Il laboratorio Piramide sull'Himalya


E soprattutto è proprio esclusivamente dell’uomo l’accurata e laboriosa ricerca del vero.
Cicerone.


IERI. Nel 1988 un mio collaboratore mi organizza un incontro con un, allora giovanissimo, Agostino da Polenza, il quale mi racconta di un progetto grandioso, voluto dal prof. Ardito Desio nell'ambito del Comitato Ev-K2-CNR: costruire un laboratorio scientifico, a forma di piramide, a 5050 m nella valle del Khumbu sull'Himalaya. Inizialmente l'ipotesi era stata di realizzare l'impresa sul versante tibetano dell'Himalaya, ma dopo i fatti di piazza Tienanmen il Comitato aveva deciso che sarebbe stato più prudente realizzare il progetto sul versante nepalese. Il progetto aveva bisogno di sponsor e il Comitato aveva già la Alumix e la Siv che avrebbero finanziato la struttura in vetro alluminio e stavano cercando uno sponsor per l'elettrificazione del laboratorio. Si erano rivolti alla nostra impresa, Cise Spa, che era allora pioniere nella produzione di pannelli fotovoltaici ad altissima efficienza. Facemmo due conti e constatammo che per quel progetto di elettrificazione sarebbero occorsi poco meno di 800 milioni di lire, somma che non avremmo potuto permetterci. Io ero responsabile dei progetti tecnologici per l'estero (anche nell'ambito della cooperazione internazionale del Ministero Affari Esteri) e godevo di buone conoscenze. Mi misi in contatto con un dirigente dell'Enel - Direzione ricerche suggertendo che Enel avrebbe poturto fare da sponsor e che noi avremmo potuto implementare progetto e realizzazione; la proposta venne a lungo discussa da alcuni alti dirigenti dell'Enel e approvata. Il laboratorio d'alta quota, almeno nelle intenzioni, avrebbe potuto consentire alla comunità scientifica internazionale molteplici attività di ricerca dalle Scienze della terra (geologia, geodesia, geofisica, topografia), a quelle ambientali (idrochimica, chmica-fisica dell'alta atmosfera), a quelle biologiche (fisiologia, cardiologia, alimentazione, zoologia, botanica), a quelle umane (cultura delle popolazioni locali), a quelle tecnologiche (forme di energia, materiali) e alcuni ricercatori dell'Enel Direzione Ricerca manifestarono interesse a sviluppare qualche esperimento ad alta quota. La motivazione dell'Enel al finanziamento dell'opera nasceva non tanto dalla necessità di provare soluzioni nuove, quanto di sperimentare l'affidabilità dei sistemi elettrici in condizioni di esercizio estremamente severe, la loro capacità di risposta alle esigenze richieste da una piccola comunità di lavoro isolata e la loro potenziale modularità in vista di analoghe applicazioni per usi rurali e domestici da poter esportare in paesi in via di sviluppo.
La Piramide era stata progettata come luogo di lavoro e di soggiorno per una piccola comunità completamente autonoma; sarebbe stata una struttura di circa 187 metri quadrati di base e 8,5 metri di altezza, progettata per rispettare le proporzioni auree delle piramidi d'Egitto e prevista per sopportare spinte di vento fino a 150 Km/h e carichi accidentali sulle vetrate di 100Kg/mq. I locali erano distribuiti su tre livelli: al piano terra i laboratori di ricerca, al primo piano alloggi previsti per ospitare fino a 28 persone, il terzo livello destinato alle comunicazioni via radio e telefoniche via satellite. Per alimentare elettricamente tutto il complesso con energie rinnovabili la scelta non poteva non cadere su risorse idriche, sul sole e sul vento. Per questo motivo Cise, nell'ambito della mia direzione e sotto la responsabilità tecnica del dott. Zygmunt Fuhrman, che passava dalle scalate alle immersioni, mise a punto un sistema ibrido costituito da una microturbina idraulica Pelton da 10 kWe (che poteva sfruttare l'acqua di un torrente durante il periodo estivo), da un impianto a pannelli fotovoltaici ad alto rendimento da 3kWp, posti sulla parete sud della piramide, da un generatore mini eolico da 1,5kWe e da un pacco di batterie al piombo per l'accumulo. In ogni caso l'energia fornita dai pannelli fotovoltaici era sufficiente a coprire, nei periodi più rigidi, le sigenze della strumentazione scientifica e l'eventuale presenza di un piccolo numero di ricercatori. Il montaggio della Piramide a 5050 metri fu un'impresa titanica. Si partiva da Lukla, tramite elicottero per le parti più pesanti e ingombranti e tramite portatori nepalesi per i viveri e per le parti più delicate; coloro che sarebbero rimasti in quota per le costruzioni e gli assemblaggi strumentali dovevano procedere a piedi con i portatori e le guide per assuefare il fisico a quelle quote; la durata di questa "camminata" era di sei/sette gioprni. Ogni membro che non fosse uno scalatore provetto era stato sottoposto ad accuratissimi controlli medici. Un contributo importante per il montaggio della struttura fu apportato dai cosiddetti scoiattoli di Cortina che avevano accettato con gioia l'occasione offertagli. Ricordo che la Piramide fu inaugurata a Milano presso la Grande fiera d'aprile, del 1989, prima di essere smontata e trasferita a Kathmandu e poi al piccolo aeroporto di Lukla.

