I passi della crisi 2008 - 2014. Parte XXII.


Le amicizie con gli onesti, con i sinceri, con chi ha esperienza sono vantaggiose. Sono dannose le amicizie con gli adulatori, con gli accomodanti, con le sirene.
Confucio


L’articolo è  il seguito di
.......................
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XII
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XIII
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XIV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVI
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XVIII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XIX
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XX
I passi della crisi 2008 - 2014 - Parte XXI

Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il primo quadrimestre del 2014,  l’analisi delle performance economico-finanziarie degli stati sovrani e delle più importanti imprese del pianeta, dall'inizio della crisi economica che ha colpito il pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi.



CAPROTTI LASCIA MA NON VENDE (1 gennaio 2014).
Un mese fa a Limito di Pioltello (Milano) nella sala riunioni al sesto piano della sede di Esselunga, Bernardo Caprotti, conversando con un ristrettissimo gruppo di persone, ha detto cose di importanza fondamentale per la sua vita e per l’azienda, notizie che nessuno ancora sapeva. E di altro, ripercorrendo alcune tappe decisive della sua vita, ha parlato in questi ultimi giorni con interlocutori a lui molto vicini. Dopo aver dato conto ieri della pioggia di donazioni (il Corriere ha visionato tutti gli atti direttamente all’Archivio notarile di Milano), ecco la ricostruzione di questi colloqui. La prima notizia è oggetto anche di una lettera firmata da Caprotti e indirizzata ai suoi collaboratori più stretti: l’imprenditore il 23 dicembre lascia tutte le deleghe operative in Esselunga, tutti i poteri di firma e i compensi. E smetterà di essere dipendente della sua azienda dopo 62 anni di lavoro continuativo (i primi anni alla Manifattura Caprotti, azienda tessile di famiglia). Insomma, in un certo senso va in pensione, a 88 anni. Quando nel 1965 prese la direzione della Supermarkets (poi Esselunga) c’erano 15 supermercati, oggi sono 144 con 6,8 miliardi di fatturato, 20mila dipendenti e bilanci ampiamente in utile (238 milioni nel 2012). Una cavalcata imprenditoriale che ha pochi paragoni in Italia. «Dopo molti mesi di assenza - scrive nella lettera - a seguito dell’infortunio occorsomi il 28 aprile, ho deciso da tempo di terminare, col 23 dicembre, la mia attività come lavoratore dipendente. Lascerò deleghe, poteri, compensi. Forse mi sentirò più leggero». È una svolta, sebbene rappresentare la proprietà, cioè sé stesso, abbia un certo peso (è e resta presidente della holding Supermarkets italiani). «A Dio piacendo - aggiunge - ci sarò e forse sarò anche più libero di fare quello che mi era sempre piaciuto: di andare per negozi e cantieri... Di non essere più subissato da montagne di carte e pratiche che mi imprigionano e mi impediscono. Forse ci vedremo di più e più liberamente». Ha confessato di non reggere più il ritmo del tempo pieno da mattina a sera, nonostante il vigore e la lucidità che anche i nemici (dentro e fuori la famiglia) gli riconoscono. Stessa «pasta» - si dice - di don Luigi Verzé, che conosceva bene. Uno più vicino alla fede, l’altro ai bilanci. La seconda notizia è stata sussurrata a chi gli chiedeva del futuro del gruppo e del contenzioso in tribunale con i due figli maggiori, Giuseppe e Violetta, che rivendicano la proprietà della maggioranza di Supermarkets Italiani. La successione è risolta, ha detto con tono deciso Caprotti. Come? C’è un testamento - queste le parole dell’imprenditore, secondo una ricostruzione attendibile -, tutto è sigillato in una busta custodita dal notaio Carlo Marchetti. Insomma, le sue volontà sono formalizzate. Succederà come nei film: apriranno la busta e... Il vecchio industriale, dicendolo, aveva l’aria di chi pagherebbe per esserci quel giorno lontano. Ma che cosa contiene la busta? Ovviamente è un mistero. Tuttavia, da quel che trapela, il patron di Esselunga avrebbe previsto nei dettagli la suddivisione patrimoniale: tutta la famiglia e tutti i figli (due dal primo matrimonio e Marina dal secondo) succedono. «Poi si arrangeranno...», avrebbe aggiunto con una certa rassegnazione, convinto di aver fatto il possibile per garantire l’integrità, la salute e il futuro del suo quarto figlio: Esselunga. L’azienda, secondo Caprotti, ha già una struttura di manager e governance che è una garanzia. E le voci di vendita che ogni tanto tornano? Non è in vendita, rimane in famiglia. Al momento. Se fosse in vendita - ha argomentato - lo sarebbe soltanto perché in Italia non si può più fare impresa. Certo sullo sfondo rimane l’incognita sull’azione giudiziaria civile promossa dai due figli. Uno snodo della vicenda, la miccia della guerra dei Caprotti, resta in ombra: perché nel febbraio 2011 il capofamiglia smontò il contratto fiduciario sul 100% di Supermarkets Italiani, «riprendendosi» il controllo? Lui l’avrebbe spiegata così: la governance era a rischio e con essa era a rischio l’azienda con i suoi 20mila dipendenti, per questo ha riafferrato le redini del gruppo, sebbene nessuno si fosse mai accorto che le avesse mollate. Sembra un’accusa ai figli, in particolare a Violetta, che avrebbero tramato con alcuni manager per cambiare l’assetto di vertice. Violetta, dal canto suo, non ha mai parlato. Chi silenziosamente ha scalato, gradino su gradino, il potere aziendale è la ex segretaria diventata dirigente Germana Chiodi, cui Caprotti ha donato 10 milioni in contanti. Si danno del «lei» da 40 anni, è una sorta di memoria storica del gruppo, una persona molto intelligente - l’ha descritta il «capo» con i suoi interlocutori - che conosce come pochissimi l’azienda in cui lavora e ha potere, certo, ma in senso positivo e attivo. Comunque sia, in Esselunga sta cominciando l’era del Dopo Caprotti.
FIAT HA IL 100% DI CHRYSLER (2 gennaio 2014).
La Fiat sale al 100% di Chrysler e diventa un «costruttore globale» di auto. Sergio Marchionne annuncia così l’intesa raggiunta con Veba per l’acquisizione del 41,5% che ancora mancava al Lingotto per completare il controllo. Il fondo sanitario del sindacato americano Uaw riceverà un corrispettivo complessivo, tra cash e erogazione straordinaria ai soci, pari a 3,65 miliardi di dollari. Una cifra migliore di quella inizialmente chiesta da Veba - 5 miliardi di dollari - in linea con le stime degli analisti. «Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler», sono le parole con cui il presidente di Fiat, John Elkann, commenta l’intesa, al termine di un lungo braccio di ferro. Un’operazione complessa, il cui closing è previsto entro il 20 gennaio, per la quale già nei giorni scorsi si erano diffuse indiscrezioni su una possibile intesa, ma che soltanto oggi è stata ufficializzata. L’intesa prevede una erogazione straordinaria che Chrysler pagherà a tutti i soci, per un totale pari a circa 1,9 miliardi di dollari. Fiat pagherà in cash, invece, l’altra parte, 1,75 miliardi di dollari, e lo farà utilizzando la liquidità disponibile: non è previsto infatti un aumento di capitale da parte del Lingotto, che quindi non chiederà risorse ai soci per salire al 100% del gruppo. Chrysler e il fondo sanitario Usa hanno inoltre concordato un memorandum d’Intesa, a integrazione dell’attuale contratto collettivo di Chrysler, nel quale sono previste ulteriori contribuzioni da parte di Chrysler a Veba per un importo complessivo pari a 700 milioni di dollari in quattro quote paritetiche pagabili su base annua. Il pagamento della prima quota avverrà in concomitanza con il closing dell’operazione con Fiat, mentre le tre rimanenti quote saranno versate nei tre anni successivi nel giorno dell’anniversario del pagamento della prima quota. «Nella vita di ogni grande organizzazione e delle sue persone ci sono momenti importanti, che finiscono nei libri di storia. L’accordo appena raggiunto con Veba è senza dubbio uno di questi momenti per Fiat e per Chrysler», sottolinea Marchionne, che si dice «per sempre grato al team di leadership per il sostegno e per il loro incessante impegno nel realizzare il progetto di integrazione che oggi assume la sua forma definitiva». «Il lavoro, l’impegno e i risultati raggiunti da Chrysler negli ultimi quattro anni e mezzo sono qualcosa di eccezionale», sottolinea John Elkann, che dà «il benvenuto a tutte le persone di Chrysler nella nuova realtà frutto dell’integrazione di Fiat e Chrysler». Soddisfatti anche i sindacati e gli enti locali. «L’accordo siglato in queste ore consentirà di procedere alla fusione e integrazione tra Fiat e Chrysler - commenta il segretario nazionale della Fim Cisl, Ferdinando Uliano - rendendo disponibili ulteriori risorse finanziarie utili per rilanciare tutti gli stabilimenti del Gruppo, con prospettive maggiormente positive per i lavoratori. Ora è indispensabile in tempi brevi procedere ad investire, come annunciato, negli stabilimenti italiani a partire da Mirafiori e Cassino». Il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, parla della giusta conclusione di scelte che abbiamo ritenuto oculate, che consistono nel guardare fuori dall’Italia. Questo conferma che è stata una scelta giusta. Per il sindaco di Torino, Piero Fassino, l’intesa »rafforza il ruolo di player globale« del gruppo». Una scelta strategica - dice - da cui ci attendiamo positive conseguenze anche per l’Italia e per Torino«. Le stesse auspicate dal presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, che chiede anche al governo di portare avanti nuove politiche fiscali e industriali per rilanciare l’intero settore. In questa occasione, Marchionne ha saputo essere un grande finanzierte, infatti, ha comperato la Khrysler con i soldi della Khrysler confermado la sua affermazione del 2010 la Fiat salva la Chrysler e la Khrysler salva la Fiat. Ora, per il rilancio delle due aziende dovrà dimostrare di esseere un grande manager industriale.

LO SPREAD SOTTO QUOTA 200 (3 gennaio 2013).
Lo spread tra il Btp e il Bund tedesco cala sotto la soglia psicologica dei 200 punti base (199) per la prima volta dal 6 luglio 2011. Il minimo toccato oggi arriva dopo settimane in discesa per il differenziale decennale. Il nuovo anno era partito con segnali incoraggianti. Ieri sul finire della seduta lo spread si era attestato a 203 , con il tasso di rendimento scivolato sotto il 4% (3,96%) per la prima volta da maggio scorso. Molto bene anche il differenziale della Spagna, col divario tra titoli decennali iberici e tedeschi a 203 punti base col rendimento dei Bonos giù al 3,96% e quindi in perfetta parità con l’Italia. Sui mercati azionari Piazza Affari (-0,20%) riesce a contenere le perdite grazie al boom di Fiat, che segna un rialzo del 16%, dopo aver rilevato il controllo totale di Chrysler, mentre il recupero dello spread non è stato sfruttato dai bancari: Unicredit ha chiuso con un modesto +0,09%, Intesa in calo dello 0,6%, Bp ha ceduto l’1,79% e Ubi l’1,94%. Insieme allo spread e a Fiat, l’altra buona notizia per l'Italia arriva dai dati sull’andamento del settore manifatturiero. Nell’Eurozona l’indice Pmi manifatturiero a dicembre è salito ai massimi da due anni e mezzo a 52,7 punti, segnando il livello più alto da giugno 2011, e quello relativo all’Italia ha visto un’accelerazione a 53,3 da 51,4 di novembre, appena dietro la Germania a 54,3 e davanti alla Francia, dove il comparto resta in contrazione, con un calo a 47 punti. La soglia dei 50 punti fa da spartiacque tra espansione e contrazione del ciclo. Le altre Piazze europee senza il turbo Fiat scontano invece pesantemente le prese di profitto e anche il rallentamento dell’attività manifatturiera in Cina, dove l’indice Pmi è sceso a dicembre a 51 punti, toccando i minimi degli ultimi quattro mesi. Nell’anno che si è appena concluso i mercati azionari europei hanno messo a segno un guadagno del 17% (Milano +16%), segnando il maggior rialzo dal 2009. Secondo i dati Bloomberg, nel 2013 a livello globale i mercati azionari hanno visto un aumento esponenziale di 9.600 miliardi di dollari.

Inflazione all'1,2% nel 2013 (4 gennaio 2014).
Nella media del 2013 il carrello della spesa degli italiani - cioè l'insieme dei prodotti ad alta frequenza di acquisto - ha mostrato una forte decelerazione, con il tasso di crescita dei prezzi che è sceso all'1,6 dal 4,3% del 2012. In forte rallentamento anche l'inflazione: il tasso medio per il 2013 è all'1,2%, nel 2012 era al 3%. Si tratta del dato più basso dalla media annua del 2009 quando il tasso era allo 0,9%. Lo rivela l'Istat che diffonde i dati provvisori sui prezzi al consumo. Nella media del 2013 si sono registrati rallentamenti nella crescita dei prezzi per quasi tutte le divisioni di spesa. Le decelerazioni più marcate riguardano i prezzi dei trasporti (+1,1%, da +6,5% del 2012), dell'abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+2,0%; era +7,1% il precedente anno), delle bevande alcoliche e tabacchi (+1,5%, da +5,9% del 2012) e dell'abbigliamento e calzature (+0,8%; era +2,6% nel 2012). Nel mese di dicembre - si legge - l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività, al lordo dei tabacchi, registra un aumento dello 0,2% rispetto al mese precedente e dello 0,7% nei confronti di dicembre 2012 (lo stesso valore di novembre). Il carrello della spesa, invece, a dicembre ha mostrato una crescita su base annua dell'1,3% e dello 0,5% su base mensile. A determinare la stabilità dell'inflazione sono, principalmente, l'accelerazione della crescita su base annua dei prezzi degli alimentari non lavorati, l'ulteriore riduzione della flessione di quelli dei beni energetici, il rallentamento della dinamica tendenziale dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti. L'aumento dei prezzi nel 2013 dell'1,2% vale in media, per una famiglia di tre persone, 419 euro. Lo calcola il Codacons sottolineando che la decelerazione dell'inflazione è legata ad un ''crollo dei consumi senza precedenti, che ha riguardato anche beni di prima necessità come gli alimentari''. Il costo della vita, sottolinea il Codacons, è aumentato di 257 euro per un single, 345 euro per una famiglia di 2 persone, 419 per una famiglia tipo di 3 persone e 462 per una di 4 componenti. Per i soli prodotti ad alta frequenza di acquisto, nella media del 2013 - si legge nella nota - il tasso di crescita dei prezzi dell'1,6% implica una maggior spesa di 223 euro per una famiglia di 3 persone.

Scontro Renzi - Fassina (6 gennaio 2015).
Matteo Renzi risponde a Fassina. E lo fa su Facebook, come è suo costume: «Meno di un mese fa tre milioni di italiani hanno chiesto al Pd coraggio, decisione, scelte forti», esordisce il neosegretario, commentando la decisione del viceministro all’Economia di rassegnare le dimissioni. «Noi rispondiamo agli elettori del Pd, non alle sue correnti. Se il viceministro all’Economia - in questi tempi di crisi - si dimette per una battuta, mi dispiace per lui. Se si dimette per motivi politici, grande rispetto: ce li spiegherà lui nel dettaglio alla direzione Pd già convocata per il prossimo 16 gennaio raccontandoci cosa pensa del governo, cosa pensa di aver fatto, dove pensa di aver fallito», argomenta il segretario. E ribadisce che il rimpasto non è una priorità per il governo né tantomeno per il Partito democratico «perché la preoccupazione del Pd sono gli italiani che non hanno un posto di lavoro, non i politici che si preoccupano di quale poltrona possa cambiare. Sono i problemi dell’Italia che interessano al mio Pd, non i problemi autoreferenziali del gruppo dirigente». L’economista di area dalemiana ha anche criticato i primi atti della gestione Renzi: «Stefano Fassina mi accusa di “avere una visione padronale del partito” - argomenta Renzi -. Non me ne ero accorto quando si trattava di confermare i capigruppo o di scegliere il presidente dell’assemblea o di tenere aperta la segreteria anche a persone non della maggioranza». Sulle battute nelle conferenze stampa invece aggiunge: «Non cambierò il tono dei miei incontri con la stampa. Mai. Non diventerò mai un grigio burocrate che non può scherzare, non può sorridere, non può fare una battuta. La vita è una cosa troppo bella per non essere presa con leggerezza».

Euro, borsa, spread , tutto falsato? (7 gennaio 2014).
Ridateci il mercato, quello vero. Quello di oggi è un’altra cosa, a cominciare dalla realtà che conosciamo meglio: quella europea. Il Trattato di Maastricht è arbitrario, fuorviante, ingiusto, ma intoccabile, inamendabile e provoca squilibri e ingiustizie a beneficio di un Paese, la Germania, e a detrimento di tutti gli altri. I meccanismi di compensazione tipici di un’economia di mercato tra Paesi esportatori e importatori, tra quelli deboli e quelli forti in questa Europa non funzionano, come ben documentato da Alberto Bagnai, nel suo notevole e chiarissimo saggio “Il tramonto dell’euro”. Ma evidenti anomalie riguardano anche altri ambiti. Siamo cresciuti – noi, veri democratici e veri liberali – pensando che un’economia di mercato le regole dovessero essere chiare e incentrate sul principio di responsabilità, sia degli imprenditori / banchieri (chi è bravo brilla e guadagna, chi sbaglia paga), sia delle istituzioni chiamate a tracciare i guard rail del mercato, dunque con uno stato di diritto riconoscibile, basato sulla sovranità nazionale all’interno dei singoli Paesi e su forme di cooperazione chiare e trasparenti a livello internazionale. Oggi invece organismi internazionali come il Fmi, la Banca Mondiale, il Financial Stability Forum, l’Ocse, il Comitato di Basilea, eccetera sono accomunati dal privilegio di non rispondere a nessuno (dunque sono sopra la legge!) ma di poter condizionare e sovente imporre la propria volontà sia ai Paesi che agli operatori economici. E’ un’aberrazione di cui pochi sono consapevoli e che nessuno contesta. Alle stesse logiche e violando ancora una volta il principio di responsabilità, rispondono le banche centrali che godono di un’immunità assoluta e che da qualche anno continuano a drogare i mercati finanziari, non solo rendendo le banche “too big to fail” (troppo grandi per fallire) ancor più sistemiche e ancor più intoccabili di prima, ma continuando a stampare moneta elettronica in quantità inamminaginali, denaro che viene letteralmente regalato alle banche per impedirle di fallire o usato per comprare arbitrariamente titoli di Stato di Paesi da doppia o tripla A che in realtà restano invenduti. Gli effetti devastanti sono, a mio giudizio, evidenti:
- Oggi nel mondo esistono dieci banche che non verranno mai lasciate fallire e dunque possono permettersi di commettere errori o frodi gigantesche, sapendo di rischiare al massimo una multa di alcune centinaia di milioni di dollari, talvolta anche di qualche miliardo, multe che fanno sensazione sui media, ma sono marginali rispetto ai volumi d’affari e non intaccano il potere, anzi lo strapotere degli istituti.
- Il sistema finananziario viene sostenuto con interventi artificiali, creando un’evidente asimmetria con gli altri settori economici. Nessuna industria è stata salvata, sussidiata, protetta come stanno facedo le Banche centrali nei confronti dei finanziari.
- Stampare moneta per quanto virtuale – la Fed ha iniettato 85 miliardi al mese che ora scendera no a 75 – può rappresentare una misura straordinaria, ma in realtà è diventata quasi sistemica. Ed è all’origine dell’altrimenti improbabile rialzo di Borsa degli ultimi due anni.
- Il giudizio delle agenzie di rating è falsato alla fonte per un’altra evidente asimmetria. Per anni tali istituti – privati e per nulla oggettivi – hanno chiuso gli occhi su certe pratiche (vedi i subprime) oggi si dimostrano sensibili alle pressioni dei Paesi più forti, e finiscono per applicare un doppio standard: implacabili con quelli deboli come l’Italia, comprensivi o distratti con quelli forti, come gli Usa.
Tutto questo rappresenta un’aperta violazione delle teorie e dell’esperienza empirica di grandi economisti, ma in un gioco degli specchi che permette di salvare l’apparenza. In fondo la Borsa è aperta e le contrattazioni dei Titoli di Stato sono quotidiane. Cos’è che non va? C’è tanto, perché le distorsioni avvengono alla fonte, agendo sulle regole, sulle normative che condizionano il mercato (come avviene con Maastricht, con un’Unione europea opaca e arbritraria, come fanno le banche centrali, il Fmi, eccetera). Stampare denaro e distribuirlo gratuitamente, ma non a tutti, solo al sistema bancario rappresenta poi la negazione plateale dei principi cardine di un’economia basata sul merito e sull’incrocio tra la domanda e l’offerta e istituzionalizza procedure e logiche degne più dell’Unione sovietica che di un’economia liberale. La manipolazione avviene dall’alto e costituisce – per chi ha la lucidità di vederlo – una delle modalità di gestione del potere in un’economia globalizzata. Manipolazione che impedisce al mercato di esercitare davvero liberamente e proficuamente la propria forza. Questo è il punto. Oggi avrebbero torto sia Keynes che Schumpeter che Von Hayeck che Einaudi. E forse, paradossalmente, ragione Giorgio Gaber quando cantava “il falso è tutto, tutto è falso”. Anche questo mercato… Anche questa Europa.
DA IL BLOG DI MARCELLO FOA - Impresa Oggi condivide queste opinioni.

Potere d'acquisto sempre in calo e crollo del valore degli immobili (10 gennaio 2014).
La crisi economica continua a mettere in difficoltà le famiglie italiane. I dati diffusi dall'Istat descrivono un paese in cui il potere d'acquisto è sempre più basso e i cittadini sono costretti a ridurre le spese per far quadrare i conti. Secondo il Codacons la situazione sarebbe anche peggiore di quanto riferito dall'istituto di statistica. Secondo l'Istat, nei primi nove mesi del 2013 il potere d'acquisto delle famiglie è calato dell'1,5% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. L'unica nota positiva è il leggero miglioramento che nel terzo trimestre 2013 si registra rispetto al trimestre precedente: il potere d'acquisto in questo caso è aumentato di un modesto 0,2%. La reazione delle famiglie è semplice: si taglia dove si può. Nel terzo trimestre 2013, dice l'Istat, i consumi dei nuclei famigliari si sono ridotti dello 0,7% rispetto allo stesso periodo del 2012. Anche in questo caso si registra un leggerissimo miglioramento rispetto al secondo trimestre dell'anno, con una ripresa dello 0,3%. "La realtà è, purtroppo, assai peggiore", sostiene il presidente del Codacons, Carlo Rienzi. "Le famiglie hanno subito un calo del potere d'acquisto almeno triplo rispetto a quello stimato dall'Istat: il 2013 si chiude con una perdita della capacità d'acquisto di circa il 5%, dato che si aggiunge al -4,8% registrato nel 2012". Secondo Adusbef e Federconsumatori, i dati Istat "confermano chiaramente la situazione di profonda crisi che l'intero Paese sta vivendo". Dal 2008 il potere d'acquisto delle famiglie è diminuito del -13,4%. Si tratta, affermano, di "una contrazione allarmante, che non può che riportare conseguenze disastrose sul fronte dei consumi".
Giova notare anche che nel corso del 2013 l'erario ha perso ben 730 milioni di mancate imposte sulla vendita di tabacco. Sono i calcoli della Fit, la Federazione Italiana Tabaccai, che denuncia un mercato in caduta libera a causa di contrabbando, crollo del potere d'acquisto, sigaretta elettronica e crisi economica. Negli ultimi 10 anni, si è registrata infatti una contrazione delle vendite di circa 21 milioni di chilogrammi, di cui oltre 10 milioni solo nel periodo 2011/2013.  "Il crollo delle vendite nuoce drammaticamente non solo alle casse dello Stato ma anche a quelle delle nostre tabaccherie" afferma Giovanni Risso, Presidente Nazionale della Federazione. Contrabbando, contraffazione, sigaretta elettronica e crisi economica sono i motivi che hanno procurato questa dura battuta d'arresto, spiega in una nota, in un settore in cui operano 56 mila aziende nelle quali operano quasi 150 mila lavoratori, più di 100 mila famiglie. Aziende che, sottolinea ancora la Fit, oggi si trovano a far fronte a oltre 100 milioni di euro di mancati incassi sotto forma di aggio che, a loro volta, avrebbero generato non meno di 30 milioni di imposte. "Sono dati ancor più allarmanti se letti alla luce della quantità di tabacchi venduti - continua Risso - Infatti, negli ultimi 10 anni, si è registrata una contrazione delle vendite di circa 21 milioni di chilogrammi, di cui oltre 10 milioni solo nel periodo 2011/2013". " quindi drammaticamente urgente - conclude il Presidente Nazionale della Federazione Italiana Tabaccai - avviare il tavolo delle trattative per l'aumento dell'aggio spettante alle tabaccherie, oggi duramente colpite da questa terribile battuta d'arresto". 
A rendere più cupo il panorama, continuano a calare i prezzi delle case. Nel terzo trimestre 2013 sono scesi dell'1,2% rispetto al trimestre precedente e del 5,3% nei confronti dello stesso periodo del 2012. Lo rileva l'Istat sulla base delle stime preliminari. La flessione congiunturale nel terzo trimestre è l'ottava consecutiva ed è di ampiezza doppia rispetto a quella rilevata nel secondo semestre (-1,2% contro -0,6%). Si tratta di un andamento che l'istituto di statistica ascrive in parte a fattori stagionali. Quanto alla diminuzione dei prezzi su base annua (la settima consecutiva), il valore del 5,3% è più contenuto di quello registrato nel trimestre precedente (-5,9%). Al calo congiunturale contribuiscono le diminuzioni dei prezzi sia delle abitazioni esistenti (-1,3%) sia di quelle nuove (-0,5%). Analogamente, la flessione su base annua è la sintesi della diminuzione dei prezzi sia delle abitazioni esistenti (-6,8%) sia di quelle di nuova costruzione (-2,0%).

Rilancio Alfa Romeo (13 gennaio 2013).
La prima giornata del Salone di Detroit 2014 inizia con le parole di Sergio Marchionne che spiegano il suo piano di rilancio per l’Alfa Romeo. «La sfida Alfa dipende essenzialmente dai mercati degli Stati Uniti e Cina nei quali esportare le Alfa prodotte in Italia». Per prodotto e strategia del marchio Alfa, come di tutti gli altri, aggiorna tutto a «dopo il consiglio del primo maggio» Il ritorno dell'Alfa a certi livelli passa per «modelli, pianali e architetture tipicamente Alfa e non derivati da Fiat. Sarebbe un peccato non sfruttare il nome e la tradizione del marchio». Sfruttando anche il know how Ferrari per i motori. Per l’amministratore delegato del gruppo , «ibride ed elettriche sono strategiche per il mercato americano. Dopo il 2015 proporremo una soluzione ibrida per Chrysler sviluppata con fornitori competenti (ndr acquisto di tecnologia da Bosch?). Per il mercato europeo non sembra oggi la soluzione ideale in particolare per i segmenti più piccoli che sono quelli apprezzati in Europa». Marchionne conferma poi che «su ogni 500 elettrica si perdono 14.000 dollari». L’Europa «paga ancora l’incertezza sul futuro». Ci «vorrà molto tempo perché il mercato europeo si riprenda. Nel 2014 avrà un segno positivo ma ridotto. La vera ripartenza, che dipende anche dagli altri mercati, non sarà prima del 2015». «Per il lancio dei nuovi prodotti sono al lavoro in sedi non ufficiali ingegneri e non designer». Nuovi modelli veri quindi e non semplici concept. Torna poi sulla Cina «Abbiamo il partner giusto e stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli dell’accordo per la produzione della Jeep».

Crolla l'inflazione (14 gennaio 2014).
Come era nelle previsioni il tasso d’inflazione medio annuo per il 2013 è pari all’1,2%, in decisa frenata rispetto al 3,0% registrato nel 2012. Lo rileva l’Istat, confermando le stime e aggiungendo che si tratta del livello più basso dal 2009, ovvero da quattro anni. Il tasso risulta di due volte e mezzo inferiore a quello dell’anno precedente. «La dinamica dei prezzi al consumo nel 2013 riflette principalmente gli effetti della debolezza delle pressioni dal lato dei costi, in particolare degli input energetici, e quelli dell’intensa e prolungata contrazione della spesa per consumi delle famiglie». Così l’Istat spiega il forte rallentamento dell’inflazione. «In questo quadro - sottolinea - l’aumento dell’aliquota ordinaria dell’Iva, entrato in vigore all’inizio di ottobre 2013, ha esercitato sull’inflazione un effetto parziale e modesto». L’ analisi Coldiretti spiega il brusco calo dei consumi delle famiglie nel 2013, e mostra che più di due italiani su tre (68 per cento) hanno ridotto la spesa o rimandato l’acquisto di capi d’abbigliamento e oltre la metà (53 per cento) che ha detto addio a viaggi e vacanze e ai beni tecnologici e molto altro ancora. Una situazione provocata dalla recessione che - sottolinea la Coldiretti - ha fatto scendere i consumi in Italia del 9 per cento negli ultimi 5 anni, tanto da toccare nel 2013 il livello più basso dal 1997. Ad essere tagliate nel 2013 sono state addirittura le spese per l’alimentazione, con una riduzione del 3,9 per cento secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Ismea relativi ai primi nove mesi dell’anno. La situazione economica generale del Paese - precisa la Coldiretti - si riflette sul potere di acquisto delle famiglie e quindi sull’andamento dei consumi. La crisi infatti ha provocato una profonda spending review dei bilanci familiari che ha colpito tutte le voci di spesa come la frequentazione di bar, discoteche o ristoranti nel tempo libero, dei quali ha fatto a meno ben il 49 per cento. Il 42 per cento degli italiani ha rinunciato alla ristrutturazione della casa, il 40 per cento all’auto o la moto nuova e il 37 per cento agli arredamenti. E sul 2014 - conclude la Coldiretti - pesa il fatto che appena il 14 per cento delle famiglie italiane pensa che la propria situazione economica migliorerà, mentre per il 35 per cento e destinata a peggiorare anche se una maggioranza del 51 per cento ritiene che non cambierà. Per il Codacons la netta decelerazione «dipende da un crollo dei consumi senza precedenti, che ha riguardato anche beni di prima necessità come gli alimentari». È quanto si legge in una nota dell’associazione di consumatori, che evidenzia, comunque, «come questa inflazione, nonostante sia il livello più basso dal 2009, tradotta in cifre, equivale, in termini di aumento del costo della vita, ad una stangata annua pari a 257 euro per un single, 345 euro per una famiglia di 2 persone, 419 per una famiglia tipo di 3 persone e 462 per una di 4 componenti».

