Carlo Magno e la sua visione di un'Europa unita.


Platone afferma non esserci alcun re che non sia discendente da schiavi e nessuno schiavo che non sia discendente da re.
Seneca Lettere morali a Lucilio


In questo sito, abbiamo illustrato vita, caratteristiche e comportamenti di grandi personaggi della storia, come Cesare, Alessandro Magno, Marco Aurelio, Sun Tzu, Carlo V d'Asburgo, Nabucodonosor, Elisabetta I, quali figure emblematiche da tenere come modelli perchè riteniamo che coloro che hanno lasciato una traccia significativa nel corso della storia abbiano qualcosa da insegnarci, a tutti non solo agli imprenditori. Ugualmente ritengo doveroso prendere in considerazione la vita di Carlo Magno che, per la prima volta, tentò di dare un'organizzazione unitaria all'Europa, facendo leva sulla comunità della fede e dei modelli culturali. L'impero di Carlo Magno, infatti, era il mondo dei popoli cristiani, riuniti sotto un unico scettro, ma era anche un mondo unitario del pensiero, dell'amministrazione politica e civile, una versione nuova, inedita e squisitamente europea di ciò che era stato l'impero romano.

Nel dicembre del 753 all'ingresso del parco di un palazzo reale, a Ponthion sulle alture della Marna, il re dei franchi, Pipino di Heristal con la moglie Berta e i figli Carlomanno e Carlo (che in quel giorno ha poco più di 12 anni) sono in trepidante attesa per l'arrivo di un uomo. Verso mezzogiorno appare una fila di viaggiatori. Pipino scende da cavallo e si avvia solo, a piedi, incontro a un uomo gracile, vestito con un manto bianco, con in capo il petaso di feltro dei pellegrini e senza armi: è il papa Stefano II che ha attraversato le Alpi per chiedere l'aiuto dei franchi contro i "ritenuti" soprusi dei longobardi. Giunto di fronte al papa Pipino si inginocchia, prosternato umilmente a terra e con la testa bassa. Il papa gli tende la mano per farlo alzare e lo benedice. Carlo che era abituato a vedere gli altri inchinarsi davanti a suo padre scopre, per la prima volta, che la forza del potere può derivare da altri valori che non siano il coraggio, le imprese militari, il comando, le ricchezze e che il misterioso imperio di Roma aveva una preminenza maggiore di quella delle armi. Questa "rivelazione" influenzerà Carlo Magno e lo condizionerà, specie nella prima metà del suo regno. Questa sudditanza psicologica con l'invenzione da parte del papato della donazione di Costantino saranno le cause prime dell'impossibilità della formazione di un regno d'Italia, come stava lentamente accadendo con la dominazione longobarda. Stefano II veniva dai franchi per consacrare il nuovo re in cambio del riconoscimento dei suoi diritti sulle terre bizantine in Italia, una sorta di eredità immaginaria dell'impero d'occidente. Tutti alla corte di Pipino andavano dicendo che i longobardi non rispettavano Cristo e ciò sembrava a Carlo un'infamità. Il papa, che rappresentava Cristo in terra, era venuto a lamentarsi di questa ingiuria e a chiedere ai franchi il soccorso delle armi e Carlo, che era stato educato al principio della legge delle armi, era invaso, probabilmente, da un moto d'orgoglio quando ascoltava i cavalieri parlare di una spedizione in Italia e la madre Berta sollecitare il marito verso questa soluzione. Nell'aprile 754, a Quienzy fu firmato un trattato tra Pipino e il papa per condurre una guerra contro i longobardi; nel santuario di San Dionigi, Pipino ricevette dal papa l'unzione che lo consacrava Re dei franchi e patrizio dei romani; la regina Berta, Carlo e Carlomanno, nell'ordine si sottoposero al medesimo rito dell'unzione. Il papa intimò al popolo franco, sotto pena di scomunica, di non scegliersi mai un re appartenente a stirpe diversa da quella di Pipino (detta i pipinidi), che la Chiesa aveva consacrato. A Pipino, nominato difensore di San Pietro e dei suoi diritti, spettava il dovere di indurre i nemici della chiesa a restituirle Ravenna e le altre terre e città usurpate dal re longobardo Astolfo. Pipino giurò solennemente sui vangeli. Pochi si resero conto che con quel giuramento Pipino aveva posto le basi per la nascita dello Stato pontificio che sarebbe durato più di mille anni. Pipino fece un paio di spedizioni contro i longobardi, spedizionì che non servirono a raggiungere il risultato che il papa si attendeva. Le spedizioni in Italia avevano sempre il limite dell'incompletezza dovuta all'impazienza per il ritorno. La nobiltà che sosteneva Pipino non amava indugiare a lungo in terre lontane; inoltre essa aveva espresso malumori e reticenze dovute anche al fatto che esistevano legami ancestrali tra i longobardi e i franchi che erano più pronti al richiamo della tradizione e delle radici che alle suggestioni di Roma.
Carlo nacque, probabilmente, il 2 aprile 742, primogenito di Pipino il Breve (714 - 768), primo dei re Carolingi. Difficile stabilire con esattezza la data di nascita del futuro Imperatore: Eginardo, infatti, suo biografo di corte nel Vita Karoli ce ne propone tre: 742, 743 o 744, ma la gli storici sono più propensi a credere che fosse il 742. Sempre da Eginardo sappiamo che Carlo, a 17 anni, partì, con il padre per la sua prima spedizione di guerra. Le prime campagne furono in Aquitania, all'assedio di Bourges e nell'incendio di Clermont; Carlo si mostrò subito guerriero intrepido, di grande vigore nel combattimento, rapido nelle decisioni e sicuro nel comando, molto diverso dal fratello Carlomanno. Carlo aveva due amori: il cavallo e la spada. I cavalli li voleva bellissimi, di colore scuro, arditi e robusti. Spesso cambiò cavallo, ma mai la spada. Gliel'aveva cinta al fianco il padre quando aveva quindici anni e non se ne separò mai. Era la daga corta dei franchi celebre per tempra e maneggevolezza. Tutti i cavalieri davano un nome alla loro spada, famosa la Durlindana di Orlando, quella di Carlo si chiamava "Spada di Francia". Carlo aveva molte virtù, che andarono rafforzandosi con gli anni. La prima fu quella di sapere inserirsi nel procedere del suo tempo a mano a mano che andava snodandosi nel giro degli anni e degli eventi. Ecco le gesta militari, ecco le passioni culturali, ecco le grandi amicizie, ecco il traguardo di una società unificata e ordinata. Aveva la capacità di intendere le occasioni, che è propria dei grandi personaggi che stiamo tratteggiando nel portale IMPRESA OGGI, i quali più che precorritori della storia ne sono gli interpreti. Non si stancò mai di perseguire un obiettivo anche se la strada era accidentata e di lungo percorso come per l'interminabile guerra di Sassonia.
Alla morte di Pipino il Breve, nel 768, i suoi due figli Carlo e Carlomanno si spartirono l'eredità. Al primo andarono l'Austrasia (il più potente dei quattro ducati principali al tempo dei re merovingi, con capitale Reims), gran parte della Neustria e la metà nord-occidentale dell'Aquitania, con capitale Aquisgrana (ossia il nord e l'occidente della Francia più la bassa valle del Reno), mentre al secondo spettarono la Borgogna, la Provenza, la Gotia, l'Alsazia, l'Alamagna, e la parte sud-orientale dell'Aquitania, con capitale Samoussy (cioè il sud e l'Oriente della Francia più l'alta valle del Reno).