sherpa

Sherpa in azione


Giova notare che Cise mise a punto un progetto di elettrificazione ibrida modulare per le piccole comunità momtane del territorio nepalese e studiò con la Royal Academy of Sciences and Technologies nepalese la possibilità di creare un centro di formazione di tecnici per addestrare le comunità isolate all'uso di questi minisistemi ibridi; si trattava di una prima ricaduta umanitaria per il paese ospitante l'iniziativa.

Mi piace anche ricordare che dalla sua nascita la Piramide ha accolto un migliaio di scalatori sorpresi dalle terribili tormente dell'Himalaya che nel laboratorio hanno trovato un rifugio e spesso la salvezza.

cortina

Gli scoiattoli di Cortina durante i montaggi.


OGGI. Ultima, tra le sfide, quella di cambiare le batterie e i moduli fotovoltaici che alimentano il Laboratorio Piramide. Una missione che, per essere portata a termine, richiederà gli sforzi di centinaia di persone. Impegnate in un progetto chiamato Cobat EvK2Cnt-Top Recycling Mission, intrapreso dal Consorzio nazionale raccolta e riciclo (Cobat) e dal Comitato Ev-K2-Cnr. Un ente che, da oltre 25 anni, realizza progetti di ricerca scientifica e tecnologica in alta quota. Come quella che prenderà il via il 27 settembre da Kathmandu con il patrocinio del ministero dell’Ambiente. E terminerà il 14 ottobre con il ritorno in Italia della spedizione.
Diciotto, in totale, i giorni, utili per trasportare e installare i 120 moduli fotovoltaici nuovi, sviluppati su 66 metri quadrati, che forniranno 9 kWp alla Piramide e all’intero campo base. A seguire i lavori, un team di esperti che, dopo aver raggiunto Kathmandu, si metteranno in cammino a piedi tra i sentieri in terra battuta e sassi per raggiungere la Piramide. Invece i moduli fotovoltaici e gli accumulatori saranno portati in aereo da Kathmandu a Lukla (2.860 metri). Destinazione da cui saranno trasportati da più di cento portatori e da altrettanti yak fino ai 5.050 metri della Piramide. Per essere installati al posto dei moduli vecchi. Un’impresa che va ad aggiungersi ad altre esperienze memorabili fatte alla Piramide. Ad esempio, quella del 2002 quando il Cobat raggiunse il Laboratorio per recuperare oltre 3.500 kg di batterie al piombo esauste. E che adesso, a 11 anni di distanza, vede con la sostituzione dei moduli e dei pannelli fotovoltaici una nuova collaborazione tra i membri dell’EvK2Cnr e il Consorzio. «Abbiamo accolto la nuova sfida», spiega Giancarlo Morandi, presidente di Cobat, «per contribuire alla salvaguardia ecologica di questo paradiso naturale, simbolo di un ecosistema perfetto». Ecosistema perfetto, anche grazie al ruolo del Consorzio e alla sua gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti e la tutela del territorio. Scenografia della grande sfida, «.... il Laboratorio di ricerca ad alta quota voluto da Ardito Desio e realizzato nel 1989 da alcune aziende italiane, per lo studio dei cambiamenti climatici e ambientali, della medicina e della fisiologia umana in condizioni estreme, della geologia, della geofisica e dei fenomeni sismici. Sono passati 25 anni», racconta Agostino Da Polenza, presidente di EvK2CNR, «dalla decisione di alimentare con pannelli fotovoltaici il Laboratorio». Anche se, nel tempo la necessità di energia è parecchio cresciuta e con essa anche il numero di pannelli. «La quantità e la resa dei vecchi moduli fotovoltaici», prosegue Da Polenza, «ci consiglia la loro sostituzione. In più, quelli nuovi non solo garantiranno energia per un nuovo, lungo periodo, ma ci consentiranno di dimostrare che il nostro Paese è all’avanguardia nel campo del rispetto dell’ambiente».