CISL: rapporto sul lavoro (15 gennaio 2014).
L’emorragia occupazionale non si è arrestata e oltre 200.000 lavoratori rischiano ancora di perdere il proprio posto di lavoro. L’allarme arriva dalla Cisl che sulla base dei dati Inps per il 2013 calcola in oltre 208.000 lavoratori equivalenti a tempo pieno coloro che sono in cassa straordinaria e in deroga (e quindi a maggiore rischio di essere licenziati). Secondo l’Osservatorio Industria della Cisl, la crisi morde ancora il tessuto industriale del Paese, e all’inizio del 2014 le vertenze ancora aperte al ministero dello Sviluppo economico erano 159 per circa 120.000 lavoratori interessati. Cisl sottolinea come gli esuberi siano circa il 15% degli occupati complessivi delle imprese coinvolte. Diciotto delle imprese per le quali il ministero ha aperto un dossier hanno dichiarato la cessione di attività (2.300 i lavoratori coinvolti). Nel 2013 sono stati firmati 62 accordi al ministero che hanno evitato circa 12.000 licenziamenti. La cassa integrazione nel 2013 ha nuovamente superato il miliardo di ore autorizzate, viaggiando a ritmi di circa 90 milioni di ore mensili, senza alcun accenno a un’inversione di tendenza. Inoltre, dalle ore di cassa in deroga autorizzate sono esclusi gli ultimi 3-4 mesi dell’anno, in quanto in tutte le Regioni le autorizzazioni sono ferme in attesa del rifinanziamento che il Governo continua ad annunciare, ma che ancora non si è concretizzato. Lo rileva l’Osservatorio Cisl, secondo cui «quel che è ancora più preoccupante è che si è accentuato il passaggio da cassa integrazione a disoccupazione: complessivamente nei primi 11 mesi del 2013 si registra un aumento del 32,5% delle domande di disoccupazione, Aspi, mobilità presentate nello stesso periodo del 2012. I dati sulle ore complessive autorizzate di Cassa integrazione nel 2013, distribuiti per regioni, mostrano una netta concentrazioni in Lombardia (23,4%), in Piemonte (12%) e in Veneto (10,1%). In questo inizio del 2014 - sottolinea il segretario confederale della Cisl Luigi Sbarra - dopo un biennio terribile per l’economia (la recessione del 2012-2013 ha causato una contrazione complessiva del pil del 4,2%), l’orizzonte è passato dalla recessione aperta a una sorta di stagnazione, in cui s’intravedono solo piccole luci di una possibile ripresa, messa in discussione dalla debolezza della situazione economica nell’area europea».

IL MERCATO DELL'AUTO NEL 2013 (16 gennaio 2014).
Nel 2013 il mercato auto in Europa scende dell’1,8% a 12.308.215 unità (erano 12.528.093 nel 2012). Si tratta - riferisce l’Acea - del sesto calo consecutivo e del peggior volume dal 1995. A dicembre sono state vendute 948.090 vetture, in rialzo del 13%. È il rialzo mensile maggiore da dicembre 2009 ma il terzo dicembre più basso dal 2003. Nel 2013 la quota di mercato di Fiat Group Automobiles in Europa (27 Paesi Ue + quelli Efta) scende al 6% rispetto al 6,4% del 2012. In flessione anche la quota di mercato a dicembre che si attesta al 5,5%, contro il 6% di un anno fa ed il 5,7% di novembre 2013. Fiat Group Automobiles ha immatricolato in Europa (Ue a 27 + Paesi Efta) 740.641 nuove vetture in calo del 7,3% sulle 798.924 del 2012. A dicembre Il Gruppo Fiat ha venduto 51.894 unità, in progresso del 2,3% rispetto alle 50.738 di un anno fa. A novembre le vendite del Lingotto erano scese del 5,8%. Vanno segnalati i risultati raggiunti dal Gruppo Fiat nel Regno Unito, dove nell’anno le immatricolazioni sono cresciute del 12,2 per cento in un mercato che aumenta del 10,8 per cento, e in Spagna, con le registrazioni a +13,7 in un mercato che cresce del 3,3 per cento. Il marchio Fiat nel 2013 ha immatricolato in Europa quasi 573 mila vetture per una quota del 4,7 per cento, in crescita di 0,1 punti percentuali nel confronto con l’anno precedente. In dicembre le registrazioni del brand sono state 39 mila (+ 4,4 per cento) e la quota è stata del 4,1 per cento. Fiat ottiene risultati positivi in tutti i major market. I volumi di vendita sono aumentati in Francia del 9,5 per cento nell’anno (in un mercato che perde il 5,7 per cento) e del 3,5 per cento in dicembre; nel Regno Unito del 20,2 per cento nel 2013 e del 21,7 per cento in dicembre; in Spagna del 28,8 per cento nell’anno e del 38,7 per cento in dicembre; in Germania le vendite crescono in dicembre del 3 per cento. I modelli di punta del marchio hanno ottenuto positivi risultati. La 500L è la vettura più venduta del segmento A sia a dicembre (12 mila immatricolazioni e quota al 15,3 per cento) sia in tutto il 2013. Con oltre 162 mila registrazioni (+10,9 per cento rispetto al 2012) e quota vicina al 14 per cento la 500 si conferma un modello di grande successo in Europa: infatti, 3 vetture su 4 sono vendute fuori dall’Italia. Bene anche la famiglia Panda, che al primo anno completo dopo il rinnovo della gamma nel 2012 si attesta come la seconda vettura più venduta del segmento A con più di 153 mila immatricolazioni e una quota del 13,15 per cento. Nel 2013 Lancia/Chrysler ha immatricolato quasi 75 mila vetture per una quota dello 0,6 per cento. Ultimo mese dell’anno positivo, con le vendite del brand (5.700) che sono aumentate in dicembre del 2,1 per cento con una quota dello 0,6 per cento. Tra i modelli Lancia da segnalare che la “fashion city car” Ypsilon ha aumentato le vendite in dicembre del 70 per cento e nell’anno del 3,3 per cento. Le immatricolazioni nel 2013 di Alfa Romeo sono state 64.400 per una quota dello 0,5 per cento. Oltre 4.500 le vendite in dicembre e quota allo 0,5 per cento. Da segnalare a dicembre la performance in Polonia (+70,1 per cento sul 2012), Austria (+27 per cento), Regno Unito (+7,9 per cento), Svizzera (+8,7 per cento). In Italia, MiTo anche grazie al Model Year 2014, cresce di oltre 33 per cento consolidando.

Cala il debito (24 gennaio 2014).
Come previsto dalla Commissione europea già da qualche mese, il 2014 comincia a portare buona notizie sul fronte dei conti pubblici: per la prima volta dall’inizio della crisi scende il debito pubblico della zona euro, e anche quello italiano, che non calava dal 2011, vede di nuovo l’inizio della discesa. «Un’altra riprova della bontà del cammino di politica economica intrapreso, un nuovo segnale che ci incoraggia a proseguire sulla strada delle politiche per la crescita, nel rispetto della tenuta dei conti pubblici», il commento del premier Enrico Letta. Segnali incoraggianti anche per l'Italia dunque, anche se appare ancora troppo presto per vedere la fine del tunnel: assieme alle buone notizie sul debito oggi arrivano infatti quelle cattive sul mercato immobiliare, che danno il mattone italiano sempre più in crisi con il numero delle nuove abitazioni sceso ai minimi storici. È l’Eurostat a certificare la prima riduzione del debito della zona euro dal 2007: nel terzo trimestre del 2013 è sceso dello 0,7% rispetto al trimestre precedente, attestandosi al 92,7% del Pil. Ma è un calo relativo solo ad un trimestre, perché su base annua, quindi rispetto al terzo trimestre del 2012, il debito pubblico nei 17 paesi della moneta unica è comunque aumentato (dal 90% al 92,7%). Stessa cosa vale per l’Italia: il calo (dello 0,4%) è avvenuto nel terzo trimestre del 2013, portando il debito al 132,9% del pil rispetto al 133,3% del trimestre precedente. L’ultimo calo si era verificato nel terzo trimestre del 2011. Ma su base annua, cioè rispetto al terzo trimestre 2012, è aumentato tanto in valori assoluti (da 1996,512 miliardi a 2.068,722 miliardi) quanto come percentuale sul pil (da 127,0% a 132,9%). E resta sempre il più alto d’Europa dopo quello della Grecia. Il percorso insomma è tutt’altro che messo in sicurezza: non è detto che il debito veda a breve un nuovo calo, visto che nelle ultime previsioni la Commissione Ue lo dava in aumento al 134% per il 2014. La riduzione sistematica e in termini assoluti ci dovrebbe essere dal 2015, secondo i calcoli dei tecnici di Bruxelles. Nel frattempo quindi la montagna di debito accumulato deve essere ridotta il prima possibile, non si può aspettare che torni la crescita ad aumentare il pil e quindi a far tornare i conti. La Commissione aspetta sempre da Roma i risultati della spending review: se arriveranno entro aprile, dettagliati delle misure per abbattere la spesa e gli arretrati dello Stato, Bruxelles potrà tenerli in considerazione per le previsioni di primavera, e magari aggiornare la stime. E intanto l’Istat indica che il “mattone” italiano è sempre più in crisi: nella prima metà del 2013 l’edilizia residenziale «presenta una rilevante flessione rispetto allo stesso periodo del 2012», con una caduta del 37,2% per le abitazioni. Il numero di case dei nuovi fabbricati scende sotto le 15mila unità per trimestre, ai minimi della serie storica.

La crisi dei paesi emergenti (27 gennaio 2014).
Hanno vissuto di rendita per cinque anni. L'abbondante liquidità immessa dalle banche centrali di tutto il mondo ha garantito un lungo periodo di quiete ai Paesi emergenti. Ora però la festa è finita, la Federal Reserve ha iniziato a ritirare gli stimoli monetari e i mercati si stanno adeguando a uno scenario in cui è necessario diventare più critici e selettivi. Gli investitori stanno così scoprendo, spesso sulla loro pelle, che tra le economie emergenti si nascondono non poche insidie. Crescita più bassa, squilibri nei conti con l'estero, riserve valutarie in calo tornano a preoccupare. E riesplode prepotentemente quel rischio politico che sembrava ormai scomparso: proteste di piazza e scontri tra istituzioni accendono la spia rossa dell'instabilità. La «nuova normalità» fa tornare a galla vecchie debolezze degli emergenti, che però restano un motore fondamentale dell'economia globale e appaiono nel complesso più attrezzati del passato a resistere alle pressioni dei mercati. Per i Brics, e non solo, è finita un'era. I tassi di crescita che hanno conosciuto per decenni non sono più sostenibili. Per 35 anni la Cina ha messo a segno un tasso medio di espansione del 9,7%, «un miracolo senza precedenti nella storia dell'uomo» secondo l'ex capo economista della Banca mondiale Lin Yifu. Ora Pechino cresce del 7,5% ed è il migliore dei Brics: l'India viaggia intorno al 5%, Sudafrica, Brasile e Russia tra il 2 e il 3 per cento. È una frenata strutturale, non ciclica, provocata da un mix di fattori: tra quelli esogeni spicca la fine del boom dei prezzi delle materie prime, di cui molti Paesi emergenti sono grandi esportatori; tra quelli endogeni in cima alla lista c'è la cronica carenza di investimenti (con l'eccezione cinese) che non sono in grado di tener testa all'aumento della domanda di consumi da parte della classe media e sono frenati da infrastrutture inadeguate, burocrazia e carenza di manodopera qualificata. Il rallentamento cinese, anche se ai più appare fisiologico, ha un impatto spesso sottovalutato sull'Asia e non solo. «Secondo le nostre stime - ha spiegato Min Zhu, vice direttore dell'Fmi, al World Economic Forum - un punto in meno di crescita degli investimenti in Cina toglie quasi un punto alla crescita del valore aggiunto nella catena di fornitori regionale». Se Indonesia, Malaysia e Thailandia sono sempre più dipendenti da Pechino, non bisogna dimenticare che dall'altra parte del mondo, in Africa e Sudamerica, la Cina è il maggior acquirente di materie prime. Se se ne importa di meno, Paesi come Brasile, Argentina e Cile accusano il colpo. Ecco i nodi sul tavolo. Argentina Dopo la svalutazione del peso il governo ha sancito la fine parziale del giro di vite imposto nell’ottobre 2011 per arginare l’emorragia di dollari. L’economia reale ha frenato, ma continua a crescere: le previsioni ufficiali per il 2014 sono di un incremento del 5,1%. Cina Inizio d’anno col freno a mano tirato per l’industria cinese. L’indice Pmi manifatturiero è sceso per la prima volta in 6 mesi sotto i 50 punti, che sono la soglia che separano le fasi di contrazione da quelle di espansione della produzione. Corea del Sud Il fiore all’occhiello Samsung nel quarto trimestre ha mancato le previsioni degli analisti. Negli ultimi tre mesi del 2013 la casa di Suwon ha conseguito utili per 7.200 miliardi di won, pari a poco meno di 5 miliardi di euro. Pesa la concorrenza di Apple, Lenovo e Huawei. Male anche Lg. Russia Il rublo continua a indebolirsi e venerdì ha toccato il suo nuovo record storico negativo rispetto all’euro: 47,36 rubli per un euro. La crescita dell’economia si è quasi dimezzata rispetto alle previsioni del governo: 1,4% nel 2013, 1,8% stimato nel 2014. Sud Europa Lo spread italiano è salito a quota 225 punti base rispetto al bund tedesco. La tempesta argentina è subito arrivata sulle banche spagnole, che hanno attività ed esposizioni rilevanti nel Paese sudamericano. È tornata la tensione anche sui titoli di Stato della Grecia e su quelli portoghesi Stati Uniti Le notizie che provengono dai mercati non sembrano destinate a sortire nessun effetto sulla Fed. Nella riunione in programma a inizio settimana, l’ultima sotto Ben Bernanke, la banca centrale americana andrà avanti per la sua strada e continuerà il piano di ritiro degli aiuti all’economia, riducendoli a 65 miliardi di dollari al mese. Nonostante l’allarme della Lagarde (Fmi) Turchia La Tangentopoli che ha fatto tremare Erdogan ha spinto ai minimi la lira turca, che venerdì ha registrato nuovi minimi storici su euro e dollaro. Dal 17 dicembre la valuta ha perso più del 10% L’avvitamento economico del Paese dopo 11 anni di boom, per l’attuale premier, sembra essere lo scenario peggiore.

Nuova legge elettorale (28 gennaio 2014).
E' quasi fatta per l'accordo sulla legge elettorale: via libera alla soglia del 37% per il premio di maggioranza. Trovata l'intesa anche per l'abbassamento dello sbarramento dal 5 al 4,5% per i partiti in coalizione, il cosiddetto nodo Salva-Lega. Dovrebbe essere poi stato fissato a 45 giorni il limite per la delega al governo per ridisegnare i collegi. Italicum. Una coda di trattativa potrebbe tuttavia ancora riguardare ritocchi alla soglia di accesso per i partiti non coalizzati (oggi all'8%) e per le coalizioni (12%). Decisivi, per l'uscita dall'impasse, i nuovi contatti telefonici avvenuti in mattinata tra il segretario del Pd, Matteo Renzi, e il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. L'intesa raggiunta non è ancora stata ufficializzata dai due principali partiti, ma a sentire alcuni parlamentari del Partito democratico ormai è cosa fatta. Maroni: "Favorevole all'esperienza di coalizione". "La storia della Lega degli ultimi 20 anni è anche storia di coalizione: non per affinità ideologiche, ma sulla base di contenuti e programmi. Io sono favorevole, perché l'esperienza di coalizione che sto facendo al governo della Lombardia, con i colleghi di Piemonte e Veneto sta dando buoni risultati e penso debba proseguire. Ma è una decisione che spetta agli organi della Lega". Così Roberto Maroni, governatore della Lombardia, rispondendo sul tema delle alleanze, anche con Fi. Sel: "Siamo contrari, daremo battaglia". "Siamo contrari a una riforma elettorale che ha come unico scopo quello di limitare la rappresentanza di milioni di cittadini il cui voto non troverebbe nessuna corrispondenza in Parlamento". Lo afferma Ciccio Ferrara, di Sel annunciando che il partito di Vendola è pronto a "dare battaglia contro questa legge Forzaitalicum". Renzi: "Bene così, ora tocca alle riforme". "Bene così. Adesso sotto con il Senato, le Province e il Titolo V. E soprattutto con il Jobs act. Dai che questa è la volta buona". Lo scrive su Twitter il segretario del Pd, Matteo Renzi. "Mai più ricatti dai più piccoli". "Mai più larghe intese grazie al ballottaggio, mai più potere di ricatto dei piccoli partiti, mai più inciuci alle spalle degli elettori, mai più mega circoscrizioni. Con l'intesa sulla legge elettorale, nonostante i professionisti della critica, il passo avanti è enorme". Lo scrive poi su Facebook il segretario del Pd. Il premier da Bruxelles: "Una buona notizia" - "Le riforme istituzionali, la legge elettorale e la fine del bicameralismo paritario che rappresenta una cosa obsoleta nel nostro Paese, sono fondamentali per la stabilità e per mandare avanti il nostro Paese. E' una buona notizia per l'Italia se riusciamo a farle". Lo ha detto il premier Enrico Letta a Bruxelles.

FIAT DIVENTA FCA (29 gennaio 2014).
Fiat cambia nome e trasloca all'estero. La holding che controlla anche Chrysler si chiamerà Fiat Chrysler Automobiles NV, avrà sede legale ad Amsterdam e chiederà di collocare il domicilio fiscale a Londra («ci si attende che Fca abbia la residenza ai fini fiscali nel Regno Unito»). La società chiederà la quotazione delle azioni a New York, ma rimarrà la quotazione secondaria in Borsa a Milano; «la quotazione sull'Mta di Milano avverrà dopo l'inizio della quotazione al Nyse», che potrebbe essere cosa fatta entro il 1 ottobre. Queste le decisioni prese dal consiglio d'amministrazione della Fiat spa, riunitosi al Lingotto sotto la presidenza di John Elkann. Nessuna indicazione, per ora, su quale sarà il quartier generale del gruppo. La proposta approvata dal consiglio di Fiat – spiega il comunicato del Lingotto – «prevede che gli azionisti di Fiat ricevano un'azione Fca di nuova emissione per ogni azione Fiat posseduta e che le azioni ordinarie di Fca siano quotate al New York Stock Exchange (Nyse) con un'ulteriore quotazione sul Mercato Telematico Azionario (Mta) di Milano. Ci si attende che Fca abbia la residenza ai fini fiscali nel Regno Unito, ma questa scelta non avrà effetti sull'imposizione fiscale cui continueranno ad essere soggette le società del Gruppo nei vari Paesi in cui svolgeranno le loro attività». La sede in Olanda consentirà di adottare – come già è stato fatto per Cnh Industrial – un sistema che assegna diritti di voto doppi ai soci stabili, il che agevola il mantenimento del controllo da parte di Exor – la holding della famiglia Agnelli – che ha poco più del 30% di Fiat. «Questo sistema ha come obiettivo di facilitare la costituzione di una base azionaria stabile e di premiare gli azionisti a lungo termine, fornendo contemporaneamente al gruppo una maggiore flessibilità nel perseguire opportunità strategiche». L'operazione richiederà l'approvazione della relativa documentazione formale da parte di un successivo Consiglio d'Amministrazione e, in seguito, da parte dell'assemblea degli azionisti di Fiat. Il completamento dell'operazione sarà soggetto a un numero limitato di condizioni, tra cui l'ottenimento della quotazione al Nyse e quella che l'esborso massimo derivante dall'esercizio da parte degli azionisti di Fiat dal diritto di recesso nonché da eventuali esercizi dei diritti di opposizione dei creditori non ecceda 500 milioni di euro. Ci si attende che l'operazione sia completata entro la fine dell'anno. «Oggi Fiat è un attore globale». Il presidente del Consiglio Enrico Letta, che ieri ha incontrato John Elkann e Sergio Marchionne, plaude all’operazione che ha portato alla nascita del settimo gruppo automobilistico mondiale. «Oggi Fiat Crysler è un attore globale e credo che la questione della sede legale sia assolutamente secondaria: contano i posti di lavoro, il numero di auto vendute, la competitività e la globalità», dice il premier da Bruxelles, dove ha incontrato il presidente della Commissione Ue Barroso. Secondo Letta la cosa importante è la capacità di «un grande marchio italiano di essere attore globale e tutti italiani debbano tifare perché ciò avvenga». È la stessa posizione del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. «Sembra che si siano messe insieme due aziende che si adattano molto bene l’una all’altra», osserva. «Possiamo già essere contenti se riusciremo a mantenere tutti i posti di lavoro attuali».

Il buco dell'Inps (3 febbraio 2014).
Oltre 14,4 miliardi di perdite nel 2013 e altri 12 miliardi previsti nel 2014: il bilancio preventivo dell’Inps, che sarà esaminato a breve dal Civ dell’Istituto, stima per l’anno prossimo, grazie a questi negativi risultati di esercizio, legati in gran parte alla gestione ex Inpdap, di mettere il segno meno di fronte al patrimonio (-4,5 miliardi). In realtà la legge di stabilità ha già stanziato a copertura del «buco» Inpdap 25,2 miliardi quindi di fatto il patrimonio 2014 resterà in attivo per oltre 20,6 miliardi. Uno stanziamento che, secondo quanto afferma in una nota lo stesso istituto di previdenza, «protegge il patrimonio Inps dall’erosione determinata dall’incorporazione Inpdap» e rende «il sistema previdenziale perfettamente in equilibrio». «Il miglioramento di oltre 25 miliardi di euro della situazione patrimoniale - affermano dall’Inps - sarà rilevato in occasione della prima nota di variazione al bilancio preventivo 2014 dell’Inps”. A fine 2012 il patrimonio dell’Inps era positivo per 21.875 miliardi (e per oltre 41 miliardi nel 2011 prima dell’unificazione con l’Inpdap) a fine 2013 il patrimonio era 7,4 miliardi. La situazione appare comunque, anche a causa della crisi e del calo della contribuzione, soprattutto dei lavoratori pubblici con il blocco del turn over, abbastanza delicata. Nel 2013 si è cominciato a risentire dell’effetto Fornero, ovvero dell’entrata in vigore della riforma con la «stretta» sulle pensioni di anzianità (fino a fine 2012 si usciva ancora con la finestra mobile e i vecchi requisiti). Il numero dei nuovi assegni liquidati nel complesso è calato del 43% tra il 2012 e il 2013 passando da 1,14 milioni a 649.000 pensioni (comprese tutte, previdenziali e assistenziali). Soffrono soprattutto le gestioni dei lavoratori pubblici con 8,8 miliardi di rosso nel 2013 e 11,48 previsti per il 2014 (il patrimonio è a -26,2 miliardi a fine 2013 e a -37,7 nel 2014) mentre la gestione dei parasubordinati registra un risultato economico di esercizio positivo per 8,8 miliardi nel 2013 e 7,7 previsti per il 2014 (il patrimonio accumulato è di oltre 89 miliardi nel 2014 e dovrebbe superare i 96 nel 2014). Il fondo pensioni lavoratori dipendenti registra un risultato negativo per il 2013 per 1,4 miliardi e oltre 120 miliardi di passivo per il patrimonio. Resta in forte attivo il patrimonio delle gestioni temporanee ai lavoratori dipendenti (178,9 miliardi nel 2013) nonostante il rosso registrato nell’anno per 558 milioni. In attesa che il bilancio preventivo venga esaminato dal Civ prosegue il toto nomine per l’Istituto dopo le dimissioni del presidente, Antonio Mastrapasqua. «Aspettiamo il presidente del Consiglio» - ha detto oggi il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini rispondendo a una domanda sulla possibilità che il commissario arrivi già in settimana. E in attesa che il Parlamento metta mano alla nuova governance resta probabile che si nomini un commissario-traghettatore. In pole resta l’ex ministro Tiziano Treu.

I fondi pensione (4 febbraio 2014).
Non tutti i risparmiatori e soprattutto coloro che sono prossimi alla pensione sono disposti a mettere a rischio i propri contributi e il proprio Tfr sui mercati finanziari globali. Anzi, una fetta consistente - soprattutto quelli che in pensione ci dovranno andare tra pochissimi anni – punta alla garanzia; circa la metà dei nuovi iscritti ai fondi di categoria, infatti, aderisce (e non da ora) a una linea garantita, che ciascuno strumento di previdenza complementare deve mettere a disposizione dei propri iscritti. Nel lungo periodo - per chi ha per esempio meno di 40 anni e ha molti anni di lavoro davanti a sé - il mercato azionario tende a ottenere rendimenti importanti, spesso superando in modo rilevante la stessa inflazione; così com'è risaputo nel breve/medio periodo è possibile ottenere delle riduzioni nel valore quota di tutti i comparti, da quelli bilanciati a quelli ed azionari (e pertanto sulla propria rendita pensionistica complementare). Da qui l'indicazione per chi è vicino alla pensione, di consolidare i rendimenti accumulati in passato passando a una linea prudente e, meglio ancora, garantita. Ma quanto rende il comparto garantito di un fondo pensione? Abbiamo provato a confrontare i rendimenti relativi al 2013 dei comparti garantiti di alcuni fondi negoziali. Le performance medie dei 34 negoziali analizzati ammontano al 2,26%, ossia circa un terzo più di quanto genera la rivalutazione annua delle quote di Tfr relativa allo stesso periodo. Non male. Ovviamente ci sono Fondi che riescono a ottenere performances di tutto rispetto (si pensi a Cooperlavoro e a Fondapi con guadagni intorno al 3,4%), così come ci sono stati Fondi che hanno ottenuto rendimenti sinceramente deludenti come ad esempio il caso Fonchim rivalutatosi solo dello 0,7% nel suo comparto più avverso al rischio. Questo perché ogni fondo affida il mandato di gestione con obiettivi diversi: dalla garanzia del valore nominale a un rendimento minimo garantito. È bene ricordare che la garanzia di rendimento scatta non in ogni circostanza, ma al sopraggiungere di una serie di eventi: pensionamento, premorienza, invalidità e inoccupazione per oltre 48 mesi (ciascun fondo può estendere o restringere questi requisiti). Attenzione però: in caso di trasferimento da un comparto garantito a un altro, il valore di "riscatto" o "uscita" sarà quello del valore quota: nel bene, se la performance è stata alta, o nel male, se invece è stata negativa. Per questo è importante tenere d'occhio il risultato della gestione di questi comparti. Ovviamente se un lavoratore non è soddisfatto del gestore del proprio fondo di categoria può sempre optare per un fondo aperto o per un piano individuale previdenziale (Pip); di questi ultimi si attende di conoscere i rendimenti delle gestioni separate delle polizze previdenziali, che verranno diffuse più avanti. Per quanto riguarda gli aperti si deve tenere presente che la media delle performance dei comparti garantiti nel 2013 è stata più bassa di quella dei fondi negoziali, complice la loro tradizionale maggior esposizione alle azioni: la media dei rendimenti dei comparti garantiti infatti è stata pari a circa l'1,52% quindi addirittura del 12% inferiore alla rivalutazione del Tfr. Anche in questo caso, così come per i negoziali, c'è una forte varianza nei risultati da fondo a fondo. E' sempre bene ricordare che le performance passate non possono essere tenute in considerazione per il futuro, ma rappresentano in ogni caso importanti osservazioni che si possono fare per la scelta del fondo cui affidare il destino della propria pensione complementare. Nel 2013, il sistema fondi pensione italiani monitorato dalla Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione, ha fatto registrare performance medie di tutto rispetto e un continuo aumento delle adesioni, anche se in modo non uniforme tra le differenti tipologie di strumenti.

Calano i cinguettii e twitter crolla (6 febbraio 2014).
Rallenta il numero di chi “cinguetta” su Twitter e Wall Street non perdona il popolare social network. Oggi le azioni del social network, quotato da novembre alla Borsa di New York, sono crollate attorno al 20% nella prima parte della seduta, dopo la trimestrale, pubblicata ieri dopo la chiusura delle contrattazioni, che fa emergere un rallentamento della crescita degli utenti del social network. Il titolo, che già nel premercato si era attestato in forte ribasso, cede al momento il 24% a circa 53 dollari per azione, ma era arrivato a perdere nelle prime battute il 22% a un minimo di giornata di 50 dollari per azione. La capitalizzazione di mercato è scesa sotto i 30 miliardi di dollari (a 29,32 miliardi, per la precisione). Nonostante ricavi più che raddoppiati e una perdita in rialzo, ma comunque inferiore alle stime, gli investitori non gradiscono il rallentamento della crescita della base utenti e l’aumento dei costi a un passo più rapido del fatturato. Nel periodo ottobre-dicembre del 2013 il sito di microblogging ha registrato una perdita superiore al mezzo miliardo (511,5 milioni) contro quella da 8,7 milioni dello stesso periodo dell’anno prima. Il tonfo in Borsa deriva dalla scarsa chiarezza sulle strategie che Twitter intende adottare per aumentare gli introiti, lo stesso problema che causò il tracollo delle azioni Facebook a pochi giorni dal collocamento. L’ad di Twitter, Dick Costolo, presentando i risultati, ieri ha garantito che il gruppo sta lavorando a nuove applicazioni che consentiranno di aumentare la crescita degli utenti: «Sarà una combinazione di mutamenti che verranno introdotti nel corso dell’anno e cambieranno la tendenza della curva di crescita». «Vogliamo raggiungere ogni persona sul pianeta», ha affermato Costolo, spiegando che le modifiche renderanno più semplice l’accesso a Twitter attraverso i dispositivi mobili, la chiave del boom degli utili di Facebook. A differenza della creatura di Zuckerberg, la struttura di Twitter rende però più difficile interfacciarsi con i formati tradizionali di pubblicità online, il che spiega l’attuale scetticismo degli investitori. A pesare sul titolo sono anche i downgrade, la revisione al ribasso dei giudizi degli analisti di Wall Street. IL colosso elvetico Ubs ha abbassato la valutazione del titolo da «neutral» a «sell», Sterne Agee da «neutral» a «underperform» e Stifel Nicolaus da «buy» a «hold».

I ragazzi e l'accogliente casa deri genitori (10 febbraio 2014).
Sono quasi sette milioni i giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora a casa con i genitori. E non sono solo concentrati nella fascia d’età più bassa: oltre 3 milioni hanno superato i 25 anni. Insomma tra chi condivide lo stesso tetto con la mamma e il papà non mancano di certo i trentenni. Colpisce come tra quanti non sono sposati oltre sei su dieci se ne stanno in famiglia piuttosto che andare a vivere per conto proprio. A monitorare il fenomeno è l’ultimo Rapporto sulla coesione sociale, messo a punto da Istat, Inps e ministero del Lavoro. E Coldiretti aggiunge: quasi 4 italiani su dieci (37%) hanno chiesto aiuto economico ai genitori che anche quando non coabitano restano un solido punto di riferimento per i figli. Figli che infatti nel 42,3% dei casi abitano infatti ad una distanza non superiore a 30 minuti a piedi dalla mamma. I dati Istat si riferiscono al 2102 e segnano una crescita rispetto al 2011. Guardando nel dettaglio le tabelle allegate allo studio, che riportano come fonte l’Istituto di statistica, si nota un aumento dei ragazzi che vivono con i genitori di 31 mila unità, per un totale di 6 milioni 964 mila. Passando alle percentuali, l’avanzata del fenomeno diventa più chiara: dal 59,2% del 2011 si arriva al 61,2% di tutti i giovani 18-35enni celibi e nubili. E il contributo maggiore lo danno i maschi, tra loro i ragazzi che mangiano e dormono con i genitori sono quasi quattro milioni, quasi un milione in più a confronto con le giovani donne. Inoltre la concentrazione più alta si ritrova nel Sud, che da solo conta più di due milioni di under 35 allo stesso indirizzo del padre e/o della madre. Tutte cifre che sembrano ricalcare vecchi stereotipi, dal famigerato “mammone” al tanto discusso “fannullone”. Ma stavolta potrebbe esserci anche lo zampino della crisi, basti pensare che i disoccupati tra i 15 e i 34 anni sono quasi un milione e mezzo. Ecco che sempre più ragazzi preferiscono ritardare l’uscita dalla dimora paterna, in attesa di tempi migliori. Fa anche riflettere come oltre il 60% tra chi non ha ancora marito o moglie se ne stia a casa con i suoi. Il pericolo è che di rinvio in rinvio scatti la trappola. D’altra parte solitamente gli italiani quando lasciano la famiglia prediligono di gran lunga un’abitazione di proprietà, con solo una piccola fetta che ricorre all’affitto. Stando ai numeri del 2011, gli under 35 che stanno per conto proprio si dividono così: il 68,8% ha intestata la casa, mentre solo il 31,2% è classificabile come inquilino. Le cifre, riferite alla `classe d’eta´ del `principale percettore´, emergono da dati Istat ricavati dall’ultima versione del datawarehouse dell’Istituto di statistica. Controtendenza sulle assunzioni (13 febbraio 2014).

