei conti pubblici imposto dall’Europa. I comportamenti passati del suo governo fanno pensare che Monti sia convinto che la via maestra per fermare la crescita del rapporto debito-pil sia azzerare il deficit, o meglio azzerare il deficit «corretto per il ciclo», il che in buona sostanza significa chiedere all’Europa di poter sforare un po’. Questa visione e la linea di condotta che ne deriva hanno alcune conseguenze positive e altre negative. La conseguenza positiva più importante è che, con il rigore sui conti pubblici, diventa meno probabile un collasso finanziario immediato, che finirebbe per provocare una forte riduzione della ricchezza delle famiglie. Quel rischio è invece molto forte in caso di ritorno al governo di Berlusconi, e non è assente nel caso Bersani si trovasse a ripetere la triste commedia dell’ultimo governo Prodi, paralizzato - come l’asino di Buridano - dalle «diverse sensibilità» dei suoi ministri (per inciso: un governo Bersani-Monti-Vendola ci regalerebbe l’asino di Buridano perfetto). Ma non mancano, purtroppo, anche le conseguenze negative. L’ossessione del deficit fa indubbiamente i conti con l’Europa (o meglio con la visione economica della signora Merkel) ma non fa i conti né con i mercati né con gli interessi di lungo periodo dell’Italia. Non fa i conti con i mercati perché sottovaluta due elementi cruciali. Primo, lo spread dipende più dal deficit nominale che da quello «corretto per il ciclo»: ai creditori dello Stato italiano interessa il deficit pubblico effettivo, non «quello che sarebbe stato se non fossimo in recessione» (è questo, in buona sostanza, il senso della «correzione per il ciclo»). Secondo, lo spread è fortemente influenzato dalle attese di crescita del Pil, come si è visto la primavera scorsa, in pieno «governo dei tecnici», quando le previsioni di crescita dell’Italia sono state drammaticamente riviste al ribasso e lo spread è ricominciato a salire pericolosamente. Ma l’ossessione per il deficit non fa i conti, soprattutto, con gli interessi futuri dell’Italia. I quali sono di aumentare stabilmente la torta da ridistribuire, più che accontentarsi di suddividere «in modo più equo» una torta che continua a restringersi di anno in anno. Un obiettivo, quello di far ripartire il Pil, che realisticamente si può raggiungere solo con riforme coraggiose, e tenendo i conti in ordine dal lato della spesa, anziché dal lato delle tasse come Monti e Bersani hanno mostrato finora di preferire. Ed eccoci al paradosso finale. A mio parere la politica economica che meglio tutela gli interessi futuri dell’Italia è una versione più realistica, o meno talebana, della rivoluzione liberale annunciata da Renato Brunetta o da Oscar Giannino (la cui lista e le cui idee restano in campo, a dispetto delle dimissioni del fondatore). Ad essi mi sento di fare un solo vero appunto, quello di dimenticare che il nostro Stato sociale, oltre che inefficiente e sprecone, è anche largamente incompleto, visto che mancano asili nido, ammortizzatori sociali universali, politiche per gli anziani e le persone non autosufficienti: ridurre la spesa pubblica si può e si deve, ma non nella misura in cui i liberisti puri pretenderebbero. Purtroppo, però, non vi è alcuna possibilità che una seria e realistica rivoluzione liberale venga attuata da un governo di centro-destra, perché quel genere di politica richiederebbe due ingredienti che ad esso mancano del tutto: la credibilità davanti all’Europa e ai mercati (cha ha solo Monti) e la credibilità davanti alle forze sociali (che ha solo Bersani). Sembra un ossimoro, ma quello di cui a mio avviso l’Italia avrebbe oggi bisogno è una politica di destra fatta dalla sinistra. O, per essere più precisi, di una politica liberale, e perciò automaticamente e superficialmente bollata come «di destra», attuata e garantita dall’assai meno screditato personale politico di centro-sinistra. Una politica che ridia un po’ di ossigeno a chi produce ricchezza e al tempo stesso sia capace di incidere profondamente sulla spesa pubblica, non già per smantellare lo Stato sociale bensì per completarlo, perché di un welfare che funziona c’è oggi più bisogno che mai. Quel che invece avremo, verosimilmente, sarà un governo che dirà di battersi per «un paese più giusto», ma finirà per restituirci un paese forse anche più giusto, ma sicuramente più povero. Come direbbe Bartleby lo scrivano, «avrei preferenza di no». Quel che invece avremo, verosimilmente, sarà un governo che dirà di battersi per «un paese più giusto», ma finirà per restituirci un paese forse anche più giusto, ma sicuramente più povero. Luca Ricolfi

