Giuseppe Guarino: il trattato di Maastricht tradito e le cause della crisi dell'euro.



Chi ama l'amicizia, dimentica i torti.
Salomone, Proverbi


Il giurista ed ex ministro dell’Industria, Giuseppe Guarino, accusa governi e istituzioni comunitarie di aver abbandonato lo sviluppo armonioso prefigurato nel Trattato di Maastricht.

Fautori convinti e difensori realisti dell’Unione economico-monetaria e dell’austerità finanziaria si richiamano ogni giorno ai patti fondativi dell’architettura europea. Primo fra tutti il Trattato di Maastricht firmato il 17 febbraio 1992. Un testo solennemente evocato quanto calpestato e stravolto dai governi nazionali e da Bruxelles.
È la tesi, potenzialmente rivoluzionaria, contenuta nel libro “Cittadini europei e crisi dell’euro” scritto dal giurista Giuseppe Guarino, professore emerito di Diritto amministrativo nell’Università La Sapienza di Roma già responsabile dell’Industria nel governo Amato del 1992. Stagione tormentata in cui tentò, invano, di gestire un’agenda di privatizzazioni finalizzata a conservare, valorizzare e rilanciare le aziende strategiche italiane.
Grazie a una ricostruzione corroborata da fatti, testimonianze e ricordi, lo studioso vuole gettare una luce nuova su ciò che appare come un clamoroso tradimento delle promesse di genuina integrazione politico-economica europea. Le regole attualmente egemoni e vincolanti, a partire dal in Patto di stabilità consacrato nel Fiscal Compact, avrebbero neutralizzato ed espulso il tema della crescita che nel Trattato del 1992 aveva il sopravvento sul rigore di bilancio. Il risultato è che il potere nazionale di promuovere strategie orientate allo sviluppo ha ceduto il passo all’imperativo del risanamento dei conti pubblici.
Amante dell’Europa e del suo spirito originario, il giurista prospetta una visione “euro-critica” contro chi ha costruito l’unificazione monetaria sull’ossessione del 3 per cento nel rapporto fra deficit e Prodotto interno lordo: “Una pura convenzione aritmetica modellata sui mutamenti ciclici dell’economia e trasformata in dogma intangibile”. Con effetti eloquenti: fra i 38 paesi meno cresciuti nel pianeta a partire dal 2000, 13 appartengono all’Euro-zona comprese Italia, Francia e Germania. Una lettura antitetica rispetto a quella “euro-entusiasta” emersa nel corso della presentazione del pamphlet “33 False verità sull’Europa”, scritto dall’economista ed ex componente del direttivo della BCE Lorenzo Bini Smaghi.
Presentata a Roma su iniziativa della Fondazione “Luigi Einaudi”, l’opera di Giuseppe Guarino ha fornito gli stimoli per una riflessione a più voci di economisti e giuristi. Richiamando la partecipazione di personalità quali Mario Lupo, Pietro Rescigno, Paolo Savona, Massimo Teodori, Giorgio Rebuffa, Victor Uckmar, Luigi Pasinetti, Francesco Gaetano Caltagirone. È Domenico da Empoli, professore di Scienza delle finanze all’Università La Sapienza, a mostrare l’irragionevolezza con cui dai governi italiani fu firmato, recepito, applicato il Fiscal Compact, “cappio al collo per l’avvenire del nostro paese”. Perché, osserva lo studioso, una politica di austerità imperniata sul pareggio di bilancio porta a una depressione economica. E accoglierla senza valutazioni critiche riflette un comportamento illogico, un rapporto con l’Ue di corto respiro e privo di visione.
L’Italia, ricorda il docente di Economia industriale e Commercio estero all’Università Cattolica di Milano Marco Fortis, nell’arco di 20 anni ha accumulato tra privatizzazioni e tassazione un avanzo per 700 miliardi di euro. Perdendo di vista l’obiettivo dello sviluppo. Una caratteristica comune all’intera area della valuta comune, vista la crisi economica di paesi poco indebitati come Spagna e Irlanda e il recupero di dinamismo di nazioni esterne all’euro come il Regno Unito.
Il vero problema, rimarca Paolo Savona, professore di Politica economica all’Università LUISS e presidente della Fondazione Ugo La Malfa, risiede in una Banca centrale priva del potere di intervenire sui tassi di cambio della moneta unica.