Una timida ripresa (13 febbraio 2014).
Eccolo qui il timido germoglio della ripresa. L'Istat ha infatti accertato che nel quarto trimestre del 2013 anche in Italia, come sta accadendo nei paesi nostri vicini di casa , l'attività produttiva ha ritrovato un segno positivo ed è aumentata dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. C'è dunque un'occasione da non dissipare, per la politica economica italiana. Tenendo presente che, per il momento, le buone notizie finiscono qui. Non si deve dimenticare che, se è vero che "eppur si muove" per il momento l'economia italiana procede a passo di lumaca rispetto agli altri: la Francia nel quarto trimestre del 2013 ha messo a segno un incremento del Pil pari allo 0,3 per cento trimestrale; quanto alla Germania, l'incremento di prodotto nell'ultimo scorcio del 2013 è stato pari allo 0,4 per cento , ma le previsioni degli analisti danno per certo che il motore dell'economia tedesca metterà il "tigre", come diceva una pubblicità di tanti anni fa e nel 2014 allungherà il passo fino a un aumento di prodotto annuale del 2,5 per cento. Per l'Italia che ha appena chiuso un anno di pesante recessione (-1,9 per cento) e che entra nel 2014 con un effetto di trascinamento pari a zero, dunque con una ripresa acquisita nulla, come precisa l'Istat, il recupero economico "vero" è ancora tutto da costruire e le previsioni di consenso degli economisti parlano di un più 0,5 per cento per il 2014. È la stima Istat, che differisce dai dati definitivi del Pil, con tutte le sue componenti, in calendario per il 3 marzo. Nel quarto trimestre 2013, il Pil (corretto e destagionalizzato) è aumentato dello 0,1% congiunturale, il primo rialzo dal secondo trimestre 2011, e diminuito dello 0,8% tendenziale, il calo più contenuto dal quarto trimestre 2011.

LE DIMISSIONI DI LETTA (14 febbraio 2014).

Enrico Letta salirà in tarda mattinata al Colle per rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio dei ministri. Alle 11,30 presiederà l'ultimo consiglio dei ministri, quindi potrebbe raggiungere il Quirinale. Già in serata Napolitano potrebbe dare il via alle consultazioni per la formazione di un nuovo Governo. Ieri si è consumata la sfiducia del Partito democratico nei suoi confronti, in una giornata ad alta tensione. Con una larga maggioranza (136 sì, 16 no e due astenuti) la direzione del Pd, trasmessa in streaming, ha dato il via libera alla staffetta con il segretario Matteo Renzi. I democratici hanno così fatto una scelta politica. Letta, che non ha partecipato alla direzione, ne ha preso atto e ha comunicato che oggi sarebbe salito al Quirinale per rimettere il suo mandato. «A seguito delle decisioni assunte oggi dalla Direzione nazionale del Partito Democratico, ho informato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, della mia volontà di recarmi domani al Quirinale per rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio dei ministri», si legge nella nota diffusa da Palazzo Chigi qualche minuto dopo la votazione. In serata, dopo l'annuncio delle dimissioni, è arrivato un tweet di ringraziamento e commiato del premier: «Un grazie collettivo, ma non per questo meno sincero, per i tanti messaggi twitter ricevuti in queste ore». Contemporaneamente da palazzo Chigi è partita la smentita « nel modo più categorico e netto» dei virgolettati attributi al premier Letta e riportati dall'agenzia Agi citando fonti parlamentari lettiane. Nei virgolettati il premier rimprovera a Renzi «l'ossessione del potere e il cinismo di aver da sempre mirato alla poltrona del governo». Palazzo Chigi chiarisce che Letta «quanto voleva dire l'ha detto nella conferenza stampa di ieri. Tutto il resto è ricostruzione destituita di ogni fondamento». Già nel primo pomeriggio, prima che la direzione approvasse la mozione presentata da Renzi per «un cambio radicale» nell'esecutivo il premier aveva cancellato una visita ufficiale in Gran Bretagna, prevista per il 24-25 febbraio. Durante la sua visita in Gran Bretagna Letta avrebbe dovuto incontrare oltre ad esponenti del governo di Londra anche diversi investitori britannici e poi tenere un discorso alla London School of Economics, ha ricordato il Financial Times online. In precedenza, il premier aveva comunicato con una lettera la sua decisione di non partecipare ai lavori della direzione Pd. Una decisione presa perché «è fondamentale che la discussione si sviluppi, e le decisioni conseguenti siano assunte, con la massima serenità e trasparenza». Di qui la scelta di «aspettare a Palazzo Chigi le determinazioni che verranno prese, in modo che tutti in Direzione si sentano liberi di esprimere valutazioni ed esplicitare le decisioni che ritengono opportune». Poi lo showdown, e lo strappo si è consumato. Ancora una volta si rinnova nella sinistra il "complesso di crono", quel meccanismo per il quale il partitone si mangia i propri figli.

INCARICO A RENZI (17 febbraio 2014).
Matteo Renzi accetta dal Capo dello Stato l’incarico con riserva a formare un nuovo governo. Da domani avvierà le consultazioni con i partiti. «L’impegno - afferma il premier in pectore al termine del colloquio di un’ora e venti con Napolitano - è l’orizzonte naturale della legislatura», il 2018. Quindi il leader Pd si prende «qualche giorno di tempo» per definire programma e squadra. Programma per il quale Renzi ha già una tempistica: a febbraio riforme istituzionali, a marzo il lavoro, che è la «vera priorità», ad aprile la riforma della pubblica amministrazione e a maggio il fisco. La strada del leader Pd è in discesa, ma spuntano già i primi ostacoli: a cominciare dalla complicata trattativa con Angelino Alfano.
Il sindaco di Firenze arriva puntuale, alle 10,30, al Quirinale alla guida di una Giulietta bianca, accompagnato dal capo ufficio stampa Filippo Sensi. Nel colloquio con il presidente della Repubblica, il segretario Pd assicura, come racconta lui stesso al termine, che metterà «tutto l’impegno e l’energia di cui saremo capaci in questa sfida difficile». Napolitano gli affida l’incarico e Renzi esce nella sala della Vetrata. Il tono di voce tradisce emozione e un po’ di tensione: «Ho ricevuto l’incarico di provare a formare il nuovo governo, ho accettato con riserva per l’importanza e la rilevanza di questa sfida», esordisce. Poi conferma il suo impegno di un governo di legislatura che quindi «necessita di qualche giorno per arrivare a sciogliere la riserva». Le consultazioni formali cominceranno domani: oggi il premier incaricato, dopo aver incontrato i presidenti di Camera e Senato Laura Boldrini e Piero Grasso, torna a Firenze per l’ultima giunta e l’addio alla guida della sua città. La testa e il cuore sono ormai tutti proiettati al governo. E non tanto sulla squadra, spiega Renzi ironizzando sulle «fatiche» dei giornalisti alle prese con il «totoministri» ma sui contenuti. «Abbiamo intenzione di lavorare in modo molto serio sui contenuti, definiremo nei prossimi giorni con gli alleati una piattaforma molto seria». Programma che nelle intenzioni di Renzi ha tempi già definiti e prevede che «entro febbraio si faccia un lavoro urgente sulle riforme costituzionali ed elettorali, e nei mesi successivi ci saranno: a marzo il lavoro, ad aprile la riforma della Pubblica amministrazione, a maggio il fisco». Una riforma al mese, la corsa del premier incaricato è partita.
Renzi è consapevole che la quadra per formare il suo governo non è semplice. E ha messo in conto che rispetto alle consultazioni-lampo che aveva in mente servirà un maggior approfondimento. Il primo degli scogli del segretario Pd è il principale socio di maggioranza, Angelino Alfano. I due, in contatto da giorni anche via sms, avevano in programma di vedersi ieri sera, al rientro di Renzi a Roma. Ma il faccia a faccia è slittato e a questo punto è probabile che si terrà nei prossimi giorni con le consultazioni ufficiali. Sono abbastanza chiari i motivi del braccio di ferro tra Renzi e il leader Ncd. Alfano sa che la presenza di Ncd è «decisiva» per la nascita del governo: senza i numeri, soprattutto dei suoi senatori, l’esecutivo Renzi non riesce a nascere a meno di una nuova svolta del rottamatore con un’apertura verso Forza Italia, possibilità che però viene smentita nettamente dal Pd. Perciò l’ex delfino di Berlusconi è determinato ad alzare la posta per il suo via libera: oltre a chiedere la riconferma sua, di Maurizio Lupi e di Beatrice Lorenzin negli stessi ministeri, vuole chiarezza nel perimetro della maggioranza del nuovo governo. Alfano soffre le «due maggioranze», una con Ncd per il governo e l’altra con Fi per le riforme che Renzi è determinato a confermare. E vuole garanzie, a quanto si apprende, almeno sul fatto che la legge elettorale entrerà in vigore solo dopo la riforma del Senato, temendo che ad un certo punto, incassata la riforma del voto, il leader Pd e il Cavaliere si accordino per lo show down della legislatura. Richieste e pretese che sembrano non preoccupare più di tanto i renziani. «Alfano non è il problema», spiegano ambienti vicini al sindaco di Firenze, aggiungendo, più a scopo di minaccia, che se Renzi non riuscisse a fare nascere il governo «vuol dire che si andrà alle urne». Insomma tra i due, sostengono fonti dem, chi ha il coltello dalla parte del manico è il premier in pectore e quindi, aggiungono, «un accordo si troverà», lasciando intendere che Renzi non ha intenzione di fare le barricate per impedire ad Alfano di restare al Viminale.
Quello che in realtà preoccupa di più, in queste ore, i fedelissimi del sindaco è la squadra di governo. Il «no, grazie» dell’ad di Luxottica Andrea Guerra lascia l’amaro in bocca a Renzi che punta su personalità vincenti per la sua «rivoluzione radicale». Sondaggi sui candidati preferiti sono in corso a 360 gradi e in questo sono impegnati sia personalmente Renzi sia i suoi, come Dario Nardella e Graziano Delrio. Come anticipato ieri, il segretario Pd vorrebbe Romano Prodi al Tesoro, anche per ridare entusiasmo al popolo dem sotto choc per la sfiducia a Enrico Letta. Al Tesoro sono in discesa anche le quotazioni di Lucrezia Reichlin. All’Economia infatti il premier in pectore vorrebbe un politico. Il rebus della squadra è ancora irrisolto. L’unico posto sicuro è quello di Graziano Delrio sottosegretario alla presidenza del consiglio. Per via XX settembre si fanno anche i nomi di Piero Fassino e Fabrizio Barca. Partita aperta che per l’Interno, ministero che Angelino Alfano punta a tenersi stretto ma al quale ambirebbe anche Dario Franceschini. In alternativa, dopo il «no, grazie» di Alessandro Baricco, Franceschini potrebbe andare ai Beni Culturali, lasciando il posto di ministro per i Rapporti con il Parlamento a un fedelissimo del leader Pd, che potrebbe puntare sul portavoce della segreteria Lorenzo Guerini. Alle Riforme resta in pole Maria Elena Boschi mentre vacilla la candidatura del segretario Sc Stefania Giannini all’Istruzione dopo che Scelta Civica avrebbe indicato Irene Tinagli e Andrea Olivero. Il rifiuto di Andrea Guerra apre per Renzi il problema di una casella chiave per il futuro governo: lo Sviluppo Economico. E lì l’idea del sindaco è di continuare a cercare nel mondo imprenditoriale: spunta il nome dell’ex presidente Telecom Franco Bernabè. Ma nella lista spunta anche il nome dell’ad di Ferrovie Mauro Moretti. Per il ministero del Lavoro sono in corsa Tito Boeri ma anche esponenti della minoranza Pd come Guglielmo Epifani e Cesare Damiano. Nel Pd i sondaggi sono a 360 gradi e, a quanto si apprende, anche Pippo Civati, negli ultimi giorni molto critico verso il governo, potrebbe essere coinvolto in qualche ruolo. Alla Giustizia è caccia a “tecnici” di prestigio e, mentre scendono le chance di Michele Vietti, salgono le possibilità del presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro e spuntano i nomi di Valerio Onida e Guido Calvi. Dovrebbero essere riconfermati, infine, i ministri dell’Ambiente Andrea Orlando ed i ministri Ncd Beatrice Lorenzin (Salute) e Maurizio Lupi (Trasporti). Riconferma in vista anche per Mario Mauro così come non dovrebbe rischiare alla Farnesina Emma Bonino. Federica Mogherini dovrebbe, invece, prendere il posto di Enzo Moavero Milanesi agli Affari Europei.

Ferrari il marchio più importante al mondo (18 febbraio 2014).
Il Cavallino rampante, simbolo della Ferrari Auto, è il brand più forte, più influente e di maggiore valore del mondo. Lo decreta la valutazione fatta da Brand-Finance che ha analizzato i loghi delle aziende più importanti del mondo e ha riattribuito la "AAA+", per il secondo anno consecutivo, alla casa automobilistica di Maranello. La classifica riguarda i 500 marchi più influenti al mondo. «Il nome della Ferrari - si legge nella relazione di Brand-Finance - è il più potente brand del mondo. È riconoscibile in tutto il mondo anche dove non ci sono le strade. Nel suo paese natale e tra i suoi molti ammiratori in tutto il mondo la Ferrari ispira molto più della lealtà al brand, più di un culto e una devozione quasi religiosa». Ferrari è davanti a colossi del calibro di Coca Cola (2a), Pricewaterhouse Coopers (3a), Rolex, Disney (10ma), Google (5a) e la rivale in Formula 1 Red Bull, che si è piazzata soltanto al nono posto. Nonostante quello della Ferrari sia il marchio più influente al mondo in termine di valore, prosegue Brand-Finance, il marchio si piazza in 350/a posizione con un valore di quattro miliardi di dollari. Grande soddisfazione da parte del presidente della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo, che si è compiaciuto per il risultato in occasione dell'inaugurazione del Museo Enzo Ferrari di Modena. «Nonostante le dimensioni dell'azienda - ha commentato Montezemolo - abbiamo fatto un buon lavoro per migliorare l'esclusività del brand».

Scontro Renzi Grillo (19 febbraio 2014).
Beppe Grillo spiazza Matteo Renzi non facendolo parlare nel corso delle consultazioni tra il presidente del consiglio incaricato e la delegazione M5S. Renzi inizia l'incontro conciliante. «Vi ringrazio di aver accettato l'invito alla consultazione. Per quello che ci riguarda non vi chiediamo alcun accordo vecchio stile, non siamo a chiedervi la fiducia». Così Renzi accoglie la delegazione M5S. Poi prova a parlare del suo programma ma Grillo lo interrompe subito: «Non sono venuto qui a parlare di programmi». E l'incontro finisce dopo cinque minuti senza riuscire mai a entrare nel merito. «Non sono venuto qui a parlare di programmi. Sono venuto qua a dimostrarti qualcosa in modo educato e gioioso: sei una persona giovane ma anche vecchia», attacca subito Grillo. «Sono venuto a dimostrarti la nostra totale indignazione per quello che rappresenti: noi siamo coerenti tu non sei credibile, non ci interessi, rappresenti De Benedetti e gli industriali», rincara la dose Grillo. «Mi alzo e ti comunico che non abbiamo nessun tipo di fiducia in te e nel tuo sistema», aggiuge Grillo. E ancora: «La nostra stima non ce l'hai - gli dice a più riprese - Non hai neanche un'idea di come potrebbe essere il mondo. Non ce l'hai un'idea. Le rinnovabili non sai neanche cosa sono». Renzi non riesce a fermare Grillo: «Non è il trailer del tuo show, non so se sei in difficoltà sulla prevendita, se vuoi ti aiuto ma il tuo popolo ti ha chiesto di incontrarmi ma tu non sei mai stato democratico. Esci da questo blog!», prova a dire il segretario Pd. E ancora: «Almeno un minuto me lo devi dare». Ma il leader M5S che prima aveva detto: «Ti do tre minuti, non abbiamo tempo per te, non abbiamo tempo da perdere» poi cambia idea e chiude le porte al dialogo: «Non ti do neanche un minuto, è finita caro«, è il saluto di Grillo a Renzi. Grillo non ha nascosto la sua insofferenza per un incontro che lui non voleva, ma che è stato costretto ad accettare dopo che gli iscritti hanno detto sì alle consultazioni, malgrado il suo parere contrario. E in conferenza stampa aggiunge: «Se era per me non venivo. Sono venuto per la Rete. Abbiamo votato e siamo venuti perché abbiamo un principio di democrazia. La maggioranza dei votanti ha detto "andiamo". Ma non avevo una scaletta di cose perché non mi interessa colloquiare democraticamente con un sistema che voglio eliminare». «Mi spiace tanto per chi ha votato 5Stelle. Meritate di più, amici. Ma vi prometto che cambieremo l'Italia, anche per voi è la volta buona» ha scritto Matteo Renzi su Twitter, dopo l'incontro con Beppe Grillo. Poi il premier incaricato, rispondendo ai giornalisti che gli chiedono un giudizio sull'incontro appena avuto con Beppe Grillo chiosa: «Sono veramente dispiaciuto per chi lo ha votato, ero abbastanza imbarazzato, capisco la difficoltà della prevendita e del calo di consenso...». Ora «mi auguro che in Parlamento ci sia la possibilità di prendere il buono dalle proposte dei 5 stelle». Appena iniziato alla Camera lo streaming delle consultazioni tra i 5 Stelle e il presidente incaricato, subito in contemporanea, l'ex comico genovese aveva lanciato l'hastag "sfiduciamorenzi" e che in pochissimi minuti ha raccolto sulla pagina facebook più di 500 «mi piace».

Legge sul finanziamento ai partiti (20 febbraio 2014).
La Camera ha approvato definitivamente il decreto legge sul finanziamento dei partiti. Con 312 sì, 141 no e 5 astenuti il testo uscito dall'esame del Senato diventa legge. Il provvedimento abolisce il finanziamento pubblico diretto e indiretto ai partiti e lo sostituisce con agevolazioni fiscali per la contribuzione volontaria dei cittadini attraverso detrazioni per le erogazioni liberali e destinazione volontaria del 2 per mille Irpef. L'accesso dei partiti alle nuove uniche forme di contribuzione viene condizionato dalla nuova legge al rispetto di requisiti di trasparenza e democraticità indicati dal decreto-legge, in cui si prevede anche l'istituzione di un registro dei partiti politici ai fini dell'accesso ai benefici. Con la nuova disciplina viene superata la parziale riforma della legge del 2012, con la quale, al sistema dei rimborsi elettorali era stato affiancato il cofinanziamento dello stato, proporzionato alle capacità di autofinanziamento dei partiti, che ora è stato abolito. La nuova disciplina si inserisce in un processo, sviluppatosi negli ultimi anni, di progressiva riduzione dell'entità dei contributi diretti ai partiti, istituiti nel 1974 ed erogati, a partire dal 1993, esclusivamente sotto forma di contributi per le spese delle campagne elettorali. Le principali caratteristiche del sistema introdotto dalla nuova legge riguardano l'adozione da parte dei partiti di statuti recanti necessari elementi procedurali e sostanziali che garantiscano la democrazia interna. Ai fini dell'accesso ai benefici l'istituzione del registro nazionale dei partiti politici che accedono ai benefici previsti dalla legge, consultabile dal sito internet del parlamento la realizzazione da parte di ciascun partito di un sito internet dal quale devono risultare le informazioni relative all'assetto statutario, agli organi associativi, al funzionamento interno e ai bilanci. E ancora: l'estensione delle funzioni di controllo della commissione di garanzia sui bilanci dei partiti anche al rispetto delle prescrizioni sul contenuto statutario e sulla trasparenza, la riduzione delle risorse loro spettanti per i partiti che non rispettano le norme in materia di parità di accesso alle cariche elettive, l'introduzione di un tetto alle donazioni pari a 100 mila euro, l'introduzione di una detrazione per le erogazioni liberali pari al 26% per gli importi da 30 a 30 mila euro,l'assoggettazione a imu degli immobili dei partiti politici, la possibilità di destinare il 2 per mille irpef ai partiti, la previsione di un apposito codice di autoregolamentazione delle raccolte telefoniche di fondi, l'applicazione progressiva della abrogazione con la riduzione parziale dei contributi diretti che cesseranno completamente nel 2017, l'estensione al personale dei partiti della disciplina sul trattamento straordinario di integrazione salariale e di contratti di solidarietà.

IL GOVERNO RENZI (22 febbraio 2014).
Matteo Renzi scioglie la riserva e, con una certa irritualità rispetto al protocollo, annuncia via Twitter l'imminente nascita del suo governo: "Arrivo, arrivo, la volta buona", "cinguetta" poco prima del termine del colloquio di due ore e mezzo con Giorgio Napolitano al Quirinale. Il Renzi 1 - sedici ministri, otto donne - ha giurato oggi alle 11,30 e il premier si premura di spiegare che il suo è un governo per le riforme e di legislatura, con l'obiettivo di "fare cose fin da domani" e "fino al 2018". "Grazie per i messaggi. Compito tosto e difficile. Ma siamo l'Italia, ce la faremo. Un impegno: rimanere noi stessi, liberi e semplici" twitta Renzi ringraziando chi lo sostiene. Dunque, "dovendo fare un governo di 4 anni, l'aver impegnato due ore e mezzo è un tempo di messa a punto ben investito". Napolitano non può che "condividere profondamente" l'idea di "tempi brevi" per le riforme e di un esecutivo di legislatura.. E il Capo dello Stato frena gli autori di retroscena a tinte forti: "il mio braccio non è stato sottoposto nè l'altro ieri nè oggi a nessuna prova di forza". Napolitano dice di essere d'accordo con l'obiettivo fissato da Renzi di un esecutivo che arrivi alla fine della legislatura. "La mano sul fuoco in Italia non la possiamo mettere - ha aggiunto Giorgio Napolitano - speriamo che tutto vada per il meglio". Dunque oggi per Renzi il giuramento ed il primo consiglio dei ministri (con il passaggio delle consegne con Enrico Letta, al quale sia Renzi che Napolitano esprimono gratitudine e stima), lunedì il discorso programmatico del nuovo governo al Senato e la fiducia, martedì la fiducia alla Camera.
Ecco la squadra:
Graziano Delrio - sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Economia: Pier Carlo Padoan
Interno: Angelino Alfano (Ncd)
Affari esteri: Federica Mogherini (Pd)
Giustizia - Andrea Orlando (Pd)
Difesa - Roberta Pinotti (Pd)
Sviluppo economico - Federica Guidi
Infrastrutture e trasporti - Maurizio Lupi (Ncd)
Salute: Beatrice Lorenzin (Ncd) Politiche agricole: Maurizio Martina (Pd)
Ambiente: Gianluca Galletti (Udc)
Lavoro e politiche sociali: Giuliano Poletti
Istruzione, università e ricerca: Stefania Giannini (Sc)
Beni e attività culturali: Dario Franceschini (Pd)
Riforme e rapporti col Parlamento: Maria Elena Boschi (Pd)
Semplificazione e P.a. - Marianna Madia (Pd)
Affari regionali - Maria Carmela Lanzetta (Pd)
I collaboratori di Napolitano lo descrivono sereno dei consigli dati e soddisfatto della squadra formata dal sindaco di Firenze al quale ieri il Quirinale ha dato un endorsment pieno e senza riserve. Ciò non toglie che la quadratura del cerchio sia stata complessa e frutto della mediazione tra l'esperienza del Colle e l'intuito del premier incaricato. Un mix che sembra funzionare, almeno a sentire le dichiarazioni concilianti sia di Renzi che di Napolitano dopo l'ufficializzazione dei 16 nuovi ministri di quello che è il governo più giovane della storia della repubblica. Il siluramento di Emma Bonino agli Esteri è stato il nodo di queste ultime ore: Napolitano, si è appreso, non ha mancato di rappresentare a Renzi tutte le sue perplessità su questa scelta. Non per l'ottimo profilo della Mogherini, ma il capo dello Stato riteneva che in un momento non semplice nelle relazioni internazionali si potesse mantenere la vecchia architettura. Ma Renzi ha spiegato che aveva bisogno di mandare un messaggio di forte novità anche all'estero e che non sarebbe bastata la presenza di Padoan a rassicurare le cancelliere europee della voglia dell'Italia di tenere a bada i conti pubblici.

Draghi al G20 (23 febbraio 2014).
«Tante volte ho avuto modo di parlare, anche quando ero governatore della Banca d'Italia, dell'esigenza di realizzare insieme stabilità e riforme». Risponde cosi il presidente della Bce, Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa subito dopo il g20, a chi gli chiede cosa dovrebbe fare il nuovo governo italiano per colmare il gap di crescita. E aggiunge: «Oggi il problema principale non è cosa fare, ma farlo». Da Sidney, Draghi saluta come «un impegno molto importante» la decisione del gruppo dei paesi di vecchia e nuova industrializzazione di sottoscrivere un'intesa volta ad accelerare la crescita del Pil mondiale del 2 per cento nell'arco di cinque anni. Che è come dire ottenere, entro il 2018, un aumento di ricchezza globale pari a 2,5 trilioni di dollari. Quest'obiettivo, secondo i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali, é raggiungibile «rafforzando gli investimenti e aumentando l'occupazione», e anche concordando una maggiore trasparenza nelle politiche monetarie dopo il "tapering" Usa. Nel comunicato diffuso al termine del meeting, i paesi del G20 hanno espresso inoltre «profondo disappunto» riguardo al fatto che le riforme dell'Fmi concordate con gli Usa devono ancora essere ratificate. Nel testo c'è anche il via libera al piano anti-evasione fiscale, attraverso lo scambio automatico di dati fiscali messo a punto dall'Ocse e che oltre 42 paesi si sono impegnati ad adottare. Quanto al presidente della Bce, Draghi ha lanciato anche un cautissimo segnale positivo sul passo dell'economia in Eurolandia: se è vero che la ripresa economica resta modesta, essa «è sempre meno fragile. Si è inoltre rafforzata la fiducia– ha aggiunto- non solo quella dei mercati finanziari ma anche quella dei consumatori e delle imprese dell'Eurozona». Non basta: il presidente dell'Eurotower ha rimarcato che la discesa del tasso d'inflazione sta rafforzando il potere d'acquisto e che quest'anno l'azione di consolidamento fiscale ha drenato meno risorse dello scorso anno; infine, ha affermato che alcune riforme di struttura realizzate nei paesi dell'Eurozona stanno avendo effetto. Non mancano però i rischi al ribasso in questo scenario, secondo Draghi. E vero, è tornato ad affermare, che la deflazione non c'è, perchè non ci sono segni di prezzi che scendono per via di aspettative negative che si autorealizzano. Però la Bce è «pronta a intervenire se sarà necessario» cioè se questo tipo di segnali guadagnassero forza. Per questo, Draghi ha ripetuto che la banca centrale europea segue attentamente le attese d'inflazione e dispone di una vasta gamma di strumenti da utilizzare, qualora servisse.

IL DISCORSO DI RENZI PER LA FIDUCIA AL SENATO (24 febbraio 2014).
«Questo è il tempo del coraggio, che non esclude nessuno e non lascia alibi a nessuno». E’ l’ultima delle frasi pronunciata da Matteo Renzi al termine dei 68 minuti del suo discorso al Senato a sottolineare il senso della sfida che il leader del Pd lancia al Parlamento: dare la fiducia a un presidente giovane che, come lui stesso ha sottolineato, non avrebbe neppure l’età per sedere sugli scranni di Palazzo Madama. Un giovane premier che in quell’aula carica di storica si presenta «in punta di piedi». Che rivendica la «voglia di provare ad andare controcorrente». E che sottolinea di essere lì, sui banchi del governo, accompagnato da un grande carico di «stupore» che la giovane età porta con sè: «Ma noi - ha precisato - siamo qui non per inseguire un record anagrafico, non per allungare il curriculum, siamo qui per parlare un linguaggio di franchezza». E ancora: «Noi chiediamo fiducia perché pensiamo che l’Italia abbia una necessità urgente di uscire dalla crisi». E per farlo dovrà rimboccarsi da subito le maniche, approvando provvedimenti economici e riforme. «Arrivare al 2018 - ha evidenziato il premier - ha un senso solo se avvertiamo l’urgenza di un cambiamento radicale». Poi, con riferimento alle riforme istituzionali che prevedono tra l’altro l’abolizione del Senato, ha aggiunto: «Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio che si trova su questi banchi a chiedere la fiducia» . Poi la massima assunzione di responsabilità: «Se questa sfida la perderemo, la colpa sarà mia». Renzi, parlando ai senatori, si è giocato subito la carta dell’orgoglio: «Nel Paese c’è forte l’idea che l’Italia sia una nazione finita . Ma non è così: c’è là fuori un’Italia che è davanti a noi. E noi dobbiamo agganciarla». E ha indicato il semestre europeo di presidenza italiana, a partire da luglio, come una meta arrivando con i «compiti» - ovvero le riforme e gli incentivi all’economia - già fatti. «Il semestre europeo non deve essere solo un’occasione per fare nomine - ha puntualizzato -. A volte si considera l’Europa come la madre dei nostri problemi. Per me e per il mio partito non è così. Nella tradizione europeista sta la parte migliore della nostra società». Il premier ha poi reso omaggio, senza citarlo espressamente per nome, ad Altiero Spinelli, primo ideologo degli stati uniti d’Europa. E ha esaltato la «generazione Erasmus», quella dei giovani nati e cresciuti nella pienezza dello spirito europeo, e ha enfatizzato il dovere di dare ad essa fiducia e speranza per il futuro. «Questo è un governo politico - ha poi rivendicato Renzi - e lo dimostra la presenza al suo interno di tre segretari di partito. Avrei preferito arrivare qui con un mandato elettorale, ma non ce n’erano le condizioni». In ogni caso, aveva evidenziato poco prima in risposta ai mugugni del M5S, «noi non abbiamo paura di andare ad elezioni, anzi: nelle ultime tornate regionali noi ci siamo sempre stati, anche quando era difficile e quando i sondaggi erano negativi. E le abbiamo sempre vinte» . Pochi minuti dopo una seconda stoccata ai pentastellati, i più irrequieti tra i banchi: «So che per voi è difficile stare in un partito il cui leader dice di non essere democratico». E rivolgendosi ai senatori del Pd: «Vogliamo loro bene anche se loro non ne vogliono a noi». Renzi, nel suo intervento, ha scelto di puntare i riflettori sull’esigenza di rilanciare la scuola e il mondo dell’istruzione perché «da lì riparte un Paese, da lì nasce la sua credibilità». E ha annunciato l’intenzione di andare da presidente del Consiglio, come faceva da sindaco, in visita a una scuola ogni settimana a partire già da mercoledì, in un istituto di Treviso. Ha parlato della cultura come di un’occasione per creare posti di lavoro («I valori della cultura fanno di noi una superpotenza mondiale»), ha spiegato il bisogno di superare il bicameralismo perfetto con l’eliminazione del Senato elettivo e la sua trasformazione in una camera di rappresentanza degli enti locali. Poi, dopo avere ringraziato il suo predecessore Enrico Letta e chiesto per lui un applauso perché «il cambio di governo non oscura i risultati di quello precedente», Renzi ha messo in evidenza la necessità di cambiare passo e di portare a compimento tutte le riforme su cui si è basato l’accordo di legislatura, a partire dall’Italicum, la nuova legge elettorale, già incardinata nei lavori della Camera. Il presidente del Consiglio ha parlarto dei tre impegni immediati per il suo esecutivo: lo «sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione» con l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti; la «costituzione di un fondo di garanzia per le piccole e medie imprese che non riescono ad accedere al credito»; e la «riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale (ovvero il costo del lavoro per le imprese, nda) che dia risultati già in questi primi mesi del 2014». Renzi ha poi aggiunto al pacchetto per i primi cinque mesi di governo anche la riforma complessiva del sistema della giustizia, a partire da quella civile, con le sue incognite e i suoi tempi lunghi. Ma senza tralasciare quella penale perché «esiste una preoccupazione costante nell’opinione pubblica sul fatto che corra sempre il rischio di arrivare tardi e di colpire sempre gli stessi».
Con 169 sì e 139 no Matteo Renzi ha ottenuto la Fiducia al Senato. Hanno votato a favore Pd, Ncd, Scelta Civica, Per l'Italia e gruppo Per le autonomie-Psi-Maie; contrari Forza Italia, M5S, Lega, Sel e Gal. Domani alle 10.00 il governo Renzi chiederà la Fiducia a Montecitorio. Renzi si presenta ai senatori di Palazzo Madama dichiarando di non avere neanche l'età per sedere tra loro e suscita alcune critiche per il tono ritenuto poco rispettoso e troppo disinvolto. Con un atteggiamento informale e tenendo spesso una mano in tasca, Renzi parla a braccio. L'ex sindacato di Firenze liquida le critiche precisando che "questo governo non avrà mai un doppio registro. Siamo abituati a stare in mezzo alle persone e non abbiamo paura di affrontare le piazze". Si augura inoltre di "essere l'ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia al Senato, consapevole del rischio di fare questo discorso di fronte ai senatori che stanno per votare la fiducia al suo governo". Al centro del discorso il rilancio della scuola ed un piano straordinario per l'edilizia scolastica, lo sblocco totale dei debiti della Pubblica Amministrazione e la riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale ma non solo. Fondamentale, ribadisce il neo premier, sono anche la semplificazione fiscale e la riforma della giustizia, oltre ad alcuni interventi sul lavoro, con aiuti alle pmi e sussidio di disoccupazione universale. Renzi conclude citando un passaggio sui giovani di Sandro Pertini, Presidente della Repubblica in carica dal 1978 al 1985, scomparso il 24 febbraio 1990: "I giovani non hanno bisogno di premi, ma di esempi di coerenza, onestà ed altruismo. Le persone fuori di qua non hanno bisogno di discorsi, ma che finalmente si passi dalle parole ai fatti".

