Rapporti ISTAT 2013 e 2014.


Se otterrò qualcosa di positivo non so dire, preferisco comunque, che mi manchi il successo e mai la fiducia.
Seneca Lettere morali a Lucilio


Rapporto ISTAT sul 2012.
Signora Vice Presidente della Camera dei Deputati, Rappresentanti del Governo, Autorità, Signore e Signori, oggi l’Istat presenta il Rapporto annuale sulla situazione del Paese. Il periodo di riferimento delle analisi presentate nel volume è il 2012: un anno di grande impegno per la statistica ufficiale.
I mutamenti strutturali indotti dalla crisi, i profondi cambiamenti del tessuto sociale, la crescita di nuove forme di comunicazione delle reti sociali hanno, infatti, imposto una capacità più puntuale di conoscere e leggere il presente. Come pure hanno reso necessario impegnarsi nella previsione delle evoluzioni in atto e nella valutazione ex ante ed ex post delle scelte di policy. In un periodo in cui l’incertezza condiziona le scelte e le vite delle famiglie, delle imprese e degli altri soggetti che operano in campo economico e sociale, anche il bisogno di un’informazione statistica di qualità, pertinente e aggiornata si fa più pressante insieme alla maggiore richiesta di statistiche comparabili a livello internazionale, utili alla governance nazionale ed europea. Nel 2012 si è svolto il Censimento dell’industria e dei servizi, delle organizzazioni non profit e delle istituzioni pubbliche. Esso si è fondato su nuovi metodi d’integrazione tra dati amministrativi e rilevazioni dirette, che hanno permesso di aumentare la qualità e la quantità dell’informazione statistica prodotta, contenendo al tempo stesso gli oneri per i rispondenti. Il Censimento, come di consueto, ha consentito di aggiornare il quadro strutturale del sistema produttivo ma anche, per la prima volta, di approfondire le modalità decisionali, le reti relazionali e i comportamenti strategici delle imprese, per poterne valutare adeguatamente il grado di modernizzazione, il potenziale competitivo e di crescita, così come i fattori critici che ne ostacolano lo sviluppo.
Analizzare le fragilità e le potenzialità del sistema economico è importante, ma altrettanto essenziale è stato sviluppare la conoscenza della situazione sociale del Paese, della qualità della vita dei suoi cittadini, delle loro vulnerabilità. Rendere visibili gli invisibili è risultato, in ambito sociale, l’impegno più rilevante insieme allo sviluppo delle statistiche sugli homeless, sulle discriminazioni per orientamento sessuale, sui detenuti e sulle condizioni di vita degli immigrati. Inoltre, sono stati prodotti i nuovi indicatori del benessere equo e sostenibile. Ciò è avvenuto nell’ambito di un progetto, sviluppato con il Cnel, di grande valore metodologico e di condivisione con la società civile, che ha posto l’Italia all’avanguardia nel panorama internazionale nel campo delle misure e degli indicatori da affiancare al Pil.
Sempre nel 2012, l’Istat ha introdotto numerose innovazioni metodologiche, talvolta radicali, e ampliato l’offerta di indicatori economici e sociali, di carattere sia strutturale sia congiunturale. Ha poi ulteriormente intensificato gli sforzi per diffondere le statistiche in modo più comprensibile e accessibile anche ai non esperti, fornendo nuovi servizi di visualizzazione grafica e referenziazione geografica dei dati e nuovi prodotti, che sono stati considerati buone pratiche a livello internazionale. Ricordiamo soltanto, fra gli altri, il portale statistico sulla coesione sociale, con dati aggiornati sul lavoro e sull’integrazione sociale, e quello sulla PA, che riunisce e integra l’informazione disponibile sulle singole amministrazioni. Per dare maggior valore ai tanti dati diffusi e per metterli sempre meglio a disposizione della comunità scientifica e delle istituzioni, sono stati resi accessibili on line i file di microdati a uso pubblico che sono liberamente scaricabili dal nostro sito web.
La recente Conferenza nazionale di statistica ha posto all’attenzione del Paese il tema di una statistica che prenda in carico l’esigenza di produrre scenari per guardare al futuro e valutarne i rischi. Come è stato detto nella relazione inaugurale: “serve una statistica che allunghi il suo cono di luce anche al futuro, conservando la sua scientificità e la sua indipendenza”.
L’Istat si sta impegnando, in modo scientificamente rigoroso, nella costruzione di modelli di simulazione e di previsione e nella realizzazione di strumenti per valutare gli effetti delle politiche pubbliche che possono essere un riferimento per chi deve decidere investimenti, predisporre risorse e fare scelte che hanno implicazioni per gli anni a venire.
Il quadro economico e sociale dell’anno
Il 2012 è stato un anno di particolari difficoltà per il Paese, che perdurano anche nei primi mesi del 2013, come confermato dalla variazione congiunturale negativa del Pil, stimata allo 0,5 per cento nel primo trimestre. La crisi che ha investito la nostra economia è giunta dopo un decennio di crescita economica non soltanto modesta, ma anche nettamente inferiore a quelle degli altri grandi paesi europei. Un decennio che è stato caratterizzato anche da un andamento stagnante della produttività del lavoro, aumentata solo dell’1,2 per cento, contro il 9,5 dell’Eurozona. Per tali ragioni, la crisi globale iniziata nel 2007-2008, ha colpito l’economia italiana più severamente di molti altri paesi avanzati. Fra il 2008 e il 2012, in Italia il Pil è diminuito del 5,8 per cento, mentre in Francia è rimasto quasi stazionario e in Germania è aumentato del 2,5 per cento.
La diminuzione del Pil e i riflessi negativi sull’occupazione hanno determinato, congiuntamente alle turbolenze finanziarie e alle politiche fiscali restrittive, una severa caduta della domanda interna: quella per consumi ha risentito della flessione del reddito disponibile delle famiglie, che è stato anche penalizzato da un’inflazione rimasta relativamente sostenuta nonostante il quadro recessivo. La domanda di investimenti è stata fortemente condizionata dal calo della capacità utilizzata, dalle incerte prospettive dell’economia, dai problemi di finanziamento alle imprese.
Questo aspetto della crisi emerge chiaramente anche dalle valutazioni delle imprese che segnalano, a partire dalla fine del 2011, un generale inasprimento delle condizioni di accesso al credito, con un ritorno ai livelli dell’inizio della crisi economica globale. Durante il 2012 i casi di razionamento del credito hanno creato maggiori difficoltà per le piccole imprese e tale divario non ha accennato a ridursi anche nei primi mesi del 2013: a marzo, per le piccole aziende la probabilità di non ottenere il finanziamento richiesto è stata in media pari a quasi il doppio di quella delle medie e grandi imprese. Va segnalato che questa penalizzazione dovuta alla dimensione si riduce significativamente, ma non si annulla, per quelle che risultano solide.
Esistono, inoltre, importanti differenze territoriali nell’accesso al credito. In generale, sia nella manifattura che nei servizi continuano ad avere una maggiore probabilità di essere razionate le imprese delle regioni meridionali e insulari. La presenza di tensioni creditizie assume un particolare rilievo in ragione del fatto che per le aziende italiane vi è, storicamente, uno sbilanciamento nelle forme di finanziamento a favore del credito bancario, non solo in termini quantitativi, ma anche di vantaggio fiscale. Sono, tuttavia, da segnalare possibili futuri effetti positivi conseguenti all’introduzione, nel 2011, dell’Ace – Aiuto alla crescita economica – l’incentivo al rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese che opera mediante l’esclusione dal calcolo della base imponibile dell’Ires (o dell’Irpef) del rendimento figurativo degli apporti di nuovo capitale proprio e degli utili reinvestiti. I risultati delle elaborazioni, svolte con il nuovo modello dell’Istat di microsimulazione sulle imprese, mostrano che, a regime, gli sgravi indotti da questo strumento possono avvantaggiare le piccole e medie imprese e quelle che operano nelle regioni meridionali: i segmenti attualmente più penalizzati dal razionamento del credito.
In un contesto di flessione del Pil del 2,4 per cento e di contributo negativo della domanda interna di 5,4 punti percentuali, nello scorso anno la domanda estera netta ha ripreso, dopo molti anni, il ruolo di principale motore della crescita, attenuando in misura rilevante la profondità della recessione con un contributo positivo alla variazione del Pil di ben 3 punti percentuali. Sebbene la domanda estera netta abbia fornito un impulso positivo all’espansione del Pil durante tutti i trimestri dell’anno, il suo contributo alla crescita si è progressivamente ridimensionato. In un contesto di generale rallentamento della domanda mondiale, l’export è cresciuto significativamente: la performance delle vendite all’estero di merci dell’Italia (+3,7 per cento) è risultata, insieme alla Spagna, la più favorevole tra le principali economie dell’Unione europea. Tuttavia, una parte rilevante dell’ampliamento dell’attivo commerciale è imputabile alla forte contrazione delle importazioni, condizionate dalla debolezza della domanda interna.
La domanda proveniente dagli altri paesi sostiene anche il settore turistico dove, in conseguenza della generale riorganizzazione dei comportamenti di spesa delle famiglie italiane, si è verificata una consistente flessione della domanda per ragioni di svago dei residenti, controbilanciata dalle presenze dei turisti stranieri, che sono invece aumentate nell’ultimo anno.
I saldi di finanza pubblica indicano che, nonostante le condizioni negative del ciclo, l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil è sceso al 3 per cento, valore obiettivo per ambire al rientro dalla procedura di disavanzo eccessivo, aperta nei confronti dell’Italia dalle istituzioni europee nel 2009. Al netto della spesa per interessi, si è registrato un consistente avanzo primario, pari al 2,5 per cento del Pil e superiore di 1,3 punti rispetto a quello del 2011. La riduzione dell’indebitamento netto è dovuta in larga misura all’aumento della pressione fiscale che ha raggiunto il 44 per cento. La dinamica della spesa pubblica è stata più contenuta: le uscite correnti al netto degli interessi si sono ridotte dello 0,5 per cento, quelle totali sono cresciute dello 0,6 per cento. Al contempo, stante la debolezza dell’economia, l’incidenza del debito sul Pil è comunque aumentata, arrivando al 127 per cento.
La situazione del sistema produttivo
La recessione dell’ultimo anno e mezzo ha coinvolto tutti i principali settori, provocando una profonda e generalizzata caduta del valore aggiunto e accentuando le difficoltà strutturali del sistema produttivo. Sono state colpite in modo particolare le costruzioni, che hanno subìto per il quinto anno consecutivo una contrazione dell’attività, seguite dall’agricoltura e dall’industria; anche sul settore terziario ha pesato l’intonazione negativa della domanda, seppure con un impatto inferiore a quello osservato per il settore manifatturiero. Le uniche eccezioni significative sono costituite dal settore delle attività artistiche e di intrattenimento, delle riparazioni di beni per la casa, entrambi in crescita nel 2012, e da quello delle attività finanziarie e assicurative, rimasto stazionario. In particolare, il comparto manifatturiero ha risentito in maniera assai pesante delle conseguenze dell’ultima recessione, iniziata a maggio 2011; complessivamente, a febbraio di quest’anno la produzione industriale è risultata inferiore di quasi l’11 per cento, rispetto al picco registrato ad aprile 2011 e del 24 per cento, rispetto al massimo storico dell’aprile 2008.
La crisi è intervenuta su un sistema delle imprese caratterizzato da notevoli eterogeneità nella struttura e nei livelli di competitività e potenziale di crescita; un sistema già colpito duramente dalla prima fase recessiva avvenuta tra il 2008 e il 2009.
Le analisi dei dati preliminari del Censimento dell’industria e dei servizi mostrano una realtà al cui centro ci sono 1,7 milioni di unità produttive dotate di un livello minimo di complessità organizzativa, con circa 14 milioni di occupati. Esse presentano ampi segmenti poco coinvolti in processi di espansione dimensionale e produttiva, ai quali si affiancano aree a forte potenziale dinamico. Quest’ultime si mostrano aperte all’innovazione e consapevoli dell’importanza dei fattori manageriali e organizzativi per la competitività dell’impresa.
Nel sistema produttivo italiano, si conferma la prevalenza di modelli di governance relativamente semplificata, caratterizzati da un’elevata concentrazione delle quote di proprietà, un controllo a decisa connotazione familiare e una gestione aziendale accentrata. In particolare, la struttura di tipo familiare (cioè quella in cui il controllo è direttamente o indirettamente esercitato da una persona fisica o da una famiglia) è riscontrata in oltre il 70 per cento delle imprese industriali e dei servizi. In quasi il 90 per cento, il primo socio è una persona fisica, o una famiglia. L’analisi ha consentito di individuare differenti tipologie, identificate in base alla combinazione di tre principali profili strategici (dinamismo aziendale, complessità organizzativa, proiezione estera), che evidenziano potenziali di crescita diversi. Da un lato, circa tre quarti delle imprese italiane, rappresentative di quasi la metà dell’occupazione, sono caratterizzati da profili e strategie orientate prevalentemente a un mercato locale (comunale o regionale), da un’organizzazione aziendale molto semplificata e una scarsa integrazione nelle catene del valore, soprattutto internazionali.
