Fiat - Crysler, l'opinione di Oscar Giannino.

Sono passate le prime giornate dal colpo di fine anno di Sergio Marchionne, dopo lo spumante si può iniziare a ragionare su alcune questioni di fondo che riguardano la “nuova” Chysler-Fiat. Tra i tanti, scegliamo per brevità almeno quattro nodi. Il primo è il giusto tributo a Marchionne. Dall’aldilà, Umberto Agnelli può esserne felice. E’ stato suo il merito primario, dell’arrivo a Torino di Marchionne, 10 anni fa. Altri tempi, altroché gli oltre 16,7 euro per titolo segnati ieri con un rialzo del 16%, aggiuntosi al più 53% del 2013. All’arrivo di Marchionne l’azienda era smarrita e catatonica, il titolo stava a 5,7. Cinque anni dopo, all’esplodere della crisi mondiale, Fiat era di nuovo sul ciglio del burrone, col titolo a 3 euro e mezzo. L’Avvocato Agnelli non era riuscito ad assorbire altri produttori europei quando l’azienda era leader in Europa, ricordate l’avventura con Citroen iniziata nel ’68 e finita nel nulla? Nessuno avrebbe immaginato 10 anni fa che Marchionne si sarebbe rivelato quello che è davvero. Non è un car guy, non è un ingegnere, non è un malato di scocche e motori, non ama neanche particolarmente la sua gente, freddo com’è. E’ tre altre cose. Un grande ottimizzatore finanziario. Un deal-man, nelle trattative tosto come un mastino. E ha entrature internazionali decisive. Queste tre qualità lo hanno portato a farsi scegliere nel 2009 da Obama come il salvatore di Chrysler al suo terzo default nella storia. E ad assumere il controllo totale di una Chrysler dimagrita e risanata, tornata all’utile dal 2010 e dal 2011 in grado di restituire al Tesoro americano integralmente i 7,6 miliardi di aiuti pubblici. Tutto ciò con un esborso minimo per Fiat. Dei 4,35 miliardi di dollari a cui è stata valutata la quota residua del 41,5% di Chrysler in mano al sindacato americano UAW, solo 1,75 verranno da Fiat. Senza dunque rendere necessaria alcuna manovra né sul capitale né sul debito, vista l’ingente liquidità che Marchionne ha sempre mantenuto per prudenza. Il resto, lo metterà la cassa di Chrysler stessa, tra dividendo straordinario e tre rate annuali. Tanto per dire, i tedeschi di Daimler pagarono 36 miliardi di dollari la Chrysler nel 1998, per poi scornarsi e svenderla. Marchionne ha dunque compiuto la sua missione. Storica, davvero. Fiat ha salvato Chrysler. E Chrysler ha salvato Fiat proiettandola nel mondo globale, come del resto nel 2009 lo stesso Marchionne disse in un’audizione al Parlamento italiano. Il secondo nodo sono i passi a venire del gruppo. Non sappiamo quanto fondata sia l’illazione del Financial Times, per la quale il prossimo piano triennale atteso in primavera sarà l’ultimo di Marchionne. Certo è che, vinta la battaglia finanziaria del controllo al minimo prezzo di Chrysler, a questo punto bisogna lavorare come matti sulle sinergie industriali. Molto più avanzate di quelle sinora realizzate, innestando motori Fiat su piattaforme Chrysler con restyling. Qui sorge un problemino finanziario, e uno di strategia. Finora in realtà gli impegni sul rispettivo debito assunti da Fiat, candidandosi a una Chrysler sorretta dal contribuente americano, hanno tenuto separate finanziariamente le due società. Molti limiti resterebbero anche ora che Fiat controlla il 100% della società USA. La cassa di Chrysler ammontava a circa 11,5 miliardi di dollari nell’ultima semestrale. Un po’ meno di 3 miliardi andranno al sindacato. A questo punto, tenere le due società separate con la più piccola – Fiat – che controlla la maggiore e oggi molto più dinamica, finanziariamente non ha molto senso. Un’operazione di fusione finanziaria vera ottimizzerebbe flussi di cassa, oneri del debito, investimenti. E consentirebbe, meglio se passando per il mercato – sorpresa! – l’ingresso di un nuovo partner internazionale. Necessario alla crescita mondiale. Non esce alcuna indiscrezione, da Torino o Detroit. Ma nel mondo finanziario – vedi la dura nota di Fitch oggi, che conferma il giudizio junk sui bonds Fiat – come degli osservatori