Recensione di Eia Eia Alalà di Giampaolo Pansa


La felicità consiste nel poter esercitare liberamente il proprio genio.
Aristotele

E’ per me sempre un piacere leggere e recensire un libro di Giampaolo Pansa che ritengo essere uno dei giornalisti più validi oggi in circolazione. Essendo un lettore “feroce” ho l’occasione di analizzare centinaia di articoli e di saggi di estrazione politica differenziata. Errori ortografici, latitanza dei congiuntivi, assoluta ignoranza degli accenti tonici, errato uso del cui, errata pronuncia di parole straniere sono all’ordine del giorno, come l’uso di rùbrica, bàule, leccòrnia, motòscafo, celebrissimo, asprissimo, in degli, c'abbiamo, qual'è, un pò. Poche settimane fa un noto presentatore radio irrideva Renato Brunetta che usava (correttamente) gli aggettivi succubo e succuba. Il livello culturale di molti giornalisti è ai minimi storici e forse è questo il motivo per cui alle argomentazioni hanno sostituito l’insulto, all’obiettività, la partigianeria, all'informazione il cabaret.

Eia Eia Alalà (sottotitolo Controstoria del fascismo) è il titolo di un romanzo/saggio di Giampaolo Pansa, edito da Rizzoli nel 2014. Si tratta di un romanzo che può definirsi "storico" in quanto tratta, attraverso il racconto in forma autobiografica, il periodo storico vissuto dall'Italia, e in particolare dalla Lomellina, nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale e quella della seconda. La finzione consiste nel fatto che il protagonista narra in forma epistolare, rivolgendosi alla figlia Paola, gli eventi verificatisi in quel periodo, dei quali egli fu osservatore e, molto parzialmente, protagonista.
Il romanzo inizia con lo scrittore che, in prima persona, narra di essere stato contattato da una ex compagna di liceo, Paola Magni, avvocato di fama a Milano, la quale gli propone di trarre un romanzo dalla narrazione che il padre Edoardo le ha fatto e che lei ha registrato e poi trascritto, sulle vicende vissute nel periodo fra le due guerre mondiali. Il padre di Paola inizia così la narrazione in prima persona, come se scrivesse alla figlia Paola.
Edoardo Magni, classe 1890, era l'unico figlio di Ermete, un ricco proprietario terriero, che abitava a Casale Monferrato e che possedeva una grossa tenuta agricola nella zona di confine fra Piemonte e Lombardia, in Lomellina. Prestato con onore il servizio militare, come ufficiale, nella prima guerra mondiale, era rientrato a casa e dopo un periodo di inattività, aveva iniziato ad occuparsi anche lui dell'azienda agricola, subentrando a poco a poco al padre nella conduzione dell'azienda. In quel primo periodo spadroneggiavano nelle campagne i socialisti, che, attraverso scioperi violenti ed intimidazioni personali, cercavano d'imporre il loro potere sui proprietari terrieri. Sorsero così, per reazione, i primi movimenti di squadrismo fascista, appoggiati finanziariamente dai proprietari terrieri, che si vedevano a poco a poco togliere il controllo sui propri stessi beni. Edoardo è un giovane disilluso, che parteggia per l'ascesa al potere di Mussolini, ma senza partecipazione attiva alla politica, limitandosi a sostenete il nascente movimento con contributi in denaro. Ben lontano dal cercar moglie, ma molto attratto dalle donne, passa da un'amante all'altra, intrattenendo relazioni quasi esclusive e piuttosto durature con ognuna di esse, per periodi di più anni, alla fine dei quali sono sempre loro a lasciarlo per una relazione più stabile, cioè il matrimonio.
Prima la bella vedova Rosa Ferraresi, maestra elementare a Mortara, poi la giornalista del Popolo d'Italia Anna Lorenzetti, quindi la contabile e collaboratrice diretta di Cesare Forni, Elvira Cognetti, e infine l'ebrea Marianna Levi. Nel periodo tra le ultime due riesce a sposarsi, grazie anche alle pressioni del padre Ermete, con una giovane di buona famiglia, Camilla De Michelis, che gli dà una figlia, Paola appunto, ma che sparisce presto dalla scena del romanzo, lasciandolo vedovo. È attraverso i colloqui con le amanti, sempre ben informate, spesso più di lui, che si snodano le vicende storiche di quel periodo: vengono descritte le vicende dei protagonisti politici del tempo, locali ma anche nazionali, quali i socialisti Giuseppe Rampini e Umberto Ricolfi, i fascisti Cesare Forni, Cesare Maria De Vecchi, Giovanni Passerone, Francesco Giunta, il marchese Cesare Carminati Brambilla, Aldo Finzi e altri e, sullo sfondo, sempre Benito Mussolini.

