La donna nella tragedia greca.


“Orsù, o misera mano mia, prendi la spada, prendila, muovi verso la dolorosa meta della vita: non essere vile e non ricordarti dei tuoi figli, che ti sono assai cari, che li partoristi, ma solo per questo breve giorno dimenticati dei tuoi figli; e poi piangi. Anche se li ucciderai, nondimeno essi ti sono cari; e una donna sventurata sono io".

Euripide, Medea

Da un po' di tempo la cronaca ha portato alla ribalta un fenomeno particolarmente drammatico e apparentemente insensato come l'uccisione da parte di madri dei loro figli.
Inoltre, spesso, anche da racconti di persone che ci sono vicine veniamo a scoprire in alcune donne una sorta di mefistofelica cattiveria e incontrollabile autodistruzione, specie in occasione di separazioni o divorzi. Ma l'episodio che mi ha spinto a scrivere questo articolo è stata la pubblicazione del libro feuilleton scritto da Valérie Trierweiler contro Francois Holland; un libro vendetta che affosserà irrimediabilmente la vita politca di Hollande. Certamente l'immagine di questa donna, vendicativa e rabbiosa, cozza con quella di tenera, appassionata, angelicata e affettuosa compagna, che, spesso, l'uomo idealizza e che trova il suo apice nella donna dolce e angelica quale ci appare, ad esempio, nella Vita Nova di Dante, con il culmine dello stile della loda del sonetto Tanto gentile ...

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira. »

Eppure nella letteratura più antica tra i tragici greci e latini, ad esempio, la donna sembra capace, sia di sottostare, con una certa facilità, ad alcuni dei vizi capitali della bibbia, come, lussuria, superbia, invidia, ira, sia di compiere atroci misfatti.

D'altra parte nel mondo greco antico, in particolare nel mondo post-omerico della polis, la donna, relegata ai margini dello spazio politico, non appare mai, almeno ufficialmente, nella veste della sacrificatrice: alle donne era infatti precluso di praticare personalmente i sacrifici e di maneggiare il coltello sacrificale. Il femminile era assolutamente incompatibile con la dimensione sacrificale forse, proprio in virtù di un’avvertita presunta pericolosità della donna che giustificava il preciso intento di inserire il mondo femminile in un ordine a parte, un ordine diverso da quello dell'uomo.
La madre, dunque, quanto meno nell’ideologia del cittadino greco, non “può” uccidere come non “può” sacrificare il proprio figlio, senza che a questa immagine non sia associata una fortissima e totale valenza di trasgressività e di estraneità al mondo greco.
L’uccisione appare un atto “impossibile” già a prescindere dal fatto che la vittima sia il proprio figlio. Inoltre la donna che si macchia personalmente del sangue della propria prole si dissocia dal gruppo rifiutando la funzione a cui la società la destina - quella di generare e allevare i figli - e in questo modo attacca quella che è la struttura fondamentale della società, la famiglia; ugualmente esecrabile era per i princìpi della società greca l'uccisione del marito o dell'amante da parte della donna.
L’omicidio, da parte di una donna, nel mito, si colloca spesso significativamente nella sfera del culto di Dioniso o Bacco, che è la divinità “diversa” per eccellenza nel pantheon greco, il dio apolitico - e tuttavia centrale e necessario alla polis stessa - il dio della follia e degli eccessi, il dio che i greci stessi rappresentavano come “straniero”, proveniente dalla Tracia o dal lontano oriente, ma che è ben presente nella città. Dionisio rappresenta in particolare lo stato di natura dell'uomo, la sua parte primordiale, animale, selvaggia, istintiva, facile preda di raptus di follia, che resta presente anche nell'uomo più civilizzato, come una parte originaria insopprimibile, che può emergere ed esplodere in maniera violenta se viene repressa, anziché compresa ed incanalata correttamente. Giova notare, peraltro, che sono donne le baccanti che sul monte Citerone, si macchiano di sangue animale e umano, lasciandosi avviluppare dalle tendenze più primordiali e da una violenza folle e parossistica.
Se partiamo dal presupposto che ciò che definiamo in modo assai lato dionisismo, nel mito come nel rito, appariva come una negazione e un ribaltamento delle norme civiche e dell’ordine consueto delle cose, accettiamo che il suo ruolo fosse proprio quello di rappresentare un’inversione di valori rispetto alla norma: in questo quadro, la donna poteva essere rappresentata nell’inatteso ruolo della “sacrificatrice”, ma allo stesso tempo anche il sacrificio tradizionale presso l’altare era sostituito dallo smembramento feroce della vittima.