Ma è Giuseppe Guarino a tornare alle radici remote delle carenze della costruzione economica europea. Il Trattato di Maastricht prevedeva all’articolo 104 un rapporto del 3 per cento tra deficit e PIL. La norma, frutto dell’azione dell’allora capo del Tesoro Guido Carli forte del consenso della delegazione britannica, individuava la misura non come vincolo assoluto bensì come linea di tendenza cui si poteva derogare in presenza di fattori esterni persistenti: shock economico-finanziari, prolungata stagnazione produttiva, crisi di fiducia su larga scala. Il fondamento giuridico dell’integrazione monetaria venne però vanificato con l’adozione dell’euro negli anni 1999-2002. Al suo posto entrò in vigore una regola formalmente subordinata ai trattati europei: il Regolamento comunitario 1466 messo a punto dall’ex responsabile delle Finanze di Berlino Theo Waigel, approvato dalla Commissione UE guidata da Jacques Santer e dal titolare del Mercato interno Mario Monti con la piena condivisione del capo del Tesoro italiano Carlo Azeglio Ciampi nonostante i moniti avanzati dal suo amico e premio Nobel per l’Economia Franco Modigliani. Testo, poi trasfuso nel Fiscal Compact, che prefigurava una moneta fondata sul primato immutabile del rigore di bilancio a breve termine, su un vincolo imposto a realtà non omogenee dal punto di vista economico-sociale, sulla stabilità elevata a dogma.
Trasformato in un obbligo tassativo, il rapporto del 3 per cento assoggettò il percorso di risanamento nazionale dei conti pubblici allo stringente controllo dell’esecutivo comunitario. Bruxelles era in grado di vigilare, ma anche di orientare e mutare le strategie economiche degli Stati tramite sanzioni automatiche. Gli esiti, rileva il giurista, furono evidenti: rovesciamento dei parametri democratici, paralisi produttiva, contrazione dei consumi, crisi occupazionale. Ma il risultato più paradossale riguarda i bilanci: “Il debito pubblico italiano ha raggiunto la cifra record del 133 per cento del Prodotto interno lordo e non potrà essere ridotto con un tasso di crescita inferiore al 3 per cento”. Neanche con l’intervento monetario di mille miliardi preannunciato dal governatore della BCE Mario Draghi. La ragione è semplice: “La Banca centrale non può contare su una legittimazione forte per le sue scelte. Perché non ha alle spalle un governo politico europeo”.

Edoardo Petti da www.scenari globali.it


Intervista di Giovanna Faggionato da www.lettera 43.it

I volumi si accumulano, uno dopo l'altro, sulla scrivania. Ognuno con un pezzetto di carta infilato alla pagina giusta, per non perdere il filo del ragionamento pronto a correre via da una riga all'altra. Nel buio del suo studio romano, sotto il cono di luce delle lampade, Giuseppe Guarino cerca dati, avvicina gli occhi, porge libri. Il giurista, classe 1922, è determinato come uno scienziato in laboratorio a smontare l'ingranaggio che ha trasformato l'Europa in un continente condannato a un inesorabile declino.
LA DENUNCIA IL «COLPO DI STATO».
Ex ministro delle Finanze e dell'Industria (tra il 1988 e il 1992), docente emerito di diritto pubblico, europeista convinto all'epoca dei padri fondatori dell'Unione, a 91 anni compiuti Guarino è diventato uno dei più appassionati critici della moneta unica.
«IL TRATTATO DI MAASTRICHT TRADITO».
Ha studiato il diritto europeo: «Un argomento entusiasmante», dice. E secondo le sue ricerche il trattato di Maastricht, il grande progetto su cui si era fondata l'Unione monetaria, è stato tradito: le leggi su cui si basava originalmente la moneta unica «non sono mai state applicate», per essere a un certo punto «sostituite» con regolamenti «opposti» e infine con il Fiscal compact. La sua denuncia è arrivata fino al tavolo del presidente José Manuel Barroso, ma è stata anche rimandata al mittente. E oggi l'uomo che ha insegnato il diritto pubblico a Giorgio Napolitano e Mario Draghi, denuncia il «colpo di Stato» in atto a Bruxelles. «La democrazia», commenta accorato, «è stata soppressa».

DOMANDA. Per rilanciare l’economia si punta ad abbattere il debito. Il governo propone dismissioni fino a circa 12 miliardi. Sarebbe sufficiente e utile?
Risposta. Ne dubiterei. L’ammontare del debito della pubblica amministrazione corrisponde al totale degli interessi dei titoli di Stato ancora in essere, quale che sia stata la loro data di emissione.
D. Cioè quanto nel 2013?
R. A fine 2012 era pari a 86.717 milioni di euro, corrispondenti a 5,5 punti di Pil. Per il 2013 è prevista una leggera diminuzione.
