Seneca. L'arte di non adirarsi.


Se mai ci fossero dei dubbi, è certo che nessuna passione mostra nell'uomo un aspetto peggiore di quello che genera l'ira
Seneca, De ira

iracondi

Dante gli iracondi

Qualche tempo fa mi è capitato di essere stato aggredito verbalmente per un'offesa che io avrei architettato ai danni di una persona, offesa per la quale non solo ero innocente ma anche all'oscuro dell'esistenza di un'offesa. L'"aggressore verbale" aveva il volto deturpato dallo stato di "rabbia", gonfio, sudato e paonazzo, la voce strozzata e sibilante; mi vomitava improperi dei quali io nemmeno immaginavo l'esistenza, mi minacciava di gonfiarmi la faccia come un pallone, non mi permetteva di interloquire, minacciava i miei cari. Era pazzo. Dopo una decina di minuti, approfittando del fatto che l'aggressore doveva riprendere fiato riesco, finalmente, a parlare anch'io. Dopo pochi minuti il "pazzo" si sgonfia, gli occhi dilatati come quelli di un drogato e un'enorme senso di vergogna. Non sapeva più cosa dire e io ne approfittai per fargli comprendere che avrebbe dovuto prendersela solo con se stesso per il suo comportamento irrazionale e folle. Non profferì più una sola parola. Tornato a casa ho preso dalla libreria dei classici a me cari uno che mi ha sempre stimolato: il De ira di Seneca. Testo che propongo ai miei lettori. Per alleggerire la lettura ho eliminato quelle parti della storiografia che riguardano da vicino la vita di Seneca e il suo tempo, oppure personaggi che sono per noi, per lo più, sconosciuti. I personaggi che affollano il testo di Seneca sembrano tratti dalle pagine della cronaca dei giornali di oggi: corrotti, corruttori, ladri, violenti, invidiosi, feroci, avidi, arrampicatori sociali, "Tutto è pieno di delitti e di vizi, e si commettono più misfatti di quanti se ne possano rimediare con i mezzi coercitivi. È una specie di grande gara di iniquità; ogni giorno aumenta la cupidigia di peccare e diminuisce il ritegno; spazzata via ogni valutazione del meglio e del giusto, la libidine si slancia in qualunque direzione le pare, e i delitti nemmeno più si nascondono; ti passano sotto gli occhi; la nequizia si è talmente diffusa in pubblico e talmente rinvigorita nel cuore di tutti, che l’innocenza non è più rara: è inesistente". Per dare un'idea dell'argomento trattato da Seneca mi piace sottolineare quest'altro passaggio: "C’è un essere più mite dell'uomo quando la sua mente è nella giusta disposizione? E che cosa c’è di più crudele dell’ira? Esiste un essere che sappia amare gli altri più dell’uomo? E c’è cosa più indisponente dell’ira? L’uomo è nato per il reciproco aiuto, l’ira, per distruggere; l’uomo vuol associarsi, l’ira vuole separare; l’uomo vuole giovare, l’ira vuol nuocere; l’uomo vuol aiutare anche gli sconosciuti, l’ira, assalire anche gli esseri più cari; l’uomo è pronto anche a sacrificarsi a vantaggio degli altri, l’ira, ad affrontare il pericolo, pur di trascinare gli altri con sé, nella rovina ".

LIBRO I
1. Il concetto di ira e il ritratto dell'adirato

[1] Hai insistito, o Novato (fratello maggiore di Seneca), perché scrivessi come si può placare l’ira, e mi pare che tu abbia buone ragioni di temere soprattutto questa passione che, più d’ogni altra, è spaventosa e furibonda. Le altre, a dir il vero, hanno una componente di tranquillità e calma, questa è tutta eccitazione e impulso, è furibonda e disumana, dimentica se stessa pur di nuocere all’altro ed è avida di vendetta. [2] Per questo motivo, alcuni saggi definirono l’ira “un momento di pazzia”; come quella, infatti, è incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a distinguere il giusto ed il vero. [3] Per convincerti che i posseduti dall’ira sono dei dissennati, osserva bene il loro atteggiamento: come sono sicuri sintomi di pazzia l’espressione risoluta e minacciosa, la fronte aggrottata, la faccia scura, il passo concitato, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro frequente ed affannoso, tali e quali sono i sintomi dell’ira incipiente: [4] gli occhi ardono e lampeggiano, il viso si copre di rossore per il rifluire di sangue dal fondo dei precordi, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si drizzano ispidi, il respiro diventa forzato e rumoroso, le articolazioni schioccano tormentandosi, i gemiti e i muggiti si intercalano in un parlare che inciampa in voci mozze, le mani battono continuamente e i piedi percuotono la terra, il corpo è tutto eccitato e “scagliante grandi minacce d’ira”, i lineamenti sono brutti e spaventosi, quando un uomo si sfigura per corruccio. [5] Impossibile sapere se è un vizio più detestabile. Tutti gli altri si possono nascondere o nutrire in segreto: l’ira si manifesta ed affiora sul volto e, quanto più è grande, tanto più apertamente ribolle.