Dall’altro emergono segmenti di imprese con significative innovazioni di prodotto, di processo, organizzative o di marketing, anche in contesti proprietari e organizzativi di carattere familiare e non manageriali. Si tratta di oltre 200 mila imprese italiane pari al 12 per cento circa del totale, con un’occupazione di quasi tre milioni di addetti; esse esprimono un forte dinamismo, associato in molti casi a notevoli spinte alla crescita occupazionale ed economica. In questa tipologia di impresa si riconosce il 10 per cento delle microimprese, il 25 per cento di quelle piccole e il 33 per cento delle medie e oltre un quarto delle unità di maggiori dimensioni. Tra le imprese dinamiche, circa 70 mila unità hanno mostrato forti tendenze all’espansione dimensionale, con un incremento degli addetti di oltre l’8 per cento tra il 2007 e il 2010, nonostante la profondità della crisi economica.
Di rilievo appaiono alcuni aspetti del funzionamento delle microimprese che assorbono poco meno della metà dell’occupazione. A fianco di un’ ampia presenza di imprese “stagnanti” sono presenti rilevanti segmenti innovativi ad alta performance. Si tratta di unità condotte da imprenditori con un livello di istruzione mediamente più elevato (il doppio dei laureati) e una maggiore esperienza di lavoro. È di un certo rilievo il fatto che queste imprese hanno sperimentato più frequentemente, rispetto alle altre, un recente passaggio generazionale. Le valutazioni delle imprese sui fattori di impedimento alla competitività segnalano criticità soprattutto riguardo la carenza di risorse finanziarie e l’eccesso di oneri amministrativi e burocratici per le piccole imprese; problemi di domanda e sfavorevoli situazioni di contesto sono sottolineati invece dalle grandi imprese. Le limitazioni dovute alla carenza di infrastrutture, alla mancanza di risorse qualificate e alle difficoltà nel reperire personale o fornitori, sono percepite come meno gravi.
Nello scenario dei prossimi anni, caratterizzato dalla persistenza di un gap di crescita significativo tra domanda mondiale e domanda interna dell’Italia, uno dei principali fattori di crescita sarà rappresentato dalla capacità delle imprese di intercettare l’espansione della domanda di importazioni proveniente dagli altri paesi e, più in generale, le opportunità offerte dai processi di internazionalizzazione.
Il tema dell’internazionalizzazione è affrontato lungo due direttrici di analisi: la prima, a carattere microeconomico e retrospettivo, riguarda la valutazione dell’impatto del riposizionamento internazionale delle imprese italiane sulla performance economica e occupazionale delle singole unità produttive; la seconda, macro-settoriale e previsiva, valuta in quale misura l’evoluzione del ciclo internazionale potrà fornire sostegno alla ripresa economica del nostro Paese, alla luce delle caratteristiche del sistema esportatore italiano, composto da circa 190 mila imprese.
Riguardo al primo livello di analisi, focalizzando l’attenzione sulle forme di internazionalizzazione in grado di stimolare più direttamente la crescita, emergono, da un lato notevoli potenzialità del nostro apparato produttivo, dall’altro criticità e ostacoli legati sia a fattori di contesto sia alle specifiche caratteristiche delle unità produttive.
Tra il 2007 e il 2010 circa il 18 per cento delle imprese con relazioni commerciali o produttive con l’estero ha mostrato un upgrading nella scala dell’internazionalizzazione, il 12 per cento di esse ha evidenziato una regressione e il restante 70 per cento ha mostrato una permanenza nella stessa modalità di presenza sui mercati esteri.
Le transizioni delle imprese verso tipologie più evolute di internazionalizzazione hanno un effetto positivo e significativo sulla loro performance in termini di valore aggiunto e occupazione. Per le imprese esportatrici un aumento del numero di aree di sbocco sui mercati extraeuropei determina un impatto specifico positivo sulla dimensione economica dell’impresa, pari all’8 per cento in termini di valore aggiunto e al 7 per cento in termini di occupazione. Si tratta di un’evoluzione che non richiede cambiamenti radicali, potenzialmente incentivabile con interventi di policy e coerente con le caratteristiche strutturali del nostro sistema delle imprese (bassa dimensione media, elevata polverizzazione, forte specializzazione), la quale potrebbe quindi garantire in tempi rapidi uno stimolo rilevante alla crescita. Tuttavia, visti gli ampi effetti negativi associati a un downgrading dell’impresa nella scala dell’internazionalizzazione, sembra necessario anche monitorare e sostenere la presenza all’estero di quelle imprese che hanno già intrapreso un percorso di internazionalizzazione avanzato, soprattutto se di piccole dimensioni, fortemente esposte sui mercati.
La seconda direttrice di analisi, di carattere previsivo, consente di delineare, per il biennio 2013-2014, una crescita attesa cumulata del valore delle esportazioni pari a poco meno del 10 per cento, con la manifattura che mostrerebbe nel periodo una dinamica più vivace rispetto ai servizi (+10 contro +7,5 per cento). L’accelerazione del comparto industriale interesserebbe tutti i settori, con tassi di incremento dell’export nel biennio compresi fra l’8,3 per cento dei beni intermedi e l’11,6 per cento dell’agroalimentare.
L’analisi d’impatto ha evidenziato come, a seguito dell’aumento di domanda estera previsto per il biennio 2013-2014, l’effetto complessivo sul valore aggiunto sarebbe pari all’1 per cento. Il comparto produttore di beni intermedi, a fronte di un contributo poco rilevante alla crescita del valore aggiunto, mostrerebbe un aumento più sostenuto delle unità di lavoro.
Nel settore manifatturiero va quindi profilandosi uno scenario di crescita indotta dall’export in cui alcuni dei principali settori dei beni di consumo (tessile, abbigliamento e legno) e i comparti tradizionali (gomma e plastica, mezzi di trasporto) mostrerebbero dinamiche più deboli rispetto ai settori a più alto contenuto tecnologico (meccanica, elettronica). La crescita della domanda estera tenderebbe a modificare la struttura delle esportazioni a vantaggio dei settori che garantiscono effetti più rilevanti sul sistema economico; tale processo risulterebbe però poco visibile nell’arco di un solo biennio. Da un lato, infatti, il mutamento della composizione settoriale delle esportazioni italiane è un fenomeno che richiede un lasso temporale ben più ampio; dall’altro, in un contesto caratterizzato da dinamiche di domanda estera più contenute rispetto agli anni precedenti, non appare plausibile prevedere una brusca accelerazione di tale processo.
La situazione delle famiglie
Una delle principali determinanti dell’attuale recessione, iniziata nella seconda metà del 2011, è la caduta del reddito disponibile, che ha determinato una profonda contrazione dei consumi delle famiglie. Nel 2012, infatti, in presenza di una flessione del prodotto interno lordo reale del 2,4 per cento, il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito del 4,8 per cento. Si tratta di una caduta di intensità eccezionale e che giunge dopo un quadriennio, caratterizzato da una continua flessione. Durante questo periodo il reddito disponibile delle famiglie, al netto dell’inflazione, è diminuito di quasi il 10 per cento, ritornando a un livello pari a quello di venti anni fa.
Nell’ultimo anno, hanno contribuito alla riduzione soprattutto la caduta del reddito da attività imprenditoriale e l’inasprimento del prelievo fiscale. I redditi da lavoro sono rimasti stabili in termini nominali, subendo comunque la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione.
L’incidenza delle imposte correnti sul reddito disponibile delle famiglie è salita al 16,1 per cento, un punto percentuale in più rispetto all’anno precedente: si tratta del livello più alto dal 1990. Se al prelievo fiscale corrente si aggiungono le altre imposte, rappresentate essenzialmente dall’Imu, l’incidenza del prelievo sul reddito disponibile sale al 16,5 per cento, con un incremento di 1,3 punti percentuali rispetto al 2011. Considerando i contributi sociali effettivi e figurativi, l’incidenza del carico fiscale e contributivo corrente sul reddito disponibile tocca il 30,3 per cento, a fronte del 29,4 per cento del 2011. Le elaborazioni realizzate con un nuovo modello dell’Istat di microsimulazione sulle famiglie mostrano che l’aumento dell’aliquota Iva dal 20 al 21 per cento applicato da settembre 2011 e le variazioni delle accise sui carburanti intervenute a partire dal 2011 hanno prodotto un costo maggiore per le famiglie con livelli di spesa medi (circa lo 0,9 per cento), rispetto a quelle con livelli di spesa più elevati. Per le famiglie più disagiate, data la minore incidenza sulla spesa totale delle voci di consumo interessate dagli aumenti del prelievo Iva, l’aumento percentuale di spesa complessivo è stimato essere lievemente più basso. Tuttavia, su queste famiglie ha pesato in modo particolare la variazione delle accise, che ha prodotto un onere maggiore rispetto a quello subito dal quinto delle famiglie con livelli di spesa più elevati. In prospettiva, l’impatto delle modifiche alle aliquote Iva sui livelli di spesa delle famiglie dovrà tenere conto dell’evoluzione nel tempo dei profili di consumo. Infatti, le famiglie con livelli di spesa inferiore hanno progressivamente modificato la composizione del loro paniere di consumi, aumentando via via il peso dei beni ad aliquota ordinaria rispetto a quelli ad aliquota agevolata o esenti.
La dinamica delle prestazioni sociali, pur risultando la più contenuta dal 2000, ha visto aumentare del 2 per cento le risorse ricevute dalle famiglie per pensioni e altre indennità previdenziali e assistenziali, a fronte di una crescita media del 3,2 per cento nei precedenti tre anni. Le indennità di disoccupazione e gli assegni di integrazione salariale, stabili nel 2011, hanno ripreso a crescere velocemente (13,7 per cento) lo scorso anno.
La significativa diminuzione del reddito disponibile delle famiglie si è riflessa in un forte calo (-1,9) della spesa per consumi – molto superiore a quella della crisi del 2008-2009 – e, in un’ulteriore diminuzione della propensione al risparmio, che si è ridotta fino a toccare il minimo storico dell’8,2 per cento. La propensione a risparmiare, un tempo punto di forza del sistema italiano, pur risultando ancora superiore a quella misurata in Spagna, si è attestata su livelli sensibilmente inferiori rispetto a Germania e Francia, avvicinandosi al Regno Unito, il paese tradizionalmente con i livelli più bassi in Europa. In questo contesto, i nuovi crediti al consumo e i nuovi mutui concessi dalle banche alle famiglie si sono ridotti nel 2012, rispettivamente, del 20 per cento e del 35 per cento, contro una media di riduzione del 3 per cento e del 7,8 per cento nel periodo 2009-2011. A ciò ha contribuito una maggiore selettività degli operatori finanziari, dovuta all’aumento delle sofferenze bancarie imputabili al settore delle famiglie, che dal 2009 sono cresciute del 27 per cento annuo.
Alle sopravvenute difficoltà economiche, le famiglie hanno risposto in modo diffuso riducendo la quantità o qualità dei prodotti acquistati nel settore alimentare e per l’abbigliamento e preferendo centri di distribuzione a più basso costo rispetto ai tradizionali canali di acquisto. L’incremento di incidenza di questi comportamenti di consumo è stato sensibile, soprattutto nelle regioni del Nord, anche se il Mezzogiorno rimane in termini assoluti l’area più interessata dal fenomeno.
Sulla caduta della spesa per consumi ha pesato anche un’inflazione che ha colpito in misura notevolmente superiore le famiglie con bassi livelli di spesa: nel 2012, rispetto a un tasso d’inflazione (misurato dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato europeo) pari al 3,3 per cento, l’inflazione subita dalle famiglie che si posizionano nel quinto più basso della spesa per consumi è stata del 4,2 per cento; quella relativa al quinto più alto è stata del 2,9 per cento. Anche nel 2011, seppure in misura meno intensa, l’inflazione aveva colpito relativamente di più le famiglie con minore capacità di spesa.
Gli indicatori di disagio economico delle famiglie, soprattutto quelli che rilevano una grave deprivazione, hanno segnato un ulteriore peggioramento raggiungendo il 14,5 per cento della popolazione. Negli ultimi due anni l’indicatore di grave deprivazione è raddoppiato, in decisa discontinuità rispetto al periodo precedente.