D. Perché non è conveniente far diminuire sin da ora il totale?
R. Conviene se la vendita porta il debito a un livello che non richieda ulteriori interventi in anni successivi. Se le previsioni danno un tasso medio di crescita del Pil inferiore al costo totale del debito, il rapporto tra debito e Pil riprende a crescere.
D. Lei parla di un “punto di non ritorno”. Di cosa si tratta?
R. Se il tasso prevedibile di crescita del Pil nell’anno e in quelli successivi è inferiore al tasso prevedibile di crescita del costo degli interessi negli stessi anni, il rapporto debito-Pil aumenta.
D. Ed è quello che sta succedendo?
R. Nel 2006 depositai in Senato, nel corso di una audizione parlamentare, una tabella in cui, partendo dal rapporto tra debito e Pil del 2005, indicavo che se il tasso di crescita del Pil fosse stato dello 0,5%, la percentuale sarebbe stata del 130% nel 2013.
D. Ci aveva azzeccato?
R. La media del Pil è stata inferiore e corrispondentemente il rapporto nel 2013 ha raggiunto il 133%. Si tocca il punto di non ritorno quando la crescita prevista per gli anni a venire supera il costo annuale complessivo del debito e non si prevedono fattori straordinari che possono invertire la tendenza.
D. Il debito italiano esisteva già nel 1991. Lei ha fatto parte della classe dirigente che ha concorso a gonfiarlo. Come è accaduto?
R. L’osservazione è corrente, ma non corretta.
D. In che senso?
R. Bisogna distinguere tra debito interno e debito estero. Fino al 1992 la detenzione di capitali all’estero era vietata. I creditori dello Stato erano nella quasi totalità soggetti interni, famiglie, i cittadini, banche, imprese. La formula dello Stato sociale liberava le famiglie dalla generalità dei costi per sanità, istruzione, assistenza e previdenza. La proprietà dell’abitazione era diffusa in Italia più che in qualsiasi altro Paese.
D. In sostanza c'era abbastanza ricchezza all'interno dei confini nazionali?
R. L’economia era sostenuta dalla domanda interna che era frutto del risparmio elevato delle famiglie. Era crescente e presente in modo abbastanza omogeneo nella quasi totalità del Paese. La parte non consumata del risparmio veniva versata allo Stato (attraverso gli acquisti di titoli). Alle scadenze i titoli venivano reinvestiti. Vi si aggiungeva spesso il ricavo degli interessi. Nel 1992 la liquidità di cui disponevano le famiglie superava di un buon quarto il debito totale dello Stato.
D. Cosa provocò il crollo di questo sistema?
R. Come era cresciuta la liquidità interna così, a seguito della crisi petrolifera degli anni 1978-1992, era aumentato il volume della liquidità internazionale. Venivano offerti rendimenti elevati. Si aggiungeva il miraggio di sottrarre i propri risparmi al Fisco. Il timore di incorrere in sanzioni non era sufficiente per bloccare l’esodo dei capitali.
D. Poi è intervenuta l'Europa.
R. La direttiva sulla libera circolazione dei capitali, compresi quelli a breve, fu una delle prime a essere adottate tra le 330 da emettere per realizzare il mercato unico europeo. Fu la trasformazione istantanea del debito da interno a estero a determinare il crollo del sistema italiano, al quale si doveva lo straordinario fenomeno del “miracolo italiano”.
D. Non si sarebbe potuto modificare il sistema interno prima che lo tsunami si producesse?
R. Non è facile modificare strutture formatisi a seguito di percorsi, frutto di lunghi processi. Si oppongono barriere culturali e di interessi che non è facile abbattere. È un fenomeno anche oggi presente. In tali condizioni, influenzati da convincimenti generali e da interessi costituiti, credendo di far bene, si adottano condotte che aggravano la situazione.
D. Infatti l’Italia fu uno dei primi Paesi ad applicare la direttiva sulla libera circolazione dei capitali.
R. Ci sarebbe stato tempo per adottarla fino al 30 giugno 1993. Un tempo sufficiente per dare una “aggiustata” al sistema.
Il passaggio dal debito interno al debito estero
D. Dopo l’entrata in vigore del Trattato sull'Unione europea (Maastricht) qualcosa si fece, anzi molto.
R. Il debito italiano, all’atto della stipula del Trattato, era pari al 100,8%. Salì nei tre anni successivi a 124,3%. Al sesto anno era pari al 116,8%. Tra il 1992 ed il 2005, vennero alienati beni pubblici, prevalentemente imprese del sistema delle partecipazioni statali, per un valore complessivo che rivalutato al 2013 ammonta a circa 128 miliardi di euro. Nel 2006 il rapporto tra debito e Pil si era ridotto al 106,5%.
