Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

L'estinzione dei dinosauri di stato. Politiche economiche tra il 1977 e il 1980.


Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde: «Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
Per l'articolo precedente clicca QUI.


LE POLITICHE ECONOMICHE TRA IL 1977 E IL 1980
Come già viso, il quadro economico del Paese è stato sconvolto dal periodo di crisi intercorso fra il 1973 e il 1976. La dipendenza della nostra economia dagli idrocarburi ha rivelato tutto il suo costo e la sua pericolosità. Si tenta una programmazione industriale, ma alle chiacchiere non seguono i fatti, se non nel salvataggio di industrie e banche in crisi. Nella politica di salvataggio viene coinvolta principalmente la chimica di base (Montedison, Sir e Liquichimica finiscono all’Eni per strade diverse), l’Efim persegue autonome politiche espansive creando gravi squilibri economici e finanziari, i fondi di dotazione raggiungono, nel 1978, quasi il 25% dei trasferimenti complessivi alle imprese. L’intervento di sostegno alle imprese si caratterizza, quindi, per una forte componente “assistenziale” a società non più remunerative, in settori obsoleti.
Le stime sui ritorni economici che sarebbero entrati nelle casse dello Stato dalla nazionalizzazione del settore elettrico si rivelano utopistiche, anzi, anche l’Enel entra in una crisi finanziaria tanto grave da imporre la costituzione di un fondo di dotazione anche per essa. Il settore, che in mano privata produceva “vergognosi” utili per gli azionisti, in mano pubblica produce “democratici” debiti a carico del Paese. A seguito della prima crisi petrolifera tutti i maggiori Paesi industrializzati avviano politiche di diversificazione delle fonti energetiche, per ridurre la dipendenza dall’estero. L’Italia – che è il Paese con la massima dipendenza tra tutti quelli industrializzati – vara, come già detto, una serie di ambiziosi piani energetici. Ma tutto resta sulla carta. Il solo centro di potere del Paese a spingere per un “ritorno al capitalismo puro” è Mediobanca, che tenta di rimettere in linea di navigazione «le due uniche corazzate di cui disponeva il nostro asfittico sistema imprenditoriale: Fiat e Montedison» (Galli, 1996). I primi risultati Cuccia li ottiene a Torino: prima, nel 1976, in collaborazione con la Deutsche Bank, porta agli Agnelli superindebitati 415 milioni di dollari da investitori libici; poi suggerisce di affidare i pieni poteri della Fiat a Cesare Romiti, cui viene assegnato il compito di riportare ordine e produttività nelle fabbriche gestite tra lo strapotere del sindacato e l’inefficienza del management. Nel 1981, Mediobanca conduce in porto l’operazione “privatizzazione della Montedison”, contando sull’appoggio di Mario Schimberni, al quale, dopo il fallimento di Cefis, è stato affidato nella Montedison lo stesso incarico di Romiti alla Fiat. L’operazione ha l’appoggio del ministro delle Partecipazioni statali Gianni De Michelis, amico di Schimberni. Un gruppo di privati (Gianni Agnelli, Carlo Bonomi, Pietro Marzotto, Luigi Orlando, Leopoldo Pirelli) acquista da Montedison Gemina (una scatola vuota riempita delle quote di Iri ed Eni della Montedison) e, con meno del 20% del capitale, diventa il socio di riferimento. Solo nel 1984 sarà annunciato il “sostanziale pareggio di bilancio” della Montedison; anche questa volta, però, l’azienda non sarà sottoposta a un serio processo di risanamento, ma solo a un “imbellettamento” dovuto sia a un’economia drogata dall’inflazione, sia a una capitalizzazione della Borsa trainata dal boom thatcher-reaganiano. Il trucco non viene scoperto subito ma, alle prime difficoltà, risulterà una situazione industriale molto pesante.
Nel decennio degli anni Settanta nei Paesi più industrializzati i modelli keynesiani dell’economia entrano in crisi e si affermano le teorie liberiste dei Chicago Boys che ispireranno le politiche di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Nel 1974 il Premio Nobel per l’Economia va a Friedrich Hayek, il profeta del liberismo, che afferma: «Seguendo le tradizioni morali sorte spontaneamente e sottostanti all’ordine concorrenziale del mercato […] noi possiamo generare e raccogliere una quantità di conoscenza e di ricchezza più grande di quella che potrebbe essere ottenuta e utilizzata in un’economia diretta centralisticamente […]». Il centralismo economico e i “dinosauri” di Stato hanno invece grandi estimatori in Italia, dove – nell’indifferenza di un’opinione pubblica rassegnata e drogata da media correi – si realizza un colossale spreco di risorse umane e materiali che non ha uguali nel mondo.
