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Significato e rilevanza del capitale sociale


La felicità non è nelle cose è in noi.
R. Wagner


Conclusa la prima decade del secolo, l’Italia continua a restare impaniata in una fase di declino, accentuata - ma non certo originata - dalla crisi finanziaria mondiale scoppiata nell’estate 2008. Il fallimento della Lehmann Brothers, il 15 settembre di quell’anno, ha chiuso simbolicamente il secondo trentennio del dopoguerra, quello che dal 1978 aveva seguito i “trenta gloriosi” all’insegna della riscossa del mercato contro lo stato. Oggi, in questa nuova fase che ridefinisce radicalmente le gerarchie nella political economy internazionale, in Europa e negli Stati Uniti lo stato si è preso un’amara rivincita sul mercato, andando in soccorso delle istituzioni finanziarie a rischio di fallimento. Per l’Italia tutto ciò ha reso ancora più gravi i problemi sia sul versante dello stato, sia su quello del mercato. Da un lato i vincoli stringenti imposti dal debito pubblico, accumulato negli anni ottanta e tornato ai suoi massimi per arginare la crisi di oggi; dall’altro lato la perdita di competitività della struttura industriale.
Questo rapido richiamo alla congiuntura serve per introdurre l’importanza della nozione di capitale sociale, in generale - ai fini della governabilità delle società complesse - e più in particolare per il nostro Paese, in cui anche questa dimensione presenta caratteri di peculiarità. Si tratta di un concetto particolarmente fecondo per rendere conto delle difficoltà dell’oggi, delle contraddizioni che rendono difficile trovare vie d’uscita dalla crisi, delle perplessità che accompagnano le possibili soluzioni che la politica prospetta, come l’attuazione di ordinamenti federali.
Questa voce del Lessico si articola dunque in quattro sezioni. In apertura viene presentata e discussa la nozione di capitale sociale, corredata delle indispensabili coordinate analitiche per un uso non meramente evocativo e allusivo del lemma. Segue, suddivisa in due sezioni, la presentazione del quadro empirico disponibile sulla distribuzione territoriale di questa risorsa, che disegna una frattura tra Nord e Sud grave almeno quanto quella dovuta alla struttura economica e alla differenza di reddito pro capite. La quarta e ultima parte è dedicata alla relazione tra dotazione di capitale sociale e qualità delle istituzioni locali, sia in termini analitici, sia in termini empirici.
Il capitale sociale come tesoro di tutti
In questi anni è diventata ricorrente l’espressione “capitale sociale”. Si tratta di un concetto che studiosi della società, della politica e dell’economia utilizzano per comprendere in modo sintetico una varietà di fenomeni che influenzano sia la qualità del nostro vivere associato, sia il benessere degli individui, sia gli scambi di mercato. La metafora del capitale è trasparente: si tratta di una risorsa capace di generare ricchezza, e in questo affine alle forme canoniche di capitale (le macchine, le risorse finanziarie, le conoscenze tecniche).
Robert Putnam ha reso popolare la nozione di capitale sociale nel suo studio sul rendimento delle istituzioni regionali in Italia, sintetizzando così gli aspetti richiamati sopra:
Per capitale sociale intendiamo qui la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l'efficienza dell'organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo… il capitale sociale facilita la cooperazione spontanea.
Se osserviamo la società con la lente del capitale sociale apprezziamo come nella trama minuta e quotidiana delle relazioni sociali – informali o formalizzate in associazioni – sia implicito (embedded) un accumulo di potenzialità positive delle quali beneficiano anche i soggetti che godono di minori relazioni sociali o si impegnano meno nel costruirle; in un quartiere dove la maggior parte dei residenti tengono d’occhio anche le case dei vicini, tutti gli abitanti si sentono più sicuri, anche i più distratti o assenti. Attraverso la nozione di capitale sociale si istituisce dunque un preciso nesso micro-macro. Ci guadagnano i singoli e ci guadagna la comunità nel suo complesso.
