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La trappola della stagnazione


Dipenderai meno dal futuro se avrai in pugno il presente.
Seneca, De vita beata


Conversazione con Michael Spence e Kemal Dervis
ASPENIA.
La crisi finanziaria esplosa nel 2008, divenuta una crisi economica semiglobale, si è negli anni trasformata in una “grande recessione”. Abbiamo a lungo discusso della probabilità di una lenta ripresa, di una “recessione a W” (seguita prima da un rimbalzo del pil e poi da un’ulteriore calo), di una ripresa senza lavoro, di un “ritorno alla normalità” asimmetrico, e delle relative politiche da adottare per affrontarne le conseguenze. Oggi però sembra che lo scenario che abbiamo di fronte sia completamente diverso: la “nuova normalità” potrebbe essere una situazione di ristagno dei tassi di crescita in tutte (o quasi tutte) le economie più mature. Si tratta di una conclusione prematura? È quantomeno prudente preoccuparsi delle implicazioni di uno scenario sistemico (e quindi non ciclico) di questo tipo?
SPENCE.
Di sicuro non è uno scenario ciclico, ma in effetti questa conclusione è prematura. Una ripresa sostenuta, anche se dovesse manifestarsi, indubbiamente non avverrà in tempi rapidi. Secondo la mia ipotesi, in Europa potrebbero essere necessari tra i tre e i cinque anni per ripristinare una crescita e dei livelli occupazionali sostenibili. Se sarà questo lo scenario, o se invece avremo un periodo molto più lungo di crescita molto bassa, dipenderà dalla realizzazione o meno delle riforme fiscali e strutturali, dalle misure adottate dalla Banca centrale europea per evitare la deflazione, immettere capitali nell’economia e indebolire l’euro, e dall’eventuale politica di sostegno alla crescita dell’ue, che sarà subordinata all’attuazione delle riforme. In più, le crisi in Medio Oriente, in Ucraina e in altre parti del mondo potrebbero avere un impatto nel settore energetico. In generale, l’economia globale risentirà – resta da vedere se in positivo o in negativo – di quello che accadrà negli Stati Uniti, in Asia ecc.
DERVIS.
Larry Summers e Robert Gordon hanno teorizzato delle versioni leggermente differenti di un nuovo tipo di “stagnazione secolare” nelle economie avanzate. La versione di Summers (ispirata a una precedente teoria esposta da Alvin Hansen) fa riferimento a una sorta di trappola della liquidità keynesiana, in cui i tassi di interesse reali che sarebbero necessari per bilanciare i risparmi e gli investimenti auspicati sono così bassi da non poter essere conseguiti, se si tiene conto del fatto che i tassi nominali non possono essere negativi e della circostanza che l’inflazione è molto bassa: i tassi di interesse, per quanto possano scendere, sono bloccati su livelli troppo alti perché il prodotto interno lordo reale possa raggiungere il suo livello potenziale. La versione di Gordon fa riferimento piuttosto a un rallentamento della crescita del pil potenziale, dovuto a fattori demografici, ad alti livelli di debito che deprimono gli investimenti e a un possibile rallentamento nel lungo periodo del progresso tecnologico, almeno rispetto ai ritmi serrati registrati a metà del xx secolo. Un rallentamento della crescita del pil potenziale potrebbe naturalmente ridurre il desiderio di investire e, di conseguenza, in presenza di risparmi desiderati su livelli costanti potrebbe sfociare nella “stagnazione di Summers”. Nonostante vi siano segnali di entrambi i tipi di stagnazione nelle economie avanzate, molto dipenderà dalla possibilità che la nuova ondata di tecnologie legate allo sviluppo di macchine intelligenti produca invece una nuova e più ampia accelerazione della crescita della produttività. Su questo punto c’è un’accesa discussione e i giudizi sono discordi. Un’altra dimensione del dibattito riguarda le economie emergenti. Una nuova e più forte domanda di investimenti da parte loro potrebbe aiutare le economie avanzate a crescere più rapidamente. Nel contesto di uno scenario simile, se il passato può insegnare qualcosa, una tipica via d’uscita dalle precedenti crisi è stata la guerra. Vasti conflitti tra Stati, come le due guerre mondiali, hanno funzionato da acceleratori per grandi cambiamenti e innovazioni in ambito economico. È uno scenario plausibile, a fronte delle migliori conoscenze in campo economico di cui disponiamo oggi?
SPENCE.
Alcuni studi indicano, effettivamente, che dopo le guerre si possono verificare investimenti diffusi in grado di sostenere una crescita di lungo periodo.
DERVIS.
È vero che le guerre hanno stimolato l’innovazione in passato, ma hanno anche provocato distruzioni enormi. Ci sono modi di gran lunga migliori per stimolare l’innovazione. Molti continuano a ritenere che la vera chiave della crescita sia il progresso tecnologico, inteso sia nella sua versione più graduale sia in quella più dirompente delle grandi rivoluzioni tecnologiche, come la rivoluzione industriale o quella informatica. È ancora così? Oppure siamo arrivati a un punto in cui il cambiamento tecnologico è troppo diffuso e ampio per generare una crescita immediata, cioè è ancora importante ma non più sufficiente? In altri termini, stiamo esaurendo il potenziale della tecnologia come acceleratore di una crescita diffusa per le classi medie, avendo già raccolto i frutti ormai maturi del progresso tecnologico?
DERVIS.
Effettivamente, è questa la domanda cruciale nel lungo periodo, e in realtà non conosciamo la risposta. Una nuova era di macchine intelligenti riuscirà a innescare un miglioramento della qualità della vita paragonabile a quello generato dal motore a combustione interna o dall’invenzione dell’elettricità? E cosa significherà questo sul piano dell’organizzazione della produzione e del lavoro? È l’Europa il vero cuore del problema? Dopo tutto, gli Stati Uniti sembrano essere ancora in grado di generare una significativa crescita del pil, nonostante i persistenti problemi in termini di occupazione. Si può parlare di un “male oscuro” europeo (o piuttosto dell’eurozona, vista la parziale eccezione rappresentata dalla Gran Bretagna)?