Il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese continua ad aumentare anche nel 2012, con le famiglie residenti nelle regioni del Sud e nelle Isole che presentano un peggioramento più marcato delle loro condizioni rispetto a quelle del Nord e del Centro. Nel Meridione la deprivazione materiale, aumentata di oltre tre punti percentuali, colpisce il 40 per cento della popolazione mentre la grave deprivazione, con un aumento di oltre cinque punti, riguarda ormai una persona su quattro. Si conferma, inoltre, nel 2012 una tendenza già evidenziata nel 2011: l’incidenza delle condizioni di grave deprivazione materiale si estende dagli individui con i redditi familiari più bassi a quelli con redditi mediamente più elevati, che a causa di eventi negativi e imprevisti sono esposti a rischi di disagio. Nel 2012, circa il 48 per cento degli individui passati a una condizione di severa deprivazione materiale proviene dal quinto più basso di reddito equivalente, ma più di un quarto del totale si collocava, nell’anno precedente, nei quinti di reddito più elevati (dal terzo in poi). La profondità e la straordinaria durata della crisi economica sta producendo effetti significativi anche sulla dimensione psicologica della popolazione. Tale dimensione, oltre a essere elemento essenziale per la tenuta della coesione sociale, condiziona la capacità di reazione del sistema economico e l’efficacia e credibilità delle azioni di politica economica.
Per la prima volta, il Rapporto dedica un ampio spazio all’analisi della percezione e delle opinioni dei cittadini sulla situazione economica, sulla qualità dei diversi ambiti della propria vita, sulla fiducia nelle istituzioni, sugli effetti della globalizzazione, ed esamina come queste opinioni si traducono in comportamenti rilevanti per il funzionamento dell’economia e della società.
I risultati delle indagini sulle famiglie indicano livelli bassi di fiducia dei cittadini nei confronti delle principali istituzioni pubbliche e specialmente dei partiti politici. Le analisi sviluppate mostrano che esiste un legame tra il grado di fiducia nelle istituzioni locali, in particolare comunali, la qualità dei servizi offerti e le condizioni del territorio e dell’ambiente in cui si vive. A contare è anche la regione di residenza – che riflette le differenze legate alla situazione sociale, al grado di coesione e alle condizioni generali di vita a livello locale – unita alla sfiducia nei partiti e nelle altre istituzioni nazionali.
Nel 2012 si sono ulteriormente ampliati i divari territoriali e sociali in merito alla soddisfazione per la propria condizione economica, che tocca quote decisamente inferiori di popolazione rispetto a quanto invece si riscontra per altri ambiti di vita, registrando un peggioramento laddove i livelli erano già più bassi. Una lettura degli ultimi venti anni mostra che la crisi ha acuito una caduta iniziata già nel 2001, con punte particolarmente negative nelle fasi recessive, nel corso delle quali si è anche ampliato il gap tra regioni settentrionali e meridionali. La quota di residenti soddisfatti della propria situazione economica passa dal 50 per cento nel Settentrione, al 44,3 per cento nel Centro e al 32 per cento nel Sud e Isole. Le analisi presentate evidenziano una relazione tra il livello della spesa per consumi e le valutazioni dei cittadini sulla situazione economica propria e del Paese. Tali valutazioni sono influenzate anche dalle modifiche della composizione delle scelte d’acquisto. Se le difficoltà economiche inducono i cittadini a privarsi di parte di quelle spese che, pur non rientrando tra quelle considerate strettamente necessarie, sono ritenute importanti, a risentirne negativamente é anche la loro percezione della situazione generale del Paese.
Nonostante il disagio prodotto dalle difficoltà dell’economia, il livello di soddisfazione per la propria vita nel complesso resta per gli italiani ancora piuttosto alto seppure in forte diminuzione tra il 2011 e il 2012. Tra le persone di 14 anni e più, oltre il 90 per cento dichiara di essere soddisfatto per le relazioni familiari, quasi l’85 per cento per quelle amicali. Anche la soddisfazione per la salute è molto diffusa, nonostante l’elevata età media della popolazione: quasi il 90 per cento degli intervistati esprime un giudizio positivo. Come pure le valutazioni del proprio tempo libero: nel 2012 a dichiararsi molto o abbastanza soddisfatto per questa componente è il 65,9 per cento della popolazione, una quota addirittura in aumento rispetto al 2011 (64,1 per cento). L’ordine di importanza delle diverse componenti cambia a seconda del livello di soddisfazione per la vita in generale: per i molto soddisfatti a contare di più è la situazione economica, poi la salute e le altre componenti. Il peso della situazione economica conta, invece, molto meno per i poco o per niente soddisfatti. In questo caso a fare la differenza è la salute, seguita dai restanti domini relativi alla vita personale. Soltanto per la popolazione occupata la graduatoria della soddisfazione per i singoli ambiti di vita si modifica con l’introduzione della dimensione lavoro. Essa ha il ruolo più rilevante, non tanto per il suo valore come fonte di reddito, quanto per il suo “contenuto”. È questo, ad esempio, l’aspetto più sottolineato da tutti, senza differenze tra chi esercita una professione alta e chi svolge un lavoro manuale. Tra il 1993 e il 2012, la quota di occupati che si dichiara soddisfatta del proprio lavoro non è mai stata inferiore al 75 per cento, con livelli più bassi nel Mezzogiorno.
Il mercato del lavoro
Insieme al calo degli occupati di circa 500 mila unità, registrato a partire dal 2008, la crisi ha prodotto un notevole aumento della partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto per la componente femminile, che non ha però trovato adeguata risposta in termini di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è sensibilmente cresciuto fino a toccare l’11,5 per cento (marzo 2013). Le persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi sono aumentate dal 2008 di 675 mila unità e rappresentano oggi oltre la metà del totale mentre la durata media della ricerca si è allungata raggiungendo i 21 mesi.
Parallelamente alla crescita della disoccupazione e all’allungamento della sua durata, aumenta un segmento particolare dell’inattività, quello delle forze di lavoro potenziali: si tratta di persone che non hanno un lavoro, non lo cercano attivamente, ma sarebbero disponibili a lavorare. Sono più di 3 milioni di individui che sommati ai disoccupati portano a 6 milioni le persone potenzialmente impiegabili. Date le condizioni cicliche del mercato del lavoro e le ridotte opportunità di impiego, questa offerta di lavoro addizionale rischia di rimanere ampiamente insoddisfatta. Nel Paese le incertezze associate all’entrata nella condizione di cassa integrazione stanno aumentando. Seguendo i cambiamenti di stato negli ultimi quattro anni di coloro che si trovano in Cassa integrazione e guadagni, si osserva un allungamento della durata dei periodi in cui si è beneficiari delle integrazioni salariali e un aumento consistente di coloro che transitano verso la disoccupazione o l’inattività.
Gli squilibri del mercato del lavoro restano molto gravi nel Mezzogiorno, dove la caduta dell’occupazione è iniziata prima ed è più intensa, se si considera che dal 2008 la sua riduzione è stata più che tripla rispetto al resto del Paese (del 4,6 per cento contro l’1,2 per cento al Centro nord). Anche la quota dei disoccupati meridionali sul totale, diminuita fino al 2011, ha ripreso a crescere e la differenza dei tassi tra Nord e Mezzogiorno nell’ultimo anno si è ampliata di circa 2 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione ha così superato il 17 per cento, quasi 10 punti percentuali più che al Nord, e la durata della ricerca di lavoro, allungatasi in tutto il territorio nazionale, ha raggiunto nelle regioni meridionali punte di 27 mesi. Particolarmente profondo il fenomeno dello scoraggiamento: il tasso di mancata partecipazione, che include insieme ai disoccupati le forze di lavoro potenziali, raggiunge valori tripli rispetto a quello del Nord (34,2 per cento contro l’11,8 per cento). L’occupazione, che nel 2011 aveva segnato un aumento seppur modesto, mostra una diminuzione a partire dal secondo semestre del 2012, che prosegue nei primi mesi del 2013. Contestualmente si è evidenziata una contrazione più consistente dell’input di lavoro (-1,1 per cento in termini di unità di lavoro standard di contabilità nazionale) in conseguenza dell’incremento della quota di occupati a tempo parziale, in costante crescita nel corso del 2012, e di un aumento del ricorso alla Cassa integrazione e guadagni.
La struttura per età degli occupati si sta modificando per la crescita della componente degli ultracinquantenni – come effetto delle riforme in ambito previdenziale – e per la diminuzione di quella giovanile. Emerge anche una polarizzazione che riguarda le forme contrattuali, con un maggior ricorso alla flessibilità come strumento per fronteggiare la crisi. È diminuita l’occupazione a tempo indeterminato full time: il 5 per cento in meno tra il 2008 e il 2012, e oltre due punti solo nell’ultimo anno. È aumentata, e tutta in componente involontaria, quella a tempo parziale così come quella a tempo determinato. Rispetto all’anno precedente si è dimezzata la percentuale di dipendenti che sono passati dal part time al tempo pieno. Il 54 per cento del part time è ormai involontario. Per il lavoro a tempo determinato, sono soprattutto i contratti di breve durata a crescere (nel 2012 un atipico su due ha un contratto con durata inferiore all’anno), anche se quasi un lavoratore su cinque con impiego a tempo determinato lo ha da almeno cinque anni. È, inoltre, diminuita la probabilità di transizione dal tempo determinato verso il lavoro standard con un aumento dei passaggi verso la disoccupazione.
Alla polarizzazione nelle forme contrattuali si affianca la perdita di peso delle professioni più qualificate. Dal 2008 al 2012, il numero di occupati del gruppo dirigenti e imprenditori è diminuito di oltre il 40 per cento mentre sono in aumento quelle più esecutive e meno qualificate, soprattutto nei servizi alle famiglie. Il peggioramento delle condizioni generali del mercato del lavoro ha intensificato il fenomeno della segregazione di genere nelle professioni, per effetto sia del rafforzamento della presenza delle donne in quelle già fortemente femminilizzate, che di quella degli uomini in quelle tradizionalmente maschili. I giovani continuano a essere il segmento di popolazione più colpito dalla crisi. Per loro le opportunità di ottenere o conservare un impiego si sono significativamente ridotte: in quattro anni il tasso di occupazione dei 15-29enni (pari al 32,5 per cento) è diminuito di circa 7 punti percentuali, e solo nel 2012 di 1,2 punti. Si tratta di 727 mila giovani occupati in meno tra il 2008 e il 2012, con un maggiore accento del fenomeno nel Mezzogiorno, dove il tasso di occupazione giovanile è pari alla metà di quelli del Nord (22,5 per cento contro il 41,5 per cento).
Il tasso di disoccupazione giovanile è cresciuto di dieci punti in quattro anni, di cinque solo nell’ultimo, interessando maggiormente chi ha un titolo di studio più basso. La quota di Neet, cioè di giovani che non lavorano e non studiano, è aumentata e in misura maggiore degli altri paesi europei, raggiungendo il numero di due milioni e 250 mila: il 24 per cento del totale dei 15-29enni. In Italia, la condizione di Neet è, rispetto agli altri paesi, meno legata alla condizione di disoccupato e più al fenomeno dello scoraggiamento poiché sono di meno quelli che cercano attivamente lavoro e molti di più quelli che rientrano nelle forze di lavoro potenziali.
Nel nostro Paese il rendimento dell’investimento in istruzione risulta ancora basso, cosa che si riflette nel numero di studenti, rimasto sostanzialmente stabile intorno ai 4 milioni, pari al 41,5 per cento della popolazione di età compresa tra 15 e 29 anni. La laurea molto più del diploma si sta, però, rivelando, una forma di assicurazione contro le crescenti difficoltà del mercato del lavoro. Lo dimostra il significativo allargamento, avvenuto negli ultimi anni, dello svantaggio dell’Italia nei confronti dell’Unione europea con riferimento alle opportunità occupazionali dei diplomati. Dal 2006, per chi si trova in età compresa tra i 20 e i 34 anni ed ha conseguito il titolo tre anni prima, lo scarto tra il tasso di occupazione medio europeo e quello italiano raddoppia, toccando quota 20,8 punti percentuali mentre nel caso della laurea si assesta a 16,5 punti percentuali con un incremento di solo 1,3 punti. Questo segmento di diplomati, tra il 2008 e il 2012, ha visto ridursi il tasso di occupazione di 14, 3 punti percentuali mentre per i laureati il calo si è assestato a 6,5. Come emerge da ulteriori analisi, alcuni effetti della crisi sulle opportunità di sbocco dei laureati appaiono avere enfatizzato il ruolo dell’estrazione sociale, che incrementa, a favore delle classi più alte, la probabilità di trovare lavoro o di ottenere una retribuzione più elevata. Ciò influisce negativamente sulla mobilità sociale aggiungendosi al fenomeno già rilevante che si verifica al momento dell’iscrizione all’Università che vede svantaggiate le classi sociali meno abbienti e di cui si è data ampia documentazione nel Rapporto dello scorso anno. Gli immigrati sono un altro segmento particolarmente colpito dal difficile contesto. Tra il 2008 e il 2012, il tasso di occupazione degli stranieri è diminuito di oltre 6 punti percentuali e di 10 per la sola componente maschile. Rispetto a quello degli italiani, il tasso di disoccupazione è salito di quasi 2 punti percentuali, che diventano circa tre punti e mezzo se si considera soltanto il Nord. Inoltre, il mercato del lavoro presenta ancora importanti elementi di dualità tra occupati italiani e stranieri, che percepiscono redditi da lavoro dipendente mediamente più bassi del 25 per cento. Per le donne, in particolare, si è assistito a un processo di concentrazione in due sole professioni: assistenti domiciliari e collaboratrici domestiche.