dell’auto a cominciare da Automotive News, l’idea è che Marchionne potrebbe riservarci quest’ultima sorpresa. Perché – eccoci al terzo nodo – ne va della nuova missione del gruppo. Coi suoi 4,4 milioni di autoveicoli venduti nel 2012, Chrysler-Fiat sarebbe settima al mondo, lontanissima dai quasi 10 milioni di Toyota, gli oltre 9 di Volkswagen, e da General Motors, il trio di testa. Seguite da Nissan-Renault, Hyundai e Ford. Il gruppo guidato da Marchionne si colloca qui, sopravanzando di poco la Honda. Ma per recuperare il grandissimo gap sul mercato asiatico a cominciare da quello cinese, che da solo vale 18 milioni di auto solo per il 25% coperto da case domestiche, occorre un partner industriale-finanziario Non è un caso che l’indebolitissima francese PSA-Citroen, coperta di miliardi dallo Stato, abbia appena imbarcato al 25% del suo capitale i cinesi di Dongfeng, mentre GM l’abbandona, inguaiata com’è con la sua Opel europea. Mettiamocelo in testa: se davvero Chrysler-Fiat vuole arrivare in 3 anni ai 6 milioni di unità vendute, la sua missione a breve-medio è innanzitutto asiatica, non europea, vista la debolezza strutturale del mercato nel nostro continente, e che negli Usa le cose già marciano per il verso giusto ( nel terzo trimestre 2013 Chrysler negli States ha realizzato utili per 862 milioni di dollari, Fiat in Europa nel 2012 ha perso 700 milioni di euro, e se va bene saranno poco meno di 500 anche nel 2013). Ed eccoci al punto finale: l’Italia. Per il nostro malandato paese, che ha perso grandi imprese nei posti di spicco delle graduatorie mondiali, è motivo di brindare che Fiat sia oggi pienamente internazionalizzata. Ma per il sistema-Italia, al contempo, è un esito amaro. Fiat è infatti un’eccezione. Siamo in fondo alle graduatorie europee come investimenti diretti esteri nel nostro Paese. Ma in lusso, moda, alimentare ed altre eccellenze italiane, sono molto più numerosi i marchi storici di successo che vengono acquisiti da giganti stranieri, che possono offrire loro più forza finanziaria, più investimenti, migliori proiezioni commerciali nel mondo di quanto si possa fare dall’Italia Se guardiamo ai consumi, ieri abbiamo avuto i dati dell’auto di dicembre, con un modestissimo segno positivo, per la prima volta da inizio crisi. Ma con poco più di 1 milione e 300 mila auto vendute nel 2013, dal 2007 abbiamo perso quasi il 50% del mercato italiano, e più del 25% rispetto al 2011. Le follie pubbliche vigenti sull’auto – 30 diversi adempimenti amministrativi e 18 prelievi diversi per autoveicolo – impediscono di pensare a un recupero sul passato se non nell’orizzonte di 6-7 anni. E se guardiamo alla cosiddetta politica industriale – termine di cui diffidare sempre - non aver voluto e saputo per decenni aprire a costruttori in Italia diversi da Fiat ci vede oggi produrre in Italia 400mila auto, un quarto di quelle realizzate da stranieri in Spagna, mentre nel Regno Unito la sola Toyota ne assembla 3 milioni. Politica e sindacato italiani dovranno ora farsene una ragione. Chrysler-Fiat ha una sfida mondiale davanti a sé. E noi siamo un mercato debole e residuale. Non sappiamo se davvero il rilancio di Alfa Romeo 4 volte promesso da Marchionne ora arriverà davvero. Nel 2012 le 100 mila unità vendute erano pari a quanto Audi vendeva in 3 settimane. Se il marchio fosse stato ceduto ai tedeschi, oggi non avremmo il problema dei 5 stabilimenti italiani Fiat, costretti da questo mercato a regimi asfittici di cassa integrazione. Sarà duro per politica e sindacato immaginarlo: ma per il bene di Chrysler-Fiat è meglio produrre laddove nel mercato deve crescere, perché il mercato tira. Mentre l’Italia deve pensare a sé, se sarà capace di offrire tasse e relazioni industriali capaci di attirare altri grandi costruttori. Credere che Fiat restituisca in perdita oggi parte dei vantaggi che la politica le ha riservato per cent’anni, è una fesseria perché fesseria è stato darglieli.

LOGO tratto da leoniblog - 6 gennaio 2014




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