Occhio che ci fregano. Libero ognuno di votare chi vuole, ma forse, a 48 ore dalle elezioni, è meglio fare mente locale, prima che sia troppo tardi. E non mi riferisco all'ovvio, cioè che da una parte, quella del centrodestra, si impegnano ad abbassare da subito la pressione fiscale e a ripristinare sovranità nazionale e Stato di diritto mentre dalle altre assicurano nuove tasse, Europa-dipendenza e Stato di polizia. No, mi riferisco ai venditori di balle che ci stanno prendendo per i fondelli. Breve riepilogo del nuovo che avanza. Beppe Grillo dice: l'epoca dei ladri e dei furbi è finita, i condoni sono come le tangenti. Ma tace sul fatto che lui di condoni ne ha fatti due tombali e uno edilizio. Oscar Giannino: basta con i mitomani che non mantengono le promesse. Detto da uno che si è inventato una vita pubblica e privata, come ormai noto e accertato, completamente falsa, sappiamo che cosa dobbiamo aspettarci. Mario Monti: la Merkel mi ha detto che vuole che vinca io. Ma la Cancelliera lo smentisce e smaschera l'ultima di una lunga serie di bugie (non mi candiderò mai, se si tocca l'Imu si muore, ecc...) e costringe il premier all'ennesima retromarcia con la coda tra le gambe. Pier Luigi Bersani: la lettera con cui Berlusconi si impegna a restituire l'Imu è una truffa. Truffaldina è invece la notizia, falsa, che lui spaccia per vera (confezionata da un sindacalista di Genova) su vecchiette in coda fuori dagli uffici postali che pretendono da subito il maltolto. Ma c'è di più. C'è un altro furbetto che si candida a governarci. È Nichi Vendola, fotografato al tavolo in compagnia di amici del cuore, tra i quale anche il magistrato che lo ha assolto in un processo molto delicato. Ricordate? Era in prima fila a puntare il dito contro Roberto Formigoni finito sotto accusa per frequentazioni private incompatibili con l'indipendenza del ruolo pubblico. Chissà chi ha pagato il conto del pranzo di Vendola, ma sappiamo: quando ci sono di mezzo comunisti e magistrati nessuno fa domande né tantomeno apre inchieste. Un condonato che odia i condoni, un mitomane che promette trasparenza e verità, un bugiardo patentato, uno «spacciatore» di notizie false e un amico intimo di un magistrato che lo giudica, vorrebbero il nostro voto per cambiare, magari tutti e quattro insieme, il Paese in meglio. Sai che affare. Forse questi quattro mascalzoncelli pensano che noi liberali siamo un branco di fessi che si fanno incantare in campagna elettorale sapendo che saranno poi presi a bastonate per cinque anni. Siamo in tempo a dire no. Alessandro Sallusti

L'Italia giusta del Pd e quella che sale della Lista Civica con Monti; il patto del parlamentare sottoscritto dai candidati del Pdl; il valore all'ambiente, alle donne, all'Italia, al lavoro, alle persone, alla vita dell'Udc; il coraggio e il programma di tutti, e le idee di ciascuno, della Rivoluzione Civile di Ingroia; il benaugurante saluto rivolto da Vendola a sé e al suo movimento ("Benvenuta sinistra"); l'impegno ad agire, per evitare il peggio, di Oscar Giannino ("Fare per fermare il declino"). Sono le parole ufficiali con cui la campagna elettorale delle diverse forze politiche prova a far breccia nei cuori, diffidenti o induriti, dei milioni di elettori ancora indecisi sulla casella da barrare nel segreto dell'urna. Non dicono molto, o almeno non più di tanto. A fare la differenza il resto e il contesto, la politica come interfaccia e partecipazione. Agorà, empatia, riuso. Mi sembrano queste, assai più di quelle suggerite dalle proposte ufficiali, le parole guida all'interpretazione della campagna elettorale più fluida e atipica dal primo dopoguerra. All'indomani della conclusione della