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L'estinzione dei dinosauri di stato. Gli anni ottanta


L'immaginazione è la prima fonte della felicità umana
Leopardi, Zibaldone


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Il paese negli anni ottanta
Negli anni Ottanta la DC, preoccupata di difendere il proprio ruolo di partito-padrone, e la sinistra, ancorata a teorie economiche superate, ampliano a dismisura la sfera pubblica dell’economia, riversando in essa inefficienza, improduttività, assistenzialismo e garantismo, con la conseguenza di rendere asfittici importanti settori industriali in mano pubblica e di porli nelle condizioni di non poter competere sul libero mercato. Il risparmio privato viene drenato dai titoli di Stato, l’esosità e l’iniquità del prelievo fiscale e l’evasione sono ai limiti della tolleranza.
Nel 1986 Antonio Martino e altri liberisti, con lo slogan profetico «Siamo prossimi a una situazione in cui l’unica alternativa alla riforma fiscale è la rivolta», organizzano il Movimento di liberazione fiscale, che riesce a portare in piazza decine di migliaia di manifestanti. La reazione dell’establishment è quella di tacciare il movimento di qualunquismo; ancora una volta viene messa la sordina alla protesta delle classi moderate. Secondo le stime dell’Ocse, l’Italia è l’unico dei Paesi industrializzati in cui lo stipendio netto del lavoratore dipendente è meno della metà del costo complessivo del lavoro. Vent’anni dopo gli “zar rossi” della comunicazione daranno la colpa al Governo Berlusconi. D’altra parte, dal 1980 al 1990 le spese del settore pubblico sono andate aumentando più di quanto sia cresciuto il Pil. Gli strumenti della gestione partitocratica sono la ricerca del consenso, la tecnica del mostrare i muscoli ai deboli e rispetto ai forti e il travaso nel debito pubblico di qualsiasi problema. Ogni manovra economica di una certa rilevanza viene approvata dopo infiniti patteggiamenti tra le correnti della DC, tra i partiti di Governo e l’opposizione, rispettando le “regole della concertazione con le parti sociali”: Confindustria, Intersind, Confcommercio, sindacati dei lavoratori e dei pensionati. La responsabilità delle decisioni viene così diluita tra più soggetti, con il risultato che, dopo aver mediato, stemperato e annacquato, gli obiettivi originari, che avevano suggerito la manovra, si perdono per strada. Il Paese viene gestito con l’approvazione di leggi disordinate e aggrovigliate.
La povertà del nostro sistema industriale è evidenziata, all’inizio degli anni Novanta, dalla classifica delle prime 100 società industriali della comunità europea: solo 6 sono italiane, contro le 34 tedesche, le 28 francesi, le 20 inglesi, le 5 olandesi e 2 anglo-olandesi. Delle 6 italiane, 2 sono private e 4 sono pubbliche, a dimostrazione che la mano pubblica non solo non ha saputo creare in Italia un importante comparto industriale, ma ha strangolato anche le possibilità di crescita della grande industria privata.
Tra il 1988 e il 1989 era maturata l’operazione di costituzione di Enimont. Alla joint venture erano state conferite, dai privati la Montedison e dall’Eni l’EniChem, un raggruppamento di aziende super-indebitate (in cambio il Governo avrebbe dovuto concedere alla joint venture 1.200 miliardi di agevolazioni fiscali). “L’accordo tra gentiluomini” stipulato tra Gardini e il presidente dell’Eni, Franco Reviglio, in base al quale i due soci avrebbero dovuto mantenere solo il 40% delle azioni ciascuno, consentendo un controllo paritetico della società, viene rotto da Gardini che fa rastrellare in Borsa, da amici, l’11% di azioni Enimont, azioni che sommandosi alle sue gli danno il controllo della società. Purtroppo per lui, il 2 agosto 1990 scoppia la Guerra del Golfo e il prezzo del petrolio sale da 15 a 30 dollari il barile. Le società chimiche entrano in crisi e più di tutte Enimont, che perde tra i 60 e gli 80 miliardi al mese, mentre l’Eni vede aumentare repentinamente il valore delle proprie concessioni in Africa. Per di più la privatizzazione di Enimont è duramente osteggiata da Andreotti. I tempi sono quindi maturi perché Gardini, dopo un duro braccio di ferro, ma sostenuto da Cuccia, venda la quota Montedison di Enimont all’Eni, che, oltre ai 2.805 miliardi versati a Montedison, spenderà 1.400 miliardi per un’Opa verso gli azionisti di minoranza. Per spuntare la bella cifra di 2.805 miliardi Gardini deve passarne 150 ai cinque partiti di Governo: la più colossale mazzetta nella storia della corruzione italiana.