Si può spiegare così la presenza nel mito di racconti di uccisione e smembramento del proprio figlio da parte di madri, come modello fondante proprio ciò che non doveva essere, modello di un accadere diverso per eccellenza rispetto alla norma e soprattutto rispetto allo stereotipo della donna intesa come madre amorevole e protettiva. Le donne che compiono figlicidi nel mito greco si profilano quindi anzitutto come delle grandi violatrici e rappresentano in vario modo tutta una serie di infrazioni e trasgressioni. Il caso più significativo pare essere quello di Medea: diversamente da molte altre madri figlicide del mito, essa tuttavia non è una baccante impazzita né inconsapevole; è anzi estremamente lucida ed è connotata come una donna dotata di una particolare sapienza e intelligenza. La sua diversità è contrassegnata in altro modo: è la donna-maga, manipolatrice, in grado di fabbricare medicinali, guaritrice e avvelenatrice, che proviene da un paese collocato agli estremi confini del mondo conosciuto; è la donna di cui gli argonauti hanno bisogno per compiere la loro difficile missione, è la donna che si dimostra superiore all'uomo.
Diversamente, le varie collettività mitiche che si macchiano di infanticidio - Pretidi, Miniadi, Cadmeidi - agiscono in uno stato di invasamento, in uno stato di coscienza “altro” che in modo altrettanto efficace, sia pure diversamente, le colloca al di fuori della “normale” rappresentazione della donna greca. Giova però sottolineare che nei tragici greci esiste anche un tentativo di assegnare alla donna un ruolo da protagonista e farla uscire dalla condizione di persona sottomessa all'uomo. Ricordo che all'epoca di Pericle, nell'ambito della procreazione, alla donna era attribuita una funzione essenzialmente contenitiva e nutritiva del feto, ma il principio fisico, e soprattutto formale, era dato dall’uomo. Era stata stabilita, così, una netta asimmetria fra il ruolo maschile e il femminile nella generazione dei figli. Forse anche per questo Erodoto affida a Medea il diritto, sia di procreare, che di uccidere i propri figli. Lo stesso Eschilo nella sua tragedia Eumenidi fa dire ad Apollo che Oreste uccidendo la madre non ha commesso un omicidio contro un consanguineo, come affermano le Erinni, ma sostiene. ...." Pure questo vogluio spiegarti: e comprendi anche come parlerò correttamente. Non la madre è la generatrice di quello che è chiamato suo figlio: ella è la nutrice del germe in lei serminato. Il generatore è colui che la feconda: e lei, straniera a straniero, salva il germe , quando un dio non l'abbia già distrutto".
Possiamo dire che dall’VIII sec. a.C. ad oggi Medea ancora non cessa di esercitare un fascino particolare, come dimostra l’ingente numero di opere a lei dedicate fin dall’antichità, dalla IV Pitica di Pindaro alla tragedia Euripidea, alle Argonautiche di Apollonio Rodio, a Seneca e Ovidio, fino ad arrivare al film di Pasolini. Ancora al giorno d’oggi molto si discute sulla natura di questa figura, tanto che continuano ad essere avanzate numerose chiavi di lettura, non da ultime quelle psicanalitiche, per cercare di spiegare e di avvicinarsi a questo sconcertante personaggio. Nonostante la molteplicità delle versioni del mito che sono state fornite è Euripide che nel V secolo conferisce alla figura di Medea la sua identità per così dire “canonica”, scegliendo di rappresentarla, forse per la prima volta, come la donna che uccide i propri figli pur di vendicarsi del marito Giasone, deciso ad abbandonarla per sposare un'altra donna. E' facendo riferimento a Euripide che racconto di Medea. Anche per gli altri casi faccio riferimento ai racconti di tragici greci.