D. Si trattò spesso di svendite. Vedi il caso Telecom.
R. Le autorità monetarie valutavano che incassare di meno, ma subito, fosse più conveniente che continuare a pagare tassi di interesse che avevano portato l'onere medio, ancora nel 1995, al 10% pregiudicando, oltre tutto, le possibilità di ammissione all’euro.
D. Chi furono i compratori? R. Salvo la Nuova Pignone di Firenze che, ceduta alla General Electric, si è sviluppata a livello internazionale, per le cessioni più importanti (banche e industrie) gli acquirenti furono italiani.
D. I capitalisti senza capitale?
R. Lo sviluppo delle principali imprese private italiane si era basato sulla domanda interna. Dovendo ora affrontare la concorrenza internazionale, immaginarono di rafforzarsi acquisendo le imprese che potessero integrarsi con quelle già possedute. Ma due debolezze non sempre creano una forza. Le attese di crescita non si verificarono. In molti casi i compratori furono costretti a rivendere.
D. E i risparmiatori italiani?
R. Una buona parte investì in titoli, basati sull’impiego dei cosiddetti “derivati”, che promettevano elevato rendimento. In un primo tempo si ebbero crescenti ricavi. Scoppiata, a livello internazionale, la bolla dei derivati, le famiglie persero parecchio, in qualche caso quasi tutto.
D. Sin dagli Anni 60 si era avvertita la necessità di portare a conclusione il processo di integrazione europeo con la creazione di un mercato comune e di un'unione monetaria. Quali erano gli obiettivi?
R. Due effetti favorevoli erano certi. La confluenza delle singole economie in un unico grande mercato avrebbe eliminato i dazi di importazione ed esportazione e anche il costo della sosta alle frontiere, necessaria per l’espletamento dei controlli. L’impiego di una unica moneta avrebbe a sua volta eliminato i costi di transazione.
D. Sarebbe bastato?
R. Certamente no. Nell’articolo 2 del Trattato sull'Unione europea, richiamato in tutti i trattati successivi, era fissato l’obiettivo che gli Stati intendevano conseguire. Si trattava dello «sviluppo armonioso ed equilibrato, una crescita sostenibile, non inflazionistica, rispettosa dell’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita». Gli Stati aderenti all’Unione avrebbero rinunciato all’esercizio di buona parte della sovranità. Avrebbero ottenuto dall’Unione, quale controprestazione, la crescita, quale definita nell’articolo 2.
D. E come la si sarebbe ottenuta, a chi competeva?
R. Il compito non poteva che spettare agli Stati membri. L’Unione non può indebitarsi. Le risorse che affluiscono direttamente (i dazi esterni) sono poche. L’Unione provvede alle sue spese con le risorse che le versano gli Stati, in conformità di una disciplina dettata dal Trattato.
D. Alla crescita avrebbero dovuto dunque provvedere gli Stati. Ma con quali strumenti?
R. La disciplina dell’atto unico e quella generale dell’Unione escludevano la quasi generalità dei mezzi di cui possono avvalersi gli Stati che non fanno parte dell’Ue. Ne restavano, di possibilità, solo due, le autonome politiche economiche degli Stati che comprendono tutti gli aspetti diversi da quelli monetari, e l’indebitamento. Il Trattato sull'Unione europea (Tue) garantiva entrambi, limitandosi a chiedere che nel farne uso, si attenessero a principi di cautela che venivano indicati.
D. Quali?
R. L’Unione aveva un interesse diretto a che gli Stati ottenessero risultati di crescita. Solo così sarebbero stati in condizione di trasferire all’Unione le risorse necessarie. La quale si riservava, quindi, la determinazione di principi “di massima” di coordinamento. In caso di scostamento, con un apposito procedimento, avrebbe potuto emettere una raccomandazione, atto privo peraltro di efficacia vincolante.
D. E l'indebitamento?
R. Sarebbe stato non solo possibile, ma in presenza di circostanze favorevoli addirittura indispensabile, per valorizzare fattori produttivi esistenti e/o insufficientemente utilizzati. A tutela del principio del carattere non inflazionistico della crescita, il Tue introduceva limiti che gli Stati non avrebbero potuto superare. Riguardavano distintamente i rapporti indebitamento (3%) e debito (60%) in relazione al Pil. Nella loro interpretazione e applicazione gli Stati e l’Unione avrebbero dovuto attenersi a criteri vincolanti.