2. Gli effetti dell’ira
[1] Ed ora, se vuoi esaminare gli effetti e i danni, nessuna calamità è costata più cara al genere umano. Vedrai uccisioni e avvelenamenti, reciproche infamie di colpevoli, distruzioni di città e stragi di intere popolazioni, vite di capi di Stato stroncate, fiaccole gettate nelle case, incendi non limitati alla cerchia delle mura, ma immense distese di territorio, rilucenti di fiaccole nemiche. [2] Osserva le fondamenta di città notissime, ormai quasi invisibili: le ha abbattute l’ira; osserva tanti deserti, disabitati per miglia e miglia: li ha spopolati l’ira. [3] E sto ancora narrando supplizi di singoli: che sarà, se vorrai tralasciare i casi in cui l’ira è divampata su individui e guardare intere assemblee passate a fil di spada, plebi trucidate da incursioni di soldatesche, interi popoli mandati a morte senza distinzione alcuna… (LACUNA DEL TESTO) [4] ... come se cessassero di occuparsi di noi o disprezzassero la nostra autorità. E che? Per quale motivo il popolo s’adira contro i gladiatori, e diventa tanto ingiusto, da ritenersi offeso se non muoiono volentieri? Si giudica sottovalutato e, con l’espressione, il gesto, l’eccitazione, da spettatore diventa nemico. [5] Ma fatti del genere non sono ira: sono una specie di ira, paragonabile a quella dei bambini che, se cadono, vogliono che si batta la terra e spesso non sanno nemmeno con chi si adirano: si adirano e basta, senza un motivo, senza essere stati ingiuriati, ma non senza una parvenza di ingiuria ed un desiderio di castigo. Perciò vengono ingannati con le finte percosse e placati con le false lacrime di scusa: una vendetta inconsistente pone fine ad un rancore inconsistente.
3. Alcune obiezioni e risposte. L’autorità di Aristotele. L’apparente ira degli animali
[1] “Spesso”, si obietta, “non ci adiriamo con chi ci ha fatto offesa, ma con chi si prepara a farla: sappi dunque che l’ira non è conseguenza dell’ingiuria”. [2] “Per renderti conto” si obietta “che l’ira non consiste nel desiderio di castigare, tieni presente che spesso i più deboli si adirano con i più potenti, senza un desiderio di castigarli, perché non possono sperare tanto”. Prima di tutto, ho detto che l’ira è il desiderio, non la possibilità concreta, di infliggere un castigo; ma gli uomini desiderano anche cose che non sono in grado di fare. Poi nessuno è tanto in basso da non sentirsela di sognarsi punitore anche dell’uomo più importante; in più, di fare del male ci sentiamo capaci tutti. [3] La definizione di Aristotele non è molto lontana dalla nostra: dice, infatti, che l’ira è il desiderio di contraccambiare il male. Sarebbe lungo esporre minuziosamente le differenze tra la nostra definizione e questa. Ma si obietta ad ambedue che le bestie s’adirano, senza esser state irritate da ingiuria o senza desiderare l’altrui castigo o dolore, e se le conseguenze della loro ira sono le medesime, non è quella la loro intenzione. [4] Bisogna però chiarire che né le bestie, né alcun altro essere tranne l’uomo, è soggetto all’ira; infatti, pur essendo l’ira incompatibile con la ragione, tuttavia non nasce, se non dove c’è luogo per la ragione. Le bestie hanno impulsività, rabbia, ferocia, aggressività, ma non sono soggette all’ira.
4. L’ira e l’irascibilità
[1] Abbiamo già spiegato a sufficienza che cosa è l’ira. Si veda anche come differisca dall’irascibilità: come l’ubriaco dall’ubriacone e lo spaventato dal timido. Un adirato può non essere irascibile, un irascibile, talvolta, può non essere adirato. [2] Tutte le altre suddivisioni, con cui i Greci designano le sottospecie dell’ira, con ricca terminologia, le lascio cadere perché, in latino, non esistono vocaboli appropriati, anche se noi usiamo gli aggettivi “stizzoso, burbero”, e anche “bilioso, rabbioso, becero, intrattabile, rozzo”, che esprimono altrettante sottospecie dell’ira. [3] Ci sono delle ire che si limitano al gridare, altre sono tanto ostinate quanto frequenti, altre sono pronte alle vie di fatto e avare di parole, altre si sfogano nell’amarezza dell’ingiuria, altre ancora non vanno oltre la lagna e il brontolio, altre sono profonde, opprimenti, introverse, e ci sono mille altri aspetti di questo male dai tanti volti.