Un altro marchio se ne va (25 febbraio 2014).
Krizia, la storica maison milanese, fondata 60 anni fa da Mariuccia Mandelli, passa ai cinesi di Shenzhen Marisfrolg Fashion Co Ltd, azienda del pret-a-porter di fascia alta. Un altro pezzo della moda italiana finisce quindi all'estero, dopo le operazioni che hanno portato Loro Piana, Emilio Pucci e Fendi nelle mani del gruppo francese Lvmh, Gucci, Bottega Veneta e Sergio Rossi sotto il controllo dell'altro colossofrancese Ppr di Francois-Henry Pinault e Valentino alla corte degli emiri del Qatar. «Krizia e Shenzhen Marisfrolg annunciano di avere trovato un accordo per il trasferimento della proprietà della divisione moda di Krizia alla società con sede a Shenzhen», si legge in una nota. Le due società hanno però precisato che le «pratiche di ufficializzazione dell'accordo sono ancora in corso e che la formalizzazione è prevista entro aprile 2014». Top secret, dunque, i dettagli. L'azienda cinese è stata fondata nel 1993 da Zhu ChongYun, che ricoprirà il ruolo di presidente del board e direttore creativo della casa di moda milanese. Il debutto della sua prima collezione è previsto nel febbraio 2015. Nei prossimi 5 anni la società prevede di aprire nuovi negozi a insegna Krizia a Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen e Chengdu e di riaprire punti vendita nelle più importanti città in Europa, Giappone e Stati Uniti. «Sono corteggiatissima ma per il momento non ho alcuna intenzione di vendere, quando lo farò sarà una decisione molto pensata e sceglierò in base a ciò che è consono al mio modo di vedere», diceva Krizia (nome preso a prestito da Mariuccia Mandelli dal dialogo di Platone sulla vanità femminile) all'inizio del 2000, più di 14 anni fa. Oggi il momento è arrivato ed evidentemente la signora, che il prossimo anno spegnerà 90 candeline, ha trovato l'acquirente giusto nella persona di Zhu ChongYun, fondatrice della Shenzen Marisfrolg Fashion, e ora anche presidente e direttore creativo della casa di moda milanese. Con Mrs Zhu deve essere stata vera sintonia, visto che Mariuccia Mandelli - donna notoriamente dal carattere non facile, che negli anni ha messo alla porta più di un collaboratore eccellente, a partire da Alber Elbaz - ha ritenuto che «abbia la forza e il talento per continuare al meglio il nostro lavoro e portare Krizia a nuovi successi nel mondo». Intanto le dichiarazioni della nuova proprietà rassicurano i dipendenti che, nonostante i rumors che si inseguivano da tempo, hanno appreso la notizia solo oggi. Ma non è stata una doccia gelata perchè Mrs Zhu ha promesso di «rafforzare il mito di Krizia nel mondo, seguendone lo stile e ripetendone i grandi successi», aprendo nuovi negozi in Cina e riaprendo gradualmente i punti vendita nelle più importanti città in Europa, Giappone e Usa. La promessa è anche quella di «dare continuità allo stile di Krizia», mantenendo in Italia la produzione. Così, al dispiacere per l'addio della fondatrice, nata a Bergamo nel 1925, per i lavoratori non si aggiunge il timore per il futuro, perchè il gruppo sembra solido e intenzionato a riportare il marchio ai livelli di un tempo. Non come Paris Group che, dopo aver rilevato il marchio Ferrè, ha venduto lo storico palazzo della maison, licenziato gli stilisti e portato il marchio lontano dalle passerelle. Mariuccia, che già nel 2000 confessava «I miei amici non ci credono, ma io vorrei davvero lasciare, ritirarmi», potrà finalmente riposarsi dopo 50 anni tondi di carriera, iniziata con una sfilata a Palazzo Pitti nel 1964, dove si aggiudicò il premio Critica della Moda. Con la sua moda fatta di ricerca, creatività, progetto e design, fondata su una nitida geometria, ma anche ricca di riferimenti e preziosismi, Krizia ha contribuito alla nascita e alla fortuna del pret-a-porter italiano. Fin dagli esordi ha accoppiato a ogni collezione un animale portafortuna, in una sorta di giungla diventata un rito: lo zoo di Krizia. Appassionata di arte moderna e contemporanea, che molto hanno influito sulle sue creazioni, la stilista è sempre andata alla ricerca di nuove tecniche e materiali, rimanendo però sempre fedele al suo famoso plissè, protagonista anche della collezione per il prossimo inverno, andata in passerella solo pochi giorni fa a Milano, la città dove ha aperto lo spazio che porta il suo nome, che in 30 anni ha ospitato eventi con scrittori, artisti, designers, musicisti, da Doris Lessing a Ingo Maurer, da Gillo Dorfles a Dario Fo. Un amore per l'arte ricambiato dalle tante mostre che le sono state dedicate da musei come il Musèe des Arts et de la Mode di Parigi e il Guggenheim di New York. Ora tocca a Mrs Zhu proseguire questa storia di grandi successi: un nuovo inizio che debutterà in passerella, a Milano Moda Donna, tra un anno esatto.

SPREAD A 190 (26 febbraio 2014).
Il governo di Matteo Renzi ha incassato la fiducia anche della Camera e la reazione quasi unanime al suo discorso programmatico è stata improntata all'approvazione delle idee, ma al dubbio sulle coperture economiche delle misure proposte. Il neo presidente del Consiglio ha mostrato i muscoli, dicendo che l'Italia non si farà dettare la linea dall'Europa, ma già tra pochi giorni (il 5 marzo) l'Italia sarà sul "banco degli imputati" della Commissione di Bruxelles, insieme alla Germania, chiamata a giudicare i progressi sul deficit italiano e gli equilibri dei flussi della domanda per Berlino. I mercati hanno reagito positivamente all'insediamento del nuovo esecutivo, portando i tassi dei Ctz messi in asta ieri ai minimi storici. Oggi un nuovo segnale positivo, ancora più importante visto la natura dei titoli messi in asta, è arrivato dai Bot: il Tesoro ha collocato gli 8,5 miliardi in asta e il rendimento medio è sceso sotto la soglia dello 0,5% per la prima volta dall'introduzione dell'euro attestandosi su 0,455%, da 0,59% dell'asta di gennaio. In leggero calo il rapporto di copertura a 1,44 da 1,52 di gennaio. Non si sentono quindi tensioni per le parole di Delrio, che aveva lanciato l'ipotesi di alzare le imposizioni sui Bot; proprio sui titoli di Stato, per altro, Renzi ha chiarito che non ha intenzione di tassare il risparmio del retail, ma pensa piuttosto a una revisione dell'imposizione sulle rendite finanziarie nel suo complesso. Via invece all'accelerata sui rimborsi dei debiti della Pubblica amministrazione, per il tramite della Cdp. Lo spread tra Btp e Bund tedeschi in calo verso 190 punti base, con il titolo decennale italiano che rende il 3,57% sul mercato secondario. Al di là delle questioni domestiche, il momento di stallo dei listini si spiega con una particolare situazione internazionale e con l'attesa per dati sensibili in arrivo nei prossimi giorni. In Cina si riacuiscono invece le tensioni: da una parte sorprende la debolezza dello yuan, che è sceso ai minimi dal luglio scorso. Dall'altra si riacuiscono i timori sulla qualità del credito emesso con grande facilità dalle banche, che ora non si fidano né delle industrie né tra di loro. Oggi i listini azionari hanno comunque rimbalzato dopo la recente debolezza. Intanto i titoli di Stato dei Paesi periferici dell'Ue continuano a beneficiare dello spostamento della liquidità dagli emergenti verso i mercati più maturi, ma in grado di offrire buoni rendimenti proprio come Italia e Spagna. L'attenzione degli investitori si concentra oggi sulla rilevazione del Pil del Regno Unito, che nel quarto trimestre è salito dello 0,7% e del 2,7% annuo, mentre in Italia l'Istat ha diffuso i dati sui salari contrattuali. Da questi dati si nota che aumenta a gennaio l'indice delle retribuzioni contrattuali orarie, segnando una crescita dello 0,6% che diventa un +1,4% nei confronti di gennaio 2013. Alla fine del mese scorso, però, la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è del 66,2% nel totale dell'economia e del 56,3% nel settore privato. I contratti in attesa di rinnovo sono 51 e riguardano circa 8,5 milioni di dipendenti: si tratta della quota più alta dal gennaio del 2008. In pratica due dipendenti su tre stanno aspettando. L'attesa del rinnovo per i lavoratori - spiega ancora l'Istat - con il contratto scaduto è in media di 24,5 mesi per l'insieme dei dipendenti e di 11,8 mesi per quelli del settore privato. Con riferimento ai principali macrosettori, a gennaio le retribuzioni contrattuali orarie registrano un incremento tendenziale dell'1,8% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione. I settori che a gennaio presentano gli incrementi tendenziali maggiori sono: energia e petrolio (4,6%); estrazione minerali (4,3%); telecomunicazioni (4,0%). Si registrano variazioni nulle in tutti i comparti della pubblica amministrazione, che l'altra parte sono interessati dal blocco delle retribuzioni. Tra i contratti monitorati dall'indagine Istat, nel mese di gennaio è stato recepito un solo accordo e ne sono scaduti cinque. Alla fine di gennaio 2014, i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica riguardano il 33,8% degli occupati dipendenti e corrispondono al 33,7% del monte retributivo osservato.

ALTRI MARCHI SE NE VANNO (27 febbraio 2014).
Dalla moda, con il caso Versace, all'alimentare si moltiplicano le operazioni di acquisizione dei gioielli del Made in Italy che trovano in questi settori le loro espressioni migliori. Ad affermarlo e' la Coldiretti nel commentare l'acquisto da parte di Blackstone, private equity americano, del 20 per cento delle quote della casa di moda italiana, la terza dall'inizio dell'anno a finire nel mirino di investitori stranieri, dopo Krizia e Poltrona Frau. Un fenomeno, quello della vendita di marchi storici del tessuto produttivo italiano, che interessa tutti i settori dall'agroalimentare fino ai trasporti, ma anche la moda. Nel 2013 era stata la volta di Loro Piana finire al gruppo francese LVMH per 2 miliardi di euro. Alla fine del mese di giugno 2013 la stessa multinazionale del lusso LVMH aveva acquisito - sottolinea Coldiretti - una partecipazione di maggioranza nel capitale sociale della pasticceria Confetteria Cova proprietaria della societa' Cova Montenapoleone Srl, che gestisce la nota pasticceria milanese. La Lvmh di Bernard Arnault aveva gia' in portafoglio Bulgari ed e' proprietario di Fendi, Emilio Pucci e Acqua di Parma mentre - continua la Coldiretti - la sua rivale francese Ppr di Francois-Henry Pinault controlla Gucci, Bottega Veneta e Sergio Rossi. Il colpo piu' grosso nell'alimentare i francesi lo hanno messo a segno nel 2011 con la Lactalis che e' stata, invece protagonista - afferma la Coldiretti - dell'operazione che ha portato la Parmalat a finire sotto controllo transalpino, dopo aver gia' acquisito in passato la Galbani, la Locatelli e l'Invernizzi. Se nella moda gli emiri del Qatar si sono assicurati lo scorso anno lo storico marchio Valentino, assieme alla licenza Missoni nel settore vitivinicolo quest'anno - continua Coldiretti - un imprenditore cinese della farmaceutica di Hong Kong, che ha acquistato per la prima volta un'azienda vitivinicola agricola nel Chianti: l'azienda agricola Casanova - La Ripintura, a Greve in Chianti, nel cuore della Docg del Gallo Nero. Nel 2013 - continua Coldiretti - si sono verificate la cessione da parte della societa' Averna dell'intero capitale dell'azienda piemontese Pernigotti al gruppo turco Toksoz, e il passaggio di mano del 25 per cento della proprieta' del riso Scotti ceduto dalla famiglia pavese al colosso industriale spagnolo Ebro Foods. Nel 2012 la Princes Limited (Princes), una controllata dalla Giapponese Mitsubishi, aveva siglato un contratto con AR Industrie Alimentari SpA (ARIA), leader italiana nella produzione di pelati, per creare una nuova societa' denominata "Princes Industrie Alimentari SrL" (PIA), controllata al 51 per cento dalla Princes, mentre il marchio Star passa definitivamente in mano spagnola con il gruppo Agrolimen che ha aumentato la propria partecipazione in Gallina Blanca Star al 75 per cento. Nel 2011 la societa' Gancia, casa storica per la produzione di spumante, e' divenuta di proprieta' per il 70 per cento dell'oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vodka Russki Standard mentre il 49 per cento di Eridania Italia Spa operante nello zucchero e' stato acquisito dalla francese Cristalalco Sas e la Fiorucci salumi e' passata alla spagnola Campofrio Food Group, la quale ha ora in corso una ristrutturazione degli impianti di lavorazione a Pomezia che sta mettendo a rischio numerosi posti di lavoro. Nel 2010 il 27% del gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni Industria Casearia S.p.A fondata nel 1823 che vende tra l'altro Parmigiano Reggiano e Grana Padano e' stato acquisito dalla francese Bongrain Europe Sas e la Boschetti Alimentare Spa, che produce confetture dal 1981, e' diventata di proprieta' della francese Financie're Lubersac che ne detiene il 95 per cento. L'anno precedente, nel 2009 - prosegue Coldiretti - e' iniziata la cessione di quote della Del Verde industrie alimentari spa che e' divenuta di proprieta' della spagnola Molinos Delplata Sl, la quale fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata. Nel 2008 la Bertolli era stata venduta all'Unilever per poi essere acquisita dal gruppo spagnolo SOS, e' iniziata la cessione di Rigamonti salumificio spa, divenuta di proprieta' dei brasiliani attraverso la societa' olandese Hitaholb International, mentre la Orzo Bimbo e' stata acquisita dalla francese Nutrition e Sante' S.A. del gruppo Novartis. Lo stesso anno e' stata ceduta anche Italpizza, l'azienda modenese che produce pizza e snack surgelati, all'inglese Bakkavor acquisitions limited. Nel 2003 hanno cambiato bandiera anche la birra Peroni, passata all'azienda sudafricana SABMiller mentre negli anni Novanta era stata la San Pellegrino ad entrare nel gruppo Nestle' e la Stock ad essere venduta alla tedesca Eckes A.G per poi essere acquisita nel 2007 dagli americani della Oaktree Capital Management. La stessa Nestle' - conclude Coldiretti - possedeva gia' dal 1993 il marchio Antica gelateria del Corso e addirittura dal 1988 la Buitoni e la Perugina.

Disoccupazione ancora in salita (28 febbraio 2014).
E' il peggior dato dall’inizio della crisi: il tasso di disoccupazione a gennaio è balzato al 12,9%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su dicembre e di 1,1 su base annua. I disoccupati sfiorano i 3,3 milioni nel 2013, l' incremento «interessa entrambe le componenti di genere e tutte le ripartizioni». Lo rileva l’Istat (dati provvisori), che sottolinea che si tratta del tasso più alto sia dall’inizio delle serie mensili, gennaio 2004, sia delle trimestrali, primo trimestre 1977. Sale anche il tasso di disoccupazione giovanile, balzando al 42,4%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,0 punti nel confronto con l’anno precedente. I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 690 mila. L'incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all'11,5%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,8 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,4%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,0 punti nel confronto tendenziale. Nel 2013 gli occupati sono diminuiti di 478 mila (-2,1%) rispetto al 2012, ovvero di quasi mezzo milione. Tra il 2008 e il 2013, gli anni della crisi, si contano 984 mila occupati in meno, ovvero quasi un milione. Nella media del 2013 il numero di occupati è sceso di 478.000 unità, pari a una flessione del 2,1%. L’Istat, precisa che la riduzione rimane più forte nelle regioni meridionali (-4,6%, pari a -282.000 unità): se la disoccupazione nella media del 2013 ha raggiunto un tasso del 12,2%, nel Mezzogiorno si registra un tasso del 19,7%. Nella media 2013 i disoccupati erano 3,1 milioni (+13,4%) con un aumento soprattutto per gli uomini (+15,8%) mentre per le donne si registra un aumento del 10,7%. Torna a scendere nel 2013 anche il lavoro precario, definito dall’Istat come lavoro atipico: se i dipendenti a tempo indeterminato sono 190 mila in meno, quelli a tempo determinato sono in calo di 197 mila unità in un anno.

La Crimea tra Ucraina e Russia (1 marzo 2014).
La Crimea è una penisola di 26 mila km quadrati, appartenente all'Ucraina; si trova sulla costa settentrionale del Mar Nero ed è amministrata dalla Repubblica Autonoma di Crimea. Il toponimo deriva dalla parola tatara Qirim poi traslata in greco in Krimaia. Gli antichi Greci la chiamavano Taurica o Tauride. L'Istmo di Perekop a nord, che la collega al continente, è lungo 5,7 km e segna il confine con la regione ucraina di Kherson, mentre gli altri suoi confini sono le coste bagnate dal Mar Nero a occidente e a sud, e dal Mar d'Azov a est.
I primi abitanti di Crimea dei quali si sono trovate tracce sono stati i cimmeri che furono espulsi dagli sciti nel VII secolo a.C., fra i loro re si tramanda il nome di Tauri. Nello stesso periodo i greci vi fondarono molte colonie. Due secoli dopo (438 a.C.) l'arconte, o governatore degli ioni assunse il titolo di Re del Bosforo, uno stato che mantenne stretti legami con Atene, rifornendo la città di farina e altri beni. L'ultimo di questi re, pressato dagli sciti, si pose sotto la protezione di Mitridate VI, Re del Ponto (Turchia), nel 114 a.C. Dopo la morte di quest'ultimo, suo figlio Farnace II, come ricompensa per l'assistenza resa ai romani nella guerra contro il padre, venne nominato da Pompeo nel 63 a.C. sovrano del Regno del Bosforo. Nel 15 a.C. il territorio venne di nuovo restituito al Re del Ponto, ma da qui in poi figurerà come stato assoggettato all'Impero romano. Durante i secoli successivi la Crimea venne invasa o occupata da goti (250), unni (376), bulgari (V secolo), khazari (VIII secolo), Rus' di Kiev (X-XI secolo), bizantini (1016), kipchaki (1050), veneziani e genovesi (XIII secolo) e mongoli (1237). Il Khanato fu fondato quando alcuni clan dell'Impero dei mongoli decisero di stabilirsi, definitivamente, in Crimea; invitarono, pertanto, un contendente al trono dell'Orda d'Oro, Haci Giray, ad essere il loro khan. Haci Giray accettò e giunse dalla Lituania, il luogo in cui era in esilio. Fondò il suo stato indipendente nel 1441 dopo una lunga battaglia per l'indipendenza dall'Orda d'Oro. Il khanato comprendeva la penisola della Crimea (eccetto la costa meridionale e sud-occidentale e i porti, controllati dalla Repubblica di Genova) e le steppe dell'attuale Ucraina e Russia. Le città commerciali in mano ai genovesi vennero conquistate dal generale turco ottomano Gedik Ahmet Pascià nel 1475. Dopo quell'anno i Khan di Crimea governarono come principi tributari dell'Impero ottomano finché nel 1736, nel corso della guerra russo-turca del 1735-1739, la Crimea fu occupata e devastata dalle truppe russe al comando del feldmaresciallo Burkhard von Münnich che tuttavia dovette poi ritirarsi in Ucraina. L'anno successivo vi irruppero nuovamente le truppe russe del generale Peter Lacy. Il trattato di pace che pose fine alla guerra ebbe come conseguenza la cessione ai russi del porto di Azov, mentre il Khanato di Crimea rimase uno stato vassallo dell'Impero ottomano. Con la successiva guerra russo-turca (1768-1774), i russi imposero all'Impero ottomano la pace di Küçük Kaynarca, in base alla quale il Khanato di Crimea perse il suo stato di signoria vassalla della Sublime Porta e divenne formalmente uno stato indipendente, ma di fatto entrò nell'orbita dell'influenza della Russia. Infine, nel 1784, approfittando dei conflitti di potere sorti all'interno della famiglia del Khan di Crimea, le truppe russe entrarono nel Khanato a sostegno del Khan, il quale offrì loro l'intero territorio: l'annessione fu ufficialmente proclamata l'8 gennaio 1784. L'Impero ottomano reagì a questa invasione dichiarando guerra alla Russia (guerra russo-turca del 1787-1792), ma ne uscì sconfitto e con il Trattato di Iassy la Crimea entrò definitivamente a far parte dell'Impero russo.
La guerra di Crimea fu un conflitto combattuto dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 fra l'Impero russo da un lato e un'alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna dall'altro. Il conflitto ebbe origine da una disputa fra Russia e Francia sul controllo dei luoghi santi della cristianità, in territorio ottomano. Quando la Turchia accettò le proposte francesi, la Russia nel luglio 1853 la attaccò. La Gran Bretagna, temendo l'espansione russa verso il Mediterraneo, si unì alla Francia ed entrambe si mossero per difendere la Turchia dichiarando guerra alla Russia nel marzo del 1854. L'Austria appoggiò politicamente le potenze occidentali e il Regno di Sardegna, nel gennaio 1855, inviò un contingente militare al fianco dell'esercito anglo-francese dichiarando a sua volta guerra alla Russia. Il conflitto si svolse soprattutto nella penisola di Crimea dove le truppe alleate misero sotto assedio la città di Sebastopoli, principale base navale russa del Mar Nero. Dopo vani tentativi dei russi di rompere il blocco e l'attacco finale degli alleati, Sebastopoli fu abbandonata dai difensori, il 9 settembre 1855, portando alla sconfitta della Russia. La Guerra di Crimea devastò il tessuto economico e sociale di Crimea e i tatari che la abitavano furono costretti ad abbandonare la loro madrepatria non solo per le conseguenze della guerra ma anche per le persecuzioni e le confische di cui furono vittime. I sopravvissuti al viaggio, alla fame e alle malattie si stabilirono in Anatolia e in altre aree dell'Impero ottomano. Per la prima volta nella storia i tatari di Crimea divennero una minoranza nella loro terra, mentre la maggioranza di essi viveva la diaspora. Alla fine il governo russo decise di fermare il processo anche perchè il territorio iniziò a soffrire a causa dell'abbandono delle terre coltivabili.
Durante la guerra civile russa la Repubblica Popolare di Crimea fu una roccaforte dell'Armata Bianca anti-bolscevica, proprio qui i Russi Bianchi guidati dal Generale Wrangel fecero la loro ultima resistenza contro l'Armata Rossa nel 1920.
In seno all'URSS nel 1921 fu istituita la Repubblica autonoma Socialista Sovietica di Crimea. La Crimea fu teatro di alcune delle più sanguinose battaglie della seconda guerra mondiale. Il 18 maggio 1944 l'intera popolazione dei tatari di Crimea venne deportata con la forza dal governo sovietico di Stalin, come forma di punizione per la creazione del Wolgatatarische Legion, che aveva combattuto a fianco del Terzo Reich. Il 21 maggio 1944, la pulizia etnica di Crimea era completata. Si stima che il 46% dei deportati morì per la fame e le malattie. Nel 1967, i tatari di Crimea vennero riabilitati, ma venne loro vietata la possibilità di tornare legalmente nella loro patria fino agli ultimi giorni dell'Unione Sovietica. La Repubblica Autonoma Socialista Sovietica di Crimea venne abolita nel 1945 e trasformata nella "provincia" di Crimea della RSS Russa. Il 19 febbraio 1954, venne trasferita dal leader sovietico Nikita Chrušcëv alla RSS Ucraina come gesto per commemorare il 300º anniversario dei Trattato di Pereyaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia.
Con il collasso dell'Unione Sovietica la Crimea è entrata a far parte dell'Ucraina, una soluzione osteggiata dalla gran parte della popolazione ormai di origine russa e causa di tensioni tra Russia e Ucraina. Una delle ragioni della forte russificazione della penisola è da addebitare alle tante basi della flotta del Mar Nero costruitevi dai russi. Con la sconfitta elettorale delle forze politiche nazionaliste più radicali in Ucraina, la tensione si è lentamente allentata. La Crimea ha proclamato l'autogoverno il 5 maggio 1992, ma in seguito ha accettato di rimanere all'interno dell'Ucraina come repubblica autonoma.
La secessione è l'potesi ventilata a più riprese sia dai politici filo-russi della penisola che da Mosca, ma rimasta finora a livello di propaganda. Dopo la vittoria della piazza Maidan a Kiev il parlamento di Simferopol sotto la pressione della piazza e dei militari che l’hanno occupato ha indetto per il 30 marzo un referendum sulla “estensione dell’autonomia della Crimea” che di fatto dovrebbe essere una consultazione sulla secessione dall’Ucraina.
La Crimea è abitata da due milioni di persone, il 57% della popolazione sono russi e il 27% ucraini. La lingua prevalente è il russo. I tatari, attualmente sono il 12% della popolazione e in maggioranza sostengono il governo di Kiev e sono contrari a un avvicinamento con Mosca, nemica storica. In piazza negli ultimi giorni hanno difeso la causa di piazza Maidan al grido di “Allah akbar” scontrandosi con i manifestanti filo-russi.
Una delle quattro flotte della marina militare russa, è di stanza a Sebastopoli, città storica per la gloria militare di Mosca e base militare. Conta circa 11 mila effettivi più altrettanti di personale e ha circa 60 navi (parte delle quali dislocate a Novorossiysk, in territorio russo). La sua permanenza in territorio ucraino è stata oggetto di un contenzioso lungo 20 anni, mentre il presidente ucraino Yushenko voleva sfrattare le navi russe nel 2017, con Yanukovich l’affitto della base è stato prorogato al 2042. Sebastopoli è sede anche del comando della marina militare ucraina, ma di fatto è controllata dai russi che continuano a considerarla più russa che ucraina.
I Berkut sono le truppe speciali della polizia che si sono distinte negli scontri a Kiev e alle quali vengono attribuiti i rapimenti e le torture dei militanti di piazza Maidan, oltre che la strage nelle strade. Disciolti mercoledì dal nuovo governo ucraino, i Berkut di stanza in Crimea si sono ribellati e hanno partecipato al blitz contro il parlamento. Il ministero degli Esteri russo ha promesso di fornire ai Berkut in tempi brevissimi la cittadinanza russa offrendogli così una protezione contro eventuali persecuzioni ucraine per i massacri di Kiev.
Dopo il blitz al parlamento di Simferopol il governo che aveva dichiarato lealtà a Kiev è stato rimosso dai deputati e al suo posto si è insediato l’esecutivo guidato da Serghei Aksionov, leader della comunità russa. Il nuovo premier ha assunto il controllo di tutte le strutture militari, di polizia e di pubblica sicurezza della penisola, minacciando di licenziamento gli agenti che avrebbero risposto agli ordini del governo centrale di Kiev.
Manifestazioni di qualche migliaio di persone nei giorni scorsi hanno chiesto la secessione dall’Ucraina e l’adesione alla Russia, eleggendo anche in piazza un “sindaco” di Sebastopoli, l’imprenditore Andrey Chaly, cittadino russo. Militanti di organizzazioni filo-russe hanno aperto le iscrizioni a “milizie di autodifesa” e hanno provato a espugnare il parlamento appendendo sull’edificio la bandiera russa. Dopo che sono stati respinti dai tartari, l’occupazione del parlamento è stata attuata dai militari e dai Berkut, e i manifestanti sono passati a ruolo di sostegno in piazza.
Da giorni in Crimea si alternano grossi calibri della politica russa, dai deputati di punta della maggioranza putiniana della Duma ai leader nazionalisti come Vladimir Zhirinovsky, ad attori e cantanti della play-list del Cremlino. Tutti promettono agli abitanti della Crimea protezione, sostegno, passaporti russi e aiuti economici.
Il governo ucraino di Arseny Yatseniuk ha denunciato un’aggressione militare di Mosca contro la Crimea e si è rivolto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Kiev ha anche chiesto per mezzo di note diplomatiche alla Russia “consultazioni urgenti” nell’ambito del Trattato sull’amicizia tra i due Paesi, nonostante il Cremlino non abbia ancora riconosciuto il nuovo potere ucraino continuando a ritenere legittimo il presidente in fuga Viktor Yanukovich. Mosca si è rifiutata di aprire un dialogo sostenendo che le vicende in Crimea erano un “affare interno” dell’Ucraina. In ambito Onu la Russia si è opposta all’invio di una missione di mediatori considerandola una “ingerenza” nella volontà del popolo della Crimea.
Giova ricordare che nel 1994 l’Ucraina ha reso alla Russia le testate nucleari ereditate dall’ex Urss. In cambio Washington e Mosca si sono impegnate a fare da garanti all’incolumità e all’integrità territoriale del neonato Paese. Il leader nazionalista ucraino Oleg Tyahnybok ha ipotizzato che, dopo che la Russia ha palesemente violato questo impegno, l’Ucraina abbia diritto a dotarsi di nuovo di un arsenale nucleare, cosa fattibile in “3-6 mesi” grazie alle tecnologie e alle industrie rimaste dai tempi dell’Urss.
Per concludere vorrei notare che mentre in Russia Putin è riuscito a liberarsi degli oligarchi, la stessa cosa non è avvenuta in Ucraina; pertanto le iniziative che si susseguono in quel paese vanno monitorate attentamente perchè dietro ogni intervento può esserci la mano di qualche oligarca.