GLI SHERPA
«Se li guardi camminare sui loro sentieri vedi l’armonia del loro movimento che segue il terreno senza sprecare una stilla di energia. Sassi, legni, radici, ciò che per noi è un ostacolo, per loro diventa un appoggio». Passi corti, cadenzati, con una respirazione perfetta che non va mai in ipossia. Il professor Paolo Cerretelli, che è stato docente di fisiologia alle università di Milano e Ginevra, ha effettuato test alla Piramide che hanno mostrato come uno sherpa, a 5 mila metri, perde il 17% della sua massima potenza aerobica, un maratoneta professionista il 26% e un umano di sana e robusta costituzione, che pratica attività sportiva regolare, il 40%. Gli altri a 5 mila metri non ci arrivano neanche. Gli sherpa, a vederli nelle strade trafficate di Kathmandu, sembrano esili, magri, piccoli. Sui sentieri a 4 mila metri, dove impiegano meno di una giornata per fare un tragitto che a un umano, per quanto sano e robusto, ne impiega tre, diventano una razza superiore. Spesso hanno una fascia che passa sulla fronte e regge una gerla con cui portano pesi che noi non riusciamo ad alzare da terra: anche 70 chilogrammi. Muoversi là sopra significa capire a fondo la natura, intuire in anticipo ciò che sta per accadere: nuvole, vento, neve, valanghe, più si sale di quota più non si può sbagliare passo. Gli sherpa di solito non sbagliano anche perché, a differenza di molti escursionisti occidentali, sanno quando è il momento di tornare indietro, di cedere il passo a montagne che possono scrollarsi di dosso chiunque nel giro di qualche secondo. Tenzing Chhottar Sherpa ha 27 anni ed è nato a Namche Bazar, capitale della valle del Khumbu, a 3.500 metri di quota. Un pomeriggio di un anno fa si trovava al Colle Sud, a 8 mila metri, ultimo campo sul versante sud del monte Everest. Fino a quella volta non era mai salito sopra i 6 mila e si trovava lì per provare ad aggiustare la stazione meteo del Cnr, che era stata installata nel 2011 ma aveva smesso di funzionare. Tenzing aveva fatto tardi e scendere al campo II, a 6.500 metri c’era vento forte e poche ore di luce. Per uno strano e fortunato caso al Colle Sud c’era anche suo fratello maggiore, impegnato come guida in una spedizione con quattro clienti americani. Offrì ospitalità in una delle loro tende a Tenzing. «Quando eravamo dentro bisognava urlare per riuscire a sentirsi a causa del vento. Mio fratello mi spiegò che lui, altri due sherpa e i quattro clienti si sarebbero mossi alle 2 di notte per salire alla cima. Poi disse, sorridendo: “Se ti senti bene, puoi venire anche tu”. Rimasi spiazzato, non avevo mai preso in esame l’idea di salire sull’Everest, ma la prospettiva di restare da solo in tenda al Colle Sud, di notte, con quel vento, mi spaventava quasi di più che non provare a salire sulla cima. Andai con loro». A uno sherpa succede anche questo: decide a 8 mila metri di quota, perché incontra suo fratello, di salire sull’Everest. «Sono andato su bene, usando l’ossigeno e tenendo il passo degli americani, che per fortuna andavano piano. Quando ero sulla cima ho visto che mancavano 30 metri al punto più alto e sapevo che ormai li avrei fatti di sicuro: ero felice, mi sono inginocchiato a pregare prima di fare gli ultimi passi». Quella notte, in quella stessa coda, a 8.500 metri sono morti in quattro: due canadesi, una cinese e un tedesco. Sono morti così, senza una ragione particolare: sono rimasti senza ossigeno, sfiniti dal freddo e dalla stanchezza. Succede spesso. Molti non capiscono quando è il momento di rinunciare, e restano là sopra. Pemba Ongchhu Sherpa è una guida, ha 30 anni, ed è salito sull’Everest cinque volte. Una senza usare l’ossigeno. «Non è stata una scelta», precisa. «A 8.200 metri mi si è rotta la maschera. All’inizio ho pensato di dover rinunciare e mi sono fermato. Poi ho visto che se rallentavo il passo potevo farcela e così sono arrivato alla cima». C’è un