Occorre comunque segnalare l’ambiguità di questo modo di vedere il capitale sociale come un meccanismo di accumulazione per aggregazione, per cui il vantaggio della comunità è costituito dalla sommatoria dei vantaggi individuali. Questo modo di porre il nesso micro-macro finisce per accedere a una concezione strumentale del capitale sociale, considerato come una disponibilità di risorse utili per i singoli. Il capitale sociale invece non è il capitale di relazioni sociali che un individuo può vantare e utlizzare per i suoi scopi. Questa assimilazione pecca di razionalismo: è da considerare cioè come un’espressione tipica di un’antropologia “parsimoniosa”, che soffre dei limiti magistralmente evidenziati da Hirschman nella sua discussione dell’abuso delle semplificazioni dell’economia: gli esseri umani danno senso alla vita non solo attraverso il perseguimento degli interessi ma anche, ad esempio, attraverso l’amore e il senso civico, beni radicalmente antieconomici, la cui disponibilità cresce quanto più li si pratica. Occorre dunque riconoscere nei valori e nella natura normativa dei legami comunitari la soluzione del mistero della cooperazione spontanea tra gli individui. Un’antropologia a una dimensione vede il capitale sociale solo come un’aggregazione di utilità individuali, le quali entrano in comunicazione mediante la rete sociale. La dimensione oblativa, la subordinazione del tornaconto personale agli interessi collettivi, il rispetto delle regole nella convinzione che gli altri faranno lo stesso, non potendo essere considerati l’esito aggregato di utilità individuali, restano fuori del quadro. Solo un’antropologia non parsimoniosa permette invece di accettare la coesistenza necessaria tra le due componenti – razionalità e valori – che orientano in modo differente l’azione degli esseri umani, capaci sia di agire in una logica atomista – ad esempio come attori in un’arena, caratterizzata da competizione e calcolo – sia in una logica olista, mossi da amore, fede, appartenenze comunitarie e identità collettive. Considerare i valori come materia prima del costrutto del capitale sociale è l’unico modo per uscire dal paradosso dell’azione collettiva. Gli individui entrano in relazioni cooperative gli uni con gli altri quando si riconoscono reciprocamente come fini e non come mezzi. Questo non implica in alcun modo una visione romantica e idealizzata, non evoca eroismo o vocazione al sacrificio. Si tratta della “banale” natura dei valori nell’orientare le azioni individuali, che peraltro non esclude la capacità degli esseri umani di usare la loro rete di relazioni sociali in vista dei propri scopi.
Costruire capitale sociale diventa un beneficio piuttosto che un costo se e in quanto il singolo individuo è inserito in uno specifico orizzonte di moralità che trasfigura gli altri come valori. Detto in altri termini: la natura normativa del capitale sociale consiste nella diffusione di un senso di obbligazione e di responsabilità verso gli altri come elementi del repertorio di normalità codificate in una cultura, quegli “assunti dati per scontati” che orientano l’azione individuale senza diventare scelte consapevoli.
Precisata in termini analitici la natura culturale e normativa del capitale sociale, occorre aggiungere che, oltre ai vantaggi, esso presenta allo stesso tempo i limiti di una comunità ricca di relazioni e di obbligazioni reciproche. Come osservano Coleman e Putnam, il capitale sociale non è priivo di lati oscuri, soprattutto quando i confini della comunità sono ristretti, la pressione al conformismo ostacola i processi di innovazione e gli estranei vengono percepiti come potenziali minacce. Decisivo diventa quindi il raggio della fiducia ovvero l’ampiezza dei vincoli di reciprocità e di responsabilità. In società totalmente mobilitate dallo stato e dal mercato come i paesi avanzati, il capitale sociale che serve è quello che tende a far coincidere i confini della comunità con quelli della struttura politico-istituzionale, o almeno non prevede limiti comunitari di più ristretto raggio che vengono vissuti in alternativa all’orizzonte dello stato.