MEDEA
Figlia di Eeta, re della Colchide (l'attuale Georgia occidentale), il suo nome in greco significa "astuzie, scaltrezze", infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri divini. Quando Giasone arriva in Colchide insieme agli argonauti alla ricerca del Vello d'oro, custodito da un feroce drago, lei se ne innamora. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone. Il padre Eeta, così, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli argonauti tornano a Iolco con il Vello d'Oro. Lo zio di Giasone, Pelia, rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in precedenza, in cambio del Vello: Medea allora sfrutta le proprie abilità magiche e con l'inganno si rende protagonista di una nuova efferatezza per aiutare l'amato. Convince infatti le figlie di Pelia a somministrare al padre un "pharmakòn", dopo averlo fatto a pezzi e bollito; questa operazione avrebbe ringiovanito Pelia. Medea dimostra la validità della sua arte riportando un caprone alla condizione di agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito con erbe magiche. Le figlie di Pelia si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre. Acasto, figlio di Pelia, bandisce Medea e Giasone da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove si sposano. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, offrendo così a quest'ultimo la possibilità di succedergli al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea. Vista l'indifferenza di Giasone di fronte alla sua disperazione, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che l'abito è imbevuto di veleno, lo indossa per poi morire fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in suo aiuto, tocca anch'egli il mantello, e muore. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli. Fuggita ad Atene Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio, Medo. A lui Medea vuole lasciare il trono di Atene, finché Teseo non giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma Egeo riconosce Teseo come suo figlio e Medea è costretta a fuggire di nuovo. Torna nella Colchide, dove si ricongiunge e si riappacifica con il padre Eeta.
In Euripide la personalità di Medea, ancor prima dell’infanticidio, è già definita come quella di una donna eccessiva, dotata di un'oscura e terribile diversità. Una serie di azioni sembrano prefigurare, infatti, quanto accadrà poi a Corinto: padrona di un sapere “eccessivo”, e per questo temibile, Medea è un’abile manipolatrice, disposta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi: dal fratricidio di Apsirto (forse lo stesso Apsirto era ancora un bambino), alla manipolazione delle figlie di Pelia fino a far loro uccidere inconsapevolmente il padre.

CLITENNESTRA
La paternità di Clitennestra è dibattuta. Leda, sedotta da Zeus nelle vesti di cigno depose un uovo che, schiusosi, diede la vita a Elena, Castore e Polluce. Quella stessa notte, Leda giacque con il marito Tindaro e partorisce Clitennestra, ma alcuni autori sostengono che solo Elena fosse da considerare di origine divina, mentre Polluce e Castore erano figli di Tindaro. Clitennestra aveva sposato in prime nozze Tantalo, figlio di Tieste e re di Pisa (città del Peloponneso), ucciso da Agamennone che gli aveva mosso guerra. Clitennestra sposa allora proprio l'uccisore del marito, Agamennone, re di Micene. Dall'unione dei due nascono: Elettra, Ifigenia, Crisotemi e Oreste. Al momento della partenza delle navi achee per la guerra di Troia, viene imposto ad Agamennone il sacrificio di Ifigenia per placare l'ira di Artemide che non permette alla flotta di salpare. La principessa viene salvata dalla dea stessa che aveva preteso il sacrificio e che rapisce Ifigenia avvolgendola nel suo velo. Il sacrificio dunque non si consuma, ma la figlia è stata ingannata e sottratta alla madre. Questa vicenda produce in Clitennestra un rancore inestinguibile. Rancore alimentato dalle insidie del cugino di Agamennone, Egisto, figlio di Tieste. Cugini di primo grado, Egisto e Agamennone erano figli dei fratelli Tieste ed Atreo discendenti del ceppo di Pelope, sul quale gravava una maledizione che avrebbe colpito la dinastia. Tornato a Micene dopo la distruzione di Troia, Agamennone conduce con se la schiava Cassandra, figlia di re Priamo, che predice, inascoltata, la morte di Agamennone e la sua. A palazzo lo attende, infatti, la congiura ordita da Egisto e Clitennestra; questa, fingendo di accogliere Agamennone con amore e dedizione uccide con una spada sia il marito che Cassandra. Il figlio Oreste era stato nel frattempo mandato in esilio e la figlia Elettra segregata nel palazzo. Clitennestra sposa Egisto con il quale governa la città con durezza e crudeltà procurandosi l'odio dei cittadini che non le hanno perdonato l'assassinio del marito. Clitennestra è un personaggio di grande rilievo e di forte temperamento, in quanto incarna il rancore femminile dovuto, sia alla gelosia per i tradimenti di Agamennone, sia al sentimento materno per la sorte di Ifigenia. Grazie alle opere dei poeti tragici, colpiti dal suo destino e dalla sua determinazione, Clitennestra ricopre un ruolo di rilievo nella mitologia. Tra gli autori greci che dedicarono a lei la propria opera ci sono Eschilo, Sofocle ed Euripide. Fra gli autori latini cito Lucio Anneo Seneca, Livio Andronico e Lucio Accio.