Infine, in ragione della concentrazione delle diverse comunità in settori produttivi differenti, va segnalato come la crisi abbia penalizzato maggiormente le etnie, come la marocchina e l’albanese, più inserite nel settore dell’industria e meno quelle inserite nei servizi alle famiglie: la filippina, la polacca e la rumena. Nonostante i fenomeni richiamati, la congiuntura particolarmente difficile sembra far avvertire agli italiani un sentimento di competizione nei confronti degli stranieri nell’aggiudicarsi risorse scarse, in particolare il posto di lavoro. Sebbene l’86,7 per cento degli italiani sia d’accordo nel ritenere che ogni persona dovrebbe avere il diritto di vivere in qualsiasi paese del mondo scelto, il 50 per cento sostiene che, in condizione di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli italiani. A far crescere la probabilità che un cittadino italiano si dichiari per una maggiore protezione del posto di lavoro proprio e dei connazionali nei confronti degli immigrati contribuiscono, insieme al titolo di studio, sia la percezione di una condizione personale di maggiore vulnerabilità che l’esposizione al rischio della perdita dell’occupazione. Soprattutto laddove viene percepita più alta la possibilità di sostituzione tra manodopera italiana e straniera.
L’occupazione femminile è cresciuta di 110 mila unità. La dinamica positiva sottende la ricomposizione a favore di età più anziane, quale conseguenza delle riforme pensionistiche. L’incremento è, infatti, in parte dovuto al segmento delle ultra 49enni (quasi il 7 per cento) che ha più che compensato il calo delle giovani. In questo contesto, si osservano anche la crescita di posizioni a bassa qualifica, soprattutto per le immigrate, e gli effetti delle nuove strategie familiari per fronteggiare le difficoltà economiche. Dal 2008 è salito da 224 mila a 381 mila il numero di occupate, coniugate con figli, che rappresentano l’unica fonte di sostentamento della famiglia. Inoltre, sono sempre più le donne, soprattutto meridionali, che cercano un lavoro per sostenere la caduta di reddito familiare conseguente alla perdita di lavoro o all’entrata in Cassa integrazione del consorte. Infine, in merito all’ espansione del segmento a bassa qualifica si sottolinea come sia avvenuto quasi esclusivamente nei servizi alle famiglie, un fenomeno che conferma l’incomprimibilità dei bisogni di assistenza di anziani non autosufficienti.
La quota di donne occupate in Italia rimane, comunque, di gran lunga ancora inferiore a quella dell’Ue. Non solo, essa si concentra in poche professioni (il 50 per cento è assorbito da 18 professioni contro le 51 degli uomini) e si associa spesso a fenomeni di “sovraistruzione” crescenti e più accentuati rispetto agli uomini.
Conclusioni
La conoscenza puntuale e approfondita del presente è la base su cui costruire il Paese che verrà. È questa la prospettiva in cui si collocano le analisi presentate nel Rapporto. Esse vogliono fornire un contribuito all’impegno di progettare un futuro oltre la crisi. Di certo, il ruolo dell’informazione statistica a supporto di processi decisionali complessi appare oggi evidente da diversi punti di vista. La governance europea richiede indicatori caratterizzati da elevati livelli di qualità, soprattutto per gli aspetti macroeconomici e di finanza pubblica; le politiche per la crescita e per la coesione sociale necessitano sempre di più di misurazioni riferite ai comportamenti dei diversi soggetti, che rendano conto delle eterogeneità presenti nel tessuto economico, sociale e nell’ambiente. Sostenere questo ruolo impone una elevata e costante tensione innovativa: nei contenuti, nelle tecnologie, nelle metodologie adottate e nei processi di produzione. Si tratta di un impegno straordinario che riguarda non solo l’Istat ma anche il Sistema statistico europeo e il Sistema statistico nazionale, ai quali è analogamente chiesto di soddisfare una domanda crescente di informazioni di qualità, sempre più tempestiva e articolata. L’Istituto continuerà a porsi al servizio della società e dei cittadini e a documentarne le principali trasformazioni, rappresentando in modo indipendente la realtà del Paese nei suoi punti di forza e di debolezza. È così che vogliamo interpretare il compito che ci è affidato.

Rapporto ISTAT sul 2013
Signora Presidente della Camera dei Deputati, Rappresentanti del Governo, Autorità, Signore e Signori,
Consentitemi una brevissima premessa. Dopo la nomina a ministro del Presidente dell’epoca, Enrico Giovannini, l’anno scorso l’Istat si ritrovò senza Presidente. E così per gestire l’emergenza che ne derivava, con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 13 giugno 2013, mi fu affidata la reggenza della presidenza dell’Istituto, in attesa che si attuasse la complessa e lunga procedura che porta alla nomina del Presidente. Una reggenza di cui non era definita la durata, ma che doveva essere breve. E invece, da allora, è passato quasi un anno; un lungo lasso di tempo che tuttora perdura e che fra l’altro mi assicura anche il privilegio di presentare oggi un impegnativo Rapporto annuale, che dà conto delle più significative vicende e tendenze socioeconomiche del nostro Paese, viste in una prospettiva internazionale. Nonostante l’incertezza temporale, che ha caratterizzato e caratterizza questa mia presidenza e, per motivi collegati, anche alcune posizioni di vertice dell’Istituto, l’Istat ha continuato la sua fondamentale attività di produzione e diffusione di analisi statistico-conoscitive al servizio del Paese e della Unione europea, con assoluto impegno e assicurando l’abituale elevata qualità, grazie al pieno senso di responsabilità, e in vari casi anche al sacrificio, dei suoi dirigenti e di tutto il personale, al quale è doveroso da parte mia dare qui, oggi, un pieno riconoscimento. Senso di responsabilità e sacrificio che fra l’altro hanno consentito alla mia persona di svolgere, alla fine di una lunghissima carriera in campo statistico-demografico, un’azione che, quanto meno per il totale impegno che ho profuso al servizio dell’istituzione, mi auguro possa essere ritenuta fruttuosa.
Sostenere con informazioni affidabili il confronto democratico è il servizio che l’Istat rende al Paese, ai suoi cittadini e alle istituzioni, nella convinzione che la buona governance, ora più che mai, passi per decisioni difficili ma lungimiranti, da assumere a tutti i livelli di responsabilità. La statistica però non esaurisce la propria funzione quale supporto delle decisioni pubbliche, ma rappresenta un “bene pubblico” producendo informazioni che sono patrimonio dell’intera società. La verità “assoluta” non è conoscibile – e di questo principio la scienza statistica fa esattamente la propria pietra fondante – ma il rigore di un dato statistico prodotto con metodologie avanzate, trasparenti e rigorosamente documentate, normativamente fondate a livello nazionale, costruite e condivise a livello internazionale, esige che da parte di tutti i soggetti istituzionali pubblici si assuma un atteggiamento di alta responsabilità nel riconoscimento del requisito di massima obiettività documentabile di un dato statistico ufficiale. Pena la perdita di credibilità non solo del dato, ma anche del soggetto istituzionale che ne mette in dubbio la qualità, incurante del quadro metodologico di trasparenza e documentazione che sempre lo accompagna.
Il quadro macroeconomico nazionale e internazionale nel 2013
Nel 2013 la crescita economica mondiale è rimasta debole e inferiore ai ritmi precrisi. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il tasso di espansione del prodotto interno lordo globale si è attestato al 3,0 per cento, in lieve rallentamento rispetto al 3,2 del 2012. Il ciclo economico si è differenziato tra economie avanzate e mercati emergenti. Le prime hanno registrato un progressivo miglioramento grazie, in particolare, all’andamento favorevole di Stati Uniti e Giappone. L’attività economica è ripartita, dopo sei trimestri di contrazione, anche nell’Uem pur con segnali congiunturali contrastanti tra le economie dell’area. Il rafforzamento ciclico delle economie avanzate si è riflesso in un aumento degli scambi mondiali nella seconda metà dell’anno. Nello stesso periodo, le economie emergenti hanno generalmente registrato una dinamica ciclica in rallentamento, che è stata alla base del contenimento dei prezzi delle materie prime.
Entro fine anno si attende un graduale recupero della crescita economica mondiale. Gli indicatori anticipatori suggeriscono, infatti, la prosecuzione nei primi mesi del 2014 della ripresa dell’attività economica, sia nelle economie mature sia nei mercati emergenti.
Le dinamiche economiche sono influenzate anche da processi geopolitici internazionali, da turbolenze, conflitti e gravi crisi sociali, alcune delle quali – segnatamente quelle che interessano l’area del Mediterraneo e l’Africa – hanno (e sono destinate ad avere) importanti riflessi anche sul nostro Paese, fra cui quelli, tragici, del gran numero di morti nel mare nostrum. Nel 2013, il Pil italiano si è contratto nuovamente in volume, in misura pari a l’1,9 per cento, riportando il livello dell’attività economica leggermente al di sotto di quello del 2000; il Pil pro capite è tornato, in termini reali, ai livelli del 1996. In corso d’anno si è registrata una tendenza al rallentamento della caduta e nel quarto trimestre del 2013 si è avuto un timido segnale di ripresa: il Pil è aumentato su base congiunturale (0,1 per cento), interrompendo così la serie negativa di nove trimestri consecutivi, che aveva portato l’economia italiana nella più lunga recessione del secondo dopoguerra. La fase positiva non è proseguita e nel primo trimestre di quest’anno si è registrata nuovamente una variazione congiunturale del Prodotto interno lordo leggermente negativa (-0,1 per cento). Questa si inscrive in un contesto di moderato incremento dell’attività per l’insieme dei paesi Ue (0,2 per cento), con l’eccezione della Germania (+0,8 per cento). Negli ultimi anni, in Italia, la dinamica macroeconomica è stata caratterizzata da una forte contrazione di consumi e investimenti (rispettivamente -2,2 e -4,7 per cento nel 2013); al contrario, la domanda estera netta ha fornito contributi positivi anche rilevanti, seppure non sufficienti a bilanciare la caduta delle componenti interne di domanda. Il 2013 si è distinto per alcuni elementi di novità. Il rallentamento della domanda internazionale, in particolare dai paesi emergenti, ha contribuito a un raffreddamento delle quotazioni delle materie prime energetiche e di quelle industriali; tali andamenti, unitamente all’apprezzamento del tasso di cambio dell’euro, hanno determinato, da un lato, un forte impulso deflazionistico, che si è sommato a quello derivante dalla debolezza della domanda; dall’altro, hanno contribuito al rilevante avanzo della bilancia commerciale. Nel 2013, l’inflazione in Italia è calata nettamente: in media d’anno, il tasso di crescita dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività si è più che dimezzato, scendendo all’1,2 per cento dal 3,0 del 2012. La fase di rallentamento dell’inflazione prosegue nei primi mesi del 2014. Un basso livello d’inflazione può, da un lato, tutelare il potere di acquisto dei consumatori e aiutare la competitività di prezzo delle imprese; dall’altro, non agevola il processo di risanamento degli squilibri di bilancio, implicando tassi di interesse reali più elevati. Rispetto ai paesi Uem, in Italia, il processo di disinflazione ha preso avvio con relativo ritardo, ma è risultato più accentuato. Il differenziale inflazionistico tra l’Italia e l’Uem, pari a otto decimi di punto percentuale nella media del 2012, si è rapidamente ridotto nel corso del 2013, risultando in media d’anno negativo per un decimo di punto. Considerando la sola componente di fondo (al netto dei beni energetici e degli alimentari non lavorati), la discesa dell’inflazione nel corso del 2013 è risultata, tuttavia, più lenta e sostanzialmente in linea con la media dei paesi dell’Uem. L’ipotesi di un rischio deflazionistico appare, quindi, in questa fase ancora uno scenario estremo.