SPENCE.
L’eurozona in effetti presenta dei problemi specifici, ma deve anche affrontare sfide comuni a tutti i paesi sviluppati. Si tratta di una questione molto ampia, ma in generale si può dire che nell’eurozona i meccanismi di aggiustamento (ad esempio la svalutazione e l’inflazione) sono troppo limitati perché possano contribuire a gestire gli squilibri.
DERVIS.
La sostanza del problema è che una Unione monetaria efficace richiede un livello di integrazione politica maggiore rispetto a quello che è stato finora realizzato nell’eurozona. Un’insufficiente condivisione di sovranità provoca tensioni e ostacoli tra misure fiscali, monetarie e strutturali che rallentano la crescita nell’eurozona. Ha dell’assurdo il fatto che l’eurozona sfiori la recessione e abbia tassi così alti di disoccupazione, e al tempo stesso abbia un surplus nel conto delle partite correnti di 300 miliardi di dollari. Possiamo pensare che il problema sia ancora più specifico, legato ad esempio alle politiche di austerità? È possibile riavviare le dinamiche di crescita in Europa semplicemente sfruttando al massimo le potenzialità della spesa pubblica e di politiche monetarie espansive? L’inflazione può salvarci dalla grande recessione?
SPENCE.
In molti paesi avanzati si dà troppa importanza alla politica monetaria e troppo poca a politiche di altro tipo, ad esempio quelle fiscali e strutturali. In alcune parti dell’Europa l’austerità può anche essere eccessiva, ma altre riforme non sono sufficienti. Ritengo che un’accelerazione delle riforme determinerebbe una maggiore disponibilità nell’Unione Europea nel suo complesso ad allentare i vincoli fiscali secondo modalità strettamente disciplinate. Una minore austerità da sola avrebbe come unico risultato quello di espandere ulteriormente il debito, finanziando eccessive passività non debitorie come le pensioni. DERVIS.
Siamo tornati al problema della coesione politica. Come afferma Mike Spence, se la Germania potesse essere sicura che le economie più deboli accelerino effettivamente le riforme strutturali, potrebbe essere disposta a garantire uno spazio di manovra più ampio in termini di bilancio nell’eurozona. Ma è vero anche il contrario: se Francia e Italia potessero contare su politiche macroeconomiche più favorevoli alla crescita nell’eurozona, potrebbero con maggiore facilità accelerare sul piano delle riforme strutturali. È molto difficile ristrutturare il settore industriale o le amministrazioni locali con una disoccupazione giovanile così alta. Un maggiore allentamento dei vincoli di bilancio renderebbe le cose più facili. Ma per questo è necessario un accordo politico credibile. Da molto tempo diversi economisti hanno preannunciato una progressiva convergenza tra le economie più mature e quelle emergenti, ma questo scenario si basava sul presupposto di una crescita moderata nelle economie avanzate e una crescita più lenta (certamente non a due cifre) nelle nuove potenze mondiali. Il problema è che oggi entrambi i presupposti appaiono troppo ottimisti. La grande recessione sta trascinando in basso anche le economie più dinamiche?
SPENCE.
Le condizioni globali hanno di sicuro rallentato un po’ tutti. Non credo che questo possa ostacolare una convergenza finale, ma potrebbe ritardarla nel tempo.
DERVIS.
La tendenza alla convergenza nel complesso continua, se si sommano da un lato tutte le economie avanzate e dall’altro tutte quelle emergenti. Ma in ciascuno dei due gruppi ci sono grandi differenze. Una crescita sostenuta offre molte opportunità, oggi anche in alcuni settori dei servizi. Gli elementi chiave per la convergenza sono investimenti sufficienti e sostenuti. L’Asia continua a primeggiare in parte grazie ai tassi di investimento più alti rispetto all’America Latina. Può esistere una “decrescita felice” per le economie mature? Una contrazione dell’economia di lungo periodo può essere gestita secondo modalità che consentano comunque un certo grado di innovazione e che preservino la stabilità sociale?
SPENCE.
Sì, se le tendenze demografiche lo consentono. Ma non ci si può arrivare pesando troppo su chi ha attualmente un lavoro e sui giovani. Per farlo, i bilanci pubblici dovrebbero avere maggiori risorse ed essere molto diversi da come appaiono oggi.
DERVIS.
Keynes pensava che prima della metà di questo xxi secolo i cittadini dei paesi più avanzati avrebbero lavorato molto meno di 30 ore a settimana, godendo di un livello molto alto di qualità della vita! Anche in questo caso molto dipende da ciò che possiamo aspettarci dalle macchine intelligenti. Penso che lo scenario della “decrescita felice” sia perfettamente plausibile e persino auspicabile entro i prossimi 50 anni, in termini però non tanto di un livello inferiore del pil o della qualità della vita, ma semplicemente di un minore apporto di lavoro umano grazie alla capacità delle macchine intelligenti di farsi carico della produzione del benessere. Naturalmente sono d’accordo con Mike Spence quando dice che questo tipo di transizione richiederà una pianificazione attenta e grossi cambiamenti nel modo in cui organizziamo il lavoro, l’istruzione, i bilanci pubblici e il tempo libero.

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14 novembre 2014

Michael Spence e Kemal Dervis da Aspenia on line


Tratto da www.aspeniainstitute.it

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www.impresaoggi.com