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Neustria e Austrasia al tempo di Carlo Magno


Carlo cinse la corona di Re nella cattedrale di Noyon, mentre Carlomanno riceveva una corona separata nella città di Soissons. La madre Berta aveva galoppato dall'una all'altra capitale per legare con la sua presenaza quel simbolo di unità che oramai si trovava solo nella sua matrice di madre. Assunto al trono, Carlo si trovò subito a dover affrontare alcuni problemi acuiti dalla morte di Pipino: la spinta alla secessione da parte dell'Aquitania, la ribellione di Tassilone in Baviera, le contese con i sassoni, le incursioni dei saraceni, le richieste di intervento da parte del papa, le indecisioni del fratello. Carlo mostrò subito una caratteristica importante del suo carattere. Le prime decisioni furono, infatti, orientate a una grande cautela, sia nell'intento di ammorbidire i contrasti, sia di convincere i nobili della corte di porre su di lui la loro fiducia. Si era reso conto che senza collaboratori convinti e fedeli non si va da nessuna parte . Le prime due decisioni furono: uno, chiedere al nuovo papa, Stefano III, il permesso di lasciare la moglie Imiltrude (dalla quale aveva avuto un figlio, Pipino il gobbo) e sposare la figlia di Desiderio, Re dei longobardi, Ermengarda, in cambio dell'amicizia con i franchi, Desiderio avrebbe restituito al papa le terre controverse, due, piegare la rivolta in Aquitania unendo le sue forze con quelle di Carlomanno. Il papa rispose in modo furioso e arrogante alla richiesta di Carlo ma la sua lettera arrivò quando Carlo aveva già accolto Ermengarda come sposa, nel dicembre del 770; ma se la tenne accanto per poco, ai primi di maggio partì per la spedizione contro gli aquitani, mentre il fratello era titubante sul da farsi. Quando Carlo tornò alla corte di Heristal ebbe conferma dai medici che Ermengarda era malaticcia e non avrebbe potuto avere figli. Carlo la ripudiò dopo un duro scontro con la madre Berta che era stata l'artefice dell'accordo matrimoniale; la rottura con la madre, ch'egli adorava, fu un duro colpo per Carlo, ma non per questo mutò il corso degli eventi. Desiderio non aveva ottemperato agli accordi stipulati ed era ancora più ostile avendo subito l'oltraggio del ripudio della figlia che era tornanta avvilita alla corte di Pavia. Nel maggio 771, Carlo, prima di regolare i conti con Desiderio decise di risolvere la questione Aquitania; impose al fratello i tempi e i modi del loro intervento. Ma Carlomanno non si mosse. Si mosse, allora, Carlo che invase gli stati del fratello, ma non vi furono nè scontri nè guerra fratricida; Carlomanno morì per una violenta polmonite il 4 dicembre 771 e Carlo si ritrovò a governare il regno dei franchi unificato. L'incoronazione avvenne nella cittadina di Noyon.
Il regno di Carlo Magno durò quarantasei anni e quarantasei anni di guerre. Fu una cavalcata che s'inoltrò in quasi mezzo secolo di storia. E anche questa dimensione del tempo appare stupefacente, miracolosa nel cuore di un'epoca in cui la vita aveva limiti assai fragili e il potere di un uomo si spezzava di frequente contro gli ostacoli del mondo, le epidemie, le congiure, le disfatte, gli errori.
Carlo si mostrò sempre accorto e prudente nello stabilire con precisione gli obiettivi di ogni spedizione, non lasciava nulla al caso o alla fortuna, non si lasciava trascinare dall'entusiasmo nella ricerca di traguardi impossibili. Aveva grandi doti di coraggio e le dimostrò, condivideva sempre con i soldati le difficoltà della guerra ed era amato da uomini che il coraggio l'avevano per mestiere. Carlo aveva raccolto i più arditi in un corpo speciale, la scara, formato da elementi scelti che in battaglia gli facevano da scudo ma che erano anche una riserva d'eccezione da buttare nella mischia quando le sorti del combattimento restavano indecise o piegavano al peggio. Orlando era uno di essi, giovani paladini fedelissimi a Carlo cui dovevano onori, carriera e benefici. Accanto alla scara Carlo aveva allevato un gruppo di esperti consiglieri, una sorta di stato maggiore, ai quali affidava, prima di ogni campagna, lo studio accurato della linea di marcia e d'azione, facendo tracciare le mappe del territorio da percorrere con rilievi sulle posizioni e sulle forze del nemico.

Campagne in Italia
All'inizio del 772, moriva Papa Stefano III. Al soglio pontificio venne eletto Papa Adriano I, un nobile romano dal carattere deciso e dalle idee decisamente anti-longobarde. L'elezione venne inutilmente contrastata dal partito filo-longobardo di Roma ma, alla fine, Desiderio inviò un'ambasceria a Roma per prendere contatto con il nuovo pontefice e sventare la minaccia di una nuova alleanza tra franchi e papato contro i longobardi.
Adriano I invitò gli ambasciatori nel Laterano e poi, davanti a tutta la curia, accusò il loro re di tradire i patti a causa della mancata consegna dei territori promessi ai predecessori del pontefice. Desiderio passò, allora, all'offensiva invadendo l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli. Carlo Magno, impegnato in quel momento contro i Sassoni, cercò la pace donando numerosi tesori a Desiderio e sperando di riottenere in cambio i territori strappati al papa. Il re longobardo rifiutò lo scambio e Carlo, che non poteva permettere che fosse appannato il suo prestigio come protettore del papato, mosse guerra ai longobardi e invase l'Italia nel 773.

astolfo

Il regno Longobardo al tempo di Astolfo.