Il saldo commerciale dell’Italia ha raggiunto lo scorso anno i 30,4 miliardi di euro (quasi 85 miliardi al netto dei prodotti energetici), in netto miglioramento rispetto al 2012. Il forte avanzo del 2013 è scaturito dal verificarsi di condizioni di natura prevalentemente congiunturale (i bassi prezzi dell’energia) e dalla contrazione dell’import (-5,5 per cento), dovuta alla fase di persistente debolezza della domanda interna, più che da una sostanziale tenuta delle esportazioni (-0,1 per cento). Inoltre, il grado di penetrazione delle importazioni di merci e servizi (misurato dal rapporto tra il valore delle importazioni e quello della domanda nazionale) risulta nella media 2012-13 su un livello sostanzialmente più elevato rispetto a quello del precedente decennio. Quindi, affinché la domanda estera netta continui a sostenere la crescita del Pil, è necessaria anche una sostanziale accelerazione dell’export, sostenuta da imprese con una capacità competitiva sui mercati internazionali sempre maggiore. Un altro elemento caratteristico della fase di crisi che stiamo attraversando è rappresentato dall’elevato livello d’incertezza e dalle difficili condizioni di accesso al credito, testimoniato in questi anni dall’andamento del clima di fiducia di imprese e consumatori, in grado di condizionare sia le scelte di produzione e di investimenti delle imprese sia i comportamenti di consumo delle famiglie. Un’analisi svolta con il modello previsionale macroeconomico dell’Istat mostra che l’incertezza e le condizioni di scarsa liquidità hanno in questi anni amplificato la caduta della spesa per investimenti privati. In particolare, la componente in nuove tecnologie (Ict) ha risentito maggiormente dell’incertezza politica ed economica, mentre la disponibilità di liquidità ha influenzato, soprattutto nel breve periodo, tutte le tipologie di beni capitali. La mancata accelerazione della spesa in Ict può essere in parte responsabile della stagnazione della dinamica della produttività italiana, costituendo uno degli ostacoli al recupero dei livelli di attività pre-crisi. A partire dalla seconda metà del 2012, l’intensità e la durata della contrazione della capacità di spesa sembrano avere spinto le famiglie a comportamenti di consumo improntati alla cautela che potrebbero anche incorporare una correzione verso il basso delle valutazioni sul proprio reddito di lungo periodo. L’analisi del comportamento di tipologie familiari, distinte in base ad alcune caratteristiche socioeconomiche, conferma come la caduta della spesa per consumi osservata nel 2012 sia stata influenzata, oltre che dal protrarsi della fase recessiva, dalla presenza di incomprimibili fabbisogni di spesa (ad esempio presenza di figli e di oneri finanziari) e dalle condizioni di incertezza sul mercato del lavoro. Questi fattori hanno generato una correzione dei consumi anche per le famiglie con redditi medi che in una prima fase della crisi avevano mantenuto invariati i livelli di spesa grazie alla decumulazione dei risparmi.
Secondo i dati della rilevazione delle forze di lavoro, nel 2013 l’occupazione è diminuita di 478 mila unità, con un calo del 2,1 per cento rispetto al 2012, superiore a quello che si era verificato nel periodo più intenso della crisi (-380 mila unità nel 2009). L’emorragia occupazionale è stata maggiore nel Mezzogiorno (-4,6 in media d’anno). In termini di volume di lavoro (misurato dalle Unità di lavoro a tempo pieno), la contrazione è stata quasi analoga (-450 mila unità, -1,9 per cento). I dati indicano una diminuzione particolarmente intensa nella prima parte dell’anno (-0,7 e -0,6 per cento le variazioni congiunturali destagionalizzate nei primi due trimestri dell’anno), proseguita a ritmi inferiori nella seconda parte (-0,3 per cento in entrambi i trimestri), grazie a un andamento più favorevole nell’industria e nelle costruzioni rispetto ai servizi.
L’evoluzione recente e le prospettive dell’economia italiana
Nel corso dei primi mesi del 2014, sia il clima di fiducia dei consumatori, sia quello della manifattura hanno segnato un deciso rafforzamento tornando sui livelli di luglio del 2011; in miglioramento è risultata anche la fiducia del comparto del commercio al dettaglio, mentre in quello delle costruzioni ha continuato a prevalere l’incertezza. Gli indicatori di attività industriale mostrano segnali di moderato incremento. Alla marcata crescita dell’indice generale della produzione industriale in gennaio (+1,0 per cento su base congiunturale, in termini destagionalizzati) è seguita sia in febbraio sia in marzo una flessione (0,4 e 0,5 per cento rispettivamente), dovuta in gran parte al calo dei prodotti energetici (legato principalmente a fattori climatici). Al netto di questo calo, si registra una diminuzione congiunturale dello 0,5 per cento nell’ultimo mese, ma un aumento dello 0,8 per cento su base trimestrale. È proseguito, rispetto all’ultimo trimestre 2013, l’aumento del fatturato dell’industria: nella media degli ultimi tre mesi, l’indice complessivo aumenta dello 0,5 per cento rispetto ai tre mesi precedenti e torna positiva anche la dinamica del fatturato interno.
L’indice delle vendite al dettaglio, invece, registra nei primi tre mesi del 2014 un calo congiunturale dello 0,3 per cento (dati destagionalizzati). Nel primo trimestre dell’anno, rispetto al precedente, l’export risulta in contenuta espansione (+0,3 per cento), sintesi della crescita delle vendite verso l’area Ue (+1,0 per cento) e della contrazione di quelle verso l’area extra Ue (-0,5 per cento). Al netto dei prodotti energetici, l’export registra una crescita dell’1,0 per cento. In aprile persiste il calo dell’export verso i paesi extraeuropei (-0,2 in termini congiunturali). In marzo si sono osservati primi segnali di ripresa dell’occupazione, che dopo la stagnazione in gennaio e la discesa in febbraio è tornata a crescere, risultando superiore di circa 73 mila individui rispetto al mese di febbraio (in termini destagionalizzati). Nel primo trimestre del 2014 si registra anche un lieve aumento del tasso di posti vacanti (+0,1 punti percentuali). L’evoluzione congiunturale è coerente con un quadro di possibile ripresa dell’attività economica a ritmi moderati sia nel 2014 sia nel biennio successivo, come tracciato nelle previsioni macroeconomiche recentemente rilasciate dall’Istat. Tale dinamica sarebbe guidata in larga misura dal contributo della domanda interna al netto delle scorte, sostenuta sia dalla risalita della spesa per consumi delle famiglie, grazie a un incremento del reddito disponibile nominale superiore all’inflazione al consumo, che consentirebbe guadagni di potere d’acquisto per la prima volta dal 2007; sia dal recupero dei tassi di accumulazione, grazie alle aspettative di ripresa del ciclo economico, nell’ipotesi di una graduale distensione delle condizioni di accesso al credito. La domanda estera netta sosterrebbe la crescita nel triennio di previsione in misura più contenuta che nel recente passato.
La finanza pubblica
La gravità della recente crisi ha comportato un significativo deterioramento dei conti pubblici in tutti i paesi dell’Ue. In seguito all’insorgere della crisi economicofinanziaria, le autorità europee hanno concesso alla fine del 2008 la possibilità di adottare misure fiscali espansive a livello nazionale con l’impegno di rientrare in breve tempo nei limiti previsti dai Trattati europei, al fine di rafforzare la fiducia nella sostenibilità delle finanze pubbliche dell’area. Tale orientamento si è interrotto nel 2009 con l’avvio della procedura per deficit eccessivo nei confronti di 17 paesi dell’Unione tra cui l’Italia. Dal 2011, l’azione di consolidamento è diventata particolarmente severa, in seguito all’insorgere della crisi del debito sovrano in Grecia che ha generato rilevanti tensioni sui mercati finanziari dei titoli pubblici dei paesi con debito più elevato (per l’Italia lo spread dei titoli a dieci anni rispetto agli analoghi titoli tedeschi raggiungeva a novembre i 550 punti base), allentate successivamente anche dall’efficace mutato orientamento della Banca centrale europea nel corso del 2012. L’esistenza di “spazi fiscali” diversi, in relazione soprattutto al livello iniziale di debito pubblico, e l’adozione di politiche fiscali differenti sia nella fase espansiva sia in quella successiva di consolidamento fiscale, ha comportato una eterogeneità di risposte tra i paesi dell’Ue. Diversamente da quasi tutti gli altri paesi, in Italia l’azione pubblica negli anni dal 2007 al 2012 è risultata complessivamente restrittiva, e nel 2013 è stato registrato l’avanzo primario più elevato tra i paesi dell’Unione, superiore al 2 per cento del Pil. Il nostro Paese si distingue, perciò, per aver attuato un grande sforzo di consolidamento fiscale nonostante una recessione economica tra le più profonde dell’Ue. Del resto, la dimensione delle manovre fiscali attuate complessivamente in Italia dal 2010 è stata notevole (pari a -15 miliardi per il 2011, a -75 miliardi per il 2012 e a -92 miliardi per il 2013), ma gli effetti sul miglioramento dei conti pubblici sono stati in parte limitati dall’aggravamento delle condizioni macroeconomiche, che ha in particolare contenuto la dinamica delle entrate, in seguito al peggioramento delle basi imponibili, quali consumi, redditi, occupazione. La dinamica delle spese, caratterizzate da una minore sensibilità al ciclo economico rispetto alle entrate, ha invece registrato andamenti coerenti con gli obiettivi programmatici di finanza pubblica e una riduzione maggiore di quella stimata. Tra il 2010 e il 2013 la spesa pubblica è risultata sostanzialmente stabile (+0,8 in termini nominali), nonostante l’aumento della componente per interessi, in seguito alla riduzione soprattutto della spesa per il personale (-7,9 miliardi), degli investimenti fissi lordi (6,2 miliardi in meno) e dei consumi intermedi (3,3 miliardi in meno). Nel 2013, il rapporto debito/Pil italiano si attesta, tuttavia, su valori ancora molto elevati (132,6 per cento). La scomposizione della dinamica del debito mostra come la bassa crescita economica e il forte incremento della spesa per interessi siano state le principali cause di aumento del rapporto debito/Pil nel periodo 2007- 2012. Secondo gli indicatori elaborati dalla Commissione europea per valutare la sostenibilità del debito dei diversi paesi su un ampio orizzonte temporale, l’azione di consolidamento della finanza pubblica attuata negli anni della crisi ha portato in Italia a una significativa riduzione dei rischi di sostenibilità futura del debito, per effetto di rilevanti miglioramenti della posizione iniziale di bilancio e delle riforme pensionistiche. Il principale elemento di rischio per la sostenibilità del debito pubblico nel nostro Paese risulta attualmente essere la ridotta crescita del Pil, evidenziando l’opportunità di attuare adeguate politiche strutturali che favoriscano la crescita economica di lungo periodo.