Localismi, familismi e corporativismi, con le rispettive solidarietà escludenti, sono espressioni di capitale sociale che aggravano, più che risolvere, i problemi di governance delle società complesse. E’ su questo punto che diventa rilevante la definizione di Putnam del capitale sociale come “comunità civica”, in cui è diffuso un elevato senso civico (civicness), ovvero un orizzonte culturale congruente con gli assetti istituzionali di una democrazia e di un mercato efficienti: elevato senso di corresponsabilità interpersonale ad ampio raggio, diffuso rispetto delle norme informali e formali, un certo grado di informazione e competenza politica, identificazione con l’assetto istituzionale.
Dunque la civic-ness non è altro che il terzo puntello quello culturale necessario per tenere in equilibrio una società democratica avanzata, in cui cioè stato e mercato sono, ciascuno nel suo ambito, efficienti: il primo è capace di assicurare sicurezza, ordine, garanzie di libertà ed eguaglianza, dunque diritti di cittadinanza; il secondo è in grado di produrre profitti e lavoro, ricchezza e beni - dunque entrate fiscali per lo stato.
Un capitale sociale che alimenta i valori di condivisione della responsabilità verso gli altri e di lealtà verso le istituzioni, in particolare la partecipazione agli elevati costi della cittadinanza sociale, presenta tre caratteristiche che conviene esplicitare compiutamente:
a) designa qualità antitetiche rispetto a quelle del free rider, cioè di colui che non si sente vincolato da alcuna obbligazione quando gli altri si impegnano per ottenere un beneficio che andrà anche a suo vantaggio;
b) costituisce la declinazione del processo di nation-building aggiornata agli assetti istituzionali delle democrazie del welfare, che esigono da parte dei cittadini un commitment differente dal mero “amor di patria” ottocentesco;
c) Al contempo questo stesso orizzonte culturale non può che riflettersi anche sulla qualità delle relazioni di mercato, determinando il tessuto etico in cui avvengono le transazioni economiche: affidabilità degli attori, rispetto delle regole, ridotta incidenza di comportamenti opportunistici.
Rilevare il capitale sociale nelle province: quattro indicatori
Alla luce delle ricerche comparate disponibili, la dotazione di capitale sociale dell’Italia non risulta particolarmente lusinghiera. Gli italiani risultano in Europa uno dei popoli che ha meno fiducia nei propri connazionali; inoltre tra i grandi paesi europei sono coloro che diffidano di più delle istituzioni dello stato e della democrazia (partiti, parlamento, ecc.).
La precisa eccentricità dell’Italia rispetto al resto dell’Europa occidentale, messa in rilievo dal indagini comparate come quelle dell’Eurobarometro o dei World Value Surveys (Inglehart e Welzel 2005) soffre tuttavia di un limite: occulta l’eterogeneità interna del nostro Paese, che si manifesta in tutte le dimensioni. Giova ricordare chela differenza più evidente e studiata costituisce la maggiore frattura economica di tutta l’Unione europea. Essa infatti è più sensibile di quella ereditata dalla Germania dopo la caduta del Muro, sia in termini di ampiezza del divario, sia soprattutto in termini di quota di popolazione coinvolta. Posta questa eterogeneità interna, i dati medi riferiti all’intero Paese corrono il rischio di essere pure astrazioni statistiche, incapaci di rappresentare compiutamente le differenti realtà che lo compongono, con la conseguenza, ancora più grave, di rendere invisibili le connesse tensioni sociali e politiche, come recentemente ha dimostrato con dovizia di dati Ricolfi.