I dati macroeconomici
La principale caratteristica macroeconomica degli anni Settanta riguarda il processo inflazionistico. L’inflazione, tra gli anni Quaranta e Sessanta, era considerata un fenomeno episodico. Che fosse di ampie dimensioni, come nel biennio 1946-1947, oppure di dimensioni limitate, come nel 1951 o nel 1962-1963, le veniva attribuita la funzione di ridistribuire il reddito tra imprese e famiglie. Nel corso degli anni Settanta, però, diventa un fenomeno con caratteristiche permanenti e strutturali, tanto che la formulazione di corrette aspettative di inflazione diventa lo strumento principale per un qualsiasi contratto. I comportamenti che differenziano l’economia italiana degli anni Settanta dalle altre economie europee hanno le proprie radici nelle decisioni di politica economica e sociale prese a metà del decennio precedente, con la riforma del sistema pensionistico e con il sostegno diffuso a imprese e lavoratori in difficoltà. È una filosofia di Governo imperniata sull’obiettivo di stabilizzare, in modo dirigistico, il livello dell’attività economica, sull’irrilevanza dell’equilibrio del bilancio dello Stato, sulla subordinazione di tale bilancio a qualunque domanda di protezione proveniente dal sistema sociale o da quello economico, sulla politica di incentivazione dei consumi.
Nel marzo 1979, con l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo (Sme), viene posto il primo elemento embrionale per una nuova filosofia di governo dell’economia (Onofri, 2001). Il riassorbimento degli effetti del primo shock petrolifero aveva richiesto circa cinque anni e si era concluso nel 1978 con un tasso di inflazione del 12%, molto più elevato di quello degli altri Paesi europei. L’adesione allo Sme rappresenta, anche, l’ammissione politica che la salvezza per la nostra economia non può che venire dalle condizioni e dai vincoli stringenti imposti da tale adesione. Il lungo periodo, dal 1978 al 1992, che sarà necessario per debellare l’inflazione nel nostro Paese, mostra la viscosità del sistema politico al cambiamento. Quando gli attori politici si rendono conto che il sistema degli incentivi è un ottimo strumento per risolvere qualsiasi tipo di difficoltà, essi incorporano nel proprio Dna la predisposizione alla soluzione dei problemi prevalentemente attraverso strumenti inflazionistici.
L’ascesa di Carlo De Benedetti
Nel 1976, grazie all’appoggio di Gianni Agnelli, suo vecchio compagno di scuola, Carlo De Benedetti è nominato amministratore delegato della Fiat. Come “dote” porta con sé il 60% del capitale della Gilardini, holding nel settore metalmeccanico, che cede alla Fiat in cambio di una quota azionaria della Fiat stessa (il 5%). De Benedetti cerca di svecchiare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli (a cominciare dal fratello Franco).
Ma dopo soli quattro mesi abbandona la carica a causa – si disse – di divergenze strategiche. Per alcuni opinionisti i due fratelli avrebbero trovato un ostacolo in quella dirigenza legata alla famiglia Agnelli, che avrebbe scoperto un loro tentativo di scalata della società. De Benedetti stesso però, in occasione della conferenza stampa tenutasi il 26 gennaio 2009 a Palazzo Mezzanotte, con la quale annuncerà le sue dimissioni dalla presidenza di tutte le società che aveva fondato, ci terrà a sottolineare che tali divergenze consistevano nella forte esitazione da parte della famiglia Agnelli nel ridurre in modo drastico il numero degli addetti alla manodopera. L’Ingegnere, proseguendo il discorso, ribadirà che quelle difficili scelte furono comunque prese dal Lingotto quattro anni più tardi, ma «dopo aver perduto una barcata di soldi».