Il sistema produttivo
Tra le cause della mancata crescita dell’economia italiana, ricopre una posizione di rilievo una prolungata stagnazione della produttività, che si protrae ormai dagli anni Duemila, e sulla quale si sono innestate le conseguenze delle due fasi di crisi 2008-2009 e 2011-2013. La produttività segna profondamente il quadro dinamico della nostra economia, chiamando in causa, con diversi accenti, fattori di contesto, elementi strutturali, dotazioni e strategie del nostro sistema delle imprese. Con riferimento ai fattori esogeni, le riforme strutturali intraprese negli ultimi anni hanno migliorato la posizione dell’Italia rispetto a quasi tutti gli indicatori considerati dagli organismi internazionali, ma persiste un divario rispetto ai principali partner sia nel posizionamento generale sia con riferimento a singoli fattori di contesto. Ad esempio, secondo la Banca mondiale, avviare un’impresa in Italia richiede tempi simili a quelli dei principali partner europei, ma costa il triplo rispetto alla media Ue in termini di capitale minimo e di costi procedurali. Tempi e costi della giustizia civile, secondo i dati della Banca mondiale, sono ancora penalizzanti per le imprese italiane: la risoluzione delle dispute è più lunga (1.185 giorni), il doppio della media Ue, e più costosa che nei principali partner dell’Unione. A questi aspetti si aggiungono alcune caratteristiche strutturali del nostro sistema produttivo quali l’elevato numero di microimprese (il 95 per cento dei circa 4,4 milioni di imprese) e la dimensione tra le più basse in ambito europeo (3,9 addetti per impresa a fronte dei 6,6 della Ue), che si riflettono anche nella limitata traiettoria tecnologica delle imprese. Il nostro Paese, infatti, investe in Ricerca e Sviluppo (ReS) l’1,25 per cento del Pil (dato relativo al 2011), un valore molto al di sotto della media Ue (2,1 per cento) e distante dall’obiettivo dell’1,53 per cento definito dalla strategia Europa 2020. L’analisi della composizione settoriale della spesa in ReS delle imprese mostra, tuttavia, alcuni evidenti elementi di forza: l’Italia risulta infatti il primo investitore in Europa nel campo del tessile e il secondo nel settore della meccanica (dietro la Germania). Nuove fonti statistiche integrate hanno consentito di analizzare diversi aspetti critici della competitività delle imprese e del potenziale di crescita del sistema produttivo. La stima di una mappa dell’efficienza delle imprese italiane mostra che la capacità di essere efficienti, ovvero di generare un livello adeguato di valore aggiunto data la dotazione dei fattori di produzione, rappresenta un elemento decisivo che incide sulla possibilità, da parte delle unità produttive italiane, di essere competitive sui mercati esteri e di sfruttare i frammentati segnali di ripresa di quello interno, con positivi effetti sull’occupazione. I risultati dell’analisi mostrano come l’adattamento fra tecnologia del settore e dimensione premi le piccole e medie imprese anche rispetto a quelle più grandi. Le microimprese (meno di 10 addetti), che assorbono poco meno della metà degli addetti complessivi, esprimono chiaramente condizioni produttive caratterizzate da problemi strutturali di efficienza. I dati relativi a circa 800 mila imprese industriali e dei servizi con dipendenti (rappresentative di circa il 60 per cento degli addetti del sistema produttivo) confermano le difficoltà delle imprese nel biennio 2011-2013: le posizioni lavorative sono scese del 6,7 per cento nell’intero periodo, soprattutto nel 2013 (4,9 per cento). Il calo occupazionale ha colpito le imprese di tutti i settori dell’industria e dei servizi di mercato. Il peggioramento dell’occupazione nel 2013 deriva principalmente dall’aumento dell’impatto negativo delle imprese in flessione, piuttosto che dalla riduzione dell’impatto espansivo delle imprese in crescita. Tra il 2012 e il 2013, infatti, il contributo positivo delle imprese che aumentano l’occupazione diminuisce di poco (da +5 per cento a +4,3 per cento), ma aumenta molto la distruzione di posizioni lavorative delle imprese in flessione: dal 6,8 al 9,3 per cento, con una espulsione di oltre 588 mila unità nel primo anno e di circa 795 mila nel secondo. In tutte le province italiane la percentuale di posti distrutti è superiore a quella di posti creati, con differenziali maggiori nel Mezzogiorno. L’efficienza ha avuto un ruolo rilevante – insieme ai comportamenti delle imprese e alle loro caratteristiche organizzative e strategiche - nel determinare una performance occupazionale d’impresa più o meno positiva nel biennio di crisi 2011-2013. In particolare, quasi 3 imprese su 10 hanno mostrato forti segnali di espansione occupazionale tra il 2011 e il 2013. Questi top performers operano su scala internazionale, hanno relazioni produttive con altre imprese, tendono a fare innovazioni organizzative e di processo, investono in capitale umano e (soprattutto) utilizzano in modo efficiente i fattori produttivi. L’internazionalizzazione delle imprese rappresenta un fattore cruciale per le prospettive di crescita dell’economia italiana. Le analisi sull’efficienza delle imprese mostrano come, in tutti i settori, le imprese esportatrici siano mediamente più efficienti di quelle domestiche. Inoltre, l’importanza di un utilizzo ottimale dei fattori produttivi ai fini delle vendite all’estero sembra più evidente nelle imprese di minori dimensioni. Questi aspetti sono di particolare rilevanza in quanto, come diverse analisi già svolte dall’Istat hanno mostrato, soprattutto negli ultimi anni, caratterizzati da un divario crescente tra domanda interna ed estera, la performance complessiva delle imprese italiane sia dipesa dalla loro capacità di cogliere le opportunità offerte dalla domanda di importazioni degli altri paesi, che si è riflessa in una sostanziale tenuta della quota di export sui mercati mondiali (2,99 per cento nei primi nove mesi del 2013). Nel corso degli anni si è gradualmente ridotto il peso delle vendite dirette verso l’Unione europea (dal 59,7 al 53,7 per cento tra il 2008 e il 2013, circa 11 miliardi in valore assoluto) ed è aumentato quello dei paesi emergenti, in particolare dell’Asia orientale (da 6 per cento a 8,3 per cento nello stesso periodo) o dell’America centro meridionale (da 3,3 a 3,7 per cento). La presenza di esportatori italiani nei paesi emergenti asiatici, in particolare dopo il 2009, è progressivamente aumentata e ha coinvolto un numero crescente di mercati. Nonostante ciò, il contributo di esportatori medi e grandi al valore complessivo dell’export è superiore al 50 per cento in tutti i paesi di destinazione, a testimonianza della necessità di raggiungere rilevanti economie di scala per poter penetrare in modo efficace in mercati lontani, anche se, in alcune economie asiatiche, si assiste a una parziale ricomposizione a favore delle piccole imprese. Rispetto ai principali paesi dell’Ue l’Italia, coerentemente con le caratteristiche strutturali dell’apparato produttivo, si caratterizza per un contributo all’export relativamente elevato delle aziende di piccola e media dimensione (rispettivamente 18,3 e 28,6 per cento). Le imprese esportatici italiane si differenziano da quelle degli altri paesi dell’Ue non solo in termini dimensionali ma anche per il ruolo limitato dell’intermediazione commerciale, che spiega il 40 per cento delle importazioni e solo il 14 per cento delle esportazioni attivate dal sistema delle imprese. In un paese come l’Italia, nel quale le piccole e medie imprese realizzano oltre il 50 per cento dell’export, un ampliamento della funzione di intermediazione commerciale potrebbe costituire un importante fattore di stimolo per la competitività del sistema produttivo sui mercati esteri, in particolare su quelli nuovi, più distanti e complessi. Una parte sempre più rilevante degli scambi commerciali è attivata da imprese residenti che appartengono a gruppi multinazionali (italiani o esteri): nella manifattura più del 42 per cento dell’export si deve a multinazionali italiane e un quarto a unità residenti a controllo estero. Alcune evidenze prodotte recentemente dall’Istat consentono anche di considerare le interconnessioni tra la produzione realizzata in Italia e quella realizzata all’estero dalle affiliate delle multinazionali italiane, che nel 2011 erano poco meno di 22 mila e impiegavano circa 1,7 milioni di addetti. I risultati sembrano indicare, per le imprese operanti in settori fortemente orientati all’export (apparecchiature elettriche, autoveicoli, macchinari), un ruolo positivo della delocalizzazione come stimolo delle loro esportazioni. In molti comparti tradizionali del Made in Italy, invece, quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono destinate a essere riesportate in Italia. Trattandosi prevalentemente di beni finali, lo stimolo alla produzione nazionale è assente ed emerge anche un rischio di potenziale concorrenza con le analoghe produzioni interne. La capacità del sistema Paese di attrarre investimenti esteri è ancora limitata: nel 2011 le imprese a controllo estero in Italia erano circa 13.500 e occupavano quasi 1,2 milioni di addetti. Queste imprese spiegano il 13,4 per cento del valore aggiunto del sistema produttivo, una quota ridotta rispetto a quanto si osserva in Francia, Germania e Spagna. Da una stima territoriale della rilevanza, a livello regionale, delle multinazionali estere in Italia emerge un divario a sfavore delle aree meridionali, più ampio nelle attività del terziario. Secondo un’indagine ad hoc sulla domanda di lavoro nelle imprese, nel 2013 circa due terzi delle medie e delle grandi imprese manifatturiere, e oltre il 50 per cento delle piccole, hanno dichiarato di avere assunto giovani (meno di 30 anni). Nei servizi ha assunto giovani il 63 per cento delle piccole imprese, il 77 delle medie e il 51,7 per cento delle grandi. Tra gli interventi in grado di portare, nell’attuale contesto congiunturale, a un aumento del numero di occupati, oltre il 71 per cento delle imprese manifatturiere e oltre il 76 di quelle dei servizi segnalano anzitutto una riduzione del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro. A seguire, la riduzione degli oneri burocratico-amministrativi (60,5 per cento nella manifattura e oltre 66 per cento nei servizi), la riduzione dei vincoli al licenziamento (52,6 e 49,8 per cento) e maggiori incentivi all’assunzione (43,8 e 52,1 per cento).
Il mercato del lavoro negli anni della crisi: dinamiche e divari
Nel nostro Paese, la dinamica dell’occupazione negli anni della crisi è stata drammatica e ha ampliato gli squilibri per generazione e per territorio che contraddistinguono il mercato del lavoro. Dal 2008 al 2013 l’occupazione è diminuita di 984 mila unità, uomini in quasi la totalità dei casi (-973 mila), mentre il tasso di occupazione ha raggiunto il 55,6 nel 2013 (quasi 3 punti in meno del 2008). Quasi metà del calo complessivo si è verificato nell’ultimo anno. Il fenomeno ha assunto dimensioni di estrema gravità nel Mezzogiorno, dove la diminuzione dell’occupazione è iniziata prima, è stata più intensa durante tutto il periodo e si è accentuata nell’ultimo anno rispetto al Nord. Dal 2008 al 2013, nel Mezzogiorno gli occupati diminuiscono di 583 mila unità (-9,0 per cento) e il tasso di occupazione è sceso al 42,0 per cento, contro un valore del 64,2 nelle regioni settentrionali. In questo stesso periodo il numero di disoccupati è raddoppiato, arrivando a 3 milioni 113 mila unità (1 milione 421 mila unità in più rispetto al 2008), mentre il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 12,2 per cento (5,4 punti percentuali in più rispetto al 2008). L’aumento ha riguardato in particolare il Mezzogiorno (+7,7 punti percentuali dal 2008), dove l’indicatore arriva al 19,7 per cento, valore tra i più alti d’Europa dopo quello di Grecia e Spagna. Cresce la disoccupazione di lunga durata e il totale delle forze lavoro potenziali (ovvero le persone che vorrebbero lavorare ma non cercano attivamente un’occupazione e quelle che, pur cercando lavoro, non sono immediatamente disponibili) arriva a 3 milioni 205 mila persone, con un incremento di 417 mila unità dall’inizio della crisi. Le disparità territoriali sono notevoli: il tasso di mancata partecipazione nel Mezzogiorno è quasi il triplo di quello del Nord (rispettivamente 36,6 contro 13,2 per cento). Calano sia il lavoro standard sia quello atipico e diminuisce la durata dei contratti (nel 2013 poco più della metà degli atipici ha un contratto per meno di un anno); un quinto degli atipici permane però nella situazione di precarietà da almeno cinque anni, con incidenze più elevate tra i collaboratori e tra chi lavora nei servizi generali della Pubblica amministrazione e nell’istruzione. Il lavoro atipico continua ad essere molto diffuso tra i giovani di 15-34 anni, tra i quali un occupato su quattro ha un lavoro a termine o una collaborazione, con una percentuale che sale al 31,7 per cento tra i laureati. Tuttavia, il lavoro atipico non è appannaggio solo dei giovanissimi, visto che un terzo di questi lavoratori ha tra 35 e 49 anni. L’unica forma di lavoro che continua a crescere è il lavoro parzialmente standard (vale a dire il lavoro permanente a tempo parziale) che aumenta, rispetto al 2008, di 572 mila unità. Il ricorso al lavoro a tempo parziale è stata una delle strategie delle aziende per far fronte alla crisi, tanto che tutto l’incremento complessivo di questa forma di lavoro è di tipo involontario, con un’incidenza che arriva nel 2013 al 71,5 per cento tra gli uomini e al 58,1 tra le donne. Anche la cassa integrazione è stata massicciamente utilizzata fin dall’inizio della crisi. Secondo l’Inps, nel 2013 sono state autorizzate oltre un miliardo di ore di Cig, in leggera diminuzione rispetto al 2012 (-1,4 per cento). I beneficiari, in più della metà dei casi hanno un’età tra i 35 e i 49 anni (il 54,3 per cento, in aumento di 2,7 punti percentuali rispetto al 2012), e sei cassaintegrati su dieci sono genitori. Si segnala però che tra il 2012 e il 2013 è aumentato il rientro in occupazione dei cassaintegrati (dal 35,3 per cento al 41,6).