5. L’ira ripugna alla natura umana
[1] Ci siamo chiesti che cosa è l’ira, se ad essa sono soggetti altri esseri oltre l’uomo, come si diversifica dall’irascibilità, in quante specie si suddivide; domandiamoci, ora, se essa è consona alla natura, se è utile, se, almeno in parte, dobbiamo tenercela. [2] Se essa sia consona alla natura, emergerà chiaramente da una attenta osservazione dell’uomo. C’è un essere più mite quando la sua mente è nel giusto assetto? E che cosa c’è di più crudele dell’ira? Esiste un essere che sappia amare gli altri più dell’uomo? E c’è cosa più indisponente dell’ira? L’uomo è nato per il reciproco aiuto, l’ira, per distruggere; l’uomo vuol associarsi, l’ira vuole la separazione; l’uomo vuole giovare, l’ira vuol nuocere; l’uomo vuol aiutare anche gli sconosciuti, l’ira, assalire anche gli esseri più cari; l’uomo è pronto anche a sacrificarsi a vantaggio degli altri, l’ira, ad affrontare il pericolo, pur di trascinare gli altri con sé.
6. Casistica e norme: a) l’ira e la punizione del male
[1] “Allora non si danno casi in cui è necessaria una punizione?”. Perché no? Ma leale, ragionata, perché non deve nuocere, ma guarire dietro la parvenza del nuocere. Come scottiamo al fuoco certi giavellotti storti, per drizzarli, e li tagliamo e applichiamo loro degli spinotti, non per spezzarli, ma per allungarli, così correggiamo i caratteri depravati dal vizio, con il dolore fisico e morale. [2] Appunto il medico, nei disturbi leggeri, per prima cosa tenta di modificare in parte le nostre abitudini quotidiane, di porre una regola al cibo, alle bevande, all’attività, e di rafforzare la nostra salute, limitandosi a cambiare il nostro tenore di vita. La restrizione giova subito; ma, se la restrizione e l’ordine non ci giovano, ci toglie e riduce qualche altra cosa; se neppure così c’è risultato, ci mette a digiuno e sbarazza il corpo con l’astinenza; se i rimedi più blandi non hanno avuto efficacia, ci fa un salasso e interviene chirurgicamente su quelle membra che danneggiano le vicine o diffondono il male: nessuna terapia sembra dura, se produce la guarigione. [3] Allo stesso modo, chi tutela la legge e governa la città deve curare le indoli, più a lungo che può con le parole, e le più garbate; per indurre al bene da farsi e instillare negli animi il desiderio dell’onestà e della giustizia, provocare l’odio dei vizi e la stima delle virtù; in un secondo momento, deve passare ad un discorso più severo, per insistere sulle ammonizioni e per rimproverare; infine, passi alle pene, ma si limiti a quelle lievi e revocabili; assegni il supplizio estremo ai delitti estremi, affinché nessuno vada a morte, se non nel caso in cui il morire giovi anche a chi muore. [4] Su un sol punto si comporterà diversamente dai medici, in quanto quelli procurano una morte blanda a coloro cui non poterono donare la vita, egli invece toglie la vita ai condannati con disonore e pubblico scherno, non perché si diletti d’assistere a una esecuzione (il saggio è alieno da una ferocia tanto disumana), ma perché siano di ammonimento per tutti e perché, dopo che quelli non hanno voluto giovare a nessuno, lo Stato abbia un sicuro utile dalla loro morte. La natura umana non è, dunque, incline al punire; perciò neppure l’ira, in quanto brama il castigo, è consona alla natura umana. [5] Riporterò un argomento di Platone: “L’uomo buono” dice “non infligge il male”. Castigare è infliggere un male; il castigare, dunque, non s’addice all’uomo buono; e perciò neppure l’ira, perché l’ira comporta il castigo. Se l’uomo buono non gioisce del castigo, non gioirà neppure di quella passione per la quale il castigo è voluttà: dunque l’ira non è consona alla natura.
7. b) l’ira non è mai utile
[1] “Anche se l’ira non è consona alla natura, non è ugualmente bene ammetterla, dato che in più di un caso è stata utile? Esalta ed eccita l’ardimento e, in guerra, senza di essa il coraggio non compie nessuna impresa straordinaria; è indispensabile accendere con questa fiamma e pungolare con questi sproni gli audaci, al momento di lanciarli nel pericolo. Perciò alcuni pensano che la regola migliore sia quella di moderare l’ira, ma senza eliminarla del tutto: una volta che le sia stato tolto quanto trabocca, ridurla a misura di utilità pratica, serbandone quel tanto senza cui l’azione si smorza e la forza ed il vigore d’animo si dileguano”. [2] Prima di tutto, è più facile eliminare le passioni rovinose che controllarle, non dare loro adito che governarle, dopo averle accolte; infatti, una volta che sono diventate padrone, sono più forti del loro presunto governatore, e non si lasciano sfrondare o sminuire. [4] Certe cose sono sotto nostro controllo all’inizio, ma, con la loro forza, ci sottraggono il seguito e non ci consentono un ripensamento. Come i corpi, che stanno precipitando, non possono più disporre di se stessi, non sono in grado di arrestare o di rallentare la propria caduta, perché il precipitare irrevocabile esclude ogni riflessione e pentimento e non è più possibile non arrivare là dove, prima, era possibile non andare, così l’animo, se si getta nell’ira non si sente più in grado di frenare lo slancio: è ineluttabile che il suo stesso peso e la natura del vizio lo trascinino e lo spingano fino in fondo.