A parte il divario economico, con le conseguenti differenze in termini di struttura sociale, dipendenza dalla spesa pubblica e tipo di domande politiche, la frattura tra Nord e Sud in termini di capitale sociale è almeno altrettanto rilevante, come già aveva mostrato Putnam comparando le 20 regioni con dati raccolti nel corso degli anni settanta e ottanta. Una nuova indagine è stata, condotta da chi scrive presso l’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna con dati relativi al quadriennio 1999-2002, che ha rilevato il capitale sociale nelle 103 province italiane ricorrendo a quattro ndicatori:
- diffusione della stampa quotidiana
- livello di partecipazione elettorale
- diffusione delle associazioni sportive7; - diffusione di donatori e donazioni di sangue.
I primi due rilevano aspetti della relazione tra cittadini e comunità politica il grado di interesse e di informazione e la partecipazione elettorale,. Gli altri due indicatori mirano a rilevare la dimensione oblativa, ovvero la disponibilità a sostenere dei costi a favore di altri. Si tratta infatti di donare tempo e/o denaro, come dirigenti o allenatori di società sportive, oppure di donare il sangue, cioè se stessi.
I quattro indicatori presentano una correlazione positiva ma non particolarmente forte: la distribuzione sul territorio delle diverse variabili disegna geografie specifiche, per quanto con una somiglianza fondamentale: i valori più alti tendono a concentrarsi a nord della linea che separa Toscana, Marche e Umbria da Lazio e Abruzzo. Le differenze più sensibili sono disegnate dalla diffusione dei quotidiani: a Trieste e Bolzano si vendono i giornali dieci volte più che a Crotone e Foggia. Sulla base dei numeri indice il campo di variazione arriva a 202 punti.
Leggermente inferiore è il divario disegnato in termini di donatori e donazioni di sangue. Da Ravenna a Potenza esiste una differenza di circa 170 punti, in termini più concreti c’è un rapporto di circa 6:1 nel numero dei donatori e delle donazioni di sangue tra le province in testa e in coda alla graduatoria.
Di poco più contenute le differenze tra le province del Nord e quelle del Sud quanto a densità di società sportive. Ad Aosta e Cuneo vi sono cinque volte più società sportive che a Napoli e Vibo Valentia, con un campo di variazione di 141 punti.
Il quarto indicatore utilizzato per rilevare lo stock provinciale di civicness rileva la partecipazione elettorale. E’ stato costruito calcolando la media dell’affluenza alle urne in cinque consultazioni nazionali, che si sono concentrate nel: triennio 1999-2001: le elezioni europee del 1999, le politiche del 2001 e tre referendum. In tal modo si è inteso ridurre il peso della partecipazione elettorale indotta dai legami clientelari, che analiticamente sono da considerare l’opposto della civicness. Legami che praticamente non si possono attivare in occasione di un referendum, dato che non si può attivare lo scambio tra voto e benefici particolaristi, come tempestivamente fu segnalato da Parisi e Rossigià all’indomani della tornata di referendum tenuta nel 1978.
E’ nota da tempo la differente intensità della partecipazione elettorale che contraddistingue le diverse regioni del Paese; tuttavia fra gli indicatori utilizzati, essa risulta la variabile che stabilisce meno differenze tra le province. Non è certo una sorpresa se ai primi posti ritroviamo province emiliane e romagnole e in fondo alla classifica province siciliane e calabresi. La sorpresa è casomai rilevare che il Paese è molto più omogeneo in termini di affluenza alle urne che non rispetto a tutti gli altri indicatori. Posta a 100 la partecipazione media, il campo di variazione tra Bologna e Agrigento è di appena 58 punti in pratica si passa da una partecipazione media del 68,2% degli elettori al 37,4%.
Questo punto non è solo una curiosità statistica. La minore distanza tra Nord e Sud sul piano del comportamento elettorale, molto inferiore rispetto a quella rilevata sugli altri tre indicatori, è da considerare come un riflesso del successo conseguito dalla politica nell’omogeneizzazione del Paese, anche al di là delle innegabili e persistenti differenze in termini di meccanismi della delega politica, radicamento dei partiti di massa, ecc.