In tutte le aree del Paese gli uomini sono stati duramente colpiti dalla crisi. Il tasso di occupazione maschile è sceso al 64,8 per cento nel 2013, 5,5 punti percentuali in meno rispetto al 2008. La forte diminuzione dell’occupazione maschile si deve soprattutto al crollo degli occupati nell’industria manifatturiera e nelle costruzioni, settori che hanno assorbito complessivamente circa l’89 per cento della diminuzione totale degli occupati dal 2008 al 2013. Con riferimento al terziario, si osserva un calo nel Mezzogiorno per tutto il quinquennio (-5,0 per cento); mentre nell’ultimo anno il calo è divenuto più diffuso, con una riduzione di 191 mila occupati concentrata soprattutto nei servizi generali della Pubblica amministrazione e nel commercio. I giovani hanno pagato in misura più elevata la crisi; le prospettive di trovare e mantenere un impiego sono sempre più incerte. Dal 2008 al 2013, gli occupati tra i 15 e i 34 anni diminuiscono di 1 milione 803 mila unità, mentre i disoccupati e le forze di lavoro potenziali crescono rispettivamente di 639 mila e 141 mila unità. Il tasso di occupazione tra i 15 e i 34 anni è diminuito di 10,2 punti percentuali, attestandosi al 40,2, mentre è quasi raddoppiata la percentuale di disoccupati (12,0 per cento nel 2013); in aumento anche quella degli studenti (da 27,9 a 30,7 per cento) e delle forze di lavoro potenziali (dal 6,8 all’8,3 per cento). Le differenze di genere sono rilevanti: il tasso di occupazione scende al 34,7 per cento tra le donne e raggiunge il 45,5 per cento tra gli uomini. Continuano ad aumentare i giovani che non studiano e non lavorano (raggiungono i 2,4 milioni tra i 15 e i 29 anni); l’aumento è fortemente concentrato nei segmenti di disoccupati o di quanti sarebbero disponibili a lavorare. La transizione tra scuola/università e lavoro è particolarmente critica nel nostro Paese. Nel 2013, tra i 20-34enni che hanno finito gli studi al massimo da tre anni (diplomati di scuola media superiore o laureati), solo il 48,3 per cento lavora contro il 75,4 per cento della media Ue28. Questo divario è un po’ più contenuto se si considerano solo i neo-laureati, che in Italia trovano una occupazione entro i tre anni nel 56,9 per cento dei casi (contro l’80,7 per cento della Ue28). Con la crisi, tuttavia, è aumentato il fenomeno della sovraistruzione, ovvero sono aumentate le persone che accettano occupazioni meno qualificate rispetto al proprio titolo di studio; sebbene l’Italia sia tra i paesi dell’Unione europea quello che presenta una delle più basse percentuali di laureati (16,3 per cento per la popolazione di età 25-64 anni contro 28,4 della media Ue28), l’incidenza di sovraistruiti è tra le più elevate, interessando più di 4,8 milioni di occupati (con una percentuale pari al 22,0 per cento). Il fenomeno è più diffuso tra le donne (25,3 per cento contro il 21,2 per cento degli uomini), tra i giovani 15-34enni (34,2 per cento) e tra gli stranieri (40,9 per cento). Anche il tasso di occupazione dei 35-49enni è diminuito di 3,9 punti (scendendo al 72,2 per cento), mentre tra i 50-64enni è cresciuto arrivando al 52,6 per cento (5,3 punti in più rispetto al 2008, 1 milione 70 mila occupati in più), soprattutto per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile. Si evidenzia un processo di polarizzazione nel segmento degli ultracinquantenni: chi in questa fascia di età resta fuori dal processo produttivo, incontra notevoli difficoltà a rientrarvi, con gravi conseguenze per il raggiungimento dei requisiti per l’accesso alla pensione. Crescono, infatti, sia i disoccupati (261 mila in più) sia le forze di lavoro potenziali di (172 mila forze di lavoro potenziali in più). Si aggrava anche la situazione occupazionale dei cittadini stranieri. Nonostante un aumento del numero di occupati tra il 2008 e il 2013, il tasso di occupazione degli stranieri segnala una dinamica negativa in tutti gli anni della crisi, soprattutto per gli uomini per i quali il tasso è sceso al 67,9 per cento (14 punti in meno). Per le donne la diminuzione è stata più contenuta (-3,4 punti) e il tasso ha raggiunto il 49,3 per cento. La migliore performance delle donne è dovuta al fatto che esse sono prevalentemente inserite nell’unico settore – i servizi alle famiglie – che ha conosciuto un incremento dell’occupazione. Le donne continuano a sperimentare una bassa partecipazione al mercato del lavoro; la quota di occupate, infatti, è del 46,6 per cento, inferiore di 12,2 punti al valore medio della Ue28. La sostanziale tenuta dell’occupazione femminile è il risultato di un insieme di fattori: il contributo delle occupate straniere, che sono aumentate di 359 mila unità tra il 2008 e il 2013, a fronte di un calo delle italiane di 370 mila unità, l’aumento di quante entrano nel mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner nel Mezzogiorno e, soprattutto, delle occupate con 50 anni e più per l’innalzamento dell’età pensionabile. Nella fascia di età tra 15 e 49 anni il tasso di occupazione cala per tutte le donne, siano esse single, in coppia o monogenitore. Inoltre, la qualità del lavoro femminile peggiora: aumenta il part time involontario, crescono le professioni non qualificate, quelle esecutive nel commercio e nei servizi e diminuiscono quelle qualificate e operaie. Permane inoltre un più alto livello di precarietà lavorativa e di grave difficoltà per le donne non istruite soprattutto nel Mezzogiorno. Considerando le donne con figli, i divari territoriali sono particolarmente accentuati: nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento, poco più della metà del Centro-Nord. Peggiora, inoltre, la già difficile conciliazione dei tempi di vita delle donne, che sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli: cresce, infatti, la quota di madri che non lavora più a due anni di distanza dalla nascita dei figli (22,3 per cento nel 2012 dal 18,4 del 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al 29,8 per cento. Aumenta di 4 punti percentuali, raggiungendo il 42,7 per cento, anche la quota di neomadri che hanno un lavoro e che segnalano difficoltà di conciliazione dei tempi di vita. Considerando sia le disoccupate sia le forze di lavoro potenziali, sono quasi un milione e mezzo le madri di età tra 15 e 49 anni che vorrebbero avere un lavoro.
Le condizioni socioeconomiche delle famiglie
Con la crisi sta diminuendo la tutela del lavoro dei “capifamiglia”: una delle peculiarità del mercato del lavoro italiano. Aumentano, infatti, le famiglie senza occupati e senza pensionati da lavoro: sono circa 2,1 milioni nel 2013, in aumento del 48,9 per cento rispetto a 1,4 milioni del 2008. Oltre la metà di queste famiglie risiede nel Mezzogiorno. Desta preoccupazione la condizione delle famiglie con “capofamiglia” di cittadinanza straniera. Nel 2013 le famiglie straniere senza pensionati e redditi da lavoro sono più che triplicate in valore assoluto rispetto al 2008, passando da 98 a 311 mila (arrivando al 14,9 per cento del totale delle famiglie nelle stesse condizioni).
Sono sempre più frequenti, inoltre, le famiglie con più componenti sostenute unicamente da una pensione da lavoro e senza occupati (circa 995 mila nel 2013). Nel complesso, le due tipologie di famiglie segnalate raccolgono 3 milioni 86 mila famiglie, vale a dire il 16,3 per cento del totale di quelle con almeno un componente in età lavorativa. Alcune famiglie si “ricompattano” per fronteggiare le difficoltà, creando al contempo maggiori economie di scala: si registra infatti un incremento delle persone che vivono in famiglie composte da più nuclei (438 mila unità in più rispetto al 2006-2007, un 1 milione e 567 mila individui nel 2012-2013). Tra queste, aumentano quelle di pensionati che vivono con occupati, soprattutto se beneficiari di trattamenti pensionistici bassi, e di pensionati che vivono con persone in cerca di occupazione e nessun occupato, situazione che interessa, più che in passato, i beneficiari di trattamenti pensionistici elevati. Cresce il contributo dei pensionati al reddito familiare e diminuisce il contributo dei redditi da lavoro. I pensionati rappresentano sempre più frequentemente una risorsa economica all’interno delle famiglie in cui qualche componente ha perso il lavoro, anche perché le pensioni sono tra i pochi redditi ad aver mantenuto sostanzialmente il potere d’acquisto nel corso della crisi. Aumentano le disuguaglianze anche nella distribuzione del reddito: nel 2011, il 20 per cento più ricco dispone di un ammontare di reddito di 5,6 volte superiore a quello del 20 per cento più povero; il valore è il più elevato degli ultimi anni e si mantiene anche nel 2012 (5,5 per cento) su un livello superiore alla media europea (5,0). Il rischio di povertà, già più elevato della media dell’Unione europea negli anni precrisi, ha raggiunto il valore massimo nel 2010, mantenendosi stabile nel biennio successivo su valori prossimi al 19,5 per cento delle famiglie. Il peggioramento ha riguardato, oltre al Centro-Nord, le famiglie con minori, monoreddito, operaie, di lavoratori in proprio o con persone in cerca di lavoro. Tale aumento si accompagna anche al forte incremento della grave deprivazione: dal 6,9 per cento sul totale delle famiglie del 2010 al 14,5 per cento del 2012; nel 2013 ha però conosciuto un miglioramento, scendendo al 12,5 per cento. I trasferimenti sociali sono una parte significativa, soprattutto tra i poveri, del reddito disponibile. Nel 2012, quasi il 38 per cento delle famiglie ha ricevuto trasferimenti sociali, per una quota pari a circa il 12 per cento del reddito familiare disponibile. Al netto di tali trasferimenti il rischio di povertà sarebbe di cinque punti percentuali superiore a quello osservato (24,4 per cento contro 19,4 per cento). Tuttavia, i trasferimenti sociali riescono a intaccare poco la componente strutturale della povertà: la povertà persistente raggiunge il 13,1 per cento, un valore molto più alto della media europea (che si attesta sul 9,7) e i trasferimenti sociali abbassano la povertà persistente solo di 4 punti percentuali. Le famiglie maggiormente esposte al rischio di povertà permanente, continuano ad essere quelle residenti nel Mezzogiorno, che vivono in affitto, con figli minori, disoccupati o in cui il principale percettore di reddito ha bassi livelli professionali e di istruzione.
L’invecchiamento della popolazione e le crescenti difficoltà delle reti informali
La severa fase recessiva porta a focalizzare l’attenzione generale sulle emergenze economiche del Paese, tuttavia una lettura prospettica in chiave demografica mette in luce che le emergenze sociali non sono da meno e richiedono interventi che non possono essere più rimandati. Nel 2012 la speranza di vita alla nascita è giunta a 79,6 anni per gli uomini e a 84,4 anni per le donne (rispettivamente superiore di 2,1 anni e 1,3 anni alla media europea del 2012). Allo stesso tempo il nostro Paese è caratterizzato dal persistere di livelli molto bassi di fecondità, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media Ue28 1,58). Queste dinamiche ci fanno competere per il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1° gennaio 2013, nella popolazione residente, ogni 100 giovani con meno di 15 anni si contano 151,4 persone di 65 anni e oltre. Questa misura rappresenta il “debito demografico” contratto da un paese nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, sanità e assistenza. Le previsioni demografiche ci indicano con chiarezza come si modificherà la struttura per età della popolazione nei prossimi 30 anni. L’inasprirsi del processo di invecchiamento sarà ancora più accentuato nel Mezzogiorno dove, dal 2011 al 2041, la proporzione di ultrasessantacinquenni per 100 giovani con meno di 15 anni risulterà più che raddoppiata passando da 123 a 278. Nello stesso periodo, al Centro-Nord l’indice di vecchiaia aumenterà di oltre una volta e mezza, da 159 a 242. Alle sfide che la globalizzazione e le crisi finanziarie impongono ai sistemi paese, l’Italia si presenta con una struttura per età fortemente squilibrata, in termini di rapporto tra popolazione in età attiva e non, e con una dinamica demografica che non potrà che aggravare il processo di invecchiamento, a meno di politiche sociali in grado di mutare in profondità i comportamenti individuali e familiari.
Queste dinamiche possono mettere in crisi il sistema di welfare che si è tradizionalmente basato molto sul contributo delle reti di aiuto informale e in particolare delle donne nell’assistenza dei membri più fragili. La rete di aiuto informale è entrata da tempo in una crisi strutturale. L’aumento considerevole della quota di popolazione anziana e, soprattutto, di quella dei grandi anziani, determina la crescita di quanti hanno bisogno di cura e assistenza, accanto ai bambini figli delle donne che lavorano. Nello stesso tempo, è cresciuta la presenza delle donne nel mercato del lavoro, aumentando il sovraccarico del lavoro di cura a fronte di politiche di conciliazione non adeguate ad alleggerirle. Il complesso intreccio di queste trasformazioni ha generato, in particolare, una crescente difficoltà da parte delle donne – il pilastro delle reti di aiuto – a sostenere il carico di un lavoro di cura che interessa fasi della vita sempre più dilatate e il conseguente taglio delle ore dedicate alla cura stessa. L’invecchiamento della popolazione ha conseguenze anche sulla prevalenza di patologie croniche gravi, che riguardano oltre la metà della popolazione ultrasettantacinquenne. In generale, non si tratta di un peggioramento delle condizioni di salute, ma di un incremento della popolazione esposta al rischio di ammalarsi. L’aumento della prevalenza di patologie croniche gravi è maggiore nel Mezzogiorno, dove la quota di cronici gravi, al netto degli effetti della struttura per età, si attesta al 16,1 per cento, contro il 14,2 per cento fatto registrare nel Nord del Paese.
Aumenta anche la disabilità, intesa come condizione della persona legata a quel ventaglio di attività di vita che subiscono serie restrizioni a causa di limitazioni funzionali, fenomeno anch’esso legato all’invecchiamento della popolazione. Nel 2012 la quota di anziani di 75 anni e oltre con problemi di limitazioni funzionali è pari al 39,8 per cento per le donne contro il 23,8 degli uomini. Questi problemi espongono gli anziani al rischio di marginalità sociale, laddove le politiche non intervengano con adeguate strategie di aiuto e assistenza, che permettano loro di continuare a vivere in maniera autonoma e a partecipare attivamente alla vita sociale. Le reti informali, molto attive su questo fronte, sono sempre più in difficoltà.
Le evidenze appena riferite prospettano per il futuro un aumento della pressione sul Sistema sanitario nazionale, dovuto all’incremento di persone bisognose di cure e assistenza. Proiettando, infatti, il rischio di soffrire di almeno una patologia cronica grave sulla struttura per età della popolazione prevista per i prossimi venti anni, ci si attende una prevalenza di cronici gravi superiore al 20 per cento nel 2024 e oltre il 22 per cento per il 2034, attualmente tale quota è al 15 per cento. Continua a essere rilevante il problema delle disuguaglianze sociali nella salute. In particolare, le persone di 65 anni e oltre, con risorse economiche scarse o insufficienti, che dichiarano di stare male o molto male, sono nel 2012 il 30,2 per cento (28,6 per cento nel 2005), contro il 14,8 per cento di chi dichiara risorse ottime o adeguate (16,5 per cento nel 2005). Tra queste, sono gli anziani del Mezzogiorno il gruppo di popolazione più vulnerabile.