Grande Guerra sono stati soprattutto i grandi comizi nelle piazze la novità più vistosa del confronto elettorale, mentre gli esponenti dei vari partiti percorrevano i loro collegi spostandosi in camion o in auto e prendendo con sé i potenziali elettori. I comizi sono ora tornati, ma alle piazze e alle strade di un tempo si sono intanto affiancate le affollatissime autostrade informatiche in un'inedita miscela di vecchio e di nuovo. Sembra essere proprio un'originale alleanza fra passato e presente la chiave giusta per decifrare simboli e segni di una contesa giudicata da molti, un po' superficialmente, grossolana o bruttina. In un manifesto elettorale di Rivoluzione Civile il profilo (colorato in rosso) del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, riprodotto nel logo, convive con il cancelletto dell'hashtag e il calembour: "#VotoFutile/#VotoUtile"; la prima parte del messaggio fa da didascalia a una foto di Monti e Bersani che si stringono la mano, la seconda al volto atteggiato a serietà e compostezza di Ingroia. Una buona riuscita in termini di creatività, come lo slogan del Pd ("Sleghiamoci. Dalla Lombardia si cambia l'Italia") a sostegno della candidatura di Umberto Ambrosoli a governatore della Lombardia. Ma il punto vero, dicevo, è una per nulla scontata solidarietà fra vecchio e nuovo. L'agorà è la piazza reale, riportata in auge dallo Tsunami Tour dell'"urlatore" Grillo, ma anche quella virtuale accarezzata da tutti i partiti e i candidati, andati nel frattempo a scuola da Obama. Nei tradizionali comizi il leader occupa per intero la scena, dettando comportamenti e programmi; oggi però, un attimo dopo essere stata pronunciata, ogni frase o parola di un suo discorso viaggia attraverso i social network e fa rapidamente il giro del mondo. Registrata, trasmessa agli amici di Twitter o di Facebook, ripetuta di bocca virtuale in bocca virtuale come un mantra, trasforma le comunità di internauti in un potente strumento collettivo di controllo. È il fast-checking. Smaschera l'avversario se dice fandonie, se fa una dichiarazione incauta, se si lascia sorprendere in un commento furbo o interessato. All'autore del misfatto non resta che la smentita, la più immediata e indolore possibile. L'agorà reale si lega così a quella virtuale quasi in un patto di sangue. Chi assiste a un comizio (ma anche a un evento al chiuso, in un teatro o un auditorium) può liberamente filmare quel che vede e che sente e, altrettanto liberamente, scaricarlo in rete; al tribunale virtuale il compito di giudicare e, se è il caso, censurare. L'empatia è da tempo familiare alla politica spettacolo, gregaria di una comunicazione che ha sostituito la capacità di argomentare dei rappresentanti della Prima Repubblica con l'appeal dei modi, degli abiti, dei comportamenti. Ma se l'empatia in sé, con l'embrayage e il populismo mediatico che ne armano il braccio, non è certo una novità sul panorama politico, sono invece per molti versi nuove le modalità e le azioni con cui questa campagna elettorale l'ha fatta propria. Le prime sposano l'amichevolezza di un tweet con la rapidità e l'efficacia di uno slogan: se voglio cogliere nel segno, e so di poter disporre di non più di 140 caratteri, devo calarmi nei panni di un perfetto copywriter o affidarmi a uno spin doctor che lo impersoni per me. Le seconde, come nelle più classiche delle strategie di advertising, caricano storie e testimonianze, oggetti e soggetti di un valore simbolico: il carlino Puggy e la randagia Vittoria di Berlusconi, la cagnolina Trozzy (poi ribattezzata Empatia, per gli amici Empy) affidata da Irene Bignardi a un Monti imbarazzato, il gatto (nero) di casa Bersani e quello (Arturo) un tempo posseduto da Giannino, il cucciolo (Braciola) fotografato su una poltroncina della sede di Sinistra ecologia e libertà, e acciambellato sulla bandiera del movimento, sono icone di consumo come l'omino della Michelin o l'ippopotamo della Lines. Qui la scuola è ancora americana: il fido Bo, un cão de água portoghese, che Obama lascia scorrazzare alla Casa Bianca da quando la occupa; Barney, l'adorato scottish terrier di Bush, pianto recentemente (e