FEDRA
Nella tragedia di Euripide, Ippolito, figlio di Teseo, disprezza la venerazione di Afrodite in favore di quella di Artemide e, per vendetta, Afrodite fa sì che la sua matrigna, Fedra, figlia di Minosse e Parsifae, si innamori follemente di lui. L'amore di Fedra è assoluto e totale; ella deperisce, non mangia, non dorme; la nutrice della donna confessa a Ippolito l'amore per lui della matrigna, ma il giovane disdegna il solo pensiero di questo amore e ne è disgustato. Fedra, accecata da un amore impossibile, cerca vendetta nei confronti di Ippolito si suicida e, nella sua lettera di addio, a Teseo, suo marito e padre di Ippolito, scive d'essere stata violentata da Ippolito e che, per questo motivo, si suicida. Ippolito è vincolato dal giuramento fatto alla nutrice a non menzionare l'amore di Fedra per lui e, si rifiuta di difendersi nonostante le conseguenze. Teseo maledice il figlio, una maledizione che Poseidone è costretto a esaudire, e così Ippolito viene abbattuto da un toro che manda nel panico i cavalli della sua biga, ne distrugge il veicolo e ferisce mortalmente Ippolito. Fedra raggiunge il suo scopo, uccidere la persona amata tramite Teseo che Ippolito aveva sostituito nel suo cuore. Questo, però, non è il modo in cui Afrodite aveva previsto la sua morte, in quanto nel prologo della tragedia ella dice che si aspettava che Ippolito cedesse al desiderio con Fedra e che Teseo cogliesse la coppia durante l'atto. Ippolito perdona il padre prima di morire e Artemide rivela la verità a Teseo prima di giurare di uccidere, per vendetta, uno degli amanti di Afrodite (Adone).

PROCNE
La sua leggenda è legata a quella di sua sorella Filomela, violentata dal marito di Procne Tereo, re della Tracia. Filomela, sebbene Tereo l'avesse privata della lingua affinché nessuno conoscesse il suo gesto, riusce a comunicare l'accaduto alla sorella tessendone le immagini su di una tela. Procne, per vendetta, riduce a pezzi suo figlio Iti e lo dà in pasto a Tereo. Tereo va su tutte le furie e minaccia di morte Filomela e Procne. Secondo il mito le due donne furono tramutate dagli dei rispettivamente in usignolo e rondine, mentre Tereo in upupa.

INO
Ino fu la seconda moglie di Atamante. Dalla loro unione nacquero Learco e Melicerte. Atamante aveva avuto da Nefele altri due figli, Frisso ed Elle, che Ino odiava e di cui voleva liberarsi. Convince allora le donne del paese a mettere nel forno i semi di grano conservati per la semina successiva, facendo in modo che quando vennero seminati, non fiorirono, gettando il paese nella carestia. Atamante invia i suoi messaggeri all'oracolo di Delfi per chiedere cosa avrebbe dovuto fare per risolvere la situazione, ma Ino li corrompe perché gli riferissero che doveva sacrificare Frisso ed Elle sull'altare di Zeus. Atamante è costretto ad acconsentire, ma Frisso ed Elle, chiedendo aiuto alla loro madre Nefele riescono a fuggire alla morte. Dopo la morte della sorella Semele, madre di Dioniso, Ino persuade Atamante ad allevare il piccolo dio, nato dall'unione della sorella di Ino con Zeus. Era, per vendicarsi del tradimento di Zeus fa impazzire Ino che getta Melicerte in un pentolone pieno d’acqua bollente e poi si getta in mare con il cadavere del bambino.