Fortunatamente per il nostro Paese, l’inesauribile e vitale mano dell’iniziativa privata riesce a mantenere in piedi il tessuto delle piccole e medie imprese, che costituisce una realtà del nostro sistema produttivo citata come esempio anche dagli economisti di altri Paesi. Il Premio Nobel per l’Economia Douglass North afferma che il successo del mondo occidentale poggia su due principi: una grande flessibilità, che crea adattabilità e quindi efficienza, e il decentramento, grande eredità delle città-Stato, che valorizza le responsabilità individuali e la competitività. Questi principi, in Italia, restano patrimonio quasi esclusivo dei «produttori d’innovazione», secondo Schumpeter, e cioè di quegli imprenditori che guidano la propria impresa basandosi su pochi e chiari concetti: tenere il passo della concorrenza, utilizzare strutture snelle, contenere i costi e produrre utili. La fantasia, la cultura e il gusto dei nostri imprenditori riesce inoltre a imporre in tutto il mondo la moda e il design italiani, cosicché settori come quello tessile e dell’abbigliamento, nonostante la concorrenza dei Paesi a basso costo della manodopera, mettono a segno risultati di rilievo.
Ma, come afferma sempre Douglass North, in una società governata da un sistema che genera inefficienza e nella quale l’instabilità politica è la norma, la corruzione diventa il surrogato delle regole, essa diventa cioè l’elemento equilibratore che produce efficienza; così la piccola come la grande impresa, riescono a sopravvivere all’esosità del fisco e all’inefficienza dei servizi e della PA ricorrendo alla corruzione di militari della Guardia di Finanza e di amministratori a livello locale e nazionale.
Lo Stato, che pure riesce a sconfiggere il terrorismo politico, continua a trascurare due altri gravi fenomeni eversivi: il “Governo invisibile” che – con i servizi “deviati”, le logge segrete, banchieri malavitosi e affaristi senza scrupoli – attenta alla sicurezza della democrazia, e la mafia che, radicata in Sicilia e in Calabria, ove esercita un vero e proprio “controllo del territorio”, ha ampliato il suo raggio d’azione a tutto il Paese. Afferma Giovanni Falcone che all’inizio degli anni Settanta lo scenario mafioso e i suoi protagonisti erano ben identificati, eppure nelle stesse istituzioni si dissertava tra mafia buona e mafia cattiva, di preconcetti del Nord, di fenomeno criminale orizzontale, c’erano gli scettici e gli agnostici.
Nel disinteresse della politica, durante gli anni Settanta «tutti i migliori magistrati, o quasi, e il grosso delle forze dell’ordine sono impegnati nella lotta contro le Brigate Rosse e altre organizzazioni terroristiche. Pochi si interessano di mafia. Proprio allora prende il via il traffico di stupefacenti e la mafia si trasforma nella potenza che è oggi. Grave quindi l’errore commesso in un momento in cui si disponeva di tutte le informazioni e condizioni per capirla e combatterla. Il passaggio da una mafia poco attiva in campo economico a una mafia sempre più aggressiva si consuma tra il 1974 e il 1977» (Falcone, 1991). La mafia – corrompendo e minacciando il potere politico, terrorizzando e ricattando gli operatori economici, effettuando un efficace “controllo del territorio” – inaridisce le fonti della produzione e strangola l’economia del Sud. I progetti dei primi meridionalisti, che pensavano alla California dell’Europa, affondano nelle sabbie mobili dell’omertà, della corruzione, dell’incapacità di ricreare quel distillato di creatività e mercantilismo della polis greca.