D. Sarebbero stati sufficienti i due strumenti per procurare la crescita?
R. L’economia Usa ha raddoppiato nel XX secolo la sua ricchezza attenendosi a questi limiti. Li ha superati solo in anni di diretto coinvolgimento in vicende belliche.
Introdotta una disciplina opposta a quella di Maastricht
D. Lo sviluppo promesso non si è realizzato. Come mai?
R. La creazione dell’Unione europea e dell'Eurozona era un'operazione molto complessa. Non esistevano precedenti. La disciplina finalizzata alla crescita sarebbe entrata in vigore all’inizio della terza fase, quella definitiva, coincidente con quella del 1 gennaio 1999 fissata per il lancio dell’euro. La fase seconda era propedeutica alla terza. Ne discende che per dare un giudizio adeguato della disciplina dettata dal Trattato sull'Unione europea rispetto all’obbligo assunto di promuovere la crescita, si deve tener conto dei soli quindici anni decorsi dal 1 gennaio 1999.
D. E c'è qualche norma varata nella seconda fase da segnalare?
R. Certamente. Negli anni tra l’entrata in vigore del Trattato e l’inizio della terza fase gli Stati sarebbero stati assoggettati a norme costrittive. Se non le avessero rispettate non avrebbero superato lo scrutinio per l’ammissione all’euro. Due condizioni attenevano a dati obiettivi del periodo già trascorso. Due dovevano essere valutate al momento dell’esame di ammissione, una specie di diploma o di laurea.
D. E quali erano?
R. Riguardavano il tasso di inflazione e i tassi di interesse su titoli pubblici di lungo termine. Per entrambi gli aspetti si richiedeva che nel periodo antecedente lo scostamento dalla media dei tre Stati migliori non fosse stata superiore nel primo caso all’1,5%, nel secondo al 2%. Era un divario che nella concorrenza tra le economie gli Stati più deboli avrebbero potuto recuperare.
D. Quindi erano regole pensate per proteggere le economie più deboli?
R. Nella terza fase, cioè dal 1 gennaio 1999, le economie dei Paesi euro, partecipi di un unico mercato e fruitori di una unica moneta, avrebbero operato tra loro in concorrenza. Una concorrenza piena e leale. Se non si fossero create condizioni di omogeneità sufficienti, le economie più forti avrebbero esercitato un potere dominante sulle altre. Le regole della fase transitoria dovevano dunque creare condizioni di omogeneità, che fossero sufficienti per scongiurare il pericolo.
D. E la terza fase?
R. La terza fase, con il lancio della moneta comune e inizio della competizione, basata su condizioni per una leale concorrenza, è l’unica di cui si deve tener conto per valutare l’adeguatezza della disciplina contenuta nel Trattato unico europeo.
D. Come sono stati i risultati per la generalità dei Paesi euro?
R. Nella classifica dei 38 Paesi con minore sviluppo nel mondo negli anni dal 2000 al 2010 compresi, l’Eurozona è presente con 13 Paesi. Sorprendenti e nello stesso tempo sconvolgenti sono i risultati dei tre Paesi maggiori, Italia, Francia, Germania. L’Italia è terza, la Germania decima, la Francia quattordicesima. Si ripete, la classifica non è dei migliori risultati decennali nel mondo, bensì dei peggiori. Nella identica classifica relativa al decennio antecedente, 1990-2000, nessuno dei Paesi euro era presente. L’evento, da ritenere responsabile della depressione diffusa e crescente nella zona euro, deve essersi necessariamente verificato tra il 1999 e il 2000.
D. E di che evento si tratta?
R. Ce ne è uno solo, coincidente con il lancio dell’euro. Alla data del 1 gennaio 1999, invece della disciplina stabilita dal Trattato unico europeo per la terza fase, ne è stata applicata una diversa, anzi opposta, introdotta a partire per l’appunto dal 1 gennaio 1999, con un regolamento, il numero 1466/97. Il regolamento è stato applicato sino al 27 giugno 2005.
D. E poi?
R. Gli è subentrato il regolamento 1055/2005, rimasto in vigore sino al 16 novembre 2011. Data in cui è arrrivato un terzo regolamento, il numero 1175/2011, cui ha fatto seguito un atto atipico, denominato Fiscal compact con il quale, nell’impossibilità che si raggiungessero i voti necessari per modificare il Trattato in vigore, quello di Lisbona, si è cercato di aggirare l’ostacolo con un Trattato non europeo, ma di diritto internazionale.