L'Occidente contro la Russia (3 marzo 2014).
Mentre in Crimea continua la silenziosa occupazione voluta da Putin ed autorizzata dalla Duma, il parlamento russo, le diplomazie occidentali sono al lavroro nel tentativo di mettere sempre più nell’angolo Mosca. Nella notte è arrivata da Washington, attraverso una nota congiunta, la decisione dei membri del G7 di non partecipare all’organizzazione del prossimo G8 in programma a Sochi. Oggi, Yulia Timosheko incontrerà il presidente russo Putin e, l’alto rappresentante per la politica estera europea, Catherine Ashton, sarà a Kiev. A Ginevra invece, a margine dei lavori sui diritti umani, si incontreranno il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Crolla la borsa di Mosca con i mercati che bocciano la politica russa in Ucraina. "Noi, i leader di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Usa, e il presidente del Consiglio Ue e il presidente della Commissione Ie, ci uniamo oggi per condannare la chiara violazione della Russia della sovranità e integrità territoriale dell'Ucraina”, recita il testo della nota congiunta diffusa in nottata da Washington. "Le azioni russe in Ucraina violano i principi e i valori che animano il G7 e il G8. Quindi - affermano i membri del G7 - abbiamo deciso per il momento di sospendere la nostra partecipazione alle attività connesse alla preparazione del G8 di giugno a Sochi, fino a quando non tornerà il clima in cui il G8 sia in grado di avere una discussione significativa”. "Siamo uniti nel sostenere la sovranità dell'Ucraina – conclude la nota -, la sua integrità territoriale e il suo diritto di scegliere il proprio futuro. Ci impegniamo a sostenere l'Ucraina nei suoi sforzi per ristabilire l'unità e la stabilità politica ed economica del Paese”. Mentre il segretario di stato americano John Kerry è atteso per domani, martedì, a Kiev, oggi sarà una giornata ricca di incontri. Le agenzie di stampa russa hanno confermato a Ginevra, a margine dei lavori del consiglio sui diritti umani, il ministro degli esteri di Mosca Sergei Lavrov, incontrerà il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. A Kiev è invece attesa lady Catherine Ashton, l’alto rappresentante europeo per la politica estera che incontrerà il nuovo presidente ucraino. Yulia Timoshenko, leader carismatica dell’Ucraina, è invece attesa a Mosca dove incontrerà Vlamidir Putin. Yanukovich resta il presidente dell'Ucraina in base alla Costituzione, nonostante "la sua autorità sia praticamente insignificante". E' quanto scrive su Facebook il premier russo Medvedev. "Sì, l'autorità di Yanukovich è praticamente insignificante ma è un fatto che sia il legittimo capo dello Stato in base alla Costituzione ucraina. Se è colpevole verso l'Ucraina, dovrebbe essere sottoposto ad impeachment secondo la Costituzione e processato. Qualsiasi altra cosa è un'azione arbitraria. Una presa del potere. E in questo caso il regime sarà estremamente instabile. E finirà con un nuovo colpo di Stato. Nuovo spargimento di sangue". La procura generale ucraina ha aperto una nuova inchiesta sul deposto presidente ucraino Yanukovich dopo la sua conferenza stampa in Russia, a Rostov sul Don. La decisione, ha spiegato il viceprocuratore Oleg Makhgnitski, è stata presa per il tentativo di rovesciare l'ordine costituzionale nel Paese. Yanukovich è già indagato per omicidi di massa, un'accusa legata alla repressione della protesta del Maidan. Nel pomeriggio di ieri Germania e Italia si erano fatte interpreti di una posizione maggiormente aperta alla mediazione,rispetto alla linea più rigida di Usa, Regno Unito e Canada. E Angela Merkel aveva avuto un lungo colloquio telefonico con Putin. Le due capitali hanno dato versioni diverse della conversazione. Da Berlino però si è ribadito che la Merkel ha accusato senza mezzi termini il presidente Putin di aver violato il diritto internazionale con "l'inaccettabile intervento russo" in Crimea e ha ottenuto che Putin approvasse la proposta di un "gruppo di contatto" che accerti i fatti e avvii il dialogo sotto l'egida dell'Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea), che però ha scarsi strumenti di intervento diretto. Nuovo record storico negativo per la divisa russa, sullo sfondo delle tensioni in Ucraina: oggi al cambio occorrono 50,50 rubli per un euro e 36,85 per un dollaro. Finora non era mai stato superato il muro simbolico dei 50 rubli per la moneta europea. Gli analisti avevano previsto che i mercati russi avrebbero accolto con forti perdite il via libera parlamentare ottenuto sabato da Vladimir Putin all'intervento armato in Ucraina. E stamattina la borsa di Mosca ha aperto in caduta libera (-8%) costringendo la banca centrale russa ad alzare il tasso d'interessa di un punto e mezzo portandolo al 7%. Sulla crisi ucraina è intervenuto anche il governo italiano, che dopo un vertice tra il premier Matteo Renzi e le ministre della Difesa Roberta Pinotti e degli Esteri Federica Mogherini ha sottolineato in una nota che «il governo italiano si associa alle pressanti richieste della comunità internazionale affinché sia rispettata la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Violazioni di tali principi sarebbero per l’Italia del tutto inaccettabili. L’Italia rivolge alla Russia un forte appello a evitare azioni che comportino un ulteriore aggravamento della crisi e a perseguire con ogni mezzo la via del dialogo. Al tempo stesso il Governo italiano esorta le autorità di Kiev a promuovere ogni sforzo volto alla stabilità e alla pacificazione del Paese nel rispetto della legalità e della tutela delle minoranze» . Prima del vertice Renzi aveva sentito telefonicamente la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, François Hollande. Il premier avrebbe avuto anche un colloquio sull’argomento con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sulla crisi, interviene anche Papa Francesco: l’Ucraina, dice nell’Angelus, «sta vivendo una situazione delicata. Mentre auspico che tutte le componenti del Paese si adoperino per superare incomprensioni e costruire insieme il futuro della nazione, rivolgo alla comunità internazionale un accorato appello: sostenga ogni iniziativa per dialogo e concordia».

Nel 2013 perse 110.000 imprese (4 marzo 2014).
Il 2013 è stato uno degli anni più duri della crisi: fallimenti, procedure non fallimentari e liquidazioni volontarie hanno superato tutti i record negativi e complessivamente si contano 111mila chiusure aziendali, il 7,3% in più rispetto al 2012. Lo affermano dati Cerved: male l’industria, crolla il Nord Est. Nell’intero 2013 si è registrato un boom dei concordati preventivi (+103% rispetto all’anno precedente) mentre per quel che riguarda i fallimenti anche nell’ultimo trimestre i fallimenti hanno proseguito la loro corsa con tassi a due cifre, portando il totale dell’anno oltre quota 14mila, il 12% in più rispetto al precedente massimo, toccato nel 2012. Secondo i dati del gruppo specializzato nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito, il fenomeno è in forte aumento in tutti i settori e in tutte le aree del Paese, riguardando anche segmenti in cui nel 2012 si erano manifestati timidi segnali di miglioramento come l’industria (fallimenti in calo del 4,5% nel 2012 rispetto al 2011 mentre ora sono in aumento del 12,9%) e il Nord Est (da -3,6% di `crack´ tra 2011 e 2012 a una crescita del 19,7%). Nel 2013 si contano inoltre circa 3mila procedure concorsuali non fallimentari, il massimo da oltre un decennio e il 53,8% in più rispetto all’anno precedente. «All’origine di questo boom vi è sicuramente l’introduzione del `concordato in bianco´ - afferma l’amministratore delegato del Cerved, Gianandrea De Bernardis - che ha trovato ampio utilizzo» presso le aziende italiane: la procedura, che consente alle imprese di bloccare le azioni esecutive dei creditori in attesa di preparare un piano di risanamento, ha visto nell’intero 2013 più di 4.400 domande, ma nel terzo e quarto trimestre il numero di domande si è comunque fortemente ridotto, probabilmente a causa delle correzioni apportate a livello legislativo e, in particolare, all’introduzione della facoltà di nominare un commissario giudiziale che possa controllare la condotta del debitore anche nelle fasi di pre-ammissione. L’anno scorso è stato ritoccato anche il record negativo delle liquidazioni volontarie: nel 2013 hanno chiuso l’attività in questo modo 94mila aziende, il 5,6% in più rispetto all’anno precedente, con un aumento del 7% tra le `vere´ società di capitale, cioè quelle che hanno depositato almeno un bilancio valido nel triennio precedente alla liquidazione. A livello territoriale i fallimenti mostrano una forte accelerazione in Emilia Romagna (+25%) e in Trentino Alto Adige (+21%) e un incremento a tassi a due cifre in Veneto (+16%) e in Friuli (+14%). Crescono a ritmi sostenuti anche i fallimenti nelle regioni del Centro (+13%) e del Sud (+10%): qui i maggiori aumenti si registrano in Toscana (+18%) e nel Lazio (+13%), mentre nel Mezzogiorno l’aumento registrato in Sicilia (+27%) viene in parte attenuato dal calo delle procedure in Abruzzo (15%) e Basilicata (+3%). Nel Nord Ovest i fallimenti superano quota 4mila (+8% rispetto al 2012): pesa soprattutto l’aumento della Lombardia (+12%), mentre in Piemonte si registra un incremento molto più modesto (+2%). Fallimenti in calo in Liguria (-8%) e in Valle d’Aosta.

LEGGE ELETTORALE SOLO PER LA CAMERA (5 marzo 2014)
«Se in Parlamento non ci saranno ulteriori dilazioni, venerdì avremo una nuova legge elettorale». Il messaggio del via libera dato da Silvio Berlusconi all’Italicum valido solo per la Camera, arriva nel primo pomeriggio sul telefonino di Matteo Renzi appena terminato l’incontro con la blogger Lina Mehnni e un altro gruppo di giovani donne tunisine protagoniste della primavera araba dei gelsomini. «Ragazze, basta parlare di economia, ditemi come si fa la rivoluzione!», taglia corto sorridendo il presidente del Consiglio seduto in uno dei più caratteristici bar tra narghilè e bicchieri di the alla menta. La sua prima visita ufficiale all’estero da presidente del Consiglio non è a Berlino o Parigi, dove pure andrà presto, ma in una delle più importanti e promettenti capitali della sponda sud del Mediterraneo. A tutti gli effetti si tratta di un manifesto politico che Renzi affigge alla porta del semestre di presidenza italiana dell’Unione. Un modo per dire ai colleghi che occorre spostare un po’ più a sud il baricentro di un’Unione troppo teutonica e, forse, anche poco rispettosa della sua storia. «La discussione oggi in Europa è solo sulla crisi economica e sui parametri economici. Dobbiamo cambiare passo e la presidenza italiana del semestre europeo è un’occasione per lavorare insieme ai paesi del Mediterraneo». Le sue idee Renzi le espone prima al presidente dell’assemblea costituente tunisina, Ben Jaafar, e poi al premier Jomaa che incontra nel palazzo del governo dove si intrattiene con i giornalisti prima di incontrare la comunità italiana nella sede dell’ambasciata italian. Settemila imprese italiane, e non solo big player come Eni, Terna o Benetton, operano in questa terra che da qualche anno accoglie anche numerosi pensionati italiani che trovano il ”posto al sole” economico e salutare. «Irrispettoso» paragonare l’instabilità tunisina a quella italiana perché, si scalda Renzi, «qui non c’era democrazia». Parole importanti per uno che pensa di fare la rivoluzione nel suo Paese e da ieri ritiene di esserci un po’ più vicino grazie al sì di Forza Italia all’emendamento che sblocca la legge elettorale. Renzi è convinto di farcela e di potersi intestare la fine del bicameralismo perfetto e di mettere la sua faccia sulla Terza Repubblica. «Oggi si è fatto un importante passo avanti», spiega il premier mentre il sottosegretario Delrio lo ascolta dalla prima file certificando di fatto il suo ruolo di ”uomo-ombra”, se non di vice del premier. A Roma i due hanno lasciato Guerini e la Boschi e trattare con gli uomini del Cavaliere. Proprio a lui Renzi dedica una risposta: «Vorrei sommessamente far notare a Berlusconi, e a tutti quelli che stanno criticando questo passaggio, che è quello che ci eravamo impegnati a fare: legge elettorale con certezza di un vincitore anche attraverso il ballottaggio, riduzione del numero dei parlamentari, riduzione degli sprechi economici regionali attraverso la modifica del Titolo V della Costituzione». Renzi è consapevole di camminare su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto, ma dà per scontata la cancellazione del Senato e quindi non prende nemmeno in esame la critica di coloro che lo accusano di dotare il Paese - per un anno e oltre - di un sistema elettorale quantomeno bislacco. «E’ un problema secondario - sostiene - perché il Senato verrà abolito». Le resistenze sono tante, ma il presidente del Consiglio le ignora e, soprattutto, tira diritto sapendo che dopo il varo dell’Italicum sarà ancor più difficile far saltare il governo. L’intesa raggiunta, allungando i tempi delle riforma, azzera - a giudizio di Renzi - anche le più o meno stravaganti ipotesi su intese occulte per andare presto al voto. Fedele alla sua cravatta viola, quella delle grandi occasioni, prima di lasciare Tunisi Renzi si chiude per un paio d’ore con i nostri connazionali che lavorano a Tunisi nella sede dell’ambasciata ricordando loro di non «dimenticarsi mai del nostro Paese».

L'Europa chiede tutto (6 marzo 2014).
Sostenere la crescita e tagliare il debito, senza dimenticare di avviare sul serio il processo di riforme strutturali. L’Europa chiede all’Italia di fare le tre cose tutte insieme. «Sfida formidabile», la chiama Olli Rehn, e certo sarà difficile per Matteo Renzi che raccoglie da Berlusconi, Monti e Letta un’eredità che l’Ue reputa insoddisfacente. All’elenco delle solite cose che non vanno nell’economia avanzata meno competitiva del pianeta, si aggiunge l’obbligo di correggere ancora il debito, il che comporta sforzi aggiuntivi. «Un’azione decisiva che riduca il rischio di effetti negativi interni e sull’Eurozona - dice il finlandese - è importante data la misura del paese». Troppo grande per non crescere; abbastanza pesante per contagiare tutti. Il documento di «Analisi approfondita» della situazione dei 17 stati dell’Eurozona colpiti da problemi di competitività - parte cruciale nel coordinamento delle politiche economiche dell’Ue («semestre europeo») - ha confermato le anticipazioni di ieri. L’Italia fa un passo indietro. Scivola dal gruppo dei «sistemi sbilanciati» a quelli «eccessivamente sbilanciati», in buona compagnia adriatica con Croazia e Slovenia. Vuol dire che le recenti cure non sono state abbastanza ambiziose o efficaci per centrare i parametri Ue, creare ricchezza e modernizzare. Si confermano la scarsa concorrenzialità della macchina produttiva, un mercato del lavoro asfittico e conti pubblici in sicurezza solo temporanea. «Vogliamo incoraggiare il governo ad azioni rapide per fare le riforme contenute nelle raccomandazioni del Consiglio Ue preparate con l’Italia», ha assicurato Rehn, che a Bruxelles è responsabile per l’Economia. Quali? Nulla che non sia arcinoto. Roma «deve affrontare il debito molto alto e la debole competitività esterna: le due cose hanno radici nella protratta e fiacca crescita della produttività; richiedono urgente attenzione politica». L’effetto domino è banale: niente riforme, niente crescita; niente crescita, niente taglio del debito; niente taglio del debito, più tensioni sui titoli sovrani. Contagio possibile. Nel 2013, nota il documento stagionale della Commissione sugli squilibri macroeconomici, «l’Italia ha compiuto progressi verso il suo obiettivo di medio termine». Non basta. «L’aggiustamento del saldo strutturale 2014 come attualmente previsto appare insufficiente dato il bisogno di ridurre il grandissimo parametro debitorio a un passo adeguato». L’interpretazione è che servono impegni più concreti. Che sia una manovrina o altro, lo deciderà il governo Renzi che ha due mesi per dare la rotta. I dati pratici sono allarmanti. La crisi ha minato la capacità di reazione delle banche, afferma Bruxelles. La competitività s’è persa con l’allineamento fra salari («andrebbero differenziati») e produttività, come nel pesante cuneo fiscale. L’amministrazione e la giustizia sono «inefficienti da tempo». Il governo delle aziende è «debole». Corruzione ed evasione fiscale sono alte, indeboliscono le chance di riequilibrio. Come «i grandi divari nel capitale umano», la scuola dell’abbandono record e la formazione fiacca che minano la produttività. Tutto questo fa sì che lo sbilanciamento sia declassato: da «normale» a «eccessivo». Ora, come a tutti gli altri paesi, Bruxelles chiederà entro aprile un piano correttivo che comprenda i tempi di attuazione. Un percorso credibile è indispensabile, potrebbe magari aprire la porta di uno sconto sul fronte del risanamento del debito. Raccomandazioni specifiche saranno proposte il 2 giugno dalla Commissione e approvate con l’Italia al vertice Ue di fine giugno. Il governo Renzi avrà piena autonomia, salvo che negli obiettivi, decisi insieme dai ventotto. L’Ue lo seguirà passo passo. In caso di reiterata violazione dei patti, c’è il rischio di essere multati sino a lo 0,1% di pil. Molto meglio evitarlo.

Telecom in profondo rosso (7 marzo 2014).
Telecom Italia va in rosso per 674 milioni nel 2013 e congela il dividendo. Con l’eccezione delle risparmio cui distribuirà una cedola da 2,75 centesimi (166 milioni in totale). Ma non basta a tenere alto il titolo che crolla in Borsa (-3,4% il tonfo in apertura). Intanto il gruppo assiste alla flessione dei ricavi (23,407 miliardi, -5,2% rispetto all’esercizio 2012). E, a livello industriale, in Trentino perde anche pezzi della futura fibra. La Provincia di Trento ha deciso di uscire dalla Trentino NGN srl, società controllata dall’ente (52%) e da Telecom Italia (41,1%) per fare spazio ad un nuovo progetto di sviluppo di banda ultralarga esclusivamente pubblico. La prima commissione permanente dell’ente presieduta dal piddino Luca Zeni, ha preso così una decisione diametralmente opposta all’indirizzo del premier Matteo Renzi, che invece si è detto favorevole alla separazione della rete in rame di Telecom Italia dal gruppo e alla creazione di una nuova società con la Cassa Depositi e Prestiti per la realizzazione della nuova infrastruttura in fibra. Per la Provincia della regione autonoma si tratta di una netta inversione di tendenza. All’inizio del progetto, nel 2011, l’ente confidava nella possibilità di sviluppare la rete per la banda ultralarga attraverso una partnership pubblico-privata. Trentino NGN srl venne infatti inizialmente creata con il conferimento di 60 milioni da parte della Provincia di Trento e della rete in rame da parte di Telecom. Il piano prevedeva che, dopo la realizzazione della fibra, il network in rame sarebbe stato spento e il gruppo guidato all’epoca da Franco Bernabé avrebbe potuto esercitare un’opzione di acquisto sulla parte di capitale di Trentino NGN non ancora in suo possesso diventando così l’unico socio dell’azienda proprietaria della nuova rete in fibra. Il progetto però non è mai realmente entrato nella fase operativa: nel 2012 è stato, infatti, bloccato dal ricorso di Fastweb, Vodafone e Wind alla Commissione Europea per violazione delle regole di libera concorrenza. “E’ fondamentale garantire che i fondi pubblici non vengano utilizzati per favorire un solo operatore”, aveva spiegato il commissario Joaquim Almunia al momento dell’apertura dell’indagine. E ora, a distanza di un anno e mezzo dallo stop di Bruxelles, ha ripreso in mano il progetto banda larga. Perchè come ha evidenziato Zeni “è importante che la proprietà dell’infrastruttura resti pubblica”. L’intera faccenda Trentino NGN non promette certo bene per Telecom che lo scorso anno è riuscita ad ridurre lievemente il debito di 1,4 miliardi a 26 miliardi grazie anche alla dimissione di asset come Telecom Argentina. “Il margine di liquidità a dicembre 2013 è pari a 13,6 miliardi di euro e consente una copertura delle Passività Finanziarie di Gruppo in scadenza per oltre 24 mesi”, informa una nota della società guidata da Marco Patuano. Il quale non perde l’ottimismo e fa sapere che dopo aver affrontato “la guerra dei prezzi sul mercato del mobile e avendo contribuito a riportare la competizione sul piano della qualità delle reti e dei servizi chiudiamo l’anno tornando ad essere leader in termini di ricavi. Grazie ai forti investimenti nelle tecnologie di nuova generazione, siamo in condizione di rispondere al meglio alla crescente domanda di servizi innovativi e convergenti. Copriamo infatti già 42 città con la fibra ottica e 651 comuni con la quarta generazione mobile. Anche in Brasile intendiamo cogliere appieno la crescente domanda di traffico dati, proseguendo ad investire in infrastrutture. Abbiamo deciso di rafforzare ulteriormente la struttura patrimoniale della società e di continuare a investire sulle reti. Anche per questo proporremo all’Assemblea di non distribuire dividendi alle azioni ordinarie, ma di corrispondere la cedola statutaria agli azionisti di risparmio. La progressiva ripresa del mercato domestico ci permetterà di tornare a remunerare tutti i soci nel prossimo esercizio.

Unicredit e l'anno nero del 2013 (11 marzo 2014).
UniCredit ha chiuso il 2013 con una perdita netta record di 14 miliardi da svalutazioni su avviamento e accantonamenti aggiuntivi su crediti. Lo annuncia la banca in una nota. Le stime erano di un utile netto di 400 milioni circa dopo 865 milioni nel 2012. I conti sono stati affossati da accantonamenti per 13,7 miliardi. I ricavi sono ammontati a 24 miliardi (-4,1% su base annua). Il patrimonio di vigilanza Cet1 si è attestato al 10,4% e al 9,4% anticipando pienamente gli effetti di Basilea3 e la banca ha escluso la necessita' di un aumento di capitale. Viene proposta la distribuzione di uno scrip dividend di 10 centesimi per azione. Nel solo quarto trimestre UniCredit ha registrato una perdita netta di 15 miliardi (-553 milioni un anno prima) con ricavi per 6 miliardi. Gli accantonamenti su crediti nel trimestre sono ammontati a 9,3 miliardi. Il piano strategico di UniCredit prevede una riduzione di 8.500 dipendenti entro il 2018. Di questi 5.700 saranno in Italia. Il piano strategico di UniCredit 2013-2018 prevede una accelerazione nella redditività del Gruppo. Nel 2014 è atteso un utile netto di circa 2 miliardi che saliranno a 6,6 a fine piano con un Rote al 13% e un Common Equity Tier 1 al 10%. Sono previste azioni di gestione attiva del portafoglio che libereranno circa 30 punti base di capitale. Previsti investimenti per 4,5 miliardi e ulteriori risparmi nei costi per 1,3 miliardi. Secondo quanto rende noto l'istituto di credito, il beneficio della valutazione della quota di UniCredit in Banca d'Italia per il 2013 è stato pari a 1,4 mld di euro prima delle tasse, ma se venisse valutato a patrimonio netto "la perdita netta di gruppo sarebbe piu' elevata di 1,2 mld" nel 2013. UniCredit quoterà in Borsa Fineco "per imprimere un'ulteriore accelerazione alla sua crescita". Lo sbarco sul listino milanese è previsto nel corso del 2014. Lo si legge nella nota sui conti e il piano che indica, in parallelo, che la banca "valuterà la potenziale cessione" a un operatore specializzato di Unicredit Credit Management Bank (Uccmb), la piattaforma di riscossione crediti. Quanto all'Europa Centrale e dell'Est, poi, Unicredit punta a "investire nei mercati in crescita e a razionalizzare la presenza geografica", aumentando l'allocazione di capitale sull'area dal 23 al 30% nell'arco del piano 2013-2018. La controllata ucraina è stata messa in vendita con un impatto negativo di 600 milioni di euro in conto economico. «Per UniCredit il 2013 è stato l'anno della svolta; ora siamo pronti ad aumentare ulteriormente la nostra offerta di credito e a dare supporto all'economia reale in Italia e in Europa». Lo ha dichiarato l'amministratore delegato, Federico Ghizzoni, commentando i risultati 2013 del gruppo e il nuovo piano strategico. «Con le azioni annunciate oggi - ha aggiunto -abbiamo rafforzato ancora il nostro bilancio e completato il processo iniziato nel 2010. Grazie alla nostra solida dotazione di capitale, abbiamo deciso di compiere una scelta trasparente dopo la quale il nostro CET1 ratio si conferma ben al di sopra dei requisiti di Basilea 3. Grazie agli accantonamenti aggiuntivi iscritti a bilancio, UniCredit può vantare oggi la copertura dei crediti deteriorati di gran lunga più alta di tutto il sistema bancario italiano e tra le migliori in Europa, in linea con i livelli pre-crisi».

Passa la legge elettorale alla Camera (11 marzo 2014).
Niente quote rosa, niente preferenze. Le liste resteranno bloccate, decise a monte dalle segreterie dei partiti. Passano invece, ma con una maggioranza sfilacciata, le soglie di sbarramento, il premio di maggioranza, i criteri e gli algoritmi necessari alla ripartizione dei seggi. L’articolo 1 che regolamenta il sistema elettorale della Camera dei deputati, prevede un sistema proporzionale con un premio di governabilità (pari al 15%) che assicura la maggioranza assoluta al partito o alla coalizione vincente che raggiunge la soglia del 37% dei voti. Qualora nessuno raggiunga la soglia del 37%, è previsto un doppio turno di ballottaggio per l’assegnazione del premio. L’ingresso in Parlamento è precluso ai partiti che si presentano al di fuori delle coalizioni che non raggiungono l’8% dei voti. La soglia di sbarramento scende al 4,5% dei voti per i partiti che si presentano in una coalizione, mentre sale al 12% per le coalizioni. Dopo il flop degli emendamenti sulla parità di genere che hanno scatenato le proteste di deputate di diversi schieramenti, non è riuscito il tentativo di un fronte trasversale di fare rientrare la possibilità di scelta del candidato preferito da parte degli elettori. A Montecitorio la maggioranza regge, ma perde decine di voti: addirittura fino a 90 sulla reintroduzione delle preferenze. E’ passato invece, come da previsione, il secondo turno di ballottaggio che consentirà di determinare sempre una maggioranza, anche nel caso in cui nessuna forza politica o nessuna coalizione riesca a superare la soglia del 37%. E passano anche le altre soglie di sbarramento per evitare la frammentazione dell’assemblea. In mattinata era stato lo stesso segretario del Pd ad intervenire all’assemblea dei deputati del suo partito sottolineando la necessità di rispettare il patto sottoscritto con Forza Italia: «Non c’è da mantenere un patto con Berlusconi - aveva subito puntualizzato -, ma un impegno che come partito abbiamo preso profondo, netto, chiaro. Se qualcuno non vuole votare oggi, lo deve spiegare bene fuori da qui». In caso di aggiustamenti a Palazzo Madama, la legge dovrà poi affrontare un nuovo passaggio alla Camera. A cui spetta intanto la prima parola. I deputati hanno dato il via libera all’emendamento-chiave della nuova legge, quello che determina le diverse «soglie»: quella del 37% per accedere al premio di maggioranza, del 15%, che consente alla prima forza politica o coalizione di avere una maggioranza di almeno il 52% dei seggi in aula; quella di sbarramento (chi non la supera non ottiene seggi) del 4,5% per i partiti che si presenteranno alle elezioni politiche all’interno di una coalizione; quella dell’8% per i partiti che decidono di non coalizzarsi; e quella del 12% per le coalizioni. La norma - approvata con 315 sì e 237 no, quindi con uno scarto di 78 voti -, introduce inoltre il sistema del doppio turno di ballottaggio nel caso che nessuno riesca in prima battuta a superare quota 37% e conquistare il premio. Non tornano invece le preferenze. È stato bocciato, sempre con il voto segreto, l’emendamento a prima firma Ignazio La Russa che puntava alla loro reintroduzione. A favore del ripristino della possibilità di scelta per gli elettori si erano schierati anche il deputato del Pd Francesco Boccia e gli esponenti del Movimento 5 Stelle, questi ultimi con un cambio di orientamento rispetto alla seduta di venerdì notte quando erano stati respinti i primi emendamenti sul tema. Ma l’apporto dei pentastellati non è stato sufficiente: i voti favorevoli sono stati infatti 264 contro i 299 contrari. All’appello ne sono dunque mancati solo 35, pochi rispetto ai numeri inizialmente in campo attorno al monolite Pd-FI. Ancora più ridotto, solo 20 voti, lo scarto sull’emendamento per la doppia preferenza di genere, che avrebbe potuto correggere sia la mancata approvazione dell’alternanza sia quello sulla scelta dei candidati. Non è passata infine la proposta di primarie obbligatorie per la formazione delle liste, che avrebbe restituito almeno in parte la possibilità di scelta agli elettori. Il Pd insiste sul fatto che per le proprie liste le primarie ci saranno e che sarà rispettata anche l’alternanza tra uomini e donne, ma la mancata istituzionalizzazione di queste buone pratiche lascia a molti l’amaro in bocca. L’Italicum così come si va formando è dunque sempre più incentrato sulle liste bloccate seppure con un numero ridotto di candidati rispetto a quanto avveniva con la precedente legge, il «Porcellum», bocciato dalla Corte Costituzionale proprio per l’impossibilità per l’elettore di prendere conoscenza di tutti i candidati calati dall’alto, spesso privi di legami con il territorio (la Consulta aveva obiettato anche sulla sproporzione del premio di maggioranza). L’opzione delle candidature fisse era stata voluta fortemente da Silvo Berlusconi e il Pd, nelle cui fila esiste una grande componente favorevole alle preferenze, l’aveva alla fine accettata senza entusiasmo - e con molti mal di pancia interni - come compromesso nell’ambito dell’intesa sull’intero pacchetto delle riforme. E' passato l’emendamento - contestato da M5S - che esclude i gruppi politici formati in Parlamento dalla raccolta delle firme. Per le prime elezioni dall’entrata in vigore dell’Italicum «i partiti o i gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle Camere ed entro il primo gennaio 2014» non dovranno procedere alla sottoscrizione delle firme per la presentazione delle candidature. È quanto prevede l’emendamento, a prima firma Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia). La proposta di modifica, ha accusato il deputato M5S Danilo Toninelli, «è una norma ad personam», consentendo a gruppi come Fratelli d’Italia e Per l’Italia (nati rispettivamente a Montecitorio il 3 aprile e il 10 dicembre 2013) di non dover procedere alla raccolta delle firme.