8. c) bisogna controllare l’ira fin dal suo primo insorgere
[1] La regola migliore è di rifiutare subito il primo insorgere dell’ira, combatterne i remoti principi e impegnarsi in concreto a non adirarsi. Infatti, se comincia a trasportarci fuori strada, è difficile tornare a salvezza, perché non c’è più nulla di ragionevole, una volta che s’è intromessa l'ira e le si è concesso, di nostra volontà, un settore di dominio: su ciò che resta, farà quanto vorrà, non quanto le permetterai. [4] “Ma alcuni”, si obietta “nell’ira sanno moderarsi”. Ma al punto di non far nulla di quanto l’ira detta, o di farne qualcosa? Se non ne fanno nulla, è chiaro che l’ira non è necessaria a condurre in porto le imprese, eppure voi la chiamavate in aiuto, come se avesse qualcosa di più forte della ragione. [5] Per sbrigare la questione, vi chiedo: è più forte della ragione, o più debole? Se è più forte, in che modo la ragione potrà dettarle legge, dato che non sono avvezzi all’ubbidienza se non gli esseri più deboli? Se è più debole, la ragione, da sola e senza quella, basta a condurre a effetto le imprese, senza invocare l’aiuto del più debole.
9. d) lo slancio e la decisione non sono ira
[1] Inoltre: l’ira non ha in sé niente di utile e non stimola l’anima alle imprese di guerra. La virtù non deve mai essere aiutata con il vizio: basta a se stessa. Ogni volta che ha bisogno di slancio, non si adira: si innalza, e si stimola nella misura che ritiene necessaria, poi si placa, proprio come quei dardi che vengono lanciati dalle macchine e che sono a completa disposizione di chi li lancia e ne regola la portata. [2] “L’ira, dice Aristotele, è necessaria e, senza di essa, non si può venire a capo di nulla: essa deve gonfiarci l’animo ed infiammarci l’ardire. Ma non dobbiamo servircene come di un comandante, ma come di un soldato”. È falso. Infatti, se ascolta la ragione e la segue nel cammino che essa le traccia, non è più ira, dato che la caratteristica dell’ira è la ribellione; se, invece, recalcitra e non si ferma quando ne riceve l’ordine, ma si lascia portar oltre dalla sua indomabile sfrenatezza, è un inserviente dell’animo tanto inutile, quanto un soldato che non tiene conto del segnale di ritirata.
10. e) anche se controllata, l’ira è sempre un male
[1] Perciò la ragione non assumerà mai come aiutanti le passioni sprovvedute e violente, sulle quali essa non ha alcuna autorità e che sa di non poter mai frenare, se non opponendo loro passioni equivalenti e simili, come il timore all’ira, l’ira all’inettitudine o la cupidigia al timore. [2] Alla virtù, non accadrà mai la sciagura di vedere la ragione rifugiarsi dietro i vizi! Un animo così non può fruire di duratura tranquillità: è inevitabile che rimanga scosso e agitato l’uomo che cerca sicurezza nei suoi mali, che non sa essere forte senza l’ira, operoso senza la cupidigia, tranquillo senza il timore: deve vivere sotto tirannide, colui che finisce schiavo di una passione. E non è vergogna umiliare la virtù, sottoponendola al patronato dei vizi?
11. Prima conclusione: la razionalità e la tecnica giovano più dell’ira
[1] “Ma”, si obietta “contro i nemici, l’ira è indispensabile”. In nessun caso serve meno: è proprio allora che gli impulsi non debbono traboccare, ma esser controllati e sottomessi. Quale altro fattore fiacca i barbari, fisicamente tanto più robusti, tanto più resistenti alla fatica, se non l’ira quanto mai ostile a se stessa? E i gladiatori? La tecnica li protegge, l’ira li scopre. [5] Con quale altro mezzo, Fabio rimise in sesto le forze stremate dell'esercito romano, se non con il saper temporeggiare, tirare in lungo e rinviare, espedienti del tutto ignoti agli adirati? Si sarebbe estinta quella dominazione che, in quel momento, si reggeva in condizioni disperate, se Fabio avesse osato tanto quanto suggeriva l’ira. Tenne fisso il pensiero al bene dello Stato e, valutate le forze, delle quali nulla si poteva perdere senza la catastrofe totale, mise da parte il dolore e la vendetta, badando a un solo scopo pratico: cogliere le occasioni favorevoli. Sconfisse prima l’ira che Annibale. [6] E Scipione? Abbandonato Annibale, l’esercito cartaginese e tutti coloro contro i quali ci si doveva adirare, non trasferì la guerra in Africa, con tanta lentezza che i maligni poterono credere in una sua mollezza ed indolenza? [7] E il secondo Scipione? Non mantenne un duro e lungo assedio attorno a Numanzia, e sopportò serenamente il cruccio suo e dello Stato, perché occorreva più tempo a sconfiggere Numanzia che Cartagine? A furia di scavar trincee e chiudere i nemici, li spinse al punto che si uccidevano con le loro stesse armi. Dunque, l’ira non è utile, nemmeno nelle battaglie e nelle guerre, è propensa infatti alla temerità e non bada al proprio pericolo, nell’intento di arrecarne agli altri. È invece sicurissimo quel valore che sa guardarsi attorno a lungo e con attenzione, mettersi sulla strada buona ed avanzare con calma, secondo un preciso disegno.