Falcone affermava che la mafia rappresenta in Sicilia uno Stato nello Stato, con le sue regole, leggi, codici e punizioni e che per i siciliani lo “Stato della mafia” funziona meglio dello Stato italiano. «Non può destare quindi meraviglia la scoperta di uomini politici che accettano di venire discretamente a patti con Cosa Nostra, dal momento che il controllo del territorio significa anche condizionamento del potere politico; con tutte le conseguenze elettorali immaginabili. La mafia controlla gran parte dei voti in Sicilia» (Falcone, 1991).
La mafia, negli anni Settanta-Ottanta, fa un gran salto di qualità, estende i suoi tentacoli al mondo dei grandi appalti e della speculazione finanziaria, approfittando del fiume di denaro che da Roma arriva nel Sud. Gli “uomini d’onore” non si accontentano più di estorcere la tangente, ma diventano essi stessi imprenditori. Nel luglio 1984, esattamente un anno dopo che un’autobomba ha fatto strazio di Rocco Chinnici, giudice che non aveva mai smesso di braccare la mafia, viene arrestato in Brasile Tommaso Buscetta. Il pentito di mafia, durante il primo incontro con il giudice Falcone, afferma: «L’avverto signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. […] Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?» (Falcone, 1991). Da quell’interrogatorio nasce il maxiprocesso del 1986.
Falcone è estraneo sia ai magistrati “militanti”, sia ai magistrati “corporativi”, è fuori del branco; è critico nei confronti dell’Associazione nazionale magistrati, che ricambia l’avversione. Quando si tratta di nominare il procuratore generale antimafia Falcone sembra ovviamente il candidato naturale; Magistratura Democratica e Pci gli scatenano contro una violenta campagna denigratoria. D’altra parte, nel 1990 Falcone esprime questo parere: «Il Csm è diventato, anziché organo di autogoverno e garante dell’autonomia della magistratura, una struttura di cui il magistrato si deve guardare […] con le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica». Falcone, come Dalla Chiesa, contestato da vivo, sarà santificato solo da morto. Il magistrato confiderà a un giudice amico, qualche giorno prima della strage di Capaci: «Mi stanno delegittimando. È il primo passo. Cosa Nostra fa sempre così, prima insozza la sua vittima, e poi la fa fuori. Questa volta mi ammazzano sul serio».
L’Italia gode, negli anni Ottanta, di un periodo di benessere, ma solo in pochi ne avvertono le deboli fondamenta. Esso è in gran parte frutto dell’indebitamento pubblico e il tenore di vita degli italiani è superiore alle reali disponibilità economiche del Paese. Il cattivo esempio offerto dallo Stato genera negli italiani una predisposizione al consumismo, basato sulla soddisfazione dei bisogni secondari, che ha pochi riscontri nel mondo. L’ubriacatura di beni di consumo produce l’illusione di potenza, di libertà, di autodeterminazione, innesca un meccanismo di superiorità dell’apparire sull’essere, dell’individuo sulla società, esalta la futilità e le doti negative del cinismo e dell’opportunismo. La cultura, che dovrebbe mettere in guardia gli italiani, venera gli dei audience e televisione; le librerie sono piene di volumi di personaggi dello spettacolo e della politica.
Dopo decenni di vacatio legis del comparto televisivo e di un’anarchia che ha visto trionfare la legge del più forte, nel luglio 1990, nonostante la resistenza della sinistra DC che esce compatta dal Governo, due partiti trasversali – quello Rai e quello Fininvest – si accordano e viene approvata a larghissima maggioranza la legge Mammì, che sancisce il duopolio televisivo, caso unico al mondo. Il Parlamento italiano dimentica, in quest’occasione, che la libertà di informazione è il presupposto per ogni altra libertà, e che essa può trovare un’effettiva attuazione solo nel caso in cui non vengano create barriere all’accesso. Karl Popper afferma: «La televisione è diventato un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i principi della democrazia»; quando poi questo potere è un oligopolio, esso contraddice non solo i principi della democrazia ma anche quelli dell’economia (Popper, 1994).

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22 ottobre 2014

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.


Tratto da L'estinzione dei dinosauri di stato

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