Cottarelli e la spending review (12 marzo 2014).
Martedì sera aveva comunicato che il piano di «spending review» era pronto «come previsto dal programma di lavoro». Mercoledì, in Senato per un’audizione, il Commissario straordinario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, ha iniziato ad alzare il velo sugli obiettivi del programma. Per tagliare la spesa pubblica si può intervenire attraverso «33 azioni o gruppi di azioni», che si dividono in «quelle di immediata applicabilità nel 2014» e le «riforme strutturali per la spesa, che vanno iniziate quest’anno ma che avranno effetti sulla spesa a partire dal 2015 e 2016». Così ha spiegato Cottarelli nell’audizione in commissione Bilancio del Senato. I piani di intervento per le misure da attuare dovrebbero partire dal prossimo anno, e dovrebbero raggiungere gli effetti massimi nel 2017. «In termini di risparmi effettivi per gli ultimi 8 mesi dell’anno si è nell’ordine di tre miliardi» ha spiegato il commissario riferendosi al 2014. Anche se nel documento messo a punto e consegnato martedì al comitato interministeriale per la revisione della spesa, è indicato «come massimo risparmio per quest’anno su base annua circa 7 miliardi». Per il 2015 e il 2016 i «risparmi massimi ottenibili» dal processo di revisione della spesa pubblica sono invece rispettivamente pari a 18 e 34 miliardi. La «spesa per le pensioni, che è molto alta» è nel mirino del commissario che ha proposto «un contributo temporaneo per le pensioni oltre una certa soglia essenzialmente per consentire l’assunzione di nuove persone», intervenendo sugli «oneri sociali per i neoassunti». Non si toccherebbe comunque l’85% degli assegni pensionistici. Tagli previsti anche per le auto blu. «Ritengo — ha fatto sapere il commissario — che debbano essere mantenute solo per i ministri e che per gli altri ci sia un pool di 5 vetture per ministero, lo stesso dovrebbe essere fatto a livello territoriale». Sforbiciata prevista anche per gli enti pubblici. Sulle società partecipate dello Stato si può intervenire con «un efficientamento tramite fusioni e un aumento delle tariffe» ha spiegato Cottarelli, per quelle che offrono servizi pubblici, perché «bisogna pur pagarli». Mentre fuori dal perimetro dei servizi pubblici serve «una azione forte, anche per chiuderle. Ci sono enti pubblici che si possono eliminare o razionalizzare — ha spiegato Cottarelli —. Tra quelli da eliminare, ad esempio, io avrei individuato il Cnel». La proposta al governo è comunque di definire «piani di ristrutturazione entro settembre 2014». Per la Rai, ad esempio, «è possibile fare qualche risparmio ulteriore, io ho un pò di suggerimenti — ha detto il commissario —. Per legge deve avere sedi in tutte le Regioni, ma potrebbe benissimo coprire l’informazione regionale senza avere sedi».

Renzi gli interventi economici (13 marzo 2014).
Dieci miliardi di riduzione del cuneo fiscale tutti a favore dei lavoratori, in particolare quelli che hanno stipendi netti fino a 1.500 euro al mese i quali, già dal 1° maggio, si ritroveranno una busta paga più pesante che garantirà loro un maggiore guadagno di circa mille euro all’anno. È questo il punto principale tra quelli affrontati dal lungo Consiglio dei ministri di mercoledì che ha affrontato tutti i principali nodi legati alle riforme e agli interventi per il rilancio dell’economia. Il provvedimento sul cuneo fiscale, che non viene dunque indirizzato alle imprese, avrà una portata di 10 miliardi di euro e secondo il premier Matteo Renzi sarà in grado di dare una scossa al sistema economico nazionale. Non da solo: il premier ha illustrato in una conferenza stampa - la prima di Palazzo Chigi con hashtag ad hoc (#lasvoltabuona) e slide proiettate - tutta una serie di provvedimenti piccoli e grandi finalizzati a rimettere in movimento l’economia con finanziamenti a progetti specifici, fondi ad hoc e aiuti alle imprese. Renzi ha promesso un lavoro «serio e articolato» e «100 giorni di lotta durissima» per cambiare pubblica amministrazione, fisco e giustizia e arrivare al primo luglio, giorno di inizio del semestre di presidenza italiana della Ue, con i conti in ordine e una struttura più leggera. E prima di allora dovranno essere affrontate molte questioni nei campi di politica, economia e occupazione, a partire da riforma della legge elettorale e dalle riforme costituzionali, in primis l’abolizione del Senato. E poi la riforma del titolo V con l’abolizione della legislazione concorrente, ovvero la sovrapposizione di funzioni tra Regioni e Stato Centrale. Renzi ha poi snocciolato una lunga serie di provvedimenti di carattere economico che l’esecutivo ha previsto per il breve termine. «Dal 26 marzo al 16 aprile - ha spiegato ad esempio - le auto blu andranno all’asta come abbiamo fatto a Firenze. Sono oltre 1500. Dal 26 marzo “venghino signori, venghino” andranno all’asta». Il premier ha poi garantito lo sblocco «immediato e totale» dei debiti della pubblica amministrazione: «22 miliardi già pagati - ha sottolineato - e 68 miliardi che pagheremo entro luglio». Un’altra misura a favore delle piccole e medie imprese è uno stanziamento di 500 milioni di euro in più per il fondo di garanzia per la lotta al credit crunch, «vero o presunto che sia e che ha già garantito 10 miliardi di accesso al credito». Un altro fronte di intervento sarà quello dell’utilizzo dei fondi europei già stanziati: «Tutte le volte diciamo “ce lo chiede l’Europa” e mettiamo una serie di vincoli. L’Europa ci chiede di spendere bene i soldi che abbiamo bloccato e che investiremo da subito: 3 miliardi». Renzi, come detto, ha poi promesso sgravi fiscali che dovrebbero portare mille euro netti in più all’anno a chi guadagna meno di 1.500 euro al mese, ovvero circa 25 mila all’anno, una platea che riguarda, secondo le stime del governo, circa 10 milioni di italiani tra cui, ha puntualizzato, «anche un po’ di ceto medio». Il provvedimento, che dovrebbe avere effetto dal 1° maggio («per il 1 aprile non ci sono i tempi tecnici dal punto di vista della strumentazione dei Ced per adeguare le buste paga» ha detto il premier, aggiungendo: «Non je a famo»), è rivolto a persone che hanno contratti da lavoro dipendente o parasubordinato, si concretizzerà mediamente in un aumento di circa 85 euro al mese e avrà un costo di circa 10 miliardi. La copertura di questa somma arriverà «dal risparmio di spesa», da altre manovre di bilancio e, ha assicurato il premier, «senza aumento di tassazione». «Sarà lo Stato - ha precisato - a stringere un po’ la cinghia». Il dettaglio dei numeri sarà nel Def che sarà presentato nei prossimi giorni, ma già il premier ha cercato di dare un’idea delle possibili fonti di raccolta della somma necessaria precisando che circa 7 miliardi arriveranno dalla spending review (e a tale proposito ha annunciato che parallelamente al Def sarà reso pubblico anche il piano per la revisione di spesa elaborato dal commissario Cottarelli). Si potrà poi utilizzare parte del margine dall’attuale 2,6% al 3% di rapporto massimo tra deficit e pil («che nessuno si sogna di superare») che vale fino a 6 miliardi («ma che non intendiamo utilizzare per intero»). E altri 2,2 miliardi di margine dovrebbero arrivare dalla riduzione del costo del debito derivante dalla riduzione dello spread che è calcolato su 250 punti base mentre l’obiettivo del governo è che esso non vada mai oltre i 200. Il capo dell’esecutivo ha poi parlato della diminuzione dell’Irap che sarà realizzata mediante una sorta di scambio tra un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie dal 20 al 26%, portandola così ad essere in linea con le medie europee, e una riduzione del 10% dell’imposta che grava sulle imprese, per un valore di circa 2,6 miliardi. «Non si toccano i titolo di Stato, non si toccano i Bot» ha però precisato il premier. Questa misura è aggiuntiva rispetto ai 10 miliardi da accantonare per il cuneo fiscale, ovvero l’operazione mille euro sopra citata. Tra gli altri interventi annunciati ci sono «dal 1° giugno 500 milioni di fondo per le imprese sociali, per chi vuole creare imprese sociali» e un aumento di 600 milioni del credito di imposta per i ricercatori con l’obiettivo, da qui al 2018, di «creare 100.000 posti di lavoro». E, ancora per le piccole e medie imprese, una riduzione del 10% del costo dell’energia - oggi pari a 14 miliardi di euro - «attraverso la rimodulazione del paniere della bolletta energetica». «La scuola - ha detto ancora Renzi - è il luogo da cui riparte la comunità per uscire dalla crisi non con le slides ma con la centralità della formazione scolastica». Per questo motivo è stato previsto un piano da 3,5 miliardi per investimenti nel campo della sicurezza e dell’edilizia scolastica. Dal 1° aprile, ha poi spiegato, sarà attiva a Palazzo Chigi l’unità di missione per le scuole annunciata nei giorni scorsi. E quanto agli investimenti che anche gli enti locali realizzeranno in questo campo «abbiamo trovato il modo per farli uscire dal patto di stabilità interno», consentendo così a comuni e province virtuose di programmare nuovi investimenti. Capitolo riforma del lavoro: il governo prevede di realizzare l’annunciata riforma mediante un decreto legge e un disegno di legge. Il secondo sarebbe «una delega per riorganizzare l’intero sistema e sarà il Parlamento a discuterne», ma servirà per riordinare «l’intero sistema del lavoro dall’assegno un disoccupazione, al salario minimo, agli ammortizzatori, alla tutela delle donne in maternità». In sostanza il «Jobs Act» di cui si parla orma da diverse settimane. Nel frattempo è stato approvato un decreto legge che prevede semplificazioni nell’apprendistato e nei contratti a termine. Questi ultimi potranno durare al massimo tre anni e saranno applicabili senza causale per un massimo del 20% sul totale dei lavoratori. Il governo ha anche varato il piano casa da 1,7 miliardi, che prevede tra l’altro agevolazioni fiscali per chi destina alloggi ad affitto di residenza sociale, 467 milioni per l’edilizia popolare, l’incremento fino a 200 milioni di euro del fondo per gli affitti concordati per i quali è prevista anche una riduzione della cedolare secca dal 15 al 10%. Il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, ha poi prospettato «la possibilità di vendere gli alloggi ex Iacp», così da reperire risorse per la «riqualificazione, ristrutturazione o costruzione di alloggi per rispondere all’emergenza abitativa». Per anni i media, incartapercoriti nelle loro sine cura, hanno fatto il verso ai discorsi da bar sport denunciando l'immobilismo della nostra politica, l'incapacità di passare dai proclami ai fatti, la necessità di riforme vere. Ora che Renzi sembra aver dato una scossa all'albero delle speranze degli italiani ecco le critiche: non è farina del sacco di Renzi ma della politica di Letta, ma dove si trovano i fondi, ma perchè ha fatto un accordo con FI, e dove mettiamo la parità di genere, i princìpi contano più dei fatti, la sua comunicazione è da teleimbonitore, anche Berlusconi dice che ha esagerato (e il nemico di sempre diventa l'oracolo di Delfi). Tempi difficili attendono Renzi: imboscate, agguati, sacche di resistenza, specie dal suo partito.

IL PIANO CASE ( 13 marzo 2014).
Aliquota della cedolare secca al 10% per i contratti a canone concordato i vigore già da quest'anno, e ripristino del plafond dei 10.000 euro per il bonus mobili, ridotto dalla Legge di stabilità. Per gli inquilini delle case popolari sconto sull'Irpef fino a 900 euro e ancora dotazione di 100 milioni per il fondo per l'affitto e incremento di 20 milioni del fondo contro le morosità incolpevoli. Sono immediatamente operative queste novità del Piano casa contenute nel decreto approvato dal consiglio dei ministri. Entro il 30 giugno, poi, sarà definito un nuovo piano per la vendita degli immobili degli Iacp, che potranno essere acquistati dagli inquilini tramite un finanziamento agevolato erogato da un fondo ad hoc. Partirà invece entro sei mesi il piano nazionale di recupero degli alloggi di proprietà degli Iacp. Per la cedolare secca, la riduzione dall'attuale 15%, al 10% riduzione riguarda solo gli alloggi offerti a canone concordato e quelli per studenti universitari. Si punta così da un lato ad aumentare l'offerta di alloggi a canone ridotto, e dall'altra far emergere gli affitti in nero. Si stima per questo un recupero almeno del 5% della base imponibile. A beneficiare del nuovo sconto fiscale, dopo quello entrato in vigore nel 2013, non solo i nuovi contratti ma anche quelli già in essere. In questo caso il vantaggio si potrà avere già in fase di pagamento dell'acconto, in quanto la riduzione opera, come detto, fin da quest'anno. L'opzione per la cedolare può essere effettuata al momento della stipula del contratto o all'atto del pagamento annuale dell'imposta di registro dovuta da chi finora ha preferito la tassazione Irpef. Il recupero degli alloggi pubblici, invece, riguarderà anche interventi di risparmio energetico e sarà finanziato tramite fondi già nel bilancio del ministero e finora non spesi. L'obbiettivo della misura, è duplice: da un lato il recupero del patrimonio edilizio in maniera da risolvere le situazioni di difficoltà abitative per le famiglie a basso reddito, e dall'altro il rilancio dell'occupazione in un settore come quello dell'edilizia da tempo in crisi. Gli alloggi recuperati saranno immediatamente assegnati alle famiglie a basso reddito e con disabili. Previsto un nuovo piano di dismissioni degli alloggi di edilizia pubblica, con la possibilità per gli Istituti autonomi case popolari (Iacp) di fissare i prezzi di vendita e offrire mercato anche le case abitate da inquilini ormai privi dei requisiti di reddito per avere diritto ad un alloggio sociale. La possibilità di riscatto dovrebbe passare attraverso un fondo per la concessione di mutui a tassi agevolati per mettere gli inquilini in condizione di poter effettuare l'acquisto pagando una rata di mutuo di importo circa pari al canone di locazione in precedenza versato. Per gli inquilini degli alloggi sociali arriverà anche una detrazione fiscale ad hoc. Questa sarà pari a 900 euro per redditi complessivi fino a 15.000 euro e a 450 euro per redditi sopra questa soglia e fino ai 31.987. I titolari di contratti di affitto negli alloggi sociali potranno anche ottenere l'appartamento a riscatto dopo un periodo di locazione minima di sette anni. In questo caso parte del canone pagato andrà in conto acquisto. Interessati a questa misura solo i contratti di locazione stipulati dopo l'entrata in vigore del decreto. Per gli alloggi sociali è previsto anche un taglio d'imposta per le imprese proprietarie: fino all'eventuale riscatto e comunque per un periodo massimo di 10 anni dalla costruzione o dal recupero, il 40% dei redditi derivanti dalla locazione non concorrerà al reddito d'impresa. Riguarderà invece tutti gli inquilini il rifinanziamento del fondi affitti, e quello del fondo per prevenire la morosità incolpevole. Quest'ultimo garantisce dal rischio di morosità, senza esporre a procedimenti di sfratto, i locatari affidabili, in momentanea difficoltà, ad esempio per la perdita del posto di lavoro. Inoltre viene rifinanziato il fondo per l'accesso ai mutui da parte delle giovani coppie. Infine il decreto prevede anche misure per contrastare il fenomeno delle occupazioni abusive di alloggi pubblici. Chiunque li occupa senza titolo, infatti, non potrà ottenere né l'allaccio delle utenze né la residenza anagrafica nell'appartamento occupato abusivamente.

LE SPESE FOLLI DELLE REGIONI (17 marzo 2014).
Tifiamo tutti perché le barbatelle di Rauscedo, frazione del comune di San Giorgio della Richinvelda in Provincia di Pordenone, continuino a spopolare fra i viticoltori dell’Azerbaigian. Fatto di cui va giustamente orgogliosa Debora Serracchiani, al punto da averlo dichiarato non più tardi di venerdì anche all’Ansa. Solo non si capisce perché la Regione debba occuparsi delle esportazioni di piante di viti e di altri prodotti, e per questo abbia dovuto organizzare una missione a Baku, capitale di quella Repubblica caucasica. Una missione con tanto di incontro ufficiale fra la governatrice del Friuli-Venezia Giulia e il presidente azerbagiano Ilham Aliyev. Un dubbio, è certo, non condiviso da chi crede invece che il commercio estero con i suoi singolari risvolti diplomatici debba rientrare a pieno titolo fra le competenze regionali. Qualche caso? Tre mesi fa il governatore del Piemonte Roberto Cota era in Giappone con una delegazione del Ceip: Centro estero per l’internazionalizzazione, testuale. Una organizzazione regionale che ha il compito, udite, di «rafforzare il Made in Piemonte nel mondo». Made in Piemonte? E che dire allora del progetto «Made in Lombardy», finanziato dalla Regione Lombardia tramite la sua Finlombarda? E del Centro estero Umbria, struttura creata nel 2009 dalla Regione per promuovere l’internazionalizzazione delle imprese umbre? Perché se la mania regionale di farsi ognuna la propria politica estera con tanto di ambasciate e consolati è precedente alla famosa modifica del titolo V della Costituzione, che ha ampliato in modo sconsiderato le competenze delle Regioni, è proprio da allora che la situazione è degenerata. Con un inutile e talvolta indecente spreco di risorse ed energie umane. Riportare fra le competenze esclusive dello Stato il commercio con l’estero, come prevede il disegno di legge costituzionale di Matteo Renzi pubblicato da qualche giorno sul sito del governo, era dunque il minimo sindacale. Speriamo quindi di non vedere mai più Regioni come la Campania spendere 1,4 milioni di dollari l’anno per affittare un lussuoso appartamento a New York dove organizzare conferenze rigorosamente in lingua italiana. Né di dover leggere comunicati stampa tipo quello diffuso un paio d’anni fa dopo una missione a Giacarta del vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Raffaele D’Ambrosio: «Nel corso della visita è stato ricevuto dal sultano di Ternate Muddaffar Sjiah e da altre autorità del luogo. Il vicepresidente ha incontrato anche il maraja Raja Agung e al termine della sua visita è stato ricevuto dal viceambasciatore Mario Alberto Bartoli con il quale si è intrattenuto a colloquio». Speriamo, certo. Come speriamo di assistere finalmente a un cambio di passo nella promozione turistica, dopo che la stessa riforma renziana del titolo V avrà fatto tornare sotto il cappello unico dello Stato (articolo 117 lettera z) anche la «programmazione strategica del turismo». Perché è un fatto che nel periodo 2009-2011 secondo Confartigianato le Regioni spendevano mediamente 939 milioni l’anno (!) per la promozione e l’Italia scivolava al quinto posto nella graduatoria mondiale per presenze estere, al sesto per fatturato e addirittura al ventiseiesimo per competitività. Un Paese che potrebbe in gran parte vivere di turismo ne ricava, dice il World Travel and Tourism Council, solo il 4,1% del Prodotto interno lordo. E stendiamo un velo pietoso sul Mezzogiorno, che nel 2012 ha incassato in tutto solo 4 dei 32 miliardi arrivati in Italia grazie ai visitatori esteri. Una vergognosa miseria. Ancora. Se passerà la riforma di Renzi, non solo torneranno di esclusiva competenza statale «l’ordinamento delle professioni intellettuali» e «della comunicazione», la «tutela e la sicurezza del lavoro», l’energia, le grandi reti di trasporto, come pure i «porti e gli aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale» (e ci mancherebbe altro...), ma anche «le norme generali sul governo del territorio e l’urbanistica». Il che, per dirne una, potrebbe rimuovere gli ostacoli sorti all’approvazione di una legge per limitare finalmente il consumo del suolo. Secondo Legambiente circa l’8 per cento della superficie italiana, un’area più grande della Toscana, non è più naturale. E grazie a piani regolatori e interventi di pianificazione regionali assurdi la cementificazione ha inferto danni gravissimi al territorio. Con costi economici e umani incalcolabili a causa del dissesto idrogeologico. Il nuovo articolo 122 della Costituzione decreterebbe poi il divieto di versare contributi pubblici ai gruppi politici dei consigli regionali. Per capirci, questo renderebbe impossibile il ripetersi di casi come quelli di Franco «Batman» Fiorito e di altri scandali che hanno investito gran parte delle Regioni, fra mutande verdi, attrezzi erotici e pasti a base di ostriche e champagne pagati dai contribuenti. Nel solo 2012, dice un’analisi di Roberto Perotti pubblicata da lavoce.info , i gruppi consiliari hanno inghiottito 95,6 milioni di euro, 28 mila euro a consigliere in più rispetto a quanto incassato dai gruppi parlamentari della Camera. La stessa norma conterrebbe quindi il principio che spetta allo Stato fissare gli stipendi degli organi regionali, mai in ogni caso superiori a quelli dei sindaci dei comuni capoluogo della Regione. Senza però intaccare le prerogative interne del personale dei consigli regionali, che grazie all’autonomia riconosciuta alle Regioni continua a sfuggire a limiti, tetti e regole imposte centralmente. Valga per tutti il caso Sicilia, dove il governatore Rosario Crocetta ha denunciato scandalizzato che lo stipendio del segretario generale dell’Assemblea regionale sarebbe di 600 mila euro l’anno. Per non parlare delle altre spese amministrative che contribuiscono a fare dell’Ars un organo politico più costoso del Senato della Repubblica in rapporto ai suoi onorevoli. Quasi 1,8 milioni per ciascuno di loro. Totale: 160 milioni. Vero è che la lettera g) dell’articolo 117 della Costituzione nella nuova formulazione affida allo Stato la «disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche». E questo potrebbe aprire qualche spiraglio, non solo per l’uniformità di certi trattamenti ma anche per la riorganizzazione degli apparati, considerando che secondo la Confartigianato nelle Regioni italiane un dipendente su tre sarebbe di troppo. Con esuberi astronomici al Sud: 4.746 in Campania e 6.780 in Sicilia. E costi allucinanti: in Molise i dipendenti regionali pesano per 178 euro su ogni molisano, contro 23 euro in Lombardia. Ma la modifica dall’impatto potenzialmente più devastante è quella prevista ancora dall’articolo 117, che esplicita come competenza esclusiva statale il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Quanto accaduto in questi anni di pseudoriforme, l’ha spiegato bene dieci giorni fa il presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri in un’audizione parlamentare. Raccontando che se in un ventennio la pressione fiscale è salita dal 38 al 44 per cento, la responsabilità è del balzo delle imposte locali cresciute del 130 per cento, mentre anche le tasse centrali, in barba al decentramento dei poteri sempre più spinto dal 2001, continuavano inesorabilmente ad aumentare. Per non parlare dell’esplosione delle società controllate dagli enti locali, ormai più di 7 mila, che hanno mandato in orbita i costi. E del fatto che i bilanci tutti diversi delle amministrazioni periferiche hanno prodotto un disordine contabile assurdo, vanificando i controlli. La vicenda micidiale degli arretrati nei pagamenti alle imprese ha le sue radici anche in questo caos. C’è chi forse da Renzi si sarebbe aspettato ancora di più. Il governatore della Campania Stefano Caldoro, per esempio, non si stanca di ripetere che per lui le Regioni andrebbero abolite. E non è certo il solo a pensarla così. Ci sono poi un paio di cosucce in questo progetto di riforma costituzionale, che fra l’altro stabilisce una volta per tutte l’abolizione delle Province, le quali non convincono fino in fondo. Per esempio si ribadisce che la sanità è di competenza regionale: anche se è ormai chiaro che proprio quella è la nota dolente, e forse sarebbe arrivato il momento di riconoscere che la regionalizzazione decisa 35 anni fa non ha funzionato. Come stanno a dimostrare i dati sulla qualità del servizio sanitario, diversissimi da Regione a Regione. Inoltre, il disegno di legge riconosce alle Regioni la «salvaguardia» dell’interesse regionale in tema di formazione professionale. Un autentico buco nero, in particolare al Sud, dove si traduce quasi sempre in un grande business solo per i formatori. In un decennio la Regione siciliana ha speso per la formazione professionale 4 miliardi di euro e il tasso di disoccupazione giovanile in Sicilia è salito al 42 per cento. Sergio Rizzo da il corriere.it

JOBS ACT (18 marzo 2014).
Contratti a termine per tre anni senza l’obbligo di inserire la causale e apprendistato più semplice subito con un decreto legge. E poi, con un disegno di legge delega, un «codice» semplificato del lavoro e un assegno universale di disoccupazione, l’addio alla cassa integrazione in deroga insieme alla riduzione dei contributi ordinari per tutti ma l’aumento per chi li utilizza di più la cig. Ecco, in sintesi, le misure contenute nel Jobs Act di Renzi.
1 Contratti a termine
Per il contratto a termine viene elevata da 12 a 36 mesi la durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità (il motivo dell’assunzione), fissando il limite massimo del 20% per l’utilizzo.
2 Proroghe più semplici
Inoltre c’è la possibilità di prorogare i contratti a termine più volte, mettendo così fine alla «tortura», come l’ha definita Poletti, delle interruzioni
3 Apprendistato
Più semplificazione anche per l’apprendistato, prevedendo meno vincoli. Dunque senza l’obbligo di confermare i precedenti apprendisti prima di assumerne di nuovi.
4 Retribuzione
La retribuzione dell’apprendista, per la parte riferita alle ore di formazione, è pari al 35% della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento.
5 Garanzia universale
Il sussidio è inserito nel secondo braccio, cioè nel ddl delega. Ci vorranno almeno sei mesi. Assorbirà Aspi e mini Aspi e sarà «graduato in ragione del tempo in cui la persona ha lavorato». La cig in deroga andrà verso l’esaurimento.
6 Cassa integrazione
Nel ddl delega si mantengono la cig ordinaria e straordinaria, introducendo però un «meccanismo premiante»: si abbassa il contributo di tutti ma si alza di più la cassa.
7 Meno forme contrattuali
Il documento del governo prevede un riordino delle forme contrattuali: al momento sono 40, l’obiettivo è snellirle di molto
8 Tutele crescenti
Questo snellimento potrà passare, tra l’altro, attraverso l’introduzione «eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti»
9 Smaterializzazione del Durc
Sul fronte della semplificazione è prevista la smaterializzazione del Durc. Un intervento importante in considerazione del fatto che nel 2013 i Durc presentati sono stati circa 5 milioni
10 Garanzia giovani
Parte dal primo maggio e riguarderà una platea potenziale di 900 mila persone con risorse per 1,5 miliardi.

Università: calo delle iscrizioni (18 marzo 2014).
«Il sensibile calo del numero degli immatricolati nelle università italiane è un dato preoccupante» e gli abbandoni, come il numero degli studenti fuori corso, sono fenomeni «patologici» che vanno oltre la crisi e vanno curati subito perché «sono uno spreco e un lusso che questo Paese non può permettersi». L'appello è del ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Stefania Giannini alla presentazione del rapporto Anvur sullo stato del sistema universitario e della ricerca. Due pianeti in sofferenza come ha ricordato anche il capo dello Stato in un messaggio: «Si conferma purtroppo la persistenza di difficoltà strutturali nel settore dell'istruzione superiore della ricerca individuabili, in primo luogo, in un insoddisfacente livello complessivo della produttività del sistema - pur in presenza di innegabili punte di eccellenza - e nella permanenza di un sensibile divario territoriale a sfavore del Mezzogiorno». «Ulteriore preoccupazione - continua Napolitano - emerge dai dati relativi alle risorse destinate all'università e alla ricerca, che si attestano su valori considerevolmente inferiori alle medie europee e dei Paesi Ocse». Per il ministro Giannini, il dato sul calo delle immatricolazioni e gli abbandoni (riguarda il 40% degli iscritti) è «impressionante», come anche quello sui cambi di facoltà dopo il primo anno di studio (15%): «Dobbiamo aiutare gli studenti a diventare consapevoli. Dobbiamo agire sulle patologie in ingresso con un orientamento efficace, che è anche compito del Miur, e in corso di formazione, che è un compito universitario. Cerchiamo di uscire dalla patologia». La scarsa presenza degli studenti over 25 incide in generale sul numero di immatricolazioni, che sono diminuite del 20,4% tra il 2003-04 e il 2012-13. Negli anni la quota di coloro che si sono immatricolati a tre anni o più dal diploma è scesa dal 18,5% all'8% (17% la media Ue), a causa anche del drastico ridimensionamento degli incentivi per gli studenti lavoratori. Su questo punto il ministro ha assicurato che si impegnerà per aumentare le risorse per il diritto allo studio aumentando il numero delle borse di studio che oggi non copre tutti gli idonei. Ma per Giannini il problema è anche un altro: «C'è nella società una sensibilità diminuita del valore dell'istruzione superiore. È un dato che va oltre la crisi: dobbiamo cercare di reiniettare nella società italiana l'idea che lo studio è l'unico vero strumento di riscatto per l'individuo». Il bilancio della riforma 3+2 (laurea triennale + magistrale) è - secondo l'Anvur - comunque positiva. In nove anni, dal 1993 al 2012, i laureati in Italia sono passati dal 5,5% al 12,7% della popolazione in età da lavoro e dal 7,1% al 22,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni. Ma nonostante il nostro sistema si sia aperto a un'università «di massa», l'Italia continua a essere uno dei Paesi con la più bassa quota di laureati: nel 2012 la media Ue registrava oltre 35 laureati ogni cento abitanti tra 25 e i 34 anni. Incidono l'assenza di corsi professionalizzanti e la riduzione delle immatricolazioni di studenti over 25. Secondo l'Agenzia di valutazione, il ritardo dell'Italia è legato, tra le altre cose, all'assenza di corsi professionalizzanti, «che nella media europea pesano circa per il 25% sul totale dei laureati». Inoltre gli atenei non riescono ad «attrarre studenti maturi» e si registra un basso tasso di successo: «in Italia solo il 55% degli immatricolati consegue il titolo a fronte di una media europea di quasi il 70%». Per quanto riguarda il 3+2, il numero delle persone che annualmente consegue un titolo terziario è oggi di circa il 31% superiore rispetto a prima della riforma. Il passaggio dalla triennale alla specializzazione riguarda poco più del 55% dei laureati. La spesa italiana in ricerca e sviluppo é tra le più basse delle grandi economie industriali. Il ritardo é dovuto principalmente alla spesa del settore privato, pari a circa la metà di quella media europea. Ma anche le risorse pubbliche sono inferiori alla media e non compensano il ritardo del settore privato: le risorse pubbliche investite in ricerca sono circa lo 0,52% del pil, 0,18% in meno rispetto alla media ocse. Si tratta solo di alcuni decimi di punto di differenza che corrispondono però a circa 3 miliardi di euro, ovvero il 30% delle risorse pubbliche oggi investite. Alle minori risorse investite corrisponde un minor numero di ricercatori e un minor potenziale d'innovazione. Tuttavia i risultati della ricerca italiana sono positivi. Complessivamente università ed enti di ricerca mostrano una qualità delle pubblicazioni scientifiche paragonabile a quella dei principali paesi europei. «La ricerca ha avuto un ruolo da Cenerentola sui banchi della politica», ha detto il ministro che ha annunciato di voler chiedere «a Renzi e al Governo che, come si parla di un piano decennale industriale, si parli di un piano decennale per la ricerca". «Solo con un respiro lungo si può sapere se il sistema della ricerca funziona», ha aggiunto Giannini che prevede di concretizzare la bozza del Piano «in autunno».