LE BACCANTI
Dioniso o Bacco era nato dall'unione tra Zeus e Semele, donna mortale. Tuttavia le sorelle della donna e il nipote Penteo (re di Tebe) per invidia spargono la voce che Dioniso in realtà non era nato da Zeus, ma da una relazione tra Semele e un uomo mortale. Nel prologo della tragedia di Euripide, Dioniso afferma di essere sceso tra gli uomini per convincere Tebe di essere un dio e non un mortale. A tale scopo induce il seme dellai follia in tutte le donne tebane, che sono fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (diventando quindi Baccanti, ossia donne che celebrano i riti di Bacco). Questo fatto però non convince Penteo: egli rifiuta strenuamente di riconoscere un dio in Dioniso, e lo considera solo una sorta di demone che ha ideato una trappola per adescare le donne. Invano Cadmo (nonno di Penteo) e Tiresia (indovino cieco) tentano di dissuaderlo e di fargli riconoscere Dioniso come un dio. Il re di Tebe fa allora arrestare lo stesso Dioniso per imprigionarlo, il dio però scatena un terremoto che gli permette di liberarsi. Nel frattempo dal monte Citerone giungono notizie inquietanti: le donne che compiono i riti sono in grado di far sgorgare vino, latte e miele dalla roccia, e in momenti di furore dionisiaco si avventano su mandrie di mucche, squartandole vive con forza sovrumana. Hanno poi invaso alcuni villaggi, devastando tutto, rapendo e uccidendo bambini e mettendo in fuga la popolazione. Dioniso, parlando con Penteo, riesce allora a convincerlo a mascherarsi da donna per poter spiare di nascosto le baccanti. Una volta che i due sono giunti sul Citerone, però, il dio aizza le Baccanti contro Penteo. Esse sradicano l'albero sul quale il re si era nascosto, si avventano su di lui e lo fanno letteralmente a pezzi. Non solo, ma la prima ad infierire su Penteo è sua madre Agave. Questi fatti vengono narrati a Cadmo da un messaggero che è tornato a Tebe dopo aver assistito alla scena. Poco dopo arriva anche Agave, munita di un bastone sulla cui sommità è attaccata la testa di Penteo che lei, nel suo delirio di baccante, crede essere una testa di leone. Cadmo, sconvolto di fronte a quello spettacolo, riesce pian piano a far rinsavire Agave. A quel punto riappare Dioniso ex machina, che spiega di aver progettato questo piano per punire chi non credeva nella sua natura divina, e condanna Cadmo e Agave a essere esiliati.

LE LEMNIADI
Non è chiaro il motivo per cui Afrodite decide di punire le donne di Lemno. Si ipotizza una dimenticanza, una negligenza o addirittura un disamore nei confronti della dea. La separazione che viene a crearsi tra le Lemniadi e Afrodite, dea dell’amore e custode dei legami matrimoniali, ha come conseguenza l’allontanamento delle lemniadi da parte dei loro mariti. La dea infatti ha inflitto loro il castigo di un odore ripugnante non rendendole più desiderabili agli uomini; questi prendono come mogli delle concubine tracie, catturate come schiave nel corso di spedizioni di guerra. Per vendetta allora le lemniadi nel corso di una notte fanno strage dei loro mariti infedeli e dei figli di sesso maschile che avevano avuto da quelli. Quando gli argonauti giungono nell’isola di Lemno, le lemniadi indossano armi e sono piene di frenesia guerriera, spaventose a vedersi. Lentamente tuttavia sembrano voler riacquistare la loro condizione femminile di mogli e madri. Decidono di dare loro il benvenuto portando sulla spiaggia i doni che si fanno per salutare gli stranieri. Questi doni dell’ospitalità stabiliscono un vincolo con gli argonauti. Infine, gli argonauti si accoppiano con le lemniadi ciscuno con 14 donne procreando figli. Nella sua versione, Apollonio Rodio sostiene che il matrimonio collettivo con gli argonauti è provocato da Afrodite stessa, per riportare la specie umana a Lemno.

LE MINIADI
Le miniadi, figlie di Minia, fondatore e re di Orcomeno, in Beozia, si rifiutano di riconoscere e seguire il culto orgiastico di Dioniso. E mentre tutte le altre donne di Orcomeno seguono le esortazioni del sacerdote del nume e, abbandonando i lavori domestici, si danno tutte alla orgiastica celebrazione del nuovo culto, le miniadi continuano a restarsene in casa, dedite alle occupazioni del tessere e del filare. Ma ecco che la trama del tessuto si trasforma in rami d'edera e tralci che avvolgono tutto il telaio, e bisce escono sibilando dal cestelli della lana, e vino e miele gocciolano dal soffitto. E intanto la casa tutta trema come scossa da terremoto e chiaror di fiaccole si sparge ovunque e si odono ruggiti di belve. Invano, le sorelle cercano un rifugio. Ma, all'improvviso si sentono prese da bacchico furore e afferrato il tenero bambino d'una di loro, Ippaso, lo dilaniano come un cerbiatto e poi, coronate d'edera, corrono a unirsi su pei monti alle altre donne, che rifuggono però inorridite dalla compagnia di quelle donne sozze di sangue umano.