D. Chi prese quella prima iniziativa?
R. L’iniziativa fu presa dalla Commissione, esulando da qualsiasi competenza attribuitale dal Trattato di Lisbona. Mentre gli organi dell’Unione proponevano ed applicavano i regolamenti, era entrato in vigore (il 1° maggio 1999) il trattato di Amsterdam. Veniva poi adottato ed era entrato in vigore (1° dicembre 2009) il Trattato di Lisbona. Entrambi i Trattati riproducevano testualmente le statuizioni degli articoli 102 A, 103, 104 c) e protocollo numero 5, contenenti la disciplina dell’euro.
D. Con quali conseguenze?
R. La commissione è andata avanti come se i Trattati non esistessero. Hanno imposto le norme, che sono responsabili della depressione che attanaglia da 15 anni l’Europa. La disciplina, che era stata studiata con tanta accortezza dagli elaboratori del Trattato sull'Unione e per promuovere la crescita, non è stata mai applicata.
D. Formalmente cosa è successo?
R. Il Trattato sull'Unione europea (Tue) e oggi il Trattato di Lisbona, che riproduce il testo del Tue, affida la funzione della crescita agli Stati membri ed attribuisce agli Stati due poteri. Il primo, di avere ciascuno una propria autonoma politica economica. Il secondo, di indebitarsi nei limiti dei valori di riferimento di cui al protocollo numero 5, da interpretarsi secondo i criteri vincolanti dettati dall’articolo 104 c) del Trattato unico europeo, oggi 126 Trattato di Lisbona. Il regolamento 1466/97 e nel suo solco in forma aggravata gli atti successivi, hanno cancellato i due poteri.
D. E come li hanno sostituiti?
R. Non li hanno sostituiti con altri poteri. Hanno collocato al loro posto due doveri. Il primo, eguale per tutti gli Stati euro, consistente nell’avere a medio termine un bilancio in attivo o in pareggio, il secondo, diverso da Stato a Stato, di pervenire al risultato in stretta osservanza di un programma definito per ciascuno Stato dagli organi dell’Unione.
D. Quali conseguenze vanno tratte dalle modifiche apportate?
R. Parecchie. Alcune gravissime, e del tutto imprevedibili. «Con il nuovo regolamento è stata soppressa la democrazia».
D. Per esempio?
R. Se la crescita non si produce in modo fisiologico per effetto di condizioni favorevoli preesistenti, si rende necessario stimolarla. È indispensabile in tal caso la presenza di due fattori distinti. Il primo, che esistano in quantità sufficiente fattori valorizzabili. Il secondo, che lo Stato, dove non disponga già di adeguate risorse, possa ricorrere all’indebitamento. I regolamenti hanno cancellato la politica economica degli Stati e la capacità di indebitarsi, sia pur nei limiti di cui agli articoli 104 c) del Trattato sull'Unione europa e 126 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (Lisbona). Nessuno degli Stati euro, oggi in difficoltà, disponeva al 1 gennaio 1999 di un bilancio in pareggio.
D. Il pareggio di bilancio è l'origine del problema?
R. Il deterioramento progressivo e crescente delle loro economie dipende dal divieto di indebitarsi anche se fosse stato presente il secondo dei presupposti per la crescita. Fattori valorizzabili erano tutti quelli che la depressione aveva espulso dalla produzione, se ancora vitali o recuperabili. Ma mancavano le risorse.
D. Abbiamo perso un'opportunità?
R. Ogni occasione favorevole è andata perduta. Le risorse disponibili sono sotto i nostri occhi. L’elevatissimo e imprevedibile numero di disoccupati e sottooccupati nell’insieme dell’Eurozona ed in ciascuno dei Paesi senza deroga, imprese costrette a dismettere la loro attività, deterioramento nel funzionamento della pubblica amministrazione e dei beni pubblici, decadenza delle prestazioni rese ai cittadini, difficoltà nel far fronte ad eventi eccezionali, e così via.
D. E c'è una seconda conseguenza?
R. È la più grave. Se in materia economica tutti i poteri dello Stato sono stati cancellati, responsabile dei risultati è il sistema applicato. Nella specie l’insieme delle regole astratte, imposto a partire dal 1 gennaio 1999. Gli organi dell’Unione controllano con rigore che siano puntualmente applicati. Sono costretti a loro volta ad attenersi alle specifiche norme che regolano le loro condotte. Si ha come risultato finale che i cittadini di ciascun Paese membro non dispongono di alcun potere per influire sulle discipline cui saranno assoggettati.