Uscito dalla Fiat De Benedetti rileva le Concerie Industriali Riunite. L’Ingegnere cambia la denominazione della società in Compagnie Industriali Riunite (Cir), vende l’originaria attività delle concerie e trasforma la Cir in una holding industriale. La prima acquisizione è quella della Sasib di Bologna e, nel 1978, prende il controllo dell’Olivetti, società sull’orlo della rovina, che della brillante gestione del fondatore, Adriano Olivetti, conserva ben poco. L’operazione ha la benedizione di Enrico Cuccia, che probabilmente spera anche in un’iniezione di capitali da parte di De Benedetti, ma al quale affianca come presidente il fidatissimo Bruno Visentini. De Benedetti dimostra la propria abilità coinvolgendo nel capitale della società l’americana AT&T, numero uno nel campo delle telecomunicazioni, e pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, fondato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento della produzione di stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa.
Nel 1981 la Cir dà vita a Sogefi, società globale di componentistica auto, di cui Carlo De Benedetti è stato presidente per venticinque anni. Sempre nel 1981 l’imprenditore entra nell’azionariato del Banco Ambrosiano, guidato allora da Roberto Calvi. Con l’acquisto del 2% del capitale, De Benedetti riceve la carica di vicepresidente del Banco. Dopo appena due mesi, l’Ingegnere lascia l’istituto, già alle soglie del fallimento, motivandone le ragioni sia alla Banca d’Italia sia al ministero del Tesoro e cedendo la propria quota azionaria. De Benedetti fu accusato di aver fatto una plusvalenza di 40 miliardi di lire e per questo processato per concorso in bancarotta fraudolenta; fu assolto in Cassazione poiché non esistevano i presupposti per i quali era stato processato. Nel 1985 acquista il gruppo Buitoni-Perugina, venduto circa tre anni dopo alla Nestlé, e nel 1988 tenta la scalata alla Société Générale de Belgique, importante conglomerato industriale belga, ma è contrastato con successo dall’opposizione dell’establishment locale e del gruppo francese Suez.
A causa di una grave crisi dell’Olivetti, nel 1996 De Benedetti decide di lasciare l’azienda, (di cui rimane presidente onorario fino al 1999) dopo aver però fondato la Omnitel. Nel 1988, infatti, Elserino Piol, responsabile per le strategie e lo sviluppo della Olivetti, comincia a guardare con curiosità al settore della telefonia mobile. Ben presto i progressi europei verso la liberalizzazione delle telecomunicazioni e la definizione di un protocollo comune per la telefonia mobile digitale (il Gsm) convincono Piol e De Benedetti a superare le iniziali perplessità e a lanciarsi nel nuovo business. L’incarico operativo per la realizzazione dell’iniziativa è affidato a Piol, che cerca e ottiene l’adesione di importanti partner internazionali. Il 19 giugno 1990 viene formalmente costituita Omnitel Sistemi Radiocellulari Italiani (Osri), con l’obiettivo di entrare nel mercato europeo della telefonia mobile. Accanto a Olivetti, azionista di maggioranza, partecipano alla nuova società la banca d’affari Lehman Brothers, le società americane di telecomunicazioni Cellular Communications International Inc. e Bell Atlantic International e la svedese Telia International.
Per seguire le orme degli Agnelli, De Benedetti pensa inoltre che sia giunto il momento di avere un ruolo nella stampa. Dopo un primo tentativo fallito con il Corriere della Sera, riesce a impossessarsi del gruppo L’Espresso. Occorre però fare qualche passo indietro. Nel 1974 Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo avevano rivitalizzato il settimanale L’Espresso, avvicinando le 350mila copie di diffusione di Panorama. Nel 1984 il gruppo L’Espresso entra in Borsa, forte di un periodico all’apice della sua fortuna e di un quotidiano, la Repubblica, che sta diventando il secondo in Italia. In occasione di un cospicuo aumento di capitale Scalfari non rinuncia al diritto di opzione, sottoscrive l’aumento di capitale e successivamente passa la propria quota a Carlo De Benedetti. L’accordo tra Scalfari e Caracciolo prevedeva, invece, la rinuncia al diritto di opzione da parte dei due soci in favore del mercato. Dopo poco anche Caracciolo è costretto a cedere la propria quota alla forza finanziaria di De Benedetti (Panerai 2010).

LOGO

10 marzo 2014

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.


Tratto da L'estinzione dei dinosauri di stato.

1

www.impresaoggi.com