LE PRETIDI
Preto, figlio di Abante re di Argo, e di Aglea, figlia di Mantineo, si spartisce l'Argolide con il fratello gemello Acrisio; questi regna su Argo e Preto su Tirinto. Dalla moglie Stenebea, figlia di Iobate, Preto ha le pretidi e, molti anni dopo, Megapente. Quando Preto si trova ancora ad Argo, le pretidi impazziscono. All'origine della follia vi sarebbe un'offesa arrecata a Era sulla cui natura esistono differenti versioni: le pretidi avrebbero affermato di essere più belle della dea o avrebbero detto che il palazzo del loro padre conteneva più ricchezze del tempio della dea o avrebbero rubato l'oro che adornava una veste di Era. Alcuni autori sostengono che non soltanto le pretidi furono colte da follia ma anche molte donne argive. Erodoto, ad esempio, non nomina né Preto né le figlie, ma parla di donne in generale. Nell'Epinicio XI di Bacchilide, in onore di Alessidamo da Metaponto, le pretidi vengono descritte in fuga dalla casa del padre, mentre si dirigono verso i monti in preda a terribili urla, a causa della follia suscitata in loro da Era. Preto supplica Artemide di guarirle e per questo fa edificare un tempio a Tirinto in onore della dea. Sembra che nella lro follia le pretidi credessero di essere delle vacche, ne imitavano il muggito e vagavano per i monti e per i boschi dell'Argolide e dell'Arcadia.

LE DANAIDI
Le cinquanta figlie di Danao, re di Argo, accompagnarono il padre ad Argo quando questi fuggì dalla Libia, temendo i cinquanta figli del fratello Egitto. Egitto manda i suoi figli con l'ordine di non tornare in patria prima di aver punito Danao e e le figlie. Appena giunti, essi pregano Danao di dimenticare i vecchi dissapori e di concedere loro in spose le sue figlie, ben decisi a ucciderle la notte delle nozze. Danao rifiuta e i figli di Egitto stringono allora Argo d'assedio. Nella cittadella argiva non vi erano sorgeti d'acqua e, benché le Danaidi in seguito inventassero l'arte di scavare pozzi e provvedessero a scavarne parecchi in città, Danao si rese conto che avrebbe dovuto arrendersi per sete e promise dunque di fare ciò che i figli di Egitto gli chiedevano, purché levassero l'assedio. Viene stabilita la data delle nozze e Danao sceglie i mariti per ciascuna delle sue figlie, lasciandosi guidare dal caso. Durante la festa nuziale, Danao consegna alle figlie dei lunghi spilloni che esse dovevano celare nei loro capelli; a mezzanotte ciascuna di esse trafigge il cuore del proprio sposo. Soltanto uno sopravvisse: per consiglio di Artemide, Ipermestra salva la vita di Linceo che aveva rispettato la sua verginità, e lo aiuta a fuggire. Le teste degli uomini assassinati furono sepolte a Lerna e i loro corpi ebbero solenni esequie ad Argo; ma benché Atena ed Ermete avessero purificato le Danaidi nella Palude di Lerna col permesso di Zeus, i Giudici dei Morti le condannarono a riempire in eterno d'acqua un orcio bucato.

danaidi

Le Danaidi

ESODO
Per concludere, voglio ricordare che la tragedia greca era caratterizzata da tre aspetti: religioso, politico e agonistico e che essi si integravano a vicenda nell'evento teatrale, la cui concezione risultava dunque ben più complessa e globale di quella che noi, oggi, abbiamo del teatro. La dimensione spettacolare non costituiva tanto il fine, quanto la forma che assumeva l'occasione teatrale, la quale era al tempo stesso rito, assemblea e gara.
Sarebbe un quadro incompleto se non considerassimo tra i succitati aspetti anche il momento culturale: quello in cui l'uomo affronta la folgorante rivelazione della dimensione tragica dell'esistenza, e dei contrasti insanabili, comunque essi si manifestino, che minano alla base la convivenza umana. Questa scoperta trova nel dramma il proprio veicolo naturale d'espressione: poiché l'azione sorge dalla volontà e da questa egualmente sorge il male di vivere. La tragedia nasce quando l'uomo scopre che nell'azione teatrale gli è permesso di vivere un'altra realtà, e che che in questa gli è possibile esprimere la grande terribile verità che gli si è rivelata: che la vita è un'inspiegabile dolore e che il male prevale sul bene.

Eugenio Caruso
5 settembre 2014

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