D. Significa che c'è un deficit di democrazia?
R. La “democrazia” non consiste nella semplice titolarità di una serie, quand’anche la più completa e precisa, di diritti di libertà. Non v’è ancora “democrazia”, se ai diritti di libertà si aggiunge un nutrito gruppo di diritti sociali. La “democrazia” esige che i cittadini possano trasmettere a governanti, che a essi rispondono, orientamenti e indirizzi in merito alla disciplina che dovranno applicare. Il presupposto è che i loro governanti dispongono di poteri sul cui esercizio i cittadini possono esercitare la loro influenza.
D. E non è così?
R. Nella materia economica che nelle condizioni storiche attuali è determinante su ogni altro settore della convivenza, i governi degli Stati membri, a partire dal 1 gennaio 1999, hanno solo obblighi, non poteri. La “democrazia”, principio fondante della costituzione di ciascuno Stato membro, condizione richiesta dai Trattati ai fini dell’ammissione all’Unione, è stata soppressa, nell’Eurozona cancellata sino alle sue ultime radici, a partire dal 1 gennaio 1999.
D. Non ci sono strumenti per cambiare le cose?
R. Degli istituti della democrazia restano nomi e simboli. La sostanza è scomparsa. Nessun referendum potrebbe abrogare la disciplina dei regolamenti dell’Unione. I partiti dovrebbero consentire ai cittadini di concorrere con metodo democratico alla politica nazionale. Sono divenuti aggregati di gruppi per la conquista di un potere che non esiste. I sindacati sono impotenti. Manifestazioni individuali e collettive, comprese le più gravi, restano senza effetto. Anche se si lanciasse una bomba atomica, ipotesi assurda, non servirebbe a nulla. Si ampliano invece gli spazi per la corruzione, per l’illiceità, per il mero verbalismo.
D. Finiscono qui le conseguenze?
R. Ve ne è un’altra che da sola dimostra la dannosa pericolosità del sistema applicato dal 1 gennaio 1999. In ogni sistema giuridico, poste alcune premesse, anche se non ne sono state valutate le conseguenze, queste non possono non prodursi. Il principio del bilancio attivo o in pareggio a medio termine è stato imposto con regole generali a tutti gli Stati ammessi all’euro. Le condizioni non erano identiche. Alcuni Paesi avevano da tempo un bilancio in pareggio o prossimo al pareggio, altri ne erano distanti. La prescrizione non rivolta ai secondi di realizzare il pareggio a medio termine, comportava di fatto che essi assumessero una conformazione analoga, anzi identica, a quella dei primi.
D. Insomma una imposizione inattuabile?
R. Nelle corse al trotto dei cavalli, se non erro, si gravano di handicap i migliori perché tutti abbiano pari opportunità di classificarsi tra i primi. Il principio applicato dai regolamenti è opposto. L’handicap è stato imposto alle economie più deboli, non a quelle più forti. Ne risultano violate le condizioni essenziali per una leale concorrenza. In via generale si è reso più difficile ai più deboli il raggiungimento del pareggio. Quindi si è imposta una regola non coerente con il principio della concorrenza. «La Commissione ha individuato l’errore nella insufficienza del rigore»
D. Ma dati i risultati negativi, non c'è stata una riflessione successiva?
R. Il regolamento 1175/2011 afferma che in precedenza erano stati commessi sbagli. Ha individuato l’errore nella insufficienza del rigore. Raccogliendo un seme presente nel regolamento 1466/97, lo ha concimato e lo ha portato a fioritura. L’obbligo, quello generale del bilancio a medio termine e quello specifico di ciascuno degli Stati membri di attenersi al programma per essi definito, da solo non avrebbe generato crescita. Ma il regolamento ha sostenuto che gli Stati che partivano indietro, per correre come migliori, avrebbero dovuto assumere conformazioni identiche, o quanto meno analoghe, a quelle dei migliori. A cominciare dalle strutture.
D. Cosa intenede per strutture?
R. Qui il discorso potrebbe proseguire su due piani distinti, su quello formale e su quello sostanziale. A quale dei due dare la preferenza?
D. Cominciamo da quello sostanziale.
R. I sistemi economici, a maggior ragione gli Stati, sono organismi diversi ma assimilabili agli uomini e a qualsiasi altra specie di entità vivente. In ogni organismo le componenti, le grandi come le minime, sono in perpetuo movimento. Ogni entità è, nel momento successivo, diversa da quella che era nel momento anteriore. Ogni entità è somigliante, ma nello stesso tempo necessariamente diversa da qualsiasi altra della medesima specie. Pur nella diversità della conformazione tutte le entità della medesima specie sono costituite da organi o da sistemi di organi presenti in tutte le altre entità della medesima specie. Sono le strutture. In ogni organismo i singoli organi e i sistemi che gli stessi formano corrispondono a quelli che concorrono alla conformazione delle altre entità della medesima specie. Ma sono necessariamente diverse.