In particiolare, Edoardo Magni stringe un patto di alleanza e di amicizia con Cesare Forni, del qule è interessante conoscere la storia.
Nato nella più potente famiglia di latifondisti lomellini studia ingegneria presso il Politecnico di Torino senza terminare gli studi. Di carattere irrequieto e ribelle, partecipa alla prima guerra mondiale, guadagnandosi il grado di capitano nel corpo dei Bombardieri, reparto che, al pari degli Arditi, era destinato alle azioni più pericolose. Nel 1919, convinto dall'allora capitano Cesare Maria De Vecchi, aderisce allo squadrismo fascista, di cui diventa rapidamente un esponente di spicco, fondando anche un giornale, Il Trincerista. Nel frattempo, trasferitosi a Mortara, centro politico ed economico della Lomellina di allora, crea un autentico esercito personale, composto da centinaia di squadristi, in maggioranza reduci. In breve, è riconosciuto quale ras incontrastato dell'intera provincia di Pavia. Le sue squadre imperversano soprattutto in Lomellina, con azioni di estrema violenza e spregiudicatezza. Nel 1921 diventa membro del Comitato Centrale del PNF in rappresentanza della Lombardia. Mussolini gli affida il coordinamento di tutte le squadre di Lombardia e Piemonte nei giorni della Marcia su Roma. Popolarissimo tra gli squadristi, dopo la Marcia su Roma e la presa del potere, viene considerato sempre più come un personaggio scomodo quindi come un vero e proprio dissidente. In ciò giocano due fondamentali fattori: le sferzanti accuse di Forni nei confronti del fascismo cittadino, del dilagante arrivismo di molti gerarchi e "gerarchetti", e la diffidenza verso di lui mostrata da un Mussolini ormai definitivamente schierato dalla parte degli ambienti tradizionalmente conservatori e dei potentati economici. A emarginare ancor di più il Forni dall'ormai consolidato potere fascista sono i suoi violenti attacchi contro la nuova classe dirigente del partito. A tal proposito sfida in un duello alla sciabola l'allora segretario politico Francesco Giunta, beniamino di Mussolini, duello che ha luogo nell'aprile del 1923 a Roma e viene sospeso dai padrini quando entrambe i duellanti restano feriti. Altro motivo di scontro è il mancato rispetto dei patti agrari da parte dei latifondisti pavesi, molti dei quali vedono nel fascismo la possibilità di ristabilire le condizioni di sfruttamento del periodo d'anteguerra. Cesare Forni la pensa diversamente, giungendo a contrastare personaggi quali il conte Brambilla di Semiana. Per circa due anni Forni assume il ruolo di potenziale e diretto rivale di Mussolini alla guida del fascismo, al punto di presentare, in occasione delle elezioni del 1924, per il rinnovo del Parlamento italiano una propria lista elettorale, in alternativa al Partito fascista, denominata Fasci Nazionali, e per questo Mussolini non lo perdona. Il 12 marzo 1924 Cesare Forni è gravemente ferito alla stazione centrale di Milano in un'azione squadrista, ordinata dal Duce, e messa in atto da parte di Dumini, Volpi, Malachia, i consorziati nella cosiddetta Ceka Fascista. Gli stessi che di lì a poco avrebbero ucciso Giacomo Matteotti. Il 26 aprile 1924 si svolgono le elezioni e Cesare Forni risulta eletto unico deputato della sua lista. Cesare Forni rimane comunque fedele a Mussolini, supponendo che il Duce non fosse al corrente delle azioni dei gerrachi, e vota più volte la fiducia al suo governo, compresa quella richiesta dal Duce dopo il delitto Matterotti. Tuttavia, deluso e politicamente ormai del tutto ai margini, getta la spugna, ritirandosi a vita privata. Nel romanzo/saggio Edoardo Magni resta sempre un amico fedele del Forni che viene sempre aiutato economicamente, nelle sue battaglie prima contro i rossi e successivamente contro il degrado del fascismo.