modo diverso di salire sull’Everest, e sulle altre vette, per gli sherpa e gli occidentali. E anche di morirci. Fin dall’inizio. Tanto per cominciare, questo popolo che vive da secoli sui due versanti dell’Himalaya non si sognava nemmeno di provare a scalare queste cime. Nella lingua sherpa non esiste neanche una parola per dire “vetta”: ogni montagna si chiama con il nome della divinità che la abita. L’Everest è Sagarmatha, «la dimora della dea madre della Terra». Gli sherpa sono profondamente buddisti, ma credono anche in una infinità di spiriti e demoni che secondo loro vivono nella valle del Khumbu e sulle montagne che la delimitano. Sanno salire in alta quota come nessun altro popolo al mondo, ma questa loro dote, prima che arrivassero le spedizioni inglesi alla fine dell’Ottocento, l’avevano messa a frutto solo per superare i passi a 6 mila metri di quota, come il Nangpa La, che separa il versante tibetano da quello nepalese. I sentieri nelle valli, più salgono verso l’alto, per raggiungere villaggi che stanno anche sopra i 5 mila metri, più sono costellati da chorten, stupa e altri piccoli templi, come a testimoniare la sacralità di una natura che domina l’uomo dall’alto e dove, per proseguire, si deve pregare. Everest, Lothse, Cho Oyu, Makalu, sono giganti da 8mila metri, che svettano nel cielo terso o si perdono nel buio delle nuvole, ma anche Pumori e Ama Dablan, che sono tra i sei e i settemila metri, incutono un timore reverenziale pure a chi non crede agli spiriti e ai demoni della valle. Sono cattedrali della natura che raggiungono il cielo dove, secondo gli sherpa, vivono gli dei. Le si ammira dai campi base a 5 mila metri, con il fiato già molto corto per la quota. Impossibile immaginare oggi il coraggio di gente come George Mallory che, arrivato di fronte all’Everest nel 1921, con giacca di tweed e pantaloni di fustagno, ha provato a salirci sopra. Uno dei primi che ha osato tanto è stato Kancha, che adesso ha 81 anni. È l’ultimo componente della spedizione del ’53 ancora vivo: quell’anno Edmund Hillary e Tenzing Norgay (lo sherpa che fece conoscere al mondo il suo popolo), il 29 maggio, giorno della salita al trono di Elisabetta II, raggiunsero per primi nella storia la vetta della montagna più alta del mondo. Kancha era uno dei portatori di alta quota e arrivò fino al Colle Sud. «Ero forte da giovane. Tenzing mi conosceva e sapeva quanto peso ero capace di portare senza stancarmi. Fu lui che disse agli inglesi di prendermi nella spedizione». Il business negli ultimi 20 anni, con il dilagare delle spedizioni alpinistiche del «turismo d’alta quota», come lo definisce Messner, ha profondamente alterato la vita nella valle del Khumbu. «I cambiamenti hanno comportato conforti materiali e per alcuni un notevole sviluppo economico», dice Ngawang Tenzing Zangbu, il rinpoche del monastero di Tengboche, massima autorità buddista della valle,«ma anche una perdita delle nostre tradizioni, della nostra cultura: la lingua, gli abiti, le cerimonie. Fortunatamente c’è chi ha capito la loro importanza e la difende». La valle però si è divisa in due, con la linea dei 5 mila metri a fare da confine, anche in rapporto alle tariffe dei portatori. Gli sherpa cercano ingaggi nelle ricche spedizioni alpinistiche degli stranieri che puntano alle cime e a fare il lavoro dei portatori, nella parte bassa del Khumbu (da 2.800 a 5 mila metri), vengono chiamati i contadini della pianura, che non sono sherpa, non sono acclimatati per queste altitudini, non hanno il loro passo e il mal di montagna spesso li stende. Alcuni per sempre. Sono pagati a peso: 400 rupie al giorno per un load, circa 20 kg. I portatori più forti ne portano anche tre, alcuni quattro.

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Suggestiva foto della Piramide di notte

LOGO ..... Eugenio Caruso - 10 ottobre 2013



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