Abolizione delle provincie (26 marzo 2014).
Sì dell’aula del Senato alla fiducia posta dal governo sul maxiemendamento interamente sostitutivo del ddl Delrio di riforma delle Province. I voti favorevoli sono stati 160, i contrari 133. Il provvedimento dovrà tornare alla Camera per il via libera definitivo dal momento che il maxiemendamento approvato contiene le modifiche inserite in commissione. Il grimaldello con il quale “scardinare” il vecchio sistema sono le riforme. Matteo Renzi lo ripete ogni volta che può e, anche durante l’assemblea dei parlamentari Pd convocata per discutere del primo tassello, il superamento del bicameralismo perfetto, spiega che il Pd dovrà presentarsi alle elezioni europee del 25 maggio con il testo sul senato approvato in prima lettura e con la legge elettorale ormai in porto. Ne va della credibilità dell’Italia in Europa. "C’è un’emergenza" nel rapporto "tra politica e cittadini. Non ce lo spiegano le elezioni francesi che c’è uno scollamento. C’è uno spread drammatico tra le istituzioni e i cittadini che i sindaci" sono in prima fila nel contrastare. Ha parlato di lotta alla criminalità, di lavoro, di scuola agli studenti di Scalea, oggi, il presidente del Consiglio Matteo Renzi. “Guardiamoci negli occhi, perché bisogna avere il coraggio di dire che sulla gestione dei fondi europei bisogna totalmente cambiare passo, lasciando una gestione burocratese” e sfruttando in pieno le risorse che arrivano dall’Ue. Sulle Province "è arrivato il momento di dare un messaggio chiaro, forte e netto. Tremila posti in meno ai politici è la premessa per tornare a dare speranza e fiducia ai cittadini", ha detto il Presidente del Consiglio durante la conferenza stampa a Scalea. "Siamo consapevoli che alcune province lavorano bene, ma dare un segnale chiaro forte e netto, con tremila posti per i politici in meno, è la premessa per dare speranza e fiducia ai cittadini e non è un caso che la riduzione di costi e posti della politica è la premessa per restituire 80 euro ai cittadini". Il premier assicura che su Province, manager e Senato il Governo "intende andare fino in fondo. E’ un modo per fare la pace con gli italiani". "Questa volta si fa sul serio. Ma recuperare i costi della politica non basta se contemporaneamente non restituisci nelle tasche di chi lavora qualche decina di euro che sia il segno della ripartenza". E ancora: "Se il Senato non viene superato e si finisce con la storia del bicameralismo, se il Senato non va a casa, smetto io di fare politica". Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio, in una nota diffusa dall’ufficio stampa di palazzo Chigi, ha commentato positivamente l’approvazione al Senato del Ddl su Città metropolitane, Province e Unione dei Comuni: “Un grande passo - ha osservato Delrio - per un paese più semplice e capace di dare risposte alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese. Un passo che offre più opportunità con le Città metropolitane e che aiuterà i Comuni a lavorare meglio insieme”. “Non più - ha aggiunto - sovrapposizioni di funzioni tra enti. Una riforma che l’Italia attende da trent’anni per quanto riguarda le Città metropolitane e che produce il superamento definitivo delle elezioni per le Province, oltre all’abolizione degli enti secondari di carattere provinciale”. “Poniamo le premesse - ha detto ancora il sottosegretario - per una nuova riorganizzazione dello Stato. Le Città metropolitane diventeranno il luogo della competizione economica con le altre grandi aree europee e luogo di coordinamento efficace dei servizi pubblici. Le Province restano per ora solamente come agenzie di servizio ai Comuni e non più con funzioni duplicate per una pubblica amministrazione più efficiente e più semplice”. Oggi un gruppo di mamme di Scalea si è radunato in protesta davanti la scuola media 'Caloprese' dove il presidente del Consiglio ha incontrato gli studenti. Le mamme hanno esposto uno striscione con la scritta “le mamme sono indignate, chiedeteci perché”. “La protesta è scaturita - ha detto una di loro - per le condizioni precarie in cui si trovano le scuole e per la presenza di rifiuti per le strade”. “Renzi - hanno detto le mamme - dovrebbe venire a Scalea una volta al mese”.
SCHEDA
Le città metropolitane sono nove: Torino, Milano Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Reggio Calabria, alle quali si aggiunge Roma Capitale a cui è dedicato un capitolo a parte del provvedimento visto il suo status di Capitale. A queste si aggiungono le Città metropolitane istituite conformemente alla loro autonomia speciale dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna ossia Trieste, Palermo, Catania, Messina, Cagliari. Il territorio delle città metropolitane coincide con quello della omonima provincia. Per quanto riguarda gli organi della Città metropolitana, il disegno di legge indica: un sindaco metropolitano; il cui incarico è esercitato a titolo gratuito, due assemblee (presiedute dal medesimo sindaco), il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana. Il consiglio metropolitano è l’organo di indirizzo e di controllo; approva regolamenti, piani, programmi, nonché ogni altro sottopostogli dal sindaco; è il titolare dell’iniziativa circa l’elaborazione dello statuto e le sue modifiche; approva il bilancio (propostogli dal sindaco). La conferenza metropolitana è organo deliberativo dello statuto e delle modifiche. Ha inoltre funzione consultiva sul bilancio. La prima istituzione delle Città metropolitane è prevista entro il 1° gennaio 2015. Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del Comune capoluogo. Il consiglio metropolitano è composto da 24 consiglieri nelle città con popolazione superiore ai 3 milioni di abitanti e da 18 consiglieri in quelle con popolazione superiore agli 800mila abitanti, 14 nelle altre. Il consiglio metropolitano è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della città metropolitana. Può nominare un vicesindaco (e delegargli stabilmente funzioni), scelto tra i consiglieri metropolitani, dandone immediata comunicazione al consiglio. Non è prevista l’istituzione di una giunta metropolitana - ma il sindaco metropolitano può assegnare, nel rispetto del principio di collegialità, deleghe a consiglieri metropolitani (consiglieri delegati) secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallo statuto. Le città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, sono costituite alla data di entrata in vigore della legge, a eccezione di Reggio Calabria che invece andrà alla scadenza naturale degli organi della provincia. Di conseguenza i presidenti di provincia e le giunte provinciali restano in carica fino al 31 dicembre a titolo gratuito. Questa precisazione è stata introdotta dal governo nel maxiemendamento su cui è stata posta la fiducia su richiesta della commissione Bilancio per una questione di copertura finanziaria della legge. Le funzioni delle Città metropolitane sono: le funzioni fondamentali delle Province e quelle delle Città metropolitane attribuite entro il processo di riordino delle funzioni delle Province; adozione e aggiornamento annuale del piano strategico triennale del territorio metropolitano (atto di indirizzo per gli enti del territorio metropolitano), nel rispetto delle leggi regionali nelle materie di loro competenza; pianificazione territoriale generale comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture “appartenenti alla competenza” della Città metropolitana; strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano (per questo riguardo, la Città metropolitana altresì può, d’intesa con i Comuni interessati, predisporre documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive); mobilità e viabilità; promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale; promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione. Infine ciascuna Città metropolitana succede a titolo universale in tutti i rapporti attivi e passivi (comprese le entrate provinciali) della Provincia cui subentra. Le risorse della Città metropolitana sono date dal patrimonio, dal personale e dalle risorse strumentali della Provincia medesima. Le Province. Nelle nuove Province il presidente è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali della provincia, dura in carica 4 anni, e deve essere un sindaco. Sotto di lui ci sono il Consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci, tutti ricoprono l’incarico a titolo gratuito. Per il Consiglio provinciale hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei comuni della Provincia. La cessazione dalla carica comunale comporta la decadenza da consigliere provinciale. Il voto anche in questo caso è ponderato. Il Consiglio provinciale è l’organo di indirizzo e controllo, approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal presidente della Provincia; ha altresì potere di proposta dello statuto e poteri decisori finali per l’approvazione del bilancio. Alle Province spettano le funzioni in ambito di: pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza (si noti la funzione della tutela ambientale, prevista nel vigente Testo unico degli enti locali, espunta dalla Camera dei deputati nella prima lettura del presente provvedimento, reinserita dalla Commissione Affari costituzionali del Senato); pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale; raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; gestione dell’edilizia scolastica ; il ‘controllo’ dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità nel territorio provinciale. Le funzioni trasferite dalla Province continuano ad essere da loro esercitate, fino a quando un altro ente, Regione o Comune non subentreranno, questo avverrà con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge (se si tratti di competenza statale) o dalle Regioni entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Infine per le Province interessate dai commissariamenti e per quelle in cui i mandati elettorali scadono tra il 1° gennaio e il 30 giugno 2014, la legge di stabilità, in considerazione dell’assetto transitorio delle province, aveva già previsto che non si procedesse alle elezioni per il rinnovo ma si nominasse un commissario. Risulta perciò superato il problema della “finestra elettorale” che stabilisce l`obbligo di svolgere le elezioni per il rinnovo degli organi provinciali esclusivamente nel periodo 15 aprile -15 giugno e di conseguenza anche senza la presente legge le Province in questione non sarebbero state rinnovate.

RENZI ACCELERA (28 marzo 2014).
È stata «impressa un’accelerazione sulle riforme», il percorso presenta delle «difficoltà» ma «dobbiamo rivendicare lo straordinario insieme di risultati» ottenuti. Matteo Renzi apre la direzione del Pd e annuncia i prossimi passaggi parlamentari. «Il governo approverà lunedì in consiglio dei ministri il ddl costituzionale sulla riforma del Senato e Titolo V». Dopo sarà la volta dell’Italicum: «Sarà approvato al Senato dopo il via libera alla riforma del bicameralismo. Il testo è modificato rispetto all’origine con modifiche positive ma in alcuni casi non sufficienti. È importante il punto che per noi fare una legge con altri è un valore e per modificarla bisogna fare uno sforzo insieme. I tempi devono essere certi, è una questione di credibilità». «Leggo discussioni e ultimatum sul lavoro, che capisco poco. Non è una parte a piacere, il pacchetto sta insieme» replica il premier a chi, tra i dem, chiede modifiche al dl lavoro. Taglieremo «il cuneo fiscale non con un’operazione in burocratese puro ma tagliando a quelli che sono meno abbienti e che prendono 1300 euro e che, una volta, erano ceto medio. È un pezzo di popolazione cui cerchiamo di restituire un po’ di fiato». Su contratti a termine e apprendistato: «Sono due punti intoccabili della nostra proposta. Non sono due temi a piacere». Renzi torna a parlare anche dei tagli: «La discussione sulla spending review non può essere quella vista in questi giorni: non è taglia qui, togli là, è il tentativo di ripensare il sistema amministrativo». «Ci sarà una direzione del Pd, tra il 7 e il 13 aprile, meglio se il 7 o l’8 per approvare le liste per le europee». Per la campagna elettorale per le europee il Pd adotterà un «claim opposto a “ce lo chiede l’Europa”» ha aggiunto. Renzi ha poi chiesto al responsabile comunicazione, Francesco Nicodemo, se fosse pronta una slide con il claim e il bozzetto del manifesto da mostrare, ma alla risposta negativo, Renzi ha replicato scherzando: «allora non vi svelo il claim, lo vedremo insieme alla prossima Direzione» dedicata alle Europee. Per ristrutturare la segreteria Matteo Renzi ha identificato il duo Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani. «La questione della segreteria non può vedere una mancanza di ambizione, la presenza di due vicesegretari, è una funzione di garanzia, non di polemica interna» ha spiegato il premier. «Se le componenti del Pd hanno voglia di confrontarsi noi siamo pronti da subito, non vogliamo mettere steccati, ma non vogliamo venire meno a impegni presi sul modello partito». La scelta di Guerini e Serracchiani è dunque «una scelta di garanzia. Io non presento qui l’ipotesi di segreteria nuova che vogliamo perché se le componenti della minoranza sono disponibili a parlare di compartecipazione noi ci siamo, altrimenti aspettiamo. Ma intanto Lorenzo e Deborah lavoreranno». «M5s è in difficoltà, è in ricorsa rispetto a noi perché insegue sui temi su cui prima aveva una primazia e ora non più. Loro parlano e noi risolviamo».

Visco contro sindacati e confindustria (29 marzo 2014).
Non solo "ai soggetti pubblici e ai policy-maker" è chiesto uno "sforzo di cambiamento". Il governatore di Bankitalia Visco chiede "un altrettanto profondo mutamento del settore privato", a imprese e lavoratori. La sfida per le imprese è "un salto di qualità di prodotto e di processo, che le porti ad essere più grandi, più tecnologiche, più internazionalizzate". Visco non molla insomma la presa e continua a spronare il sistema produttivo. "Attraverso una maggiore patrimonializzazione, anche con risorse proprie, gli imprenditori potranno dimostrare direttamente la fiducia nelle prospettive delle loro imprese", sottolinea ad esempio alla platea di industriali del convegno di Confindustria a Bari. La ripresa "richiede di affrontare i nodi strutturali", dice. Nel privato come nel pubblico, non solo bisogna agire su capitale umano e innovazione tecnologica, "sono necessari comportamenti e politiche volti a stimolare gli investimenti fissi e a innalzare le frontiere della conoscenza e della tecnologia, in ultima analisi, la crescita del Paese". Dal palco di Bari parla anche il segretario del principale sindacato italiano Susanna Camusso che nel corso del suo intervento è tornata sulle parole pronunciate proprio dal governatore di Bankitalia. "Stiamo ancora discutendo di rigidità, quale rigidità.... E' la stagione in cui i colpevoli sono le imprese e i sindacati, perché va di moda. E c'è un entusiasmo di massa nel trovare questi colpevoli". Giorgio Squinzi tenta di smorzare la polemica: "Non le leggo in questo modo". Parlando del governatore di Bankitalia, il presidente di Confindustria dice che "si è riferito a considerazioni che risalgono a Guido Carli. E' anche vero che i tempi sono cambiati. Conosco molto bene il governatore, anche per essere stato nel Consiglio superiore di Bankitalia. E' una persona che stimo e apprezzo", afferma Squinzi, a margine del convegno del Centro studi, al quale partecipa anche il governatore. "Confindustria, la mia Confindustria, sta puntando - sottolinea Squinzi - a mettere come esempio di tutto il sistema industriale italiano aziende innovative e competitive nel mercato globale, aziende che hanno fatto dell'innovazione, anche attraverso la formazione del proprio capitale umano, la chiave di competitività del mondo. Altrimenti non si spiega come potremmo avere tante imprese, tanti settori in cui la manifattura italiana è leader mondiale".

Renzi e l'abolizione del Senato (31 marzo 2014).
Se non si fa la riforma del Senato «non ha senso che gente come me stia al governo: ci giochiamo la faccia e tutto il resto». Così il premier Matteo Renzi a Rtl 102.5 torna sul dibattito che l'ha visto contrapposto al presidente di palazzo madama Piero Grasso. «Su questa cosa non mollo di mezzo centimetro, andiamo diritto. Voglio che anche chi non ci crede ed è sfiduciato possa vedere che stavolta il risultato lo otteniamo. Sono trent'anni che ci sono commissioni, superprofessoroni che discutono» di riforma del bicameralismo: «Tutta roba interessantissima. Ma il punto è che gli italiani in questi anni hanno fatto un sacco di sacrifici ma hanno visto crescere il debito pubblico perchè i politici di Roma, del livello nazionale, i sacrifici non li hanno fatti. Allora si tratta semplicemente di iniziare a invertire la rotta». «Non ci sto a fare le riforme a metà, non sto a Roma perchè mi sono innamorato dei palazzi: se la classe politica dice che non bisogna cambiare, faranno a meno di me e magari saranno anche più contenti», ha aggiunto Renzi. «Al dolore della gente bisogna dare risposte chiare. Il governo deve essere coraggioso, perché o lo è o perdiamo la faccia. Ed io la faccia non la voglio perdere». «Per ridurre i parlamentari, evitare il ping pong delle leggi, semplificare il quadro, facciamo del Senato, come in tanti Paesi, il luogo dove siedono, senza indennità, sindaci e presidenti di Regione. Si tratta di vedere se questa volta si bluffa o si fa sul serio, perché si chiede ai senatori di superare il Senato. Non è mica facile, lo so. Ma è una questione di dignità» verso i cittadini. Pietro Grasso non crede si possa riuscire? «No, non è proprio d'accordo» con la riforma, ha risposto Renzi a Rtl. «Provo curiosità: voglio vedere se davvero non votano. I parlamentari del mio partito che non vogliono votare» il ddl costituzionale sul Senato «dovrebbero ricordare che» quella proposta «l'ho portata alle primarie» ed è stata «votata dai nostri elettori». E che è stata vagliata «due volte dalla direzione» del Pd, ha aggiunto. «Non è che il Parlamento è un passacarte, può ragionare, discutere» il ddl costituzionale del governo. «Ma i paletti fondamentali sono che i senatori non prendano indennità, che siano perciò presidenti di Regione e sindaci che fanno altre cose, e che non votino più la fiducia e il bilancio». Il premier aggiunge un altro paletto: «Che il Senato non sia eletto, perchè in Italia abbiamo il numero di politici più alto d'Europa» e «l'America, che è l'America, ha la metà dei parlamentari italiani». «Paradossalmente per creare lavoro bisogna rimettere innanzitutto a posto le regole istituzionali: superare il Senato, eliminare i politici dalle province e l'autentica vergogna delle rimborsopoli delle Regioni cui metteremo un freno per sempre». Le riforme istituzionali non servono «solo agli addetti ai lavori ma sono anche il presupposto per poter chiedere agli imprenditori internazionali di tornare a investire in Italia, con un sistema Paese che è più capace di creare lavoro». «Vorrei che per chi vuole creare un posto di lavoro, prendere un apprendista, fare un contratto a termine, sia più semplice farlo» senza la «burocrazia» di oggi, ha spiegato Renzi. «Dall'altro lato vorrei ci fossero più garanzie per chi non le ha», come le lavoratrici precarie che diventano mamme: «Con il ddl delega vogliamo dare garanzie a tutti, anche a coloro che in questi anni sono stati dimenticati dal legislatore nazionale». «Sono sicuro che molti elettori del Movimento 5 Stelle vorrebbero che Grillo votasse con noi la riforma del Senato. Ma Grillo ha più interesse a lasciare le cose come stanno. Ma se facciamo le riforme che gli italiani chiedono da 20 anni, anche i populisti indietreggiano», ha concluso.

Scontro sulla riforma del senato (1 aprile 2014).
Renzi non ha intenzione di fare dietrofront sulla riforma del Senato e dopo avere ribadito domenica che «la musica deve cambiare», nell’intervista al Corriere della Sera si dice convinto che il disegno di legge del governo verrà presentato e che oggi sarà tranquillamente ufficializzato come da programma: «Scendo io in sala stampa a Palazzo Chigi, con i ministri, a presentarla». Ma è proprio un ministro, nonché leader di uno dei partiti della maggioranza, Stefania Giannini, segretaria politica di Scelta Civica, a tirare il freno a mano proprio nel giorno in cui si riunisce l’esecutivo per mettere a punto il disegno di legge di riforma costituzionale. «È un po’ inconsueto che sia il governo a presentare una proposta di legge su questo tema - puntualizza Giannini in un’intervista a Radio Città Futura - . Serve che il Parlamento ne discuta per ritoccare e migliorare alcuni aspetti». L’esponente di Scelta Civica invita il premier a non avere fretta («anche se non credo che il verbo aspettare appartenga al vocabolario del presidente del Consiglio») e sottolinea la necessità di «qualche momento di riflessione e maturazione in più». Insomma, meglio «non farne una questione di calendario» e «non confondere l’irrinunciabile dibattito parlamentare con la manfrina di chi non vuole cambiare le cose». La presa di posizione di Scelta Civica si va dunque ad aggiungere agli altri mal di pancia interni, in particolare alle critiche sollevate dal presidente del Senato, Piero Grasso, che in più occasioni ha esternato i propri dubbi sulla cancellazione dell’attuale assemblea elettiva e la sua sostituzione con una composta di presidenti di Regione, consiglieri regionali e sindaci. Un distinguo pesante, considerato che Grasso è la seconda carica dello Stato, che aveva indotto la vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani ad intervenire ricordargli che essendo lui stato eletto nelle fila del Partito democratico farebbe meglio ad allinearsi alle decisioni della segreteria. Ma anche Grasso, come Renzi, non sembra intenzionato a recedere dalle proprie posizioni. E a questo si aggiunge l’intenzione della minoranza che fa capo a Pippo Civati di presentare un proprio disegno di legge di riforma diverso da quello del premier. In tutto questo si inserisce l’azione di contrasto annunciata da Forza Italia, che conta di sfruttare le divisioni interne al partito di maggioranza («per il Pd al Senato sarà un Vietnam» ha dichiarato il capogruppo dei senatori azzurri Paolo Romani) per mettere in difficoltà Renzi. Oggi Romani e il suo omologo della Camera Renato Brunetta sono tornati a chiedere che venga data priorità alla nuova legge elettorale, l’Italicum, concordata tra Renzi e Berlusconi e già varata alla Camera che la maggioranza sembra avere accantonato proprio per avviare la riforma del Senato. Una mossa, quest’ultima, voluta in primis dal Nuovo Centrodestra di Alfano, preoccupato che con la nuova legge approvata Pd e FI possano essere tentati da elezioni politiche ravvicinate in cui gli alfaniani avrebbero ben poco da guadagnare. Anche Silvio Berlusconi ha sentito il bisogno, con una nota, di ribadire il punto: «Noi rispetteremo fino in fondo gli accordi che abbiamo sottoscritto - dice il leader di Forza Italia - e siamo pronti a discutere tutto nel dettaglio, senza accettare testi preconfezionati, ma lavorando insieme per costruire le riforme migliori per il Paese. Abbiamo dimostrato la nostra serietà approvando alla Camera la legge elettorale, che ora vorremmo vedere in aula al Senato quanto prima. Speriamo che le divisioni emerse nel Partito Democratico non affossino il tentativo di modernizzare le nostre istituzioni. La sinistra non scarichi ancora una volta sugli Italiani i propri problemi». Ma su una possibile inversione dell’ordine dei lavori non sembrano esserci molti spiragli. «Credo che ci sarà prima la riforma del Senato e poi quella della legge elettorale - spiega il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi , fedelissima di Renzi-. Non sono preoccupata, credo che troveremo un’intesa anche su questo».

Disoccupazione ai massimi 2 aprile 2014).
Per l’Italia la disoccupazione resta una piaga. E a febbraio segna un nuovo record, collocandosi al 13%, ovvero il tasso più alto dal 1977. Vuol dire che oltre 3,3 milioni di persone sono in cerca di lavoro: +8 mila su mese e +272 mila su base annua. Sempre alta anche la componente giovani, che tocca il 42,3% in lievissima diminuzione su gennaio, ma con un +3,6% su base annua: 678mila i ragazzi tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro. L’Italia è al top per l’incremento: +13% a febbraio (inferiore solo a Cipro e Grecia). Il tasso di occupazione, di converso, a febbraio è al 55,2%: si torna indietro di 14 anni e in media si perdono mille occupati al giorno. «Sono dati sconvolgenti, perdiamo mille posti al giorno, questo è il problema», ha commentato il premier Matteo Renzi da Londra. «Per l’economia italiana - ha proseguito il premier - ci sono segnali di ripresa che però non sono sufficienti». «C’è bisogno di correre», a partire dalle riforme, sottolinea il presidente del Consiglio. I dati dell’Istat sottolineano come l’andamento risulti sostanzialmente stabile in termini congiunturali ma in aumento di 1,1 punti percentuali nei dodici mesi. Guardando alle differenze tra uomini e donne, il tasso di disoccupazione maschile, pari al 12,5%, aumenta sia su gennaio (+0,2 punti) sia in termini tendenziali (+1,4 punti); quello femminile, al 13,6%, cala di 0,2 punti rispetto al mese precedente ma cresce di 0,6 punti nel confronto annuo. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni a febbraio è pari al 42,3%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali su gennaio, quando aveva toccato il picco ma in aumento di 3,6 punti su base annua. I ragazzi in cerca di lavoro sono 678mila. A febbraio, sono occupati 923mila giovani tra i 15 e i 24 anni, in calo dell’1,4% rispetto al mese precedente (-13mila) e del 10,4% su base annua (-107mila). Il tasso di occupazione giovanile scende al 15,4%, -0,2 punti percentuali su mese e -1,7 punti nei dodici mesi. Il numero di giovani disoccupati è in calo dell’1,6% nell’ultimo mese (-11mila), ma in aumento del 4,2% su anno (+27mila). Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni risulta sostanzialmente stabile a febbraio sia rispetto al mese precedente sia rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività pari al 36,4%, rimane stabile in termini congiunturali e aumenta di 0,1 punti su base annua. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, ad esempio perché impegnati negli studi. Il numero di giovani inattivi è pari a 4,393 milioni, in aumento dello 0,5% su mese (+20mila) e dell’1,1% su anno (+46mila). Il tasso di inattività dei giovani tra i 15 e 24 anni, pari al 73,3%, sale di 0,4 punti percentuali nell’ultimo mese e di 1,2 punti nei dodici mesi. Il ministero del Lavoro ha deciso di rafforzare i controlli sull’utilizzo distorto dei contratti di collaborazione a progetto e delle partite Iva, per identificare i casi in cui il ricorso a queste tipologie contrattuali «maschera rapporti di lavoro subordinato». Una «prassi tanto più ingiustificata», dice il ministro Poletti, con i nuovi contratti a termine. La decisione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si inserisce nell’ambito delle iniziative di contrasto al lavoro irregolare. È stato inoltre costituito, riferisce ancora lo steso ministero, «un gruppo di lavoro per valutare l’eventuale esigenza di semplificazioni e revisioni normative, prevedendo l’attivazione di un confronto in merito con tutte le parti interessate». È rimasto stabile, a un tasso dell’11,9%, il livello della disoccupazione in Europa: è il dato diffuso oggi da Eurostat per il mese di febbraio nell’Eurozona. Un anno prima, nel febbraio 2013, la disoccupazione era al 12%. Nell’Ue a 28 paesi si è invece registrato un lieve calo al 10,6% contro il 10,7% di gennaio (10,9% in febbraio 2013). Secondo Eurostat, nel secondo mese di quest’anno i disoccupati europei erano 25,920 milioni di cui 18,9 milioni nell’Eurozona, in calo di 65 mila nell’Ue e di 35 mila nell’Eurozona. La situazione si conferma più grave in Grecia (27,5%) e Spagna (25,6%). Negli Stati Uniti la disoccupazione a febbraio era pari al 6,7%. Leggero miglioramento per il dato sui giovani : nell’Ue i disoccupati di meno di 25 anni sono scesi al 22,9%, in calo rispetto al 23,6% del febbraio 2013, mentre nell’Eurozona il dato è pari al 23,5% (24% un anno prima).

Taglio allo stipendio dei burocrati (8 aprile 2014).
Arriva un nuovo tetto massimo di stipendio per gli «uomini d’oro» dei ministeri, capi di gabinetto e direttori generali, e poi una griglia rigida per tutti gli altri dirigenti, seconde e terze linee comprese, con tagli progressivi che scatteranno dai 70 mila euro lordi in su. Di pari passo col lavoro sul Def e l’avanzamento della spending review il governo affila le forbici e si prepara a tagliare gli stipendi dei grand commis. Già oggi il premier dovrebbe svelare una parte del suo piano: «parleremo anche di questo e sarete contenti» ha detto ieri Renzi ai cronisti che lo inseguivano per conoscere gli ultimi dettagli del Def. L’obiettivo del governo è molto ambizioso: riducendo i compensi dei dipendenti pubblici che guadagnano di più si punta a risparmiare tra i 300 ed i 500 milioni euro. Del resto, stando alle stime elaborate dall’economista Roberto Perotti, che coordina il gruppo di lavoro di Renzi sulla spesa pubblica, sarebbe sufficiente ridurre del 20% lo stipendio dei cosiddetti dirigenti «apicali» e del 15% quello di tutti altri per far risparmiare allo Stato fra 800 milioni ed un miliardo di euro l’anno. L’idea di base che il governo vuole affermare è che nella pubblica amministrazione nessuno possa guadagnare più del presidente della Repubblica, ovvero 240mila euro lordi l’anno. Mentre fino ad oggi il tetto massimo era di 311mila, ovvero lo stipendio del primo presidente di Cassazione. Si tratterebbe di un taglio molto forte, che in molti casi rischierebbe di andare a toccare non solo la parte variabile e di risultato ma anche quella fissa dei compensi e quindi non di facile applicazione. Per questo è probabile che al momento di decidere l’asticella questa venga posta a metà strada, attorno a quota 270 mila. A cascata, poi, seguirebbero gli altri tagli: i capi dipartimento non potrebbero superare quota 190 mila, 120 mila i dirigenti di prima fascia e 80 mila quelli di seconda. A tirare la cinghia saranno innanzitutto direttori generali e capi di gabinetto: quasi 400 persone in gran parte concentrate a palazzo Chigi (86), all’Economia e alle Infrastrutture. Ognuno di loro percepisce uno stipendio medio che supera i 200 mila euro, con punte di 243mila alla Salute e 217-218mila al Viminale e alla presidenza del Consiglio. Con i 349 dell’Avvocatura dello Stato che arrivano a una media di ben 274mila euro. Ma i tagli, sempre per stare nel perimetro del governo, toccherebbero anche gli altri 2400 dirigenti di prima e seconda fascia, i cui stipendi a palazzo Chigi e in dicasteri come Sviluppo, Salute e Ambiente veleggiano sempre attorno a quota 110 mila euro lordi l’anno. Ma se la sforbiciata partirà dai 70mila euro in su potrebbe rischiare qualcosa anche una parte di personale non dirigente della Farnesina (sono 3.265, con stipendi medi di 70.980 euro) ed i 174 dell’Antitrust il cui compenso viaggia a quota 98mila euro. Tutte buste paga spesso fuori «mercato» segnala Perotti, di gran lunga superiori a quella delle medie europee. L’esperto di Renzi, in particolare, sul sito lavoce.info confronta gli stipendi dei funzionari italiani con quelli dei pari grado inglesi mettendo in evidenza che i nostri guadagnano in media il 50-80% in più. O se preferiamo, utilizzando i calcoli del commissario alla spending review Cottarelli, 12,63 volte il reddito medio procapite contro l’8,48 degli inglesi, il 6,44 dei francesi ed il 4,97 dei morigeratissimi tedeschi. Il confronto Roma/Londra lascia di stucco: al ministero dell’Agricoltura il capo di gabinetto guadagna 274.647 euro contro i 191.648 dell’omologo inglese, mentre i tre direttori di dipartimento arrivano a 287.136 euro contro 166.482. Agli Esteri il Segretario generale arriva a 301.320 contro 261.338 del numero uno del Foreign Office, il capo di gabinetto a 273.172 contro 150.995. Al ministero dell’Economia i 4 direttori generali percepiscono in media quasi il doppio dei loro colleghi d’Oltremanica: 288.986 euro contro 153.898. E anche al ministero della Salute direttore di dipartimento e direttori generali (14) surclassano i colleghi inglesi, rispettivamente con 293.364 euro contro 191.648 e 231.853 contro 163.772.