pubblicamente) dall'ex-presidente. Anche il riuso, nella competizione politica, non è certo una novità. La Dc, che nel 1946 si era affidata a slogan come "Dio, patria, famiglia, vota per la Democrazia Cristiana", nel 1958 avrebbe esortato a "Votare Dc / votare per la Dc / lo scudo dipinto di blu / lo devi votare anche tu". Palinsesti e riscritture, rifacimenti e parodie raggiungono però in questa campagna elettorale, per qualità e quantità, livelli sorprendenti. Sul sito di Rivoluzione Civile campeggia, al momento in cui scrivo, un volto mostruoso che unisce due mezze facce: la prima è di Grillo, la seconda di Berlusconi (lo slogan: "Sulla magistratura Grillo come Berlusconi"). Tanti i precedenti, dalla locandina di un film del 1997 diretto da John Woo (Face/Off) alle copertine del fumetto nero di un'antieroina (Satanik) degli anni Sessanta e Settanta. Proprio i sostenitori di Ingroia, recuperando anche alcuni dei supereroi (i Fantastici Quattro) di una fortunata rivisitazione ironica dei candidati alle primarie del Pd, hanno massicciamente attinto ai personaggi di fumetti e cartoni animati: "1.500 euro di rincari per famiglia. Ci sono rimasto di pietra. Cosa disoccupato"; "Basta con questi mostri che ammorbano le istituzioni. Dylan Dog, lavoratore a progetto"; "Lavorare fino a 70 anni? No grazie. Brontolo, 60 anni, minatore"; "Voglio la scuola pubblica e laica. Mafalda studentessa"; "Il nucleare fa male. Meglio le rinnovabili. Homer, 40 anni, resp. sicurezza"; "Chi ha tolto l'articolo 18 non merita nemmeno l'inferno. Ken Shiro dipendente palestre Hokuto"; "Servizi, sport, verde, centri sociali nei quartieri popolari. Gruppo TNT, collettivo politico"; "Prendiamo a martellate mafia e corruzione. Thor, 25 anni, militante antimafia"; "Voglio un piano di sostegno per l'agricoltura. Nonna Papera, 75 anni, contadina". Lo stesso Pd non si è dimostrato da meno, con i Trecento Spartani a dargli una mano. Sul loro sito, a sostegno dell'Italia giusta del candidato premier, un'iconcina di Batman/Bersani, con tanto di sigaro in bocca, sovrasta quelle dei cinque "cattivi di Gotham City": Monti/Mr. Freeze, Grillo/Penguin, Giannino/Enigmista, Ingroia/Double Face e Berlusconi/Joker. Un interessante esempio di convergenza fra il vecchio e il nuovo all'insegna della boutade o dello sberleffo consiste nel manipolare parole e immagini alla maniera della vecchia contropolitica che negli anni Cinquanta e Sessanta, con le azioni di sabotaggio culturale antiborghese dei situazionisti, praticava il culture jamming. Ne avevamo avuto una ghiotta anticipazione nell'occasione delle politiche del 2001, con i finti poster di Forza Italia e i manifesti del Cavaliere goliardicamente ritoccati, integrati o riscritti, ma nulla al confronto con i taroccamenti di questa campagna elettorale. Prodotte perlopiù dal popolo della rete, le rivisitazioni parodiche di slogan, messaggi, programmi elettorali non risparmiano nessuno: la "Scelta civica con Monti per l'Italia" e "L'Italia che sale" diventano "Scelta cinica con Monti per i tagli" e "L'Italia for sale" (o "L'Italia al salasso"); l'"Italia giusta" di Bersani si trasforma in un'"Italia guasta", la "Rivoluzione civile Ingroia" in "Rivoluzione grafica Ingoia"; "Benvenuta sinistra. Sinistra ecologia e libertà con Vendola" lascia inalterata l'apertura ma modifica il resto e, con esso, il contesto figurativo: le facce sorridenti degli uomini e delle donne dei manifesti originali lasciano il posto ora a un deserto abitato da due uomini e un cane ("Benvenuta sinistra. Ci eravamo allontanati, c'è ancora qualcuno? Sinistra deserto libertà"), ora all'interno di una bottiglia di acqua minerale in cui, come nella pubblicità del marchio, una particella di sodio s'interroga spaesata sulla presenza di eventuali suoi simili ("Benvenuta sinistra. C'è nessunoooooooo? Sodio ecologia libertà"). Più che Vota Antonio, insomma, Svuota Antonio. Per poi riempire il contenitore dell'avversario politico con l'acqua tirata al proprio mulino. E, alla fine, aggiungervi l'effervescenza di tante belle bollicine. Massimo Arcangeli.

LOGO Impresa Oggi - 22 febbraio 2013



Tratto da

1

www.impresaoggi.com