L'ultima parte del libro è dedicata alla persecuzione contro gli ebrei innescata dal decreto legge del 17 novembre 1938 e inasprita dalle norme successive. Nel 1934, poco dopo la nascita della figlia Paola, la moglie Camilla assume una bambinaia ebrea, Ester Segre, studentessa universitaria costretta a lavorare a causa di ristrettezze economiche della famiglia. Incuriosito dalla sua religione, Edoardo le chiede spesso informazioni sulla religione ebraica e sulle abitudini del suo popolo, finché Ester non lo accompagna a visitare il ghetto di Casale e qui gli presenta una sua amica, Marianna Levi, segretaria del direttore della Eternit e ottima conoscitrice delle vicende del suo popolo. Presto i due divengono amanti. Intanto Edoardo rimane vedovo e il governo emette le leggi razziali. La situazione di Marianna e dei suoi correligionari si fa sempre più difficile e diventa critica con lo scoppio della guerra e poi con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Edoardo, che si era rifiutato di licenziare la bambinaia ebrea, prende sotto la sua protezione anche Marianna, trasferendola con sé nella casa della sua tenuta agricola. Riesce a impedire l'intervento dell'autorità fascista corrompendo e poi ricattando il commissario di polizia di Casale, competente per territorio al rastrellamento degli ebrei. Si snoda così il racconto delle vicende dei correligionari di Marianna, avviati via via verso il campo di transito di Fossoli, per il successivo trasferimento ad Auschwitz e ad altri campi di concentramento nazisti, dai quali non faranno più ritorno.
Il romanzo/saggio si chiude con la fine della guerra, della Repubblica Sociale Italiana e l'evacuazione dei militari tedeschi e con il congedo di Marianna da Edoardo. La donna infatti, sconvolta da ciò che ha visto durante il periodo di guerra riguardo ai suoi correligionari casalesi e afflitta da una specie di complesso di colpa nei loro confronti per essere sopravvissuta, non riesce più a sopportare di rimanere nei luoghi ove sono state commesse tante nefandezze verso persone che conosceva fin da bambina e, nonostante la proposta di matrimonio fattagli da Edoardo, decide di lasciare l'Italia per trasferirsi in Israele. A questo proposito tempo fa lo stesso Pansa scrisse in un articolo " ... Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia."

Riporto la seguente intervista fatta a Pansa, sul suo libro, per Il Giornale da Matteo Sacchi.
Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?
«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».
Per questo l'hai scelto come titolo?
«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».
Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...
«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».
Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!
«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano?».
Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?
«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».
Qualunquismo?
«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».
In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».
«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».
Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?
«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

La vita di Giampaolo Pansa
Allievo di Alessandro Galante Garrone all'Università di Torino si laurea in Scienze politiche con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Agli inizi degli anni sessanta entra nel quotidiano torinese La Stampa. L'elenco delle sue collaborazioni è il seguente:
con quotidiani
1961-1964: La Stampa (direttore Giulio De Benedetti);
1964-1968: Il Giorno (direttore Italo Pietra);
1969-1973: La Stampa, inviato da Milano (direttore Alberto Ronchey);
1973- ottobre 1977: redattore capo al Messaggero (direttore Alessandro Perrone); inviato per il Corriere della Sera (direttore Piero Ottone);
novembre 1977-1991: La Repubblica, editorialista (direttore Eugenio Scalfari). Nell'ottobre 1978 assume la vicedirezione. Riprende a scrivere, sporadicamente, per il quotidiano nel 2000; il 1º ottobre 2008, trovandosi in contrasto con la linea editoriale, lascia il Gruppo Editoriale L'Espresso;
ottobre 2008-dicembre 2010: Il Riformista (direttore Antonio Polito);
settembre 2009-oggi: Libero, dove nel gennaio 2011 ha portato il «Bestiario» (direttore Maurizio Belpietro).
con settimanali
1983-1984: crea la rubrica «Quaderno italiano» su Epoca (direttore Sandro Mayer);
1984-1987: crea la rubrica «Chi sale e chi scende» su L'Espresso (direttore Giovanni Valentini);
1987-1990: crea la rubrica «Bestiario» su Panorama - pre Berlusconi (direzione di Claudio Rinaldi, Pansa è il condirettore);
1990- settembre 2008: il «Bestiario» prosegue su L'Espresso (direttore Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi, poi Daniela Hamaoui).
Negli anni della sua collaborazione al quotidiano la Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Sono note inoltre alcune sarcastiche definizioni che Pansa ha dedicato a politici italiani, come quella di "Parolaio rosso", per Fausto Bertinotti o quella di "Dalemoni", allusiva al cosiddetto "inciucio" tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi ai tempi della Bicamerale. Pansa non fu tenero neanche con i colleghi giornalisti: nel 1980 scrisse su la Repubblica un articolo intitolato «Il giornalista dimezzato», in cui stigmatizzava il comportamento, da lui giudicato ipocrita, dei colleghi.
Nel settore dei saggi storici la sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Con questo libro comincia il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Escono successivamente Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945, La Grande Bugia e I gendarmi della memoria. I suoi libri sul revisionismo gli procurarono molte critiche e offese da parte di colleghi del Gruppo Editoriale l'Espresso atteggiamenti che lo costrinsero ad abbanmdonare il Gruppo.

Eugenio Caruso - 19 novembre 2014

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