12. Seconda serie di norme: a) saper fare il proprio dovere senza adirarsi
[1] “Ma allora”, si obietta, “l’uomo buono non deve adirarsi se, sotto i suoi occhi, gli percuotono il padre o gli rapiscono la madre?”. Non deve adirarsi, ma farne vendetta, difenderli. Teme forse che la pietà filiale, anche senza l’ira, non sia per lui un pungolo sufficiente? Puoi formulare l’obiezione anche così: “Ma allora l’uomo buono, quando vede far a pezzi suo padre o suo figlio, non deve piangere, non deve perdersi d’animo?”. Sono le cose che vediamo accadere alle donne, ogni volta che le sbigottisce il sospetto di un lieve pericolo. [2] L’uomo buono adempirà i suoi doveri senza turbarsi né trepidare e, compiendo le azioni proprie dell’uomo buono, terrà una condotta che non ammette nulla che sia indegno per un uomo. Vogliono percuotere mio padre? Lo difenderò. Lo hanno già percosso? Lo vendicherò, perché è mio dovere, non per rancore. [5] Adirarsi per i propri cari non è pietà d’animo, ma debolezza; è condotta bella e dignitosa uscire in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei concittadini, sotto la guida e l’imperativo del dovere, con discernimento e cautela, non con impulsività e rabbia. Infatti nessuna passione brama la vendetta più dell’ira che, proprio per questo, diventa inadatta a vendicarsi. Troppo impetuosa e forsennata, come, in genere, ogni passione, si ostacola da sé nel dirigersi allo scopo verso il quale si precipita. Perciò non è mai stata un bene, né in pace né in guerra; rende, infatti, la pace simile alla guerra e, in combattimento, dimentica che Marte non parteggia per nessuno; finisce sotto il dominio altrui, perché non sa dominare se stessa.
13. L’ira non aiuta la virtù
[1] Poi, le virtù che si debbono avere, quanto più sono grandi, tanto più sono buone e desiderabili. Se la giustizia è un bene, nessuno dirà che essa diverrà migliore se le si sottrae qualche cosa; [2] se la fortezza è un bene, nessuno desidererà che essa sia sminuita di qualche sua componente. Dunque, anche l’ira, quanto più è grande, tanto più è buona: chi, infatti, ricuserebbe l’aumento di un bene? Eppure l’aumentarla non produce alcun utile: quindi, nemmeno la sua presenza. Non è un bene ciò che, aumentando, diventa un male. [3] “L’ira è utile”, si obietta “perché rende più combattivi”. Ragionando così, lo è anche l’ebbrezza: rende, infatti, sfrontati ed arroganti, e molti si troveranno più validi, nel maneggiare le armi, dopo una discreta bevuta, ma, ragionando così, devi dir necessario alla vigoria anche il delirio e la demenza, perché il furore rende spesso più forti. [4] E che? La paura non ha reso qualcuno audace per contrasto, ed il timore della morte non ha risvegliato a combattere anche i più indolenti? Ma l’ira, l’ebbrezza, la paura e altre passioni simili sono stimoli vergognosi e momentanei, e non pongono in assetto di combattimento la virtù, che non ha nessun bisogno dei vizi, ma risvegliano per un attimo un animo altrimenti pigro e codardo. [5] Non diventa più forte con l’ira se non colui che, senza l’ira, non sarebbe stato forte. Così, essa non viene ad aiutare la virtù, ma a sostituirla. E non è vero che, se l’ira fosse un bene, accompagnerebbe tutti i più perfetti? Eppure i più irascibili sono i bambini, i vecchi ed i malati: tutti i deboli sono lagnosi per natura.
14. b) la comprensione e la correzione
[1] “Non può darsi” obietta Teofrasto “che l’uomo buono non s’adiri contro i cattivi”. Ragionando così, quanto più uno è buono, tanto più, per questo, dev’essere irascibile: vedi se, invece, non debba essere più calmo, libero da passioni e incapace di odiare alcuno. [2] E che motivo dovrebbe avere di odiare i colpevoli, se è l’errore a spingerli ai loro delitti? Non è da uomo riflessivo odiare chi sbaglia, altrimenti diverrà odioso a se stesso. Si renda conto di quante azioni egli compie contro la retta norma morale, di quante, tra le sue azioni, domandano venia: a quel punto, dovrà adirarsi anche contro se stesso. Il giudice giusto non pronuncia una sentenza diversa in casa propria ed in casa altrui.