L’indice complessivo di capitale sociale
I quattro indicatori descritti in precedenza sono stati sintetizzati in un indice, costituito dalla media dei quattro punteggi conseguiti da ciascuna provincia.
I risultati sono stati ovviamente anticipati dalla discussione precedente, ma vale la pena aggiungere qualche chiosa. L’indice finale produce un campo di variazione di 101 punti, smussando per compensazione le divaricazioni più accentuate prodotte dalla geografia delle donazioni di sangue, delle società sportive e della circolazione dei quotidiani.
La linea di demarcazione più rilevante separa Toscana, Umbria e Marche da Lazio e Abruzzo. A nord di questa linea troviamo solo sei province con valori (di poco) minori di 100. Sono Varese, Vercelli, Treviso e le tre province minori delle Marche. A sud di tale linea solo Pescara ha un punteggio maggiore di 100: A parte è il caso della Sardegna, delle cui quattro province solo Nuoro ha un valore inferiore a 100. Dal punto di vista del capitale sociale la Sardegna non è assimilabile al Mezzogiorno continentale né alla Sicilia. Essa presenta nel complesso uno stock di capitale sociale affine a quello di Umbria e Marche, con Sassari che si colloca al ventottesimo posto della classifica finale, al pari di Verona, Prato, Pistoia e Forlì, grazie all’elevata circolazione di quotidiani.
La Sardegna presenta valori di capitale sociale nettamente superiori alla fascia centro-meridionale continentale (Lazio, Abruzzo e Molise).
I valori più bassi della graduatoria si concentrano nelle regioni dell’estremo Sud. Si tratta soprattutto delle province siciliane, calabresi e campane. In particolare quest’ultima presenta il deficit più uniforme, con le sue province collocate tutte tra le ultime 20. Ragusa è la provincia meridionale con una collocazione più elevata nella graduatoria dell’indice complessivo, collocandosi al sessantatreesimo posto. Tale collocazione è dovuta al numero estremamente elevato di donatori di sangue, che collocano la provincia immediatamente dietro Ravenna su quell’indicatore. Ragusa è l’unica provincia meridionale che compare ai primi posti su uno degli indicatori. Questa particolarità merita un cenno di chiarimento. Il primato di donatori è dovuto alla presenza di un gruppo di attivi capitalisti sociali che negli anni settanta hanno fondato una sede dell’Avis, diventata punto di riferimento per l’intera provincia (in termini di raccolta di sangue) e indispensabile risorsa per i policlinici siciliani (in termini di impiego di plasma, piastrine, ecc.).
L’area del Paese più ricca di capitale sociale è quella compresa tra Mantova e Siena, centrata sull’Emilia-Romagna e con propaggini in Toscana (sei province), Liguria centrale (Savona e Genova) e bassa Lombardia (Mantova e Cremona). Anche sui confini nordorientali si rileva un’elevato stock di capitale sociale (Trieste, Udine e Bolzano, in particolare). Emergono evidenti, quindi, le tracce dei reticoli organizzativi e dei processi di mobilitazione sociale e politica che hanno costituito le due subculture politiche territoriali del Centro-Nord-Est. Si tratta di fenomeni complessi di cui gli studiosi hanno messo in rilievo la multidimensionalità e le ragioni della loro persistenza, che ancora non si è del tutto esaurita, intrecciandosi con originali percorsi di sviluppo economico.
Una notazione finale relativa alle province metropolitane. In termini di stock di capitale sociale, le province metropolitane risultano pienamente integrate nel rispettivo contesto regionale. Ciò vale per Bologna e Firenze, collocate nell’ampia area con la più elevata dotazione di capitale sociale. Ma vale anche per Napoli, Bari e Catania nel Mezzogiorno, dove l’unica eccezione è costituita dalla provincia di Palermo. Milano, Torino e Roma esibiscono valori in piena continuità con tutte le province circostanti. Il capitale sociale risulta quindi una caratteristica relativamente insensibile alla polarità metropoli-provincia.