Renzi presenta il Def (9 aprile 2014).
Il premier Renzi ha presentato il Documento di Economia e Finanza. Che come si era capito, contiene fondamentalmente solo le linee guida della politica economica del Paese, con i numeri sulle prospettive dell’economia italiana, e il cosiddetto «Piano Nazionale delle Riforme». Le notizie più importanti, quelle sul provvedimento che consegnerà 80 euro al mese a 14 milioni di italiani, e quelle su dove verranno trovati i soldi per sborsarli, le annuncia proprio il presidente del Consiglio. Il decreto legge arriva il 18 aprile: i 6,6 miliardi necessari per i restanti 8 mesi del 2014 saranno trovati tagliando la spesa pubblica attraverso la spending review di Carlo Cottarelli, con il gettito Iva aggiuntivo, ma anche togliendo 1 miliardo alle banche che beneficiarono della rivalutazione delle quote di Bankitalia. Un’operazione voluta da Enrico Letta per finanziare il taglio dell’Imu, criticata da Beppe Grillo e non solo, e che evidentemente anche per Matteo Renzi era stata un po’ troppo generosa con le banche. Che finiranno per contribuire, insieme ai manager e ai dirigenti pubblici, al bonus da 80 euro. Che sarà dato anche ai poverissimi «incapienti». C’è però un piccolo giallo: nel documento circolato ieri si legge che l’aumento delle detrazioni Irpef sui redditi da lavoro per il 2014 vale 3,6 miliardi. Stavolta niente slides per il premier, che approfitta dell’occasione per ribadire che «tutti gli impegni presi dal governo verranno mantenuti», compresi quelli in campo di riforma politica. E poco importa se «c’è qualcuno, anche nel mio partito, che è in cerca di visibilità». Il DEF, dice rivolto al ministro dell’Economia Padoan, è «un documento molto serio e molto rigoroso. Credo che dobbiamo alla storia anche personale di Padoan il rispetto che si deve a previsioni che io ho definito “rigorose”, lui mi ha corretto con “serie”». Il che significa che il Pil nel 2014 crescerà solo dello 0,8%, e che il deficit si fermerà al 2,6% del Pil. «In Europa - spiega Padoan - arriviamo con i compiti fatti e con le riforme avviate. Il messaggio dell’Italia è che vogliamo mantenere i numeri giusti per provare a cambiare le regole europee». Renzi promette che cambieranno anche le «regole italiane». Venerdì 18 arriva il decreto legge sul bonus: 4,5 miliardi arrivano dalla spending review, 2,2 miliardi dall’aumento del gettito Iva (sui soldi incassati dalle imprese che avevano crediti dalla pubblica amministrazione, e dalle banche, che «concorreranno a questo sforzo», con l’aumento dell’imposta sulle quote di Bankitalia dal 12 al 24-26%). Il grosso della copertura viene comunque dal lavoro di Carlo Cottarelli, che di miliardi ne avrebbe trovati addirittura 6. La mannaia calerà sulla pubblica amministrazione, con il taglio degli enti e delle nomine politiche, ma anche con la sforbiciata agli stipendi dei manager (non delle società quotate però) e dei dirigenti pubblici. «Guardate che uno stipendio di 238.000 euro per chi lavora nel pubblico è più che sufficiente», chiosa Renzi citando Adriano Olivetti, per il quale il capo non dovrebbe guadagnare più di 10 volte il dipendente. E in ogni caso il 10% della retribuzione arriverà solo se scatta un indicatore che dice che il Paese va bene, perché «non è possibile che un manager prenda un premio massimo se il paese va a rotoli». Un’operazione che vale 350-400 milioni. Il premier chiede anche ai vertici di Quirinale, Camera, Senato e Corte dei Conti «una prova di coraggio» sui superstipendi. «Il senso è - spiega - che siccome la classe politica inizia a stringere la cinghia, ora tocca anche alla classe dirigente. Tutto questo è sforbicia-Italia», che dopo il Cnel colpirà molti altri enti. Il succo, dice Renzi, è che «inizia a pagare chi non ha mai pagato», e finalmente la politica «entra in sintonia con il Paese».

BCE: ripresa moderata (10 aprile 2014).
La ripresa nell'Eurozona rimane costante e moderata e piccoli miglioramenti si iniziano a vedere anche sul mercato del lavoro, anche se la disoccupazione rimane a livelli elevati. Questo in sintesi il quadro disegnato dalla Banca centrale europea (Bce) nel suo ultimo rapporto mensile, diffuso oggi, dove si dice pronta a intervenire anche con strumenti non convenzionali in caso la situazione peggiorasse. Dai dati del primo trimestre di quest'anno emerge una crescita moderata nella zona euro. "La ripresa in atto è sempre più sostenuta dal consolidamento della domanda interna", si legge nel bollettino della Bce, che rimane fiduciosa sul futuro. Secondo la Bce, nei prossimi mesi si dovrebbe concretizzare un ulteriore aumento della domanda interna, favorito dall'orientamento accomodante della politica monetaria, dai continui miglioramenti delle condizioni di finanziamento che si trasmettono all'economia reale e dai progressi compiuti sul fronte del risanamento dei conti pubblici e delle riforme strutturali. Inoltre, i redditi reali beneficiano di un andamento moderato dei prezzi, in particolare di quotazioni dell'energia più contenute. L'attività economica dovrebbe trarre vantaggio anche da un graduale rafforzamento della domanda di esportazioni. Ma... Non mancano i rischi per le prospettive economiche dell'area dell'euro. "Gli andamenti nei mercati finanziari mondiali e nei paesi emergenti, nonché i rischi geopolitici, potrebbero essere in grado di influenzare negativamente le condizioni economiche - illustra la Bce - Altri rischi includono una domanda interna inferiore alle attese e un'attuazione insufficiente delle riforme strutturali nei paesi dell'area, nonché una crescita più debole delle esportazioni". Rimane poi il tasto dolente della disoccupazione, ancora elevata. Senza contare che gli aggiustamenti di bilancio necessari nei settori pubblico e privato, imposti dalle stesse autorità europee ai singoli paesi, continueranno a pesare sul ritmo della ripresa economica, rallentandolo. I mercati del lavoro dei singoli paesi europei "hanno iniziato ora a mostrare i primi segni di miglioramento - rileva la Bce - Ciò è in linea con il consueto ritardo della loro risposta ai miglioramenti dell'attività economica". Sebbene la disoccupazione rimanga su un livello elevato, i dati delle indagini campionarie hanno registrato un ulteriore miglioramento, ma indicano nondimeno un rafforzamento solo graduale dei mercati del lavoro nel prossimo futuro. Alla luce degli ultimi dati sull'inflazione nella zona euro (scesa a marzo allo 0,5%), la BCE si attende un certo incremento in aprile, connesso in parte alla variabilità dei prezzi dei servizi nel periodo intorno a Pasqua. Nei mesi seguenti l'inflazione dovrebbe restare contenuta, per poi aumentare gradualmente nel corso del 2015 e raggiungere livelli prossimi al 2% verso la fine del 2016. Il consiglio direttivo ritiene che i rischi per le prospettive sull'andamento dei prezzi, sia al rialzo che al ribasso, siano limitati e sostanzialmente bilanciati nel medio periodo. Alla luce di questo contesto, il board della Bce "è fermamente determinato a mantenere un elevato grado di accomodamento della politica monetaria e a intervenire con prontezza, se necessario". L'istituto guidato da Mario Draghi non esclude un ulteriore allentamento della politica monetaria e ribadisce con fermezza che continua ad attendersi tassi di interesse di riferimento su livelli pari o inferiori a quelli attuali (0,25%) per un prolungato periodo di tempo. Non solo. Il consiglio "è unanime nel suo impegno a ricorrere anche a strumenti non convenzionali nell'ambito del suo mandato per far fronte con efficacia ai rischi di un periodo troppo prolungato di bassa inflazione", prosegue il bollettino.

Approvato il DEF (17 aprile 2014).
Ok del Parlamento al Def e al rinvio del pareggio di bilancio. Il Senato ha approvato a maggioranza assoluta, con 170 voti a favore, 87 contrari e un astenuto, l’autorizzazione al governo per far slittare il pareggio di bilancio al 2016. Importante il «sì» arrivato anche dalla Lega. Palazzo Madama ha dato anche via libera al Def - il Documento di economia e finanza - nel suo complesso con 156 sì, 92 no e 2 astenuti. Anche alla Camera via libera su entrambi i fronti. Il Def passa con 373 sì. Il rinvio del pareggio di bilancio con 348 voti a favore e 143 i contrari. E domani, se arriverà il «sì» definitivo, l’esecutivo potrà mettere nero su bianco le coperture delle misure economiche annunciate: il Consiglio dei ministri si riunirà domattina per varare il decreto con il taglio Irpef. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, presente in Senato, ha definito la vicenda della lettera all’Ue una «tempesta in un bicchiere d’acqua». Motivando il rinvio del pareggio di bilancio il ministro Padoan ha aggiunto: «Nonostante i segnali di ripresa dell’anno in corso, anche nel 2014 il gap rimarrà molto negativo, la ripresa economica ancora fragile e la situazione del mercato del lavoro rimane ancora difficile». Non la pensa come il ministro Padoan, Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione Ue e candidato di Forza Italia alle Europee: «Si sta facendo un pasticcio - dice - ottenere un allentamento dei vincoli di bilancio è possibile con riforme già avviate, non solo con promesse». Ma il ministro del Tesoro è fiducioso. Il piano di dismissioni assicurerà «già dal prossimo anno un rapido rientro del debito» su cui ha pesato anche «il pagamento degli ulteriori debiti della pubblica amministrazione», ha sottolineato il ministro dell’Economia Padoan intevenendo in Aula al Senato, spiegando che i pagamenti della Pa sono state una delle cause dello slittamento al 2016 del pareggio di bilancio. «Il profilo programmatico del rapporto debito-Pil rispetta così la regola del percorso di convergenza del debito verso il parametro europeo del 60% del Pil già dal 2015», ha aggiunto.

Un milione le famiglie senza reddito (21 aprile 2014).
Le famiglie senza reddito da lavoro, dove chi cerca un impiego non lo trova, salgono ancora e nel 2013 arrivano a oltrepassare la soglia del milione. Dati Istat alla mano, la crescita nell’ultimo anno è stata pari al 18,3%, con altre 175 mila finite nel gruppo che l’Istituto di statistica classifica «con tutte le forze in cerca di lavoro». Le situazioni più critiche potrebbero coincidere con quelle delle coppie con figli, quasi mezzo milione, a cui si aggiungono più di 200 nuclei monogenitore, dove nella gran parte dei casi il solo capofamiglia è una donna, o meglio una mamma. Si tratta quindi di case dove i membri «attivi» sul mercato, in età lavorativa, non hanno un posto e devono trovare le risorse necessarie per andare avanti da altre fonti di reddito, diverse dalla busta paga. Magari il supporto può arrivare dal componente, può essere anche più di uno, che gode di pensione. Un’altra ipotesi di sostegno potrebbe coincidere con l’indennità di disoccupazione; o ancora con rendite da capitale, come può accadere a coloro che hanno abitazioni o locali in affitto. Sicuramente l’identikit della famiglia che non può fare riferimento su uno stipendio varia: dagli anziani, ormai fuori dal mondo del lavoro, con un figlio disoccupato e l’altro ancora studente, alla giovane madre alla ricerca di un impiego che deve farsi carico dei bambini senza l’aiuto dell’altro genitore; dal sigle che ha perso il posto alla coppia di giovani che non riesce a trovare ancora nulla. Quasi di certo, però, dietro la maggior parte delle situazioni c’è uno stato di disagio o comunque mancano certezze. Tuttavia non si può escludere ci siano storie più fortunate, di chi può permettersi di vivere senza lavorare, contando su forti rendite, i cosiddetti rentier. A soffrire di più, ancora una volta, è il Mezzogiorno, con 598 mila famiglie, dove coloro che sono forza lavoro risultano tutti disoccupati. Seguono il Nord, che ne ha 343 mila, e il Centro, con 189 mila. Ma il fenomeno avanza dappertutto, basti pensare che a confronto con due anni prima, l’aumento è addirittura del 56,5%. E i conti non tornano, o meglio tornano quelli della crisi, se si va a guardare il numero dei nuclei in cui tutti i componenti che partecipano al mercato del lavoro hanno un’occupazione, pari a 13 milioni 691 mila, in calo di 281 mila unità (-2%). Insomma le nuove medie annue dell’Istat, intrecciando i dati su condizioni familiari e occupazionali, non fanno altro confermare un 2013 segnato fino in fondo dalla piaga della disoccupazione.

Giorgio Napolitano, dal successo della decapitazione di Berlusconi all'oscuramento da parte di Renzi. (22 aprile 2014).
In un anno, Giorgio Napolitano ha perso quel senso di vicinanza alla gente, ai cittadini, che era riuscito a creare nel settennato precedente. I sondaggi hanno visto crollare la sua popolarità, erosa dall’incapacità di trovare una soluzione al vulnus di un leader come Berlusconi costretto a decadere da senatore e a non candidarsi, e al tempo stesso dall’attacco di Beppe Grillo che ha reclamato addirittura l’impeachment. Un “boom” che Napolitano stavolta non ha potuto non sentire. Ma non sono Berlusconi e Grillo i veri motivi dell’appannamento del capo dello Stato nella pubblica opinione. Quel motivo si chiama Matteo Renzi, subentrato al timone del Titanic Italia ereditando lo scettro di Giorgio. Il dominus oggi è lui. In una lettera a Ferruccio De Bortoli direttore del “Corriere della Sera”, il presidente Napolitano ammette di aver “pagato un prezzo” (intende, credo, in consenso). Dice d’averlo pagato “alla faziosità”, ribaltando l’accusa che gli viene mossa d’esser stato fazioso, non al di sopra delle parti. Meriti e demeriti stanno tutti nel protagonismo del capo dello Stato. Ci sono stati momenti nei quali nessun altro politico italiano è stato come lui in grado di rassicurare i partner internazionali sulla tenuta dell’Italia. Ma proprio in quelle ore la legittimazione di Napolitano Re d’Italia si risolveva in una delegittimazione di fatto della democrazia italiana, che non prevede un Monarca. I governi che si sono succeduti negli ultimi anni, auspice il Quirinale, sono stati e sono privi di legittimazione popolare. Ne avevano una solo mediata, coincidente con la volontà di Napolitano stesso, accolta per disperazione dal Parlamento. Così abbiamo avuto prima un tecnico, Mario Monti, poi il vicesegretario di un partito, Enrico Letta. Nessuno scelto dagli italiani. È stato un bel momento di monarchia di Napolitano il richiamo per quanto inascoltato al Parlamento sullo stato vergognoso delle carceri in Italia. Ma la monarchia illuminata su alcuni argomenti non basta a giustificarne altri meno lucenti. Per esempio tutte le volte che si è avuta l’impressione di una eccessiva invadenza-ingerenza del capo dello Stato nelle nomine, compresi i ministri. Soprattutto, colpisce il grigiore dell’ultimo discorso augurale di Natale, quel rimando populista alle lettere dei cittadini, e la malinconia dimessa e confusa della lettera al “Corriere” nella quale derubrica come “intrighi” gli atteggiamenti ostili che sarebbero andati “ben al di là di ogni legittima critica e riserva”, sottoscrive la definizione di “faticoso e ingrato” relativa al suo “compito di promuovere la formazione di un governo di ampia coalizione” e dopo aver ribadito l’appello per fare le riforme (elettorale e costituzionale), confida che stiano per realizzarsi le condizioni “che mi consentano di prevedere un distacco comprensibile e costruttivo dalle responsabilità che un anno fa mi risolsi ad assumere”. Che fatica assolvere alle funzioni di Presidente...! Insiste quindi nel difendere la commissione di saggi da lui voluta e istituita per studiare le riforme quando ancora non c’era un premier come Renzi che potesse tradurle in pratica (il lavoro di quei saggi sarebbe un “eccellente retroterra di analisi e proposte offerto da un’autorevole e imparziale Commissione di studiosi ed esperti”). Non si capisce se il Presidente sia stanco o deluso. O tutt’e due. Pentito di essersi fatto rieleggere, forse. All’immagine di integrità, forza e onestà data nel settennato precedente si è sostituita quest’aura di stanchezza e di crescente “distacco”. La parabola di Napolitano. Anche in un linguaggio, quello della lettera, sempre meno comprensibile, troppo interno al Palazzo, signorilmente retorico, istituzionale, ma drammaticamente scollegato dal sentire (e soffrire) degli italiani.

Bondi critica FI (23 aprile 2014).
«Il centrodestra non solo è diviso, com’è evidente, ma soprattutto è privo di una strategia per il futuro». Con queste parole Sandro Bondi, ex ministro della Cultura nel governo Berlusconi, in una lettera inviata al quotidiano La Stampa, parla del «fallimento» del centrodestra e il suo appoggio a Matteo Renzi. Per Bondi, in Forza Italia, «tutto in fondo è affidato più ancora che nel passato al carisma di Berlusconi, che suscita ancora un forte rapporto con l’elettorato moderato e il cui intuito politico è tuttora capace di produrre esiti inaspettati e sorprendenti». Ma anche in caso di vittoria, per l’ex ministro, «resta un gigantesco problema che riguarda l’identità del centrodestra in Italia, soprattutto dopo l’insediamento del governo Renzi e il cambiamento profondo di cui l’elezione al soglio pontificio di papa Francesco è solo una delle espressioni». Bondi cita anche il politologo Piero Ignazi che in un suo libro dal titolo «Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo» sostiene che il berlusconismo terminerebbe sotto il segno di tre fallimenti: la costituzione di un grande partito liberal-conservatore; la modernizzazione del Paese e la rivoluzione liberale. Nella lettera inviata al quotidiano torinese, Bondi analizza anche l’ascesa politica di Matteo Renzi. «Renzi - scrive - rappresenta senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista. Anzi, la sinistra di Renzi si colloca oltre la tradizionale socialdemocrazia europea, ed è più simile alla sinistra liberal americana di Obama e al nuovo labour party di Blair. Si potrebbe dire che Blair sta alla Thatcher così come Renzi sta a Berlusconi. Con la differenza però che Berlusconi non ha potuto portare a compimento una vera e propria rivoluzione liberale e una necessaria modernizzazione dell’Italia come ha fatto invece la Thatcher in Gran Bretagna, sia nella sfera economica che in quella dei diritti civili». E sul presunto «endorsement» di Bondi a Renzi interviene, con una battuta, lo stesso premier durante la diretta Twitter da Palazzo Chigi. «I fatti parlano per noi - dice Renzi - la nostra manovra è incentrata sulla giustizia sociale. Bondi? Sta dall’altra parte del campo, tranquillo, no problem». Certo è che le parole dell’ex ministro berlusconiano sono molto dure verso il centrodestra. Per Bondi una grande responsabilità nel fallimento della rivoluzione liberale che voleva fare Berlusconi ce l’hanno in particolare i suoi alleati: «Da Fini a Casini, da La Russa a Bossi erano tutto fuorché liberali», scrive sempre sul quotidiano di Torino. Quindi, per l’ex ministro, ecco che Renzi rappresenta una nuova forza politica da tenere presente: «La forza di Renzi - dice - nasce in fondo dal fatto di proporsi di realizzare quel cambiamento e quella modernizzazione che il centrodestra non può dichiarare di aver realizzato pienamente».Bondi termina il suo intervento con un auspicio. «Mi piacerebbe - scrive - che Berlusconi dicesse chiaramente che se Renzi farà delle cose giuste lo sosterrà e che lo criticherà o lo avverserà con fermezza solo se non manterrà fede alle sue promesse di cambiamento e di modernizzazione dell’Italia». Al ragionamento di Bondi giunge l’approvazione del Nuovo Centrodestra. «Bondi conferma la profonda confusione politica che attraversa Forza Italia. Ma quello che è più stupefacente è la serenità con cui egli, involontariamente, dichiara l’implicito fallimento politico del suo partito». Lo afferma Renato Schifani, senatore del Nuovo Centrodestra, che prosegue: «Infatti, dopo aver diviso traumaticamente il PdL e abbandonata la linea stabilita di cooperare, responsabilmente, in una situazione di assoluta emergenza, in un governo di coalizione con il centrosinistra, introducendo nel programma i valori e le proposte che qualificano l’area moderata rappresentata dal centrodestra, Forza Italia oscilla ormai tra due posizioni. Da una parte l’estremismo più velleitario, dall’altra il sostegno al progetto di Matteo Renzi. Appoggio che, se certamente rappresenta una novità perché cerca di rompere con i residui del postcomunismo, permane, tuttavia, nell’ambito di uno schieramento alternativo a quello dei moderati che afferiscono al PPE». Quindi Schifani conclude: «La riflessione di Bondi conferma la correttezza della linea politica del Nuovo centrodestra, che oggi ha, con il suo leader Angelino Alfano, il compito di ricostruire l’area dei moderati». Alle parole di Ncd arriva la replica dello stesso Bondi. «Mi spiace che alcuni commenti, soprattutto di esponenti del Nuovo Centrodestra, preferiscano strumentalizzare una riflessione che ho sviluppato con l’intenzione di essere il più possibile onesto e obiettivo, piuttosto che concorrere a una ricerca e a una auto analisi che dovrebbe riguardare tutti coloro che credono a una democrazia che contempli uno schieramento liberale alternativo ad una sinistra democratica». Così il senatore di Fi precisando la finalità del suo intervento.
IMPRESA OGGI conferma quello che sostiene da tempo. Berlusconi lascia dietro di sè solo macerie. Le macerie di un grande partito liberal-conservatore, quelle dell'impoverimento degli italiani a fronte dell'arricchimento di pochi, delle mancate e modernizzazione del Paese e realizzazione di grandi opere, della fallita rivoluzione liberale, della perdita di prestigio agli occhi del mondo, dell'incubazione di movimenti eversivi come il M5S, della perdita di speranza di manager e imprenditori e di fiducia delle nuove generazioni, di un paese che ha smarrito il valore delle leggi e della costitizione, di un paese sbrindellato e mollaccione che ha perso competitività e obiettivi; le macerie di un milione di famiglie prive di reddito e alla disperata ricerca di un posto di lavoro e di diciotto milioni di persone a rischio povertà.

Ottimismo dei mercati (24 aprile 2014).
Piazza Affari continuerà a correre nei prossimi sei mesi, mentre lo spread rimarrà sostanzialmente stabile sui livelli di queste ultime settimane, in area 150 punti base. È quanto emerge dal sondaggio condotto tra gli associati ad Assiom Forex, in collaborazione con Il Sole 24 Ore Radiocor. Il sondaggio (condotto tra il 15 e il 24 aprile), che ha registrato la partecipazione di 256 operatori, secondo il presidente di Assiom Forex Giuseppe Attanà, nel suo complesso "esprime un ‘sentiment' decisamente positivo, frutto anche di un favorevole andamento che, oltre ogni aspettativa, sta caratterizzando i mercati in questi primi quattro mesi del corrente anno". Tuttavia Attanà invita a non abbandonarsi al facile entusiasmo perché, spiega, questo clima positivo rispecchia solo la percezione degli operatori "che il trend sfavorevole si è finalmente interrotto e si apre una fase, certamente delicata, ma propedeutica a una ripresa che tutti quanti da molto tempo attendono". In altre parole, sottolinea ancora il presidente di Assiom Forex, il giudizio espresso nel sondaggio "non deve essere interpretato come la certezza che i mercati continueranno ad avere un andamento incessantemente positivo nei prossimi mesi, perché nel frattempo ci potrebbero essere anche momenti di pausa e di ‘sano' storno". Intanto lo spread non fa più paura: una gran parte degli addetti ai lavori intravede il differenziale BTp-Bund stabile, attorno ai nuovi minimi dal 2011 raggiunti in questi giorni. Il 31% di quelli che hanno aderito alla ricerca indica infatti che, da qui a sei mesi, il differenziale tra il nostro Btp decennale e il corrispondente titolo tedesco rimarrà in area 150 punti base. Pochi (13%) azzardano un ritorno in area 170 punti base, mentre tra quelli che hanno risposto spiccano gli ottimisti: per l'8% lo spread scenderà a 140 punti base, per il 7% a 130 punti base e per il 3-4% in area 120-125 punti base. La Borsa è vista nell'arco dei prossimi sei mesi ‘in rialzo' da ben il 61% degli operatori che hanno partecipato al sondaggio, una quota che si confronta con il 51% registrato nel sondaggio di febbraio realizzato in occasione del Forex. Per il 25% Piazza Affari rimarrà invece ‘stabile', mentre il 10% la stima ‘in calo' e appena il 2% ‘in forte calo'. L'opzione ‘in forte rialzo' non è stata votata da nessuno dei soci. Queste valutazioni, secondo Attanà "possono essere interpretate come un segnale di fiducia nella potenziale ripresa economica del nostro Paese. E di norma – aggiunge - i mercati ‘anticipano' il ciclo e questo è sicuramente di buon auspicio". Lo scenario del mercato dei cambi, secondo gli addetti ai lavori, rimarrà ancora favorevole per l'economia, con un euro visto dagli esperti su livelli più concorrenziali. Queste previsioni secondo il presidente di Assiom Forex "probabilmente risentono dei commenti ormai ricorrenti formulati dalla Bce, che a differenza del passato, ha iniziato a porre una diversa e specifica attenzione sul cambio quale elemento in grado di condizionare le possibili nuove azioni di politica monetaria". Stando al quadro emerso dal sondaggio il 55% prevede un rapporto euro-dollaro ‘in calo' da qui a sei mesi, mentre il 30% lo vede ‘stabile' e solo il 9% ‘in rialzo'. Nella ricerca effettuata da Assiom Forex e ‘Il Sole 24 Ore Radiocor' in febbraio, la maggioranza (63%) riteneva che il 2014 sarebbe stato chiaramente l'anno del dollaro e solo il 17% scommetteva sull'euro. Il 76% dei 256 operatori che hanno partecipato all'indagine ha assegnato alle misure adottate finora dal Governo un voto compreso tra 6 e 9. La maggior parte (29%) si è concentrata sul 7, seguita dal 22% che ha riconosciuto il 6 e dal 18% che lo ha premiato con il 9. Nessuno di loro è arrivato a dare il voto massimo previsto dalla gamma (il 10) e va sottolineato che il 13% si è spinto fino al 5, mentre i meno generosi nei confronti del Governo arrivano complessivamente all'11% (2% voto 2, 5% voto 3 e 4% voto 4).

Il bonus da 80 euro del governo Renzi (25 aprile 2014).
Il bonus fiscale sarà di 640 euro, 80 al mese fino a dicembre, per i contribuenti con reddito lordo annuo fino a 24.000 euro. Esclusi gli incapienti (chi non paga Irpef perchè le detrazioni superano il dovuto). Da 24.000 a 26.000 euro il bonus decresce fino a zero. Un bonus, quello di 80 euro, che «avrà ripercussioni positive sul Pil in quanto le famiglie potranno spendere di più e le imprese saranno stimolate a investire e, di conseguenza, a creare maggiore lavoro», ha detto all'Ansa il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, non escludendo che si possa superare la previsione di +0,8% del Pil contenuta nel Def. Il calo dell'Irpef dovrà proseguire dal 2015. E non partirà da zero. Arriva infatti un fondo per rendere strutturale il taglio del cuneo per i lavoratori dipendenti. Prevede 2,7 miliardi per il 2015, 4,7 per il 2016, 4,1 per il 2017 e 2,0 a decorrere dal 2018: in totale 13,6 miliardi. Almeno 15 miliardi sono attesi nel 2015 dalla lotta all'evasione. È la previsione contenuta nel Dl Irpef: il Governo varerà un programma per conseguire nel 2015 un aumento «di almeno 2 miliardi di entrate dalla lotta all'evasione fiscale» rispetto al 2013, quando, ha spiegato recentemente l'Agenzia delle Entrate, gli incassi sono stati di 13 miliardi. Scatta dal primo luglio l'aumento dal 20% al 26% dell'aliquota sulle rendite finanziarie che interesserà anche i dividendi staccati successivamente, le plusvalenze di azioni e fondi, nonché interessi su conti correnti e depositi postali. L'aumento non tocca i titoli di Stato, come Bot e Btp. Giova sottolineare che oggi Fitch ha rivisto al rialzo l'outlook sul merito di credito dell'Italia da "negativo" a "stabile" confermando il rating a "BBB+". Secondo l'agenzia, con la recessione che si avvia a conclusione, le condizioni di finanziamento dell'Italia sono migliorate. Allo stesso tempo, prosegue Fitch, i rischi sui conti pubblici legati al settore finanziario sono diminuiti in considerazione del fatto che le grandi banche italiane hanno approfittato delle migliorate condizioni del mercato per rafforzare il proprio patrimonio. In sostanza, conclude l'agenzia, «la prospettiva stabile riflette l'opinione di Fitch che i rischi al rialzo e al ribasso sono allo stato attuale in equilibrio».

Multa record a Bank of America (22 agosto 2014).
Nel 2008 in America scoppiò la crisi dei mutui subprime, una particolare forma di prestito concessa a cittadini con elevato rischio di insolvenza. Da lì cominciò la crisi globale che investi l'Eurozona, tanto per richiamare un fatto storico responsabile della situazione odierna di difficoltà nelle quali si dibatte l'Italia. Ebbene, le banche misero in atto tutta una serie di comportamenti scorretti, come rilevato nel caso di Bank of America che mise in vendita titoli garantiti da mutui ipotecari con una scarsa solvibilità (mortage-backed-securities). Lo scoppio della bolla originata dalla crisi dei mutui subprime provocò fra gli altri il fallimento di un colosso bancario come Lehman Brothers e tutta una serie di conseguenze devastanti per la messa in circolazione di titoli denominati "tossici". Come si legge in una nota, la banca pagherà una multa da complessivi 16,65 miliardi di dollari: 9,65 miliardi in contante (5,02 miliardi per multe civili e 4,63 miliardi di versamenti compensatori) e circa 7 miliardi di rimborsi ai clienti. La sanzione inflitta all'istituto americano andrà ad impattare sugli utili ante-tasse del terzo trimestre per un totale esatto di 5,3 miliardi di dollari. Va anche detto per amor di precisione che molta della responsabilità di questa condotta fraudolenta va attribuita a Merrill Lynch e Countrywide che furono acquisite da Bofa, anche se di certo questo non costituisce un attenuante. Rimane aperta anche la possibilità di una azione penale come lasciato intendere dal dipartimento di Giustizia. Lo sguardo ora è rivolto ai mercati finanziari e a come reagiranno a questa notizia. Molti operatori ed esperti di mercato concordano nel dire che questa scalfirà appena la solidità della banca, o come afferma il suo Ad Brian Moynihan "l'ultimo ostacolo allo sviluppo di Bofa". Ma un calo degli indici di borsa, dopo i brillanti dati macro di ieri, non è da escludere. L'indice Pmi manifatturiero di agosto ha avuto un miglioramento di 58 punti, 2,2 in più dai precedenti 55,8 punti di luglio. Anche dal mercato immobiliare provengono segnali confortanti con un aumento di case vendute per 5,15 milioni di unità, in aumento dalle 5,04 precedenti.


LOGO .......... Gennaio - aprile 2014

Eugenio Caruso


www.impresaoggi.com