D. E cosa c'entrano le strutture con le norme europee?
R. Queste peculiarità valgono anche per l’Unione e per gli Stati membri. Le entità elementari, e così anche se si risale ai livelli superiori, si influenzano reciprocamente. Non sono mai identiche ai corrispondenti organi o sistemi, che concorrono alla conformazione delle altre entità della specie. Per i trapianti che si effettuano nell’uomo non si dispone mai di organi identici a quello da sostituire. Le differenze sono inevitabili. Ci si deve limitare ad accertare che non sia incompatibile. Le strutture di organismi, quali gli Stati e le loro economie, corrispondono, come ora detto, agli organi del corpo umano e ai sistemi che concorrono alla conformazione di ogni singola specie. Non sono mai identiche dall’una all’altra entità della medesima specie.
D. Quindi non si possono 'replicare' le strutture di un altro Stato?
R. Se si inserisce la struttura di una economia in un’altra economia, quella di uno Stato in un altro Stato, è prevedibile che si provochino danni. Eliminando la struttura preesistente si genera un vuoto. Se la preesistente viene sostituita da altra sul modello di un diverso sistema, non vi è certezza del se e quando si realizzerà la piena integrazione con le componenti preesistenti contigue o connesse. Il danno della demolizione dell’esistente è immediato, il beneficio sperato dall’inserimento è necessariamente futuro.
D. Insomma non ne vale la pena?
R. È comunque incerto. Il danno provocato dall'eliminazione di strutture complesse e antiche non è mai circoscritto. Nelle conformazioni, frutto di antica storia, ogni componente risulta sempre intrecciata con molte altre. Fa parte di nodi che non è facile sciogliere.
D. C'è qualcosa da aggiungere dal punto di vista del diritto?
R. Il regolamento 1175/2011 indica come sua fonte leggittimatrice l’articolo 121, paragrafo 6, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (Lisbona). Il regolamento, lo si è notato nella sintetica esposizione del suo contenuto, conferma nella sua totalità discipline che non trovano corrispondenza nei tre Trattati (Maastricht, Amsterdam, Lisbona). E che contengono norme in contrasto con la disciplina dei poteri conferiti dai Trattati agli Stati quali strumenti essenziali per la produzione della crescita. Il regolamento 1175/2011 cerca di accreditare la sua legittimità richiamandosi all’articolo 121, numero 6 Tfue. La citazione è erronea.
D. Qual è l'errore?
R. L’articolo 121, numero 6 Tfue non consente al regolamento di modificare il Trattato in un punto fondamentale. La disciplina originaria dei poteri di indebitamento degli Stati e dei loro limiti è quella dell’articolo 104 c) Tue, ora 126 Tfue. La disciplina si compone di tre parti. La prima, commi 1 e 2, lettere a) e b), regola le parti sostanziali della disciplina. E assume a base della disciplina distinti rapporti del debito e dell’indebitamento con il Pil. In una seconda parte, comma 2, ultimo capoverso, l’articolo 104 c) Tue, contiene un rinvio al protocollo numero 5 il cui oggetto è unicamente la determinazione dei valori di riferimento, compresa la definizione dei termini adoperati. In una terza parte, numeri da 3 ad 11, l’articolo 104 c) Tue detta la disciplina della sorveglianza e sanzionatoria.
D. Nemmeno il Consiglio può modificare le norme?
R. Il richiamato numero 11, articolo 126 Tfue, attribuisce al Consiglio di adottare le opportune disposizioni che sostituiscono detto protocollo, avvalendosi della procedura legislativa speciale previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea. La competenza attribuita al Consiglio è solo la sostituzione del protocollo. Il contenuto del protocollo si limita alla specificazione dei «valori di riferimento» (ultimo capoverso del numero 1). Il riferimento dei valori al rapporto tra debito e indebitamento ed il Pil, e i criteri vincolanti per la interpretazione e applicazione degli stessi di cui agli alinea a) e b) del numero 2 dell’articolo126, sono oggetto regolato esclusivamente dall’articolo 104 c) Tue, ora 126 Lisbona. Un oggetto quindi del tutto diverso dalla specificazione dei valori di riferimento, unica competenza attribuita al protocollo numero 5.

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29 gennaio 2015



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