Le previsioni meteo e le fragilità contemporanee


La ragione è condannata a porsi degli interrogativi ai quali sa di non poter rispondere.
Immanuel Kant


E' stata tradotta recentemente in italiano la “storia culturale del clima”, dello storico tedesco Wolfgang Behringer (Storia culturale del clima. Dall’era glaciale al riscaldamento globale, Bollati Boringhieri, 2013). Una delle tesi principali dello studio è che “il tipo di reazione prodotta da variazioni anche molto piccole delle temperature medie e del livello delle precipitazioni è dipeso più dalla cultura umana, con i suoi modelli interpretativi, che non dai dati misurati”. A loro volta, le letture culturali dei cambiamenti meteoclimatici sono strettamente correlate a quanto essi incidono sulle società che li subiscono. Uno Stato dotato di strutture forti, di magazzini per conservare gli alimenti, di reti di comunicazione efficienti, o una comunità che padroneggi le tecniche agricole, hanno nei secoli affrontato meglio le avversità meteoclimatiche. Non solo: ne hanno fatto meno oggetto di miti, di vendette divine, di apocalissi globali, rispetto a civiltà più povere e più deboli. Perché, allora, oggi si enfatizza la catastroficità del mutamento climatico? Perché qualche grado centigrado in più o in meno, l’infittirsi di eventi meteo intensi diventano, nella percezione e nella comunicazione (che si alimentano a vicenda) catastrofi, nomi di dèi malefici, diavoli ecc., secondo modelli comunicativi e teorie apocalittici? Il recente incontro riminese ha fatto una specie di analisi microstorica del fenomeno, una sorta di “cronaca culturale del meteo”, per parafrasare il titolo del volume di Behringer. Non che il cambiamento climatico non sia ormai evidente o sia superfluo studiarne la componente causale antropica, ma resta da spiegare perchè civiltà assolutamente protette e securitarie come quelle contemporanee si mostrino emotivamente tanto fragili e dipendenti da bollettini meteo, a volte anche urlati e inattendibili, pure voci tese al marketing più che alla comunicazione scientificamente rigorosa, a come tendano a un’accentuazione mistica, basata sull’idea dei “peccati” contro l’ambiente. Argomentare è possibile, e molti spunti sono venuti dall’incontro di Rimini (Rimini, 21 giugno 2013, "“Previsioni meteo, cambiamenti climatici e turismo sulla riviera romagnola") solo apparentemente “laterali” rispetto all’oggetto, molto concreto, dell’incontro.
Un tempo, le famiglie che si sobbarcavano lunghissime code stradali su scomode automobili prive di aria condizionata, per trascorrere sulla Riviera romagnola i fatidici primi 15 giorni di agosto, erano – se non felici – almeno rassegnate alle peripezie dell’esodo e del controesodo, secondo l’orrenda perdurante terminologia dei media. Erano gli anni (i sessanta) in cui si paventava una prossima microglaciazione globale, l’esatto opposto del riscaldamento in atto. Oggi, il “week end lungo”, la notte di baldoria (bianca, rosa o di altro colore) non consentono ritardi, non prevedono imprevisti; non si ipotizza che vi possano essere cattive condizioni meteo. Eppure, sono sempre meno centrali il mare e la spiaggia, affiancati da altre componenti del “distretto del piacere” rivierasco: ristoranti e discoteche, acqua parchi e cicloturismo, acquisti e spettacoli. La contraddizione è solo apparente: quanto più la nostra vita si accelera nei ritmi e si artificializza, sia quella scandita dal tempo dell’andirivieni quotidiano casa-lavoro, sia quella dei giorni di svago, tanto più percepiamo gli effetti delle eccezionalità meteorologiche come intollerabili: vorremmo che anche le condizioni meteo fossero artificializzate, il mondo reso un The Truman show permanente; soprattutto quello delle brevi, nevrotiche, “produttive” vacanze. Ecco perché tanta ansia per le previsioni meteo, fino a farne dipendere la decisione rispetto al dilemma “vado, non vado”: non ammettendo che si possa godere del piacere, che so, di guardare la pioggia sul mare o di starsene in mezzo alle nubi in montagna. Il fatto, poi, che le previsioni meteo siano oggi decisamente molto più affidabili, paradossalmente ne aumenta la “pericolosità”: quando sbagliano, sono guai grossi, proprio perché molti vi fanno un cieco affidamento. Nell’epoca del dominio della tecnica, infine, è inconcepibile che il frutto di procedimenti scientifici (modelli matematici, radar, satelliti, complicati algoritmi e potenti calcolatori) sia un’informazione “valida al xy per cento”: cerchiamo certezze, conclusioni esatte. Su questo insieme di elementi fanno leva i commercianti di sicurezze a buon mercato, e anche di catastrofi annunciate (spesso mai accadute): un terreno fertile per il marketing che coltiva il circuito perverso tra percezione e comunicazione catastrofiche, generatore di tanti soldini, uno per ogni click.
La risposta, dunque, non può essere quella del semplice miglioramento della qualità delle previsioni, già molto precise, né solo una più diffusa competenza tecnico-scientifica. Questa, piuttosto, pare una ricaduta dell’obiettivo da perseguire: lo sviluppo di una nuova cultura del meteo, che da un lato stabilisca regole e criteri più stringenti per distinguere tra scienziati e maghi della pioggia, dall’altro sviluppi una sorta di strategia di adattamento culturale: le previsioni sono esatte “entro certi limiti”, e se non si può trasformare ogni persona in un meteorologo, non possiamo nemmeno trascurare il peso che assume la cultura dell’artificialità oggi dominante. Vi è una durezza oggettiva di questo processo, che richiede forse un ripensamento del modello maresole, peraltro già da tempo in atto, e l’accettazione del vero: l’età dell’incertezza è in certa misura irrimediabile e bisogna, appunto, adattarvisi. Anche quando si va in vacanza.

Mauro Bompani

Responsabile area comunicazione - Arpa Emilia-Romagna

LOGO ... Tratto da Ecoscienza 3/2013
17 settembre 2013


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