Capitale sociale e rendimento delle istituzioni
L’esito di quest’indagine non è nuovo. Esso replica infatti in maniera preoccupante i risultati cui era approdata la ricerca di Putnam e collaboratori, ricorrendo a dati che risalivano agli anni settanta e ottanta. I valori regionali di dotazione del capitale sociale rilevati nel periodo 2000-2002 costituiscono, a distanza di 20-25 anni, la replica dell’esito di quella ricerca (il coefficiente di correlazione è pari a +0,93) e attesta una vera e propria cristallizazione delle differenze territoriali su questo tema. Per di più questa frattura nel capitale sociale tende a sovrapporsi ad altre due dimensioni: il reddito pro capite e il rendimento delle istituzioni locali. In termini statistici esiste una correlazione molto forte fra capitale sociale e reddito medio capite (il coefficiente r è pari al +0,81).
Di poco più bassa è la relazione fra capitale sociale ed efficienza delle istituzioni locali, in particolare la percentuale di rifiuti avviati alla raccolta differenziata.
Il coefficiente di correlazione è pari a +0,65. Quest’ultima variabile, per quanto appaia una dimensione secondaria rispetto all’intero ventaglio delle prestazioni delle istituzioni pubbliche, presenta un rilievo sistemico tutt’altro che secondario, per quattro motivi:
a) un efficiente smaltimento dei rifiuti costituisce un bene pubblico che lo stato garantisce fin dalla sua più antica formazione, dal momento che mette in gioco la salute della popolazione;
b) la capacità di raccogliere, gestire e smaltire i rifiuti costituisce una prova del controllo che lo stato riesce a esercitare sul territorio;
c) nella società consumista e opulenta di oggi, il problema dei rifiuti ha assunto un grande rilievo. La sua soluzione soddisfacente può essere ottenuta solo con il consenso dei cittadini, come la disponibilità ad accettare impianti di smaltimento o l’adesione a campagne di raccolta differenziata;
d) la raccolta differenziata costituisce una manifestazione banale della relazione tra cittadini e istituzioni, perfettamente in linea con le banali manifestazioni di capitale sociale che sono state rilevate e presentate in precedenza.
Dunque esiste una geografia sostanzialmente sovrapposta di queste dimensioni distinte – redditi, capitale sociale, efficienza delle istituzioni. Le variazioni territoriali tendono a sovrapporsi lungo il gradiente Nord-Sud. Mediante un disegno della ricerca sincronico è difficile distinguere tra cause ed effetti; è possible invece riconoscere l’esistenza di processi di casualità circolari, per cui reddito, capitale sociale e rendimento delle istituzioni sono a un tempo cause ed effetti di configurazioni che hanno trovato un equilibrio difficile da rompere, data la persistenza nel tempo del molteplice divario tra province settentrionali e meridionali.
Nel caso delle province settentrionali si può ritenere che l’equilibrio sostenga un circuito relativamente virtuoso: un elevato capitale sociale sostiene la crescita economica e la qualità delle istituzioni, la cui efficienza alimenta a sua volta le fonti del capitale sociale e dello sviluppo.
Nel caso delle province meridionali il circolo tende a mantenere queste aree in uno stallo fatto di carenza di capitale sociale, ridotti margini di sviluppo economico endogeno e cattiva qualità delle istituzioni, che generano diffidenza, scoraggiano le iniziative economiche e al contrario alimentano la ricerca di protezioni politiche in grado di offrire benefici clientelari invece che beni pubblici.
Le floride realtà di Parma, Mantova, Trieste, Bologna e Siena – in cui si cumulano capitale sociale, efficienza delle istituzioni e ricchezza diffusa – garantiscono ai cittadini un’elevata qualità della vita, oltre che redditi e servizi non lontani dagli standard europei. Difficile pensare a mondi più lontani dalle province della Calabria e della Sicilia interna, per tacere della drammatica situazione di Napoli e Caserta, in cui la banalità della raccolta dei rifiuti si trasforma in un problema insoluto dal 1994.