Il grosso dell'esercito, comandato dal sovrano stesso, superò il passo del Moncenisio e attaccò le armate di Desiderio presso la città di Susa, nella battaglia delle Chiuse longobarde. In questa sua prima grande battaglia Carlo diede dimostrazione di essere un grande stratega; invece di investire il nemico all'imbocco della valle di Susa, fortemente presidiata, dopo aver consultato pastori, montanari e pellegrini, scelse un percorso alla destra della Dora, ritenuto finallora non transitabile sorprendendo i franchi alle loro spalle. Tra Giaveno e Avigliana i longobardi furono sbaragliati colti dalla sorpresa e dallo sgomento. La battaglia delle Chiuse segnò l'inizio della fine del regno longobardo. L'itinerario impossibile e vittorioso fu la scelta di Carlo, un suo lucido calcolo, un atto di intelligenza e di coraggio. Intanto un'altra armata franca, guidata dallo zio di Carlo, Bernardo, attraversò il Gran San Bernardo e ridiscese la Valle d'Aosta, puntando contro il secondo troncone dell'esercito longobardo, affidato ad Adelchi, figlio di Desiderio. Anche Adelchi fu sbaragliato e dovette ritirarsi a marce forzate mentre Desiderio si rinserrava nella capitale del regno, Pavia. I Franchi posero l'assedio alla città dall'ottobre del 773 sino all'inizio dell'anno successivo.
Carlo Magno si diresse a Roma per incontrare Adriano. Giunto in San Pietro, venne incoronato re dei Franchi e il pontefice ottenne in cambio la riconferma dei territori attribuiti in precedenza alla Chiesa da Pipino. Con il suo ingresso a Roma, Carlo, forse inconsapevolmente, era entrato in una nuova misura del suo tempo, con prospettive che travalicavano le guerre di confine con acquitani e sassoni. Adriano mostrò a Carlo le pergamene dei patti stipulati tra Pipino e Stefano, a Quierzy, la famosa promissio carisica di cui non è rimasta alcuna traccia. Furono firmati accordi di cui non sappiamo niente, perchè nessun documento è mai stato portato alla luce. Carlo, giurando sulla tomba di San Pietro, si sarebbe impegnato a riconoscere il potere temporale della Chiesa. Stranamente la scomparsa di questi documenti si accomuna con le imposture sulla leggendaria donazione di Costantino, la cui favola iniziò a circolare nel 777, tre anni dopo la visita di Carlo a Roma e il suo giuramento sulla tomba di San Pietro (la donazione di Costantino fu rivelata, secoli più tardi, come un falso storico grazie agli umanisti Niccolò Cusano e Lorenzo Valla). E' probabile che Carlo abbia confermato gli accordi presi, presumibilmente, da suo padre: in largo modo uno spaccato dell'Italia, dal Tirreno all'Adriatico attraverso una linea che va da Sarzana a Venezia, il che assicurava ai franchi tutti gli sbocchi delle Alpi e la parte migliore della pianura padana. Il resto al papa: con Ravenna, Ancona, l'Esarcato, la Pentapoli, la Tuscia, e il ducato romano. Nel 774, dopo la capitolazione di Pavia, Desiderio fu rinchiuso in un monastero, mentre il figlio Adelchi riparò presso la corte dell'imperatore bizantino Costantino V. A Verona i franchi trovarono Gerbera, la moglie di Carlomanno e i suoi due figli eredi legittimi di quel trono che Carlo aveva usurpato; secondo una prassi che Carlo adotterà costantemente con nemici o potenziali nemici, Gerbera e i figli furono rinchiusi in lontani monasteri. Conquistata l'Italia, Carlo mantenne le istituzioni, le leggi longobarde e confermò i possedimenti ai duchi che avevano servito il precedente re: il ducato di Benevento rimase indipendente ma tributario a Carlo Magno. Nel 787 Carlo liquidò l'ultima isola longobarda di Archi nel principato di Benevento e anche questa volta Carlo fu generoso con Adriano. Ogni concessione di nuovi territori erano ceduti con l'ambigua formula "a salvezza della mia anima".

Espansione carolingia
Carlo cercò di riconquistare agli arabi di al-Andalus (da questo toponimo arabo prenderà poi il nome la regione dell'Andalusia) almeno una parte della Spagna, al fine di realizzare un disegno già carezzato da suo nonno Carlo Martello dopo la sua vittoria di Poitiers, e da suo padre Pipino.
L'intervento di Carlo Magno nella Penisola iberica fu tutt'altro che trionfale, e non privo di momenti dolorosi e gravi rovesci. Innanzi tutto Carlo cercò di inserirsi quale mediatore tra i vari emiri aragonesi in lotta tra loro nel 778. Carlo non ebbe alcun aiuto dai cristiani del luogo vista la maggior convenienza di costoro di rimanere sotto la sovranità islamica, anziché cadere sotto il dominio del sovrano franco, la cui obbedienza al Papa romano avrebbe messo a rischio l'autonomia della Chiesa mozaraba, imponendo anche obblighi di non piccolo conto.
Celeberrimo è, poi, l'episodio della rotta di Roncisvalle, dove la retroguardia franca subì un'imboscata da parte di popolazioni locali (forse basche), da tempo cristianizzate ma spesso ribelli ai Franchi e gelose della loro autonomia, in seguito alla quale morì il conte Rolando (conosciuto anche con il nome di Orlando), conte palatino e duca della Marca di Bretagna e forse parente. L'episodio ebbe sicuramente una maggior valenza letteraria che storico-militare, ispirando uno dei passi più noti della successiva Chanson de Roland, uno dei testi epici fondamentale della letteratura medievale europea.
La sconfitta di Roncisvalle non fece diminuire l'impegno di Carlo nella difesa del confine iberico, di fondamentale importanza per impedire che le armate arabe dilagassero in Francia. Pertanto, per pacificare l'Aquitania, la trasformò nel 781 in un regno autonomo, al cui vertice pose il figlio Ludovico, di appena tre anni. Dopo la morte dell'emiro di Cordova (797) fu proprio Ludovico, su ordine del padre, ad adoperarsi per estendere il dominio franco oltre confine e rendere sicuro il confine iberico, che successivamente raggiunse il fiume Ebro. Fu creata allora la Marca Hispanica, riconoscibile nell'odierna Catalogna, con capitale Barcellona: uno stato-cuscinetto, dotato di una relativa autonomia, posto a difesa dei confini meridionali della Francia da eventuali attacchi musulmani. All'inizio del IX secolo dunque, i franchi controllavano un regno compreso tra Barcellona (a occidente), la Bretagna e la Danimarca (a nord), l'Italia centrale (a sud), la Germania (a est): il domino europeo più ampio dai tempi dell'antico impero romano d'Occidente.

Campagne orientali
Carlo conduceva, ogni anno, i suoi soldati nell'avventura della guerra, per torridi giorni e umide notti, trascionandoli attraverso intemperie e pericoli lungo tutte le strade d'Europa. Non più le spedizioni di breve raggio degli avi, condotte per sedare rivolte all'interno delle provincie, Carlo portava la guerra oltre i confini per dare potenza e sicurezza al suo popolo. Nelle sue guerre vi era anche la fede; Carlo si sentiva portatore di giustizia e di riscatto. I popoli pagani vivevano nelle tenebre del male, meritavano castigo e redenzione e dovevano essere strappati al demonio con la forza della spada. Questo principio valeva soprattutto per i sassoni, che furono il nemico permanente, per quasi tutta la durata del suo regno. Una guerra giusta e santa. Lo spirito feroce delle crociate, che avrebbe avuto nei secoli successivi tanta parte nelle sorti del mondo, trovava sul Reno la sua spettacolare anticipazionre.
I sassoni erano una popolazione di origine germanica abitante nella zona a nord-est dell'Austrasia, oltre il Reno, nei bassi bacini del Weser e dell'Elba. Erano rimasti di credo pagano ed erano guerrieri arditi ed irrequieti; gli stessi imperatori romani avevano cercato inutilmente di assoggettarli come federati. Pipino il Breve era riuscito a contenerne la sete di saccheggio e a imporre loro un tributo annuo di alcune centinaia di cavalli. Nel 772 però rifiutarono il pagamento e ciò consentì a Carlo Magno di procedere all'invasione della Sassonia. La campagna di Sassonia venne sospesa durante l'invasione dell'Italia per essere ripresa con maggior vigore dopo il 774. L'esercito carolingio oltrepassò il Reno e, puntando verso nord, riuscì a sconfiggerli a più riprese e a distruggere l'irminsul, l'idolo pagano di questo popolo.
Nel 780 una nuova ribellione scoppiò nella regione e Carlo Magno, impegnato in Spagna nell'assedio di Saragozza, dovette accorrere in Sassonia per poter aver ragione dei rivoltosi. L'area venne smembrata in contee e ducati, che precedettero l'evangelizzazione della popolazione. I Sassoni, riuscirono in seguito a riunificare le varie tribù sotto la reggenza di Vitikindo, che fu la vera e propria anima della resistenza. Con il trascorrere degli anni la guerra in Sassonia divenne sempre più spietata, come possono esserlo solo le guerre di religione; per i sassoni l'avanzata del cristianesimo si accompagnava alla perdita della libertà, per i franchi la vittoria significava imporre la luce della verità nelle tenebre del paganesimo, e, avendo in odio le proprie radici pagane, raramente vi fu guerra più spietata. Nel corso del 785, la conquista procedette in modi sempre più repressivi, con la conversione forzata e la dispersione del popolo (soppressione di intere tribù e migrazione forzata). Lo stesso Carlo promulgò uno statuto d'occupazione chiamato Capitolare Sassone riassunto nella formula: "Cristianesimo o morte". Dopo l'ultima grande battaglia a Verden ben 4.500 sassoni prigionieri furono decapitati non avendo voluto accettare il battesimo. Creando fedeli in Cristo, Carlo Magno otteneva lo scopo di creare sudditi sottoposti al governatorato carolingio, che aveva come centri amministrativi diocesi e abbazie. La mazzata di Verden fu il punto risolutivo della guerra; il furore cristiano, una volta scatenato, disseminò il terrore dovunque. I franchi imperversavano in tutto il paese fino alla Danimarca e alla Frisia (il nord dell'Olanda), finchè la fiamma della rivolta non si spense, definitivamente. Lo stesso Vitichindo si arrese "pentito e pronto alla conversione". Giova notare che l'amico e confidente di Carlo, Alcuino, disapprovò il bagno di sangue messo in atto per la conversione della Sassonia. Quando l'Imperatore ordinò l'ultima deportazione, nell'804, oramai la Sassonia costituiva uno Stato nell'ambito del dominio franco, preconizzando il cuore della futura Germania.

Nel 780 la Baviera, una delle regioni più civili d'Europa, assunse al rango di ducato. A capo di questo dipartimento c'era il cugino di Carlo Magno, Tassilone.
Nello stesso anno della spedizione franca in Spagna, per sostenere la rivolta del governatore della Marca Superiore, Abd al-Raman, contro l'emiro di Cordova, Tassilone si associò il figlio con il medesimo titolo di duca. Carlo Magno, momentaneamente impegnato, fece finta di nulla ma nel 781 pretese dal cugino il rinnovo del giuramento di fedeltà a Worms. Vedendosi sempre più pressato dalle ingerenze di Carlo, il duca di Baviera chiese nel 787 la protezione di Papa Adriano I. Costui, non solo rifiutò un accordo, ma ribadì le pretese di Carlo. Nel 788 Carlo Magno gli mosse guerra scoprendo, tra l'altro, un'alleanza stipulata tra il cugino e l'ex re longobardo Adelchi che era frattanto riparato a Bisanzio. La Baviera venne annessa all'impero carolingio e Tassilone fu esautorato e rinchiuso in un monastero.

Campagna contro gli Avari
Dopo la liquidazione di Tassilone, l'Impero Carolingio si vedeva confinante, sia a nord che al confine con il Friuli, con una bellicosa popolazione, gli avari. Appartenenti alla grande famiglia delle popolazioni turco-mongoliche, come gli Unni, si erano organizzati attorno a un capo militare, il Khan e si erano stanziati nella pianura pannonica, più o meno l'odierna Ungheria. Essi assoggettarono i vari popoli slavi che stanziavano sul territorio, insieme agli appartenenti a un'etnia affine alla loro, i bulgari. Pur riconvertendosi all'allevamento e alla pastorizia, non rinunciavano ad effettuare ripetute sanguinose scorrerie ai confini del regno carolingio e dell'Impero Bizantino. La loro minaccia, con il tempo, andava riducendosi, ma la loro tesoreria di stato era colma di ricchezze accumulate dai sussidi che gli imperatori bizantini versavano nelle loro casse e perciò Carlo Magno cominciò a studiare a tavolino un'invasione della regione. Carlo aveva bisogno di una grande vittoria militare nella quale coinvolgere la nobiltà franca in modo che essa si rinsaldasse, sempre più, attorno a lui e, anche, per dare una dimostrazione di potenza all'impero bizantino, che, oramai, a fatica, riusciva a difendere i propri confini.
Vennero istituiti dei comandi militari alla frontiera come l'Ostmark (costituente la futura Austria), per meglio coordinare le manovre dell'esercito. Le truppe imperiali procedettero nel 791 all'invasione, percorrendo il Danubio da entrambe le sponde. L'esercito a nord, guidato personalmente dall'Imperatore poteva effettuare collegamenti, ricevere e dare rifornimenti ed eventualmente dare assistenza ai feriti a quello stanziatosi a sud e comandato dal figlio Pipino che muoveva dal Friuli, mediante la costruzione di un ponte di barche ed al trasporto merci mediante chiatte e barconi.
Sino all'autunno dello stesso anno, i Franchi penetrarono sin nelle vicinanze della capitale avara, il "Ring" ma dovettero riparare in Sassonia a causa della stagione avanzata che causava problemi di collegamento tra i reparti, rendendo difficili le comunicazioni ed inoltre impedendo nel periodo invernale di poter mantenere le cavalcature.
Le devastazioni compiute dai franchi, comunque, provocarono il malcontento tra i generali avari che uno dietro l'altro abbandonarono il loro Khan convertendosi al Cristianesimo. Nel 795, in seguito a massacri ancora più duri di quelli perpetrati contro i Sassoni, il regno avaro cadde come un castello di carte e i pochi superstiti degli avari si fusero con gli slavi. Carlo Magno, nonostante le ripetute rivolte protrattesi negli anni, non tornò mai personalmente nell'area, delegando il figlio Pipino a svolgere le operazioni militari. Giova ricordare che quando i franchi entrarono nel Ring degli avari vi trovarono un tesoro favoloso, tesoro che venne utilizzato da Carlo per la coctruzione di Aquisgrana.

Rapporti con il Papato
I re franchi si presentavano come naturali difensori della Chiesa cattolica, avendo restituito al pontefice ai tempi di Pipino quei territori dell'Esarcato di Ravenna e della Pentapoli che per concezione comune erano creduti appartenenti alla Chiesa. Carlo sapeva bene che al Papa importava soprattutto ritagliare un sicuro territorio di sua pertinenza in Italia Centrale, libero da altri poteri temporali, compreso quello bizantino.
La morte di Papa Stefano III, diede mano libera a Carlo Magno per invadere l'Italia e liberarla, definitivamente, dai Longobardi, appoggiando nei fatti, la politica del nuovo pontefice Adriano I. I rapporti tra l'Imperatore e il nuovo Papa, sono stati ricostruiti dalla letteratura delle missive epistolari che i due si scambiarono per oltre un ventennio. Molte volte, Adriano cercava di ottenere l'appoggio di Carlo riguardo alle frequenti beghe territoriali che minavano lo Stato Pontificio. Una lettera datata 790, contiene le lamentele del pontefice nei riguardi dell'arcivescovo ravennate, Leone, reo di avere sottratto alcune diocesi dell'Esarcato. Durante la sua terza visita a Roma nel 787, Carlo Magno venne raggiunto da un'ambasceria del Duca di Benevento, capeggiata dal figlio Grimoaldo. Lo stesso duca, Arichi, implorava l'Imperatore franco di non invadere il ducato minato dalle mire espansionistiche di Adriano I che intendeva così annettersi i territori a sud del Lazio. Carlo Magno in un primo momento mosse guerra al ducato di Benevento ma in seguito alla morte dello stesso Duca e del figlio, l'Imperatore si decise di liberare il secondogenito Romualdo e di reinsediarlo nel regno. Probabilmente Carlo, non voleva compromettere i precari equilibri nell'Italia meridionale. Papa Adriano I ne fu risentito che i rapporti tra i due si raffreddarono.
Alla morte del pontefice, nel 795, assunse la tiara papa Leone III che dovette immediatamente vedersela con la famiglia del defunto Adriano, che ne contestava l'elezione. La guerra sotterranea tra i Palatini e i nipoti dell'ex-pontefice scoppiò nel 799. Carlo Magno allora lo invitò a stretto giro di posta a Paderborn, sua residenza estiva in Vestfalia. Secondo alcuni storici è durante questi colloqui riservati che il re franco propose al papa di coronarlo imperatore essendo già, di fatto, padrone di gran parte dell'Europa. In cambio si prodigò per far cadere le accuse mosse al pontefice dalla nobiltà romana.
Immediatamente prima dell'incoronazione, nella settimana dei preparativi (nel dicembre dell'800) il re franco costituì un'assemblea composta da nobili franchi e vescovi per far conoscere le conclusioni della commissione d'inchiesta riguardo ai due ribelli romani, Pascale e Campolo. Ufficialmente la sua venuta a Roma aveva lo scopo di dipanare la questione tra il Papa e gli eredi di Adriano I, che accusavano il pontefice di essere assolutamente inadatto alla tiara pontificia, in quanto "uomo dissoluto". A questo proposito, Carlo convocò un concilio di vescovi che sentenziarono che il Papa era la massima autorità in materia di morale cristiana, così come di fede, e che nessuno poteva giudicarlo se non Dio: così gli fu richiesto di giurare la propria innocenza su di un Vangelo, cosa che Leone III fece. Al termine della seduta della commissione d'inchiesta, Pascale e Campolo vennero condannati a morte - pena in seguito commutata nell'esilio - e Leone III fu riconosciuto legittimo rappresentante del soglio pontificio.

Carlo Magno incoronato imperatore da papa Leone III
Nella messa di Natale del 25 dicembre 800 a Roma, nella basilica di San Pietro Carlo Magno fu da papa Leone III incoronato imperatore, titolo mai più usato in Occidente dopo la destituzione di Romolo Augustolo nel 476. Durante la cerimonia, papa Leone III unse il capo a Carlo Magno, richiamando la tradizione dei re biblici.
La Vita Karoli racconta di come Carlo non intendesse assumere il titolo di Imperatore dei Romani per non entrare in contrasto con l'Impero Romano d'Oriente, il cui sovrano deteneva il legittimo titolo di Imperatore dei Romani: per nessun motivo i bizantini avrebbero riconosciuto a un sovrano franco il titolo di imperatore. Sulla questione autorevoli studiosi, in primis Federico Chabod, hanno ricostruito magistralmente la vicenda, dimostrando come la versione di Eginardo rispondesse a precise esigenze di ordine politico, ben successive all'accaduto, e come essa fosse stata artatamente costruita per le esigenze che s'erano venute affermando. L'opera del biografo di Carlo fu infatti redatta fra l'814 e l'830, notevolmente in ritardo rispetto alle contestate modalità dell'incoronazione.
Inizialmente le cronache coeve concordavano sul fatto che Carlo fosse tutt'altro che sorpreso e contrario alla cerimonia. Sia gli Annales regni Francorum (o Annales Laurissenses maiores), sia il Liber Pontificalis riportano la cerimonia, parlando apertamente di festa, massimo consenso popolare ed evidente cordialità fra Carlo e Leone III, con ricchi doni portati dal sovrano franco alla chiesa romana (tra cui una "mensa d'argento").
Solo più tardi, verso l'811, nel tentativo di attenuare l'irritazione bizantina per il titolo imperiale concesso (che Costantinopoli giudicava usurpazione inaccettabile), i testi franchi (gli Annales Maximiani) introdussero quell'elemento di "rivisitazione del passato" che fece parlare della sorpresa e dell'irritazione di Carlo per una cerimonia d'incoronazione cui egli non aveva dato alcun'autorizzazione preventiva al Papa che a ciò l'aveva indirettamente forzato.
Il giorno della sua incoronazione, Carlo Magno si presentò in San Pietro tra due ali di folla, abbigliato alla romana (abbandonando il consueto costume franco che prevedeva di norma braghe di lino, mantello di pelliccia e stivali annodati a stringhe), con tanto di tunica bianca, e i calzari ai piedi.
Secondo il suo biografo Eginardo, papa Leone III, si sarebbe prostrato a terra - secondo l'uso bizantino della proskynesis - quasi in segno di adorazione (riferita ovviamente alla carica che l'imperatore rappresentava).
Per altri testimoni che si proclamarono oculari (ma sui quali sono stati avanzati parecchi logici dubbi), il pontefice, lo avrebbe denudato e unto con olio santo dalla testa ai piedi. L'acclamazione popolare (elemento non presente in tutte le fonti e forse spurio) sottolineò comunque l'antico diritto formale del popolo romano di eleggere l'imperatore. La cosa irritò non poco la nobiltà franca, che vide il "popolus Romanus" prevaricare le proprie prerogative, acclamando Carlo come "Carlo Augusto, grande e pacifico Imperatore dei Romani".
Occorre tuttavia ricordare come l'incoronazione a imperatore fosse per più d'un verso riconducibile alla volontà franca (già espressa all'epoca di Pipino) di riconoscere reale la falsa donazione di Costantino. In tale ottica, l'incoronazione del re franco a Imperatore sarebbe stato il corrispettivo per la legittimazione del potere temporale della Chiesa. Secondo alcuni storici, in effetti Carlo voleva il titolo imperiale, ma avrebbe preferito auto-incoronarsi, perché l'incoronazione da parte del papa rappresentava simbolicamente la subordinazione del potere imperiale a quello spirituale.

carlo

Carlo Magno incoronato imperatore da Leone III

Rapporti con Bisanzio
Negli ultimi anni del secolo l'antica nozione di impero andava sempre più concretizzandosi agli occhi di Carlo, anche come riflesso dei lontani bagliori di Bisanzio, dove regnava la basilissa Irene, della quale Carlo era, pur non avendola mai conosciuta, affascinato. Irene sapeva leggere e scrivere, parlava greco e latino, conosceva e leggeva poeti e filosofi, era circondata da pompe favolose e solenni e veniva venerata come una divinità. Davanti a questi racconti Carlo si colmava di stupore e curiosità.
Originaria di Atene, nel 768 Irene aveva sposato l'erede al trono di Bisanzio Leone, figlio dell'Imperatore Costantino V. Nel 775, alla morte di Costantino V, Leone divenne Imperatore con il nome di Leone IV e Irene di conseguenza divenne Imperatrice. Nel 776 Leone incoronò il figlio avuto da Irene, Costantino VI, coimperatore: ciò avvenne su istanza dell'esercito, che avrebbe insistito allo scopo di non avere problemi di successione. Alla morte di Leone IV (780), gli succedette il figlio Costantino VI e la reggenza venne assunta dalla madre Irene, avendo Costantino all'epoca nove anni. Il trono fu subito minacciato dai cinque fratelli dell'Imperatore Leone IV: Niceforo, Cristoforo, Niceta, Antimo e Eudocimo. Essi erano delusi per il fatto che erano stati scavalcati nella successione dal nipote Costantino dopo essere stati illusi dalla nomina a Cesare o Nobilissimi. Essi dunque, dopo due mesi dall'ascesa di Costantino VI, si rivoltarono appoggiando le pretese di Niceforo al trono. La rivolta, a quanto pare appoggiata dagli iconoclasti, fallì e Irene punì i cinque cognati costringendoli a farsi preti. Bisanzio dovette subire nel 781 l'attacco arabo-musulmano: con poco meno di 100.000 uomini, Harun al-Rashid marciò fino al Bosforo, giungendo a occupare la riva opposta a Costantinopoli. Irene affidò l'esercito al logoteta Stauracio e nel 781 lo mandò contro gli Arabi. Tuttavia, a causa di un tradimento, Stauracio venne fatto prigioniero dai Musulmani per poi essere riscattato da Irene, che non intendeva rinunciare al suo servizio. Una tregua fu concordata dalle parti e Irene acconsentì al versamento dell'equivalente di 90.000 dinar aurei a Baghdad, ottenendo in cambio la liberazione dei prigionieri caduti in mano musulmana, mentre venivano liberati per converso quelli musulmani presi dai bizantini. Successivamente Irene inviò il fido Logoteta contro gli Slavi, e Stauracio riuscì a conquistare alcuni territori nella Tracia.
Nel 784 Irene diede inizio al suo piano per abolire l'iconoclastia. Convinse il patriarca Paolo a dimettersi (31 agosto 784) e lo sostituì con uno fedele a lei, Tarasio (25 dicembre 784). Appena eletto, il nuovo patriarca iniziò subito a fare i preparativi per un nuovo concilio che avrebbe condannato l'iconoclastia. Nel 787 dunque si tenne il settimo Concilio Ecumenico a Nicea, che condannò l'iconoclastia, affermando che le icone potevano essere venerate ma non adorate, e scomunicò gli iconoclasti, ripristinando il culto delle immagini sacre. Alla base della tesi del Concilio stava l'idea che l'immagine è strumento che conduce chi ne fruisce dalla materia di cui essa è composta all'idea che essa rappresenta. Si finiva, in definitiva, per riprendere l'idea di una funzione didattica delle immagini che era stata già sviluppata dai padri della chiesa. Il non aver invitato una delegazione franca pesò molto sui rapporti con Carlo Magno, che decise di non tener conto degli esiti del concilio. Nel 787 Irene stipulò un'alleanza con Carlo Magno e progettò il matrimonio tra la figlia di questi, Rotrude, e suo figlio, ma successivamente Irene ruppe l'accordo - si disse perché timorosa che Carlo Magno avrebbe spinto Costantino VI a svincolarsi dalla tutela materna - e costrinse Costantino a sposare la figlia di un piccolo nobile bizantino. Nonostante Costantino VI avesse raggiunto la maggiore età, Irene continuava ad amministrare al suo posto gli affari di stato, cosa che Costantino non accettava più. Dando la colpa di ciò a Stauracio, nel 790 Costantino ordì una congiura contro di lui ma Irene riuscì a soffocare la congiura e fece arrestare il figlio. Irene tentò quindi di convincere l'esercito a legittimarle il potere assoluto sullo stato (anche se Costantino VI, nei piani di Irene, sarebbe rimasto comunque coimperatore) costringendolo a giurare «Finché tu vivrai, noi non riconosceremo tuo figlio come imperatore», ma pur ottenendo l'appoggio delle truppe della capitale, l'opposizione delle truppe anatoliche (favorevoli all'iconoclastia e dunque a Costantino VI) le impedì la realizzazione dei suoi piani; infatti esse nominarono unico imperatore Costantino VI (ottobre 790) costringendo l'ambiziosa imperatrice ad abbandonare il palazzo imperiale e a ritirarsi nel Palazzo di Eleuterio.
Due anni dopo tuttavia, grazie all'appoggio dei suoi partigiani, Irene riuscì di nuovo a ottenere il titolo di imperatrice, regnando insieme al figlio. In un momento in cui Costantino VI era estremamente impopolare, Irene ne approfittò per deporlo conscia che non avrebbe trovato opposizioni. Il 17 luglio 797 si tentò di tendere un agguato al basileus per assassinarlo, ma Costantino riuscì a sfuggire e trovò rifugio in Asia Minore, dove avrebbe potuto contare dell'appoggio delle truppe anatoliche. Irene vedendo che i suoi complici esitavano e la popolazione era favorevole a Costantino decise di giocare la sua ultima carta minacciando molti dei cortigiani che si erano compromessi con lei a rivelare a Costantino la loro intenzione di tradirlo se non l'avessero aiutata. Viste le minacce, i congiurati decisero di aiutare Irene: Costantino VI venne portato a forza a Costantinopoli, detronizzato e accecato (15 agosto 797). Irene continuò a governare come unica imperatrice. Essendo la prima imperatrice bizantina ad essere imperatrice regnante e non imperatrice consorte, assunse il titolo di basileus (imperatore/re) al posto di quello di basilissa (imperatrice/regina). Per non perdere popolarità Irene mitigò l'imposizione fiscale, abolendo la tassa cittadina a Costantinopoli (che era molto alta), riducendo i dazi che i mercanti erano tenuti a pagare nei porti di Costantinopoli e favorendo i monasteri, che appoggiavano la sua politica. Questa politica fiscale, pur garantendole popolarità, danneggiò il sistema erariale bizantino. Irene dovette affrontare il problema della successione al trono, che alla sua morte sarebbe rimasto vacante: dei figli di Costantino VI, l'unico maschio ancora in vita era nato dopo l'accecamento del sovrano e dunque era considerato bastardo e in quanto tale impossibilitato a succedere a Irene. I due eunuchi che consigliavano Irene, Stauracio ed Ezio, si contesero la successione, ambendo entrambi a porre sul trono di Bisanzio uno dei loro parenti. Ezio e Stauracio erano acerrimi nemici e ognuno cercava di provocare la caduta in disgrazia dell'altro, con intrighi vari.
Il fatto che il trono "romano" fosse occupato da una donna spinse il papa a considerare il trono "romano" vacante, nominando "Imperatore dei Romani" il re dei Franchi e dei Longobardi Carlo Magno; il giorno di natale dell'800 non fu ben accolto dall'Impero d'Oriente che tuttavia non aveva i mezzi per intervenire. Nell'802 Carlo Magno tentò di risolvere il problema inviando dei messi a Costantinopoli per proporre a Irene di sposarlo in modo da «riunificare l'Oriente e l'Occidente». Tuttavia le negoziazioni non andarono a buon fine perché nello stesso anno l'Imperatrice Irene fu detronizzata da una congiura che pose sul trono Niceforo I.

Rapporti con l'Islam
Con la qualifica di Imperatore, Carlo Magno intrattenne rapporti con tutti i sovrani europei ed orientali. Nonostante le sue mire espansionistiche nella marca spagnola, e il conseguente appoggio ai governatori rivoltosi al giogo dell'emirato di Cordova di al-Andalus, tessé una serie di importanti relazioni con il mondo musulmano. Corrispose addirittura con il lontano califfo di Baghdad Harun al-Rashid, al quale chiese gli fosse concessa la protezione del Santo Sepolcro di Gesù a Gerusalemme e sulle carovane di pellegrini che vi si recavano. Il califfo, che vedeva in lui un possibile antagonista dei suoi nemici Omayyadi di al-Andalus e di Bisanzio, rispose positivamente alla richiesta anche se - con evidente ironia - gli concesse quell'onore, ma solo su un piano formale. Non mancarono comunque missioni diplomatiche dall'una e dall'altra parte, agevolate da un intermediario ebreo - Isacco - che, come traduttore per conto dei due inviati, Landfried e Sigismondo, nonché per la sua "terzietà", ben si prestava allo scopo. I due sovrani si scambiarono così alcuni doni e, durante uno dei suoi molteplici viaggi in Italia, Carlo Magno ritirò a Pavia una scacchiera completa con pedine in avorio regalatagli dal califfo abbaside.
Ad Aquisgrana, l'Imperatore ospitava il regalo a cui teneva di più: si trattava di un elefante, di nome Abul-Abbas, donatogli (forse dietro sua stessa richiesta) dallo stesso califfo abbaside. Carlo lo considerava come un ospite straordinario, da trattare con tutti i riguardi: lo faceva tenere pulito, gli dava personalmente da mangiare e gli parlava. Probabilmente il clima gelido in cui il pachiderma era costretto a vivere lo fece deperire fino a condurlo alla morte per congestione. L'Imperatore ne pianse, ordinando tre giorni di lutto in tutto il regno.

Vecchiaia e successione
La prima stabilità che cerca l'uomo maturo è quella della dimora. Irene non era lontana dal vero quando dileggiava Carlo, paragonando il proprio scintillante palazzo imperiale con le sedi vaganti dei franchi, errabondi tra selve e forerste, di freddo castello in freddo castello. Ma la mancanza di una capitale e di una sede imperiale si faceva sentire man mano che la vita di Carlo si avviava verso la vecchiaia.
Tra la Mosa e il Reno andò a fermarsi la scelta di Carlo, quando decise di costruirsi una capitale; già da alcuni anni aveva messo l'occhio sul borgo di Aquisgrana, un antico posto militare romano dotato di terme. La scelta, una volta decisa, fu portata a compimento rapidamente. I lavori iniziarono nel 794, condotti di gran lena e con vasto impiego di mezzi. Già nel 796 il palazzo di Aquisgrana era in piedi e Carlo incominciò ad abitarlo come dimora fissa del suo governo. La salute malferma di Liutgarda, l'ultima moglie di Carlo, fece accelerare i lavori perchè la regina non aveva la forza di sopportare continui spostamenti di residenza. Anche l'immagine di Irene vi portò il suo contributo: quel gusto della grandezza come segno visibile di potenza che le descrizioni del palazzo di Bisanzio stimolavano ad emulare, era quasi un dovere per chi si considerava non più secondo ad alcuno sulla Terra. Con Aquisgrana si torna alla pietra e alla grandezza, dopo centinaia d'anni di squallore, di silenzio, di povertà, l'ombra dell'impero romano, scomparso da tre secoli, risaliva le Alpi e veniva a proiettarsi proprio dove una volta erano i suoi confini, nella lontana terra dei germani. Il palazzo di Aquisgrana era all'altezza delle intenzioni di Carlo. Lo era per la vastità delle sue dimensioni, per la ricchezza degli ambienti per l'armonia delle sue forme, per le colonne che ricordavano Roma e per i mosaici con l'impronta degli edifici bizantini. Carlo stava sui cantieri giorno e notte, quando alla luce delle torce si completava qualche opera. Girava con in mano le carte dei disegni, numeri e schemi, simile a un condottiero in battaglia quale sempre era stato. La regina Liutgarda gli stava al fianco raggiante nella sua gioventù, tutta presa dall'entusiasmo di parteciparte a quell'avventura. Nel palazzo erano predisposti gli appartamenti destinati agli ambasciatori: Sembrava un corteo di continue onoranze. Vennero ad Aquisgrana ambasciatori di Bisanzio, del califfo di Bagdad, dei re britannici, emiri arabi, capi scandinavi, bulgari, sassoni. Tutti portavano messaggi d'amicizia e doni; tutti con l'intento di ingraziarsi l'uomo ritenuto più potente della Terra.
Negli ultimi anni della sua vita, Carlo seppe dare anche un'impronta culturale al suo regno; ad Aquisgrana fu distillato un succo eccezionale di intelligenze. Non per caso erano state riunite le più fini menti d'Europa, inglesi, spagnoli, italiani, germanici, franchi, longobardi, un'associazione internazionale del pensiero più moderno e ardito del tempo, al fine di cristallizzare una dottrina senza frontiere che avesse nella sua matrice l'impronta universalistica dell'impero. Con Carlo Magno nasce per la prima volta il principio di un'Europa unita, libera da regionalismi e nazionalismi. Inoltre, quest'uomo che aveva passato tutta la sua vita tra guerre e violenze la terminò circondato da letterati, filosofi e poeti. Aveva fatto venire da Atene e Bisanzio una colonia di dotti greci e siriani cui aveva affidato il riordinamento dei vangeli, le sacre scritture erano il fondamento di tutto il sapere medioevale e Carlo si impose di purgarle da ogni errore.
Nell'810 Carlo conduce la sua ultima guerra; questa volta contro i normanni (dell'attuale Danimarca); questi avevano organizzato basi sicure per le loro scorrerie lungo le coste germaniche e franche, nei territori dell'Impero di Carlo. I normanni che Carlo non era mai riuscito a sconfiggere perchè non aveva mia voluto una flotta per combattere sui mari. Carlo si mosse con un esercito poderoso deciso a spazzarli dalla Danimarca; ma il capo dei normanni, Godfredo, venne assassinato dai suoi luogotenenti che inviarono ambasciatori a Carlo. Si stabilì che la frontiera tra Danimarca e Impero sarebbe stata la stretta penisola dello Jutland e che quel confine divenisse una barriera duratura che nessuno potesse attraversare nè per via di mare nè per via di terra. Acora oggi, la frontiera tra Danimarca e Germania è rimasta ferma su questa linea. Carlo si gloriò molto per questa vittoria ottenuta senza combattimenti e si rese definitivamente conto che il solo movimento di truppe franche mandava i nemici nel panico. Anche l'Impero bizantino non poteva più nulla se aveva dovuto cedere a Venezia, il più importante porto dell'Impero Franco, il monopolio dei traffici sulle rotte verso oriente. Solo dopo la morte del figlio Pipino e il riconoscimento formale da parte di Bisanzio del titolo di imperatore, allora Carlo, oramai stanco e solo, riconsegnò Venezia ai biazantini, d'altra parte si sapeva che Carlo non amava il mare. Il paesaggio degli affetti di Carlo si era del tutto diradato, sia di quelli familiari che delle amicizie. Era scomparso Adriano, era morto Alcuino, il suo grande maestro, confidente e amico; le mogli se n'erano tutte andate, come due figli, era morta la sorella Gisla, era morta la figlia Rotruda, era morta Irene e con lei, forse l'ultimo dei suoi sogni. Carlo era rimasto solo, la sua lunga vita aveva scavalcato la vita dei giovani. Nell'ultima dieta di Magonza, per la prima volta, non si parlò di guerre da intraprendere ma di pace; l'unica decisione militare fu l'incarico al governatore dell'alta Sassonia di eliminare i nidi di ribelli che ancora molestavano i presidi dei franchi.

Carlo Magno, seguendo la tradizione franca, non riteneva né fattibile né opportuno tenere unito un regno così vasto, per questo aveva previsto la spartizione del regno tra i suoi figli maschi alcuni anni prima della morte. I confini spettanti a ciascuno dei suoi tre figli legittimi dovevano essere i seguenti:
a Carlo la Neustria, l'Austrasia e parti della Baviera;
a Ludovico l'Aquitania, la Borgogna, la Linguadoca.
a Pipino il Regno d'Italia e la Provenza.
Sfortunatamente, Carlo e Pipino morirono improvvisamente e Carlo affiancò Ludovico al governo del regno nell'811, nominandolo unico erede. Nel corso della nomina di Ludovico non v'era alcun dignitario della Curia di Roma; il papa fu ignorato sia nella forma che nella sostanza. Fu Carlo in persona a porre la corona imperiale sul capo di Ludovico; Carlo che era stato il grande artefice della rinnovata potenza di Roma sarà lui stesso ad avviare quella lotta per il primato tra impero e papato che sarà una costante nei secoli futuri. Negli ultimi anni di vita Carlo Magno aveva ormai perso il vigore della giovinezza e, stanco nel fisico e nello spirito, si era votato alle pratiche religiose. Questa svolta sembrò poi segnare l'esperienza al governo di suo figlio Ludovico, detto appunto "il Pio". Carlo morì, il 28 gennaio dell'814 ad Aquisgrana e venne sepolto nella locale cattedrale. E' vero che, dopo la sua morte, per Carlo Magno cominciò l'era del mito e delle chanson de geste, ma giova anche ricordare che Carlo lasciò un'Europa unificata dalle sue leggi e dalla sua organizzazione del potere. Quando Carlo si affacciò alla ribalta della storia la vita degli uomini era dominata dal disordine, dall'incertezza, era in preda all'anarchia dei poteri, delle regole, delle interpretazioni della fede attraverso la molteplicità delle eresie. Carlo Magno mise ordine nel caos, cancellò le confusioni in cui si stava smarrendo il corso dell'alto medioevo, diede armonia a un mondo disarticolato. Nell'ordine e nell'organizzazione trovò lo strumento naturale del suo potere; aveva riempito quel deserto che da trecento anni la caduta dell'impero romano aveva lasciato alle sue spalle.

LOGO Eugenio Caruso - 9 dicembre 2013



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