15. c) saper punire senza adirarsi
[1] Si deve dunque correggere chi è in colpa, sia con gli ammonimenti, sia con la forza e, con modi ora blandi ora duri, renderlo migliore per se stesso, e per gli altri, senza rinunciare al castigo, ma senza ira: quale medico, infatti, s’adira con il paziente? [3] Nulla è meno opportuno dell’ira in chi punisce, tanto più che la pena giova ad emendare nella misura in cui è inflitta con giudizio. Da ciò deriva l’aver Socrate detto al suo schiavo: “Ti picchierei, se non fossi adirato”. Rimandò la punizione dello schiavo a un momento più sereno e, in quel momento, castigò se stesso. Chi presumerà di saper controllare le sue passioni, se un Socrate non ha osato affidarsi all’ira?
16. Non bisogna adirarsi, anche se sono molto gravi i delitti da punire
[1] Dunque, per reprimere chi commette errori e delitti, non è necessario un censore irato; infatti, essendo l’ira un delitto dell’animo, non ha senso che siano i peccati ad emendare il peccatore. “Vuoi dire che non debbo adirarmi con un brigante? Vuoi dire che non debbo adirarmi con un avvelenatore?”. Non devi: e neppure io m’adiro con me stesso, quando mi pratico un salasso. Applico la pena, di qualunque genere sia, come una medicina. [
17. La ragione è coerente, l’ira è incostante
[1] Aristotele sostiene che certe passioni, se utilizzate a dovere, sono come delle armi. Questo sarebbe vero, se si potessero prendere e deporre, come gli strumenti di guerra, a piacimento di chi li deve portare. Ma queste armi, che Aristotele fornisce alla virtù, combattono da sole, non aspettano la mano, sono delle padrone, non degli strumenti. [2] Non c’è nessun bisogno di strumenti accessori: la natura ci ha provveduti a sufficienza, dandoci la ragione. Essa è l’arma che ci ha dato, solida, duratura, docile, non pericolosa o tale da poter esser rilanciata contro il padrone. Non solo per prevedere, ma per gestire le cose, la ragione è sufficiente di per se stessa. Ed allora, che cosa c’è di più insensato che il mandarla a chiedere aiuto all’irascibilità, lei stabile ad una incostante, lei leale ad una perfida, lei sana ad una malata?
18. Si deve sempre preferire la ragione. Esempi di irragionevolezza
[1] La ragione concede tempo alle due parti, poi chiede una dilazione anche per se stessa, per aver modo di vagliare la verità: l’ira ha fretta. La ragione vuol prendere quella decisione che è giusta, l’ira vuole che sembri giusta la decisione già presa.
19. Compostezza e oculatezza della ragione
[1] Di male, direi, l’iracondia ha questo: non accetta d’esser governata; si adira anche contro la verità, se le si presenta contraria al suo volere; perseguita le sue vittime designate con grida, rumore, scomposti movimenti di tutto il corpo, ed aggiunge ingiurie ed insolenze. [2] Questo, la ragione non lo fa ma, se così è necessario, in calma e silenzio, demolisce dalle fondamenta intere case e stermina famiglie funeste allo Stato, con mogli e figli, ne abbatte anche le case e le rade al suolo, ed estirpa i nomi dei nemici della libertà: tutto questo senza fremere né scuotere il capo, né fare alcunché di sconveniente al decoro di un giudice, il cui volto dev’essere calmo ed impassibile, soprattutto nel momento in cui pronuncia sentenze dure.


Lucio Anneo Seneca - Commenti di Eugenio Caruso - 04-03-2015

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LIBRO II
1. L’ira è reazione all’ingiuria

[1] Il primo libro, o Novato, era d’argomento abbastanza accessibile: è facile scendere lungo la china dei vizi. Ora dobbiamo venire a questioni più sottili: ci chiediamo infatti se l’ira nasca da riflessione o da impulso, cioè se muova da volontà deliberata o sia come tanti altri fenomeni, che insorgono in noi a nostra insaputa. [2] È indispensabile far scendere la discussione su questo piano, per poterla poi elevare a più dignitoso livello: del resto, anche nel nostro corpo, prima si dispongono le ossa, i nervi e le articolazioni, per nulla attraenti a vedersi, che sostengono l’insieme e gli danno la vita, poi si forma ciò che conferisce tutto il decoro alla figura e all’aspetto esteriore, per ultimo, dopo tutto questo, nel corpo già formato si diffonde il colore che appaga specificamente l’occhio. [3] Non c’è dubbio che l’ira insorga alla percezione di un'ingiuria, di un'offesa, di un torto; ma il nostro quesito è se essa segua immediatamente quella percezione e prorompa senza la partecipazione dell’animo, o si muova con il suo assenso. [4] È mio parere che essa non osi nulla da sola, ma attenda l’approvazione dell’animo. Infatti, il percepire l’offesa ricevuta, il desiderarne la vendetta e l’associare le due sensazioni, che cioè non dovevamo essere offesi e che è necessaria la vendetta, costituiscono un insieme non contenibile in quell’impulso che sbotta senza la nostra volontà. [5] Quello è semplice, questo è complesso ed implica tanti fattori: la percezione del fatto, lo sdegno, la condanna, la vendetta: l’insieme non può verificarsi, se l’animo non ha dato il suo assenso ai fattori che lo hanno colpito.