Le criticità del sistema di welfare
L’Italia è settima tra i 28 paesi Ue per quota di spesa sul Pil destinata alla protezione sociale (il 29,7 per cento del Pil nel 2011). Le tre voci principali della spesa sociale (previdenza, sanità e assistenza) evidenziano nel 2012 una crescita contenuta per la previdenza, un chiaro rallentamento per la sanità e l’assistenza. Nonostante alcune importanti riforme abbiano ridotto la quota di spesa relativa alle pensioni, la quota destinata alla previdenza resta maggioritaria, mentre si continuano a destinare risorse molto scarse a tutela degli altri principali rischi sociali. L’Italia si colloca, infatti, nelle ultime posizioni della graduatoria europea per le risorse dedicate alle famiglie (solo il 4,8 per cento della spesa per la protezione sociale), per le politiche di sostegno al reddito in caso di disoccupazione o per quelle finalizzate alla formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro; per le politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale (0,3 per cento della spesa per la protezione sociale). Il Sistema sanitario nazionale (Ssn) nel corso degli anni ha dovuto mantenere un difficile equilibrio tra i vincoli di spesa e l’efficacia della sua azione. Il Sistema sanitario pubblico ha migliorato notevolmente il suo livello di accountability, come si evince dalla riduzione del debito accumulato nel corso degli anni. Inoltre, l’aumento costante della sopravvivenza e la sostanziale stabilità dell’incidenza della cronicità grave, testimoniano che l’attività di assistenza e cura svolta dal Ssn ha conseguito esiti soddisfacenti, nonostante i forti tagli apportati. Gli aspetti ancora problematici si riscontrano sul fronte dell’equità, per la quale gli indicatori segnalano persistenti divari di genere, sociali e territoriali, sia in termini di esiti di salute sia di accessibilità delle cure. Va destinata attenzione alle conseguenze della riduzione della spesa sanitaria pubblica e alle difficoltà dimostrate dalle famiglie a far fronte con risorse proprie alle cure sanitarie. Un indicatore importante al riguardo è costituito dalle rinunce alle cure. Nel 2012, la quota di cittadini che ha rinunciato alle cure si attesta all’11,1 per cento, in maggioranza donne (13,2 per cento, uomini 9,0 per cento); a livello territoriale la quota è più elevata nel Mezzogiorno (14,8 per cento).
I Comuni svolgono un ruolo centrale nella gestione della rete di interventi e servizi sociali sul territorio che vengono destinati al sostegno alle famiglie per i bisogni connessi alla crescita dei figli, all’assistenza agli anziani e alle persone con disabilità, o al contrasto del disagio legato alla povertà e all’emarginazione. Nel 2011 le risorse destinate dai Comuni alle politiche di welfare territoriale sono diminuite; la riduzione ha riguardato, in particolare, le voci di spesa sociale rivolte all’assistenza degli anziani, al contrasto della povertà e del disagio e quelle per l’integrazione al reddito familiare. Persiste, inoltre, la disomogenea distribuzione sul territorio dei più importanti servizi alle famiglie, come gli asili nido, l’assistenza sociale ai disabili e agli anziani non autosufficienti, nonostante gli interventi volti al riequilibrio delle disparità territoriali finanziati nell’ambito delle politiche di coesione. Il Mezzogiorno continua a emergere come la zona con maggiori bisogni e minori servizi su tutti i fronti. Agli squilibri della distribuzione dei servizi sociali sul territorio si affiancano analoghi squilibri sul fronte delle reti informali di aiuto. È sempre il Mezzogiorno a presentare una rete di aiuto informale meno articolata e presente sul territorio. Nel Rapporto si analizza il contributo crescente del settore non profit nell’ambito dell’assistenza sociale e della sanità, in controtendenza a fronte delle difficoltà segnalate nel settore pubblico. Il non profit potrebbe diventare un’opportunità in questi ambiti, se venissero superate alcune evidenti criticità e fragilità. In particolare, l’eterogeneità della distribuzione territoriale a sfavore proprio del Mezzogiorno già penalizzato dalle reti informali e dai servizi sociali; l’eterogeneità nella dimensione delle istituzioni, che rivela una realtà parcellizzata con una elevata frequenza di piccole unità e una forte concentrazione delle entrate su poche istituzioni (il 16 per cento assorbe il 95 per cento delle entrate). Le istituzioni attive nell’ambito dell’assistenza sociale e della sanità sono, inoltre, frequentemente dipendenti da finanziamenti pubblici. In un periodo di contrazione della spesa pubblica, come quello attuale, la sopravvivenza di molte realtà del non profit potrebbe essere a rischio se non vengono indirizzate politiche adeguate verso questo settore.
Le politiche fiscali e il sistema redistributivo
In un contesto di riduzione delle risorse pubbliche, divengono ancor più cruciali politiche finalizzate al miglioramento della qualità e dell’efficienza della spesa pubblica (spending review) e quelle volte a una maggiore efficacia dell’azione redistributiva nei confronti sia delle famiglie sia delle imprese. Il risultato dell’attuale meccanismo di redistribuzione riduce le diseguaglianze, ma privilegia le famiglie che percepiscono redditi da pensione, mentre tende a penalizzare di più le famiglie con redditi medi. Le analisi presentate nel Rapporto suggeriscono che il nostro sistema redistributivo, basato sull’effetto combinato di prestazioni sociali, imposte e contributi sociali, potrebbe essere reso più efficace correggendone aspetti strutturali che condizionano il raggiungimento di obiettivi di equità e di contrasto della povertà. Anzitutto, l’evasione e l’erosione della base imponibile riducono per ovvie ragioni l’equità del sistema. Altri aspetti problematici riguardano la cosiddetta incapienza (ovvero quando le detrazioni spettanti non possono essere interamente godute perché maggiori dell’imposta lorda) e l’assetto individualistico della tassazione. Nel primo caso, si escludono parzialmente o totalmente dai benefici delle detrazioni i contribuenti con i redditi più bassi, compresi quelli che appartengono a famiglie povere. L’assetto individuale dell’imposta implica, a parità di reddito, una maggiore aliquota effettiva per le famiglie monoreddito rispetto alle altre. Un’imposta “negativa” sui redditi familiari più bassi potrebbe costituire uno strumento di contrasto della povertà che consente di concentrare la spesa sui più bisognosi, tenendo conto della numerosità della famiglia e delle economie di scala. Simulazioni effettuate con il modello di microsimulazione sulle famiglie dell’Istat suggeriscono che un intervento pari all’1 per cento del Pil (15,5 miliardi) consentirebbe di ridurre consistentemente il tasso di povertà. L’attribuzione di un assegno di eguale importo a tutti gli individui adulti (indipendentemente dallo status della famiglia di appartenenza) con un reddito personale insufficiente, oltre a risultare molto più costoso (circa 90 miliardi) si tradurrebbe, invece, in una elevata dispersione, con il 61 per cento della somma destinata a individui che vivono in famiglie non povere. Con riferimento alla tassazione dei redditi d’impresa, in Italia – come in altri paesi avanzati – durante la crisi sono stati adottati provvedimenti per sostenere investimenti e occupazione. In particolare, l’introduzione dell’Aiuto alla crescita economica (cosiddetto Ace) ha rappresentato un importante passo in avanti verso un sistema di prelievo più neutrale rispetto alle scelte di finanziamento delle imprese, realizzando una sostanziale riduzione del costo dell’investimento finanziato con capitale proprio e la completa eliminazione del cuneo di imposta ad esso associato. L’Ace dovrebbe tradursi in uno stimolo agli investimenti, e in special modo alla spesa in attività innovative, la quale risulta maggiormente condizionata dalla disponibilità di risorse interne di finanziamento. Le simulazioni, effettuate con il modello di microsimulazione dell’Istat sulle imprese, confermano la validità di questo provvedimento. Nello stesso senso sono andati gli interventi di ridefinizione dell’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap) e dell’Imposta societaria (Ires) succedutisi negli ultimi anni.
Conclusioni
L’Italia ha bisogno di acquisire maggiore consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza per intraprendere il percorso atteso verso la ripresa. Ecco perché gli assi principali intorno ai quali sono state condotte le analisi qui presentate sono la capacità competitiva, gli squilibri sociali e gli squilibri territoriali. Altamente critica la situazione economica e sociale del Mezzogiorno, che si allontana sempre più dal resto del Paese e dall’Europa. L’approfondirsi del dualismo territoriale come “strutturale”, anche dal punto di vista demografico, avrà delle conseguenze serie sulle prospettive di sviluppo e sostenibilità del sistema Paese nel suo complesso. Le criticità richiamate, che si cumulano ai ritardi storici, stanno frenando il percorso dell’Italia verso il raggiungimento degli obiettivi concordati nell’ambito della Strategia Europa 2020. La ripartenza del Paese deve rappresentare anche un’occasione per affrontare nodi ancora irrisolti, il cui sedimentarsi, unitamente alla fase economica recessiva, ha contribuito a consolidare una condizione di difficoltà per una parte troppo ampia di popolazione. Occorre tornare a discutere di strategie e soluzioni per il Mezzogiorno, avendo chiari gli obiettivi, condividendoli con l’opinione pubblica e la società civile. Questo cambio di passo sarebbe il modo migliore per affrontare l’impegno europeo ormai prossimo.
Il 1° luglio 2014 inizia il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Si tratta di un appuntamento importante anche per la statistica. L’Istituto nazionale di statistica rivestirà infatti un ruolo attivo nell’ambito della governance internazionale per proseguire il lavoro di sviluppo, produzione e diffusione di statistiche di alta qualità, affidabili e pertinenti. L’Istat avrà la possibilità istituzionale di esprimere una leadership per promuovere iniziative che sostengano lo sviluppo, l’attuazione e il monitoraggio delle politiche comunitarie. Nuove sfide si affronteranno per proseguire i lavori sulla revisione della legge statistica europea, che si concentra sul rafforzamento della governance del sistema statistico europeo, su un chiaro ruolo di coordinamento degli Istituti nazionali di statistica nei sistemi statistici nazionali e dell’Eurostat, su impegni degli Stati membri per garantire la credibilità delle statistiche ufficiali. L’Istituto, durante la presidenza di turno, sarà impegnato anche nell’individuare soluzioni di consenso appropriate e azioni di cooperazione costruttiva con la Commissione e il Parlamento su temi di rilievo per la governance economica europea, come quello delle statistiche di finanza pubblica e della qualità delle statistiche per la valutazione degli squilibri macroeconomici. Impegnato a produrre statistiche strutturali e congiunturali su fenomeni economici, sociali e ambientali, per soddisfare esigenze sempre più ampie e articolate, l’Istat ha continuato nell’ultimo anno a innovare i processi di produzione statistica e a incrementare l’informazione diffusa a supporto delle decisioni delle istituzioni, degli operatori economici, dei cittadini. Questi risultati sono stati raggiunti anche grazie a una sempre maggiore sinergia e coesione della rete europea degli istituti nazionali di statistica, alla condivisione di strumenti metodologici e tecnologici innovativi per la raccolta, l’analisi e la diffusione dei dati, in linea con il programma di modernizzazione della produzione statistica Stat2015, lanciato dall’Istituto già da alcuni anni. Queste azioni mirano ad ampliare il patrimonio informativo, garantendo livelli sempre più alti di qualità e di efficienza e riducendo il disturbo statistico sui rispondenti. Le informazioni, inoltre, sono rese sempre più accessibili e navigabili grazie a servizi interattivi e dati in formato aperto, coerentemente con gli indirizzi strategici appena approvati dal sistema statistico europeo. Sono del tutto sicuro che tutti concordino che all’Istat continuino ad essere garantite condizioni adeguate di funzionamento per svolgere i propri compiti e affrontare le sfide conseguenti anche alle innovazioni normative nazionali e internazionali che vedono l’Istituto, la sua rete territoriale e il Sistan protagonisti di importanti processi di cambiamento del Paese. La costruzione dell’anagrafe nazionale della popolazione residente, il passaggio al censimento permanente, la misurazione del benessere equo e sostenibile, l’introduzione del nuovo sistema dei conti economici nazionali (Sec 2010), lo sviluppo di modelli di previsione e analisi degli effetti delle politiche pubbliche sono solo degli esempi. La tempestività nella pubblicazione degli indicatori congiunturali e non, il dettaglio territoriale e settoriale dei dati, la confrontabilità internazionale, la capacità di analisi e di comunicazione al grande pubblico sono il frutto dell’impegno e del prezioso lavoro di coloro che operano nel Sistema. A tutti loro voglio esprimere il mio sincero ringraziamento come Presidente dell’Istat e come cittadino di questo Paese.

29 maggio 2014

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