Calcolati fra tipi di contesti locali così differenti, i valori medi nazionali sono condannati all’insignificanza. La misura statistica più interessante, per il policy-maker dovrebbe essere la varianza, molto più della media. Ma il vero dramma italiano sta nelle covarianze. Non ci sono solo divari accentuati sulle singole dimensioni (reddito, efficienza, cultura civica); ci sono soprattutto forti correlazioni che attestano l’esistenza di causalità circolari e che congiurano contro la possibilità di agevoli soluzioni.
Non è un caso che nella parte terminale della classifica si concentrino le province in cui più rilevante è la presenza di quei mondi paralleli che solo un colpevole eufemismo, pavido e interessato, può insistere a definire come “criminalità organizzata”. E’ questo il mondo che congiura contro la costruzione di capitale sociale, alimentando assetti fondati sulla forza, sulla paura e la concessione di favori da parte dei potenti. Esattamente il contrario degli assetti democratici che presiedono alla promozione dei diritti di tutti.
Certamente non tutto il Mezzogiorno è vittima delle mafie – il caso di Ragusa è esemplare in questo senso, così come in maniera esemplare dimostra che il cambiamento è possibile. Tuttavia, al di là delle mafie variamente denominate, resta pur sempre un problema di qualità della classe politica locale, che da decenni risulta incapace di trasformare in beni pubblici e sviluppo le ingenti risorse dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno prima e dei fondi europei poi.
A questo punto emerge un interrogativo di natura politica e istituzionale. In seguito al successo della Lega nell’imporre nell’agenda politica la tematica del federalismo. in Italia quasi tutte le forze politiche hanno abbracciato, almeno sul piano delle retoriche, il valore del federalismo e della riduzione dei vincoli della periferia con il centro, additato a vero colpevole delle inefficienze e degli sprechi dell’amministrazione pubblica. Sono nate così – a destra come a sinistra – una serie di riforme istituzionali e costituzionali tese a indebolire i robusti legami che fin dalla sua formazione lo Stato italiano ha istituito con la periferia – come controllore ma anche come fornitore di risorse. L’agenda politica che prevede l’attuazione del federalismo fiscale, ad esempio, non può che suscitare preoccupazione per le possibili conseguenze nelle regioni meridionali.
Il quadro delle profonde differenze tra regioni settentrionali e meridionali che è emerso in questi anni, anche grazie alle ricerche sul capitale sociale e sul rendimento delle istituzioni, avrebbe dovuto suggerire maggiore cautela. Una maggiore attenzione agli esiti di queste ricerche, e prima ancora una più attenta osservazione delle dinamiche degenerative che la politica meridionale – e meridionalista – ha innescato in questo dopoguerra, avrebbero dovuto suggerire interventi ben diversi. L’esile armatura della società civile del Mezzogiorno e la inefficienza delle amministrazioni regionali e locali meridionali sono fatti ben noti da decenni. e consiglierebbero la massima prudenza nell’allentare i legami tra centro e periferia, quanto meno attuando le nuove misure con gradualità e a geografia variabile.
La formazione di una classe politica meridionale responsabile e orientata alla produzione di beni pubblici non si è realizzata nei decenni della Prima Repubblica in condizioni assai più felici di oggi, quando i partiti erano gli attori politici forti, costituivano i più efficaci strumenti di unificazione nazionale e potevano gestire risorse abbondanti. Appare davvero ingenuo credere che una severa lezione di federalismo possa far emergere una nuova classe politica - onesta, efficiente e lungimirante - proprio oggi, in tempi di risorse mai così scarse e di partiti deboli, quindi molto più permeabili alle domande clientelari e alle pressioni di ambienti contigui a mafie e camorre.

29 ottobre 2014

Roberto Cartocci


Tratto da

1

www.impresaoggi.com