Non c’è un momento migliore di oggi per leggere l’ultimo libro di Luca Ricolfi, La Sfida, Feltrinelli Ed. Ricolfi tenta un doppio sforzo: da un lato compie un esame della situazione politica attuale. Dall’altro offre una via d’uscita ai partiti e all’opinione pubblica. Il senso del libro è cambiare totalmente l'approccio metodologico rispetto a quello adottato finora. Fino a oggi, dice Ricolfi, si è tentato di “diagnosticare il male, per poi somministrare la cura”. Cioè identificare le cause della scarsa produttività, bassa crescita, eccetera, e suggerire politiche che avrebbero potuto rimuoverle. Al contrario, prosegue, occorre partire dal fondo; cioè interrogarsi non più sulla “migliore diagnosi” ma sulla “migliore terapia”. In breve, i problemi italiani hanno trovato diverse letture (diagnosi). Per semplificare: la destra ritiene che il carico fiscale sia responsabile della bassa crescita, e quindi propone di tagliare le tasse anche al costo di ridurre i servizi. Al contrario, la sinistra ha messo nel mirino le disuguaglianze, e si è dunque impegnata a offrire migliori servizi pubblici a costo di aumentare le tasse. Sullo sfondo, due convitati ingombranti: l’evasione fiscale, che la sinistra ha individuato come nemico pubblico numero uno ma la destra ha in qualche modo difeso per timore che la lotta al sommerso possa tradursi in un aumento della pressione fiscale; e gli sprechi della spesa pubblica, che la destra vorrebbe aggredire ma che la sinistra ha tutelato per paura di mettere in discussione il primato della politica sull’economia. Poiché queste diagnosi sono incompatibili tra di loro, in quanto fissano obiettivi strategici diversi, anche le terapie derivanti da ciascuna finiscono per apparire incompatibili. Aver mantenuto il conflitto politico sui “principi primi” (libertà contro uguaglianza) ha impedito, anche al governo Monti di avviare un confronto pragmatico sugli strumenti. In realtà destra e sinistra non sono state proprio così coerenti rispetto allo schema teorico. Dunque, argomenta Ricolfi, dobbiamo fare un passo laterale. Non esiste infatti una ragione per cui la lotta all’evasione debba essere incompatibile con la lotta agli sprechi. Il fatto è che legare la lotta agli sprechi alla riduzione delle tasse (come ha fatto la destra) e la lotta all’evasione all’erogazione dei servizi (come ha fatto la sinistra) ha prodotto incomunicabilità. La sfida consiste nell’impegnare destra e sinistra a cambiare occhiali: se si pensa alla lotta all’evasione come lo strumento per trovare risorse da destinare al taglio delle imposte, e la lotta agli sprechi come lo strumento per finanziare il welfare, è possibile trasformato il conflitto in potenziale cooperazione. Guardando le cose in modo diverso, si può superare l’ostacolo che per vent’anni ha paralizzato la politica italiana. Il presupposto del ragionamento di Ricolfi è che, almeno nel medio termine, né la pressione fiscale né la spesa pubblica (come aggregati) vadano intaccati. Devono essere, entrambe, redistribuite al loro interno: il peso delle tasse va redistribuito dai contribuenti leali agli evasori, il beneficio della spesa pubblica dagli “sprechi” allo Stato sociale. Ricolfi si mostra ottimista sul futuro dell'Italia perchè, sostiene, il potenziale di miglioramento è elevato; rispetto ad altri paesi che hanno già applicato le migliori pratiche l'Italia, con le sue innefficienze, viscosità burocratica, ritardi tecnologici ha ampi spazi di manovra per migliorare. Ricolfi ha scoperto la pietra filosofale della politica italiana? E' interessante la critica alla teoria di Ricolfi sviluppata da Carlo Stagnaro sul portale dell'Istituto Bruno Leoni. Secondo Stagnaro ci sono tre ragioni di scetticismo. La prima è che, a dispetto delle premesse iniziali, la terapia di Ricolfi deriva da una diagnosi. Anzichè interrogarsi sulle cause economiche e scatenanti del declino, Ricolfi indaga sulle cause politiche e predisponenti. Ma il suo retropensiero – enunciare un’analisi di per sé razionale e condivisibile porterà a sciogliere i nodi – è purtroppo viziato dal fatto che la political economy del declino non viene portata alle estreme conseguenze. Ricolfi è un illuminista: assume un punto di vista “terzo”, lo enuncia, e confida che questo basterà a convincere i partiti. Invece non è così: i partiti si sono comportati in un certo modo non perchè fossero ignoranti o stupidi, ma perchè – dati i loro incentivi e i loro obiettivi – era perfettamente razionale fare così: Ricolfi sovrastima, per così dire, il tasso marginale di sostituzione tra gli elettori “cattivi” (evasori e fannulloni, rispettivamente) e quelli “buoni”. Se (stando all’analisi di Ricolfi) gli evasori votano destra, e i beneficiari della spesa pubblica improduttiva votano sinistra, è ovvio che destra e sinistra cerchino di accontentarli, a meno che, facendolo, non scontentino in misura più che proporzionale la restante parte della loro base elettorale. La seconda ragione per cui Ricolfi non appare del tutto convincente è che la diagnosi sottostante tiene fino a un certo punto. E’ probabilmente vero che, in assenza di vincoli, possono esservi buone ragioni per aumentare la spesa sociale. Ma, se anche questo obiettivo potesse essere raggiunto (e ciò è vero solo parzialmente) attraverso una ridistribuzione della spesa, vi sono pochi dubbi che la spesa pubblica debba scendere nel suo aggregato, per consentire alla tassazione di calare nel suo aggregato. Allo stesso modo, c’è un problema di composizione del prelievo fiscale (ed è abbastanza sorprendente che anche Ricolfi si unisca a quanti chiedono l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, quando è ovvio che mantenere l’attuale livello di tassazione sui patrimoni è la precondizione per ridurre, in qualunque scenario reaslitico, il prelievo sui redditi, che è la vera anomalia italiana). Ma c’è anche un tema non rinviabile legato al livello del prelievo. Le tasse vanno tagliate; e non si possono tagliare a parità di spesa. La terza ragione è che Ricolfi insiste nell’errore che lui stesso ammette (e che, per inciso, anche chi scrive confessa di commettere spesso e volentieri): guardare alla natura tecnica delle decisioni senza coglierne l’implicazione politica. Un esempio evidente è quello del debito pubblico. Ricolfi riconosce che esso rappresenta la maggiore ipoteca sullo sviluppo del paese e suggerisce di ridurlo attraverso politiche di privatizzazioni. Giusto. Ma la scelta se e cosa privatizzare non è mera questione contabile o amministrativa: è anche e soprattutto legata alla decisione, politicissima, su quale debba essere il confine tra lo Stato e il mercato. E poco importa se vi siano buone ragioni per ritenere che questa scelta politicissima possa essere risolta alla luce del pragmatismo: la larga maggioranza degli italiani, come dimostra il referendum sull’acqua, non la pensa così. Sicché, ancora una volta, la political economy affossa quello che la economic policy dà per scontato.
Impresa Oggi - 30aprile 2013
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