2. L’ira è vizio volontario
[1] “A che cosa mira” mi chiedi “questa discussione?”. A sapere che cosa è l’ira. Infatti, se essa nasce senza il nostro assenso, non soccomberà mai alla ragione. Tutte le reazioni che insorgono fuori dell’area della volontà, sono invincibili e inevitabili, come il brivido di chi è cosparso d’acqua fredda o la ripugnanza a certi contatti, il rizzarsi dei capelli alle notizie più brutte, l’effondersi del rossore alle parole sfacciate, la vertigine che coglie chi guarda i dirupi. Poiché nulla di tutto questo è in nostro potere, la ragione non può impedirne il verificarsi. [2] L’ira è messa in fuga dai retti dettami: essa è infatti un vizio volontario dell’animo, non una di quelle reazioni che sono insite nello stato di condizione umana e perciò accadono anche ai più saggi; tra queste, è da annoverare anche quel primordiale impulso interiore che ci turba al pensiero dell’ingiuria. [3] Esso ci coglie anche quando assistiamo a spettacoli teatrali o leggiamo storie antiche. [4] A volte ci eccitano un canto, una melodia ritmata o il suono marziale delle trombe. Ci commuovono una pittura spietata o la lugubre vista di supplizi anche giustissimi, [5] ed è per questo motivo che sorridiamo a chi ci sorride, ci rattristiamo davanti ad una folla in pianto e ci entusiasmiamo, guardando altri combattere. Ma questa non è ira; come non è tristezza il corrugare la fronte, quando il mimo rappresenta un naufragio, e non è paura quella che prende il lettore, quando Annibale, dopo Canne, assedia le mura. Tutti questi sono moti dell’animo, che però non coinvolgono la volontà; e non sono nemmeno passioni, ma sintomi che preludono alle passioni. [6] Allo stesso modo, la tromba eccita le orecchie di un soldato che, in piena pace, ha già ripreso gli abiti civili, e uno strepito d’armi ridesta i cavalli negli accampamenti.
3. Accezione morale della passione
[1] Nessun impulso fortuito dell’animo deve essere chiamato passione: è più esatto dire che l’animo subisce, non produce, i fatti di questo genere. La passione non consiste dunque nella commozione che si prova nel percepire i fatti, ma nell’abbandonarsi ad essa e nell’assecondare questo impulso fortuito. [2] Dunque, il ritenere che il pallore, il cadere delle lacrime, l’eccitarsi degli umori del sesso, il sospirare profondo, il lampo improvviso degli occhi siano sintomi di passione e manifestazione di stato d’animo, è uno sbaglio, un non rendersi conto che si tratta di impulsi fisici. [3] Per questo, anche l’uomo più coraggioso impallidisce quando prende le armi e il soldato più prode, al risuonare del segno di battaglia, avverte un leggero tremito alle ginocchia, il grande generale prova un tuffo al cuore quando gli eserciti stanno per scontrarsi, e l’oratore più eloquente, quando si concentra per parlare, sente irrigidirsi le estremità del corpo. [4] L’ira non può limitarsi a mettersi in movimento, ma deve anche prorompere, perché è uno slancio; ma non ci possono mai essere slanci, senza l’assenso della mente; allora, non può nemmeno darsi che si discuta di vendetta e di punizione, all’insaputa dell’animo. Uno s’è ritenuto offeso, s’è proposto una vendetta ma, dissuaso da un qualunque motivo, si è placato; non posso chiamare ira questo movimento dell’animo, che obbedisce alla ragione; è ira quella che scavalca la ragione e se la trascina dietro. [5] Dunque, quella prima reazione dell’animo che è provocata dalla percezione dell’ingiuria, non rientra nel concetto di ira più di quanto ci rientri la percezione dell’ingiuria; invece il successivo impulso, quello che non solo registra la percezione dell’ingiuria, ma la condivide, è l’ira, cioè l’eccitarsi dell’animo che si avvia alla vendetta con volontà deliberata. Non s’è mai messo in dubbio che il timore provochi la fuga, l’ira l’attacco: dimmi tu, ora, se pensi che si possa brigare per qualche cosa o guardarsene, senza l’assenso della mente.
4. Psicologia della passione
[1] Voglio renderti edotto del come le passioni incominciano, si sviluppano e giungono all’esasperazione. Il primo movimento è involontario ed è come un preparativo o una minaccia della passione; il secondo è accompagnato da volontà controllabile ed è il pensare che è necessaria la vendetta, dacché sono stato offeso, o che costui deve essere punito, dacché ha offeso; il terzo movimento è ormai tracotante, non vuole la vendetta perché è necessaria, ma perché la vuole, ed ha già sopraffatto la ragione. [2] Al primo dei tre impulsi non possiamo sottrarci con la ragione, come non possiamo sottrarci a quelle reazioni fisiche di cui s’è detto, allo sbadiglio quando sbadigliano gli altri, al chiudere gli occhi quando ci puntano improvvisamente le dita contro: questi fatti non li può vincere la ragione; forse li attenua l’assuefazione o una circospezione costante. Ma il secondo movimento, quello che nasce da deliberazione, è annullabile con una decisione.
5. L’ira e la ferocia
[1] Dobbiamo ora chiederci questo: coloro che sono abitualmente crudeli e godono del versare sangue umano, sono in preda all’ira, quando uccidono persone dalle quali né hanno ricevuto ingiuria, né pensano d’averla ricevuta? [2] Questa non è ira, è ferocia: essa infatti non fa il male per vendicare l’ingiuria ricevuta, ma è addirittura disposta a riceverla, pur di poter fare il male, e non cerca le fustigazioni e lo strazio delle membra per vendicarsi, ma per goderne.
6. La virtù è incompatibile con l’ira
[1] “La virtù,” si obietta “come deve esser favorevole alle imprese oneste, così deve essere adirata contro quelle turpi”. E se mi vengono a dire che la virtù dev’essere insieme abietta e nobile? Eppure dice questo chi la vuole vedere esaltarsi ed abbattersi, perché la gioia per un’impresa buona è nobiltà e gloria, l’ira per un peccato altrui è meschinità e grettezza. [2] La virtù non si comporterà mai in modo da imitare quei vizi che sta reprimendo; deve ridurre a ragione proprio l’ira, che non è per nulla migliore, anzi spesso è peggiore, dei delitti contro i quali si scaglia. Costitutivo specifico e nativo della virtù è il godere e rallegrarsi; l’adirarsi non si conviene al suo decoro, come non gli si conviene il piangere: ebbene, la tristezza è compagna dell’iracondia, ed in essa va a sfociare ogni atto di ira, o dopo il pentimento o dopo l’insuccesso.
7. La saggezza è compostezza
[1] C’è cosa più sconveniente che porre in un uomo saggio una passione condizionata dalla malvagità altrui? Il famoso Socrate non sarà più in grado di rientrare in casa con il volto pacato che aveva quando ne era uscito; eppure, se il saggio deve adirarsi contro le azioni turpi, e deve anche spazientirsi e rattristarsi per i delitti, non esiste vivente più travagliato di lui: la sua vita trascorrerà tutta nell’ira e nella tristezza. [2] Ci sarà davvero un momento in cui non veda azioni da disapprovare? Ogni volta che uscirà di casa, dovrà camminare tra scellerati, avari, prodighi, spudorati, tutta gente felice dei propri vizi; non potrà mai girare l’occhio, senza trovare un motivo di indignazione; cadrà esausto, se si impegnerà ad adirarsi ogni volta che la situazione lo richiede.
8. La folla degli sconsiderati
[1] Che sto ad elencare esempi? Quando vedrai il foro pieno di gente e i recinti elettorali zeppi di tutto un afflusso di folla, e quel circo, dove il popolo si mette in mostra il più numeroso possibile, sappi questo: ivi ci sono tanti vizi quanti uomini. [2] Tra codesti individui, che vedi in toga, non c’è pace; ciascuno, per un utile da nulla, si lascia indurre a rovinare l’altro, nessuno ritiene di poter guadagnare se non ingiuriando gli altri, odiano chi è felice e disprezzano chi è infelice; sentono il peso di chi è più grande di loro e gravano sui più piccoli, agiscono sotto lo stimolo delle opposte cupidigie, desiderano il crollo di tutto, per un piacere o un bottino da nulla. Si vive come in una scuola di gladiatori, dove il vivere insieme è un combattersi. [3] È un’accolta di belve codesta, a parte il fatto che quelle non lottano tra loro e non azzannano i loro simili, costoro si saziano sbranandosi vicendevolmente. Tra loro e gli animali c’è questa sola differenza: le belve sono mansuete con chi le nutre, la rabbia di costoro divora chi la nutre.
9. L’ira comporta una ressa di passioni
[1] Il saggio, se appena comincerà ad adirarsi, non potrà più smettere: tutto è pieno di delitti e di vizi, e si commettono più misfatti di quanti se ne possano rimediare con i mezzi coercitivi. È una specie di grande gara di iniquità: ogni giorno aumenta la cupidigia di peccare e diminuisce il ritegno; spazzata via ogni valutazione del meglio e del più giusto, la libidine si slancia in qualunque direzione le pare, ed i delitti nemmeno più si nascondono: ti passano sotto gli occhi; la nequizia si è talmente diffusa in pubblico e talmente rinvigorita nel cuore di tutti, che l’innocenza non è più rara: è inesistente.
10. Non adirarsi contro gli errori
[1] È preferibile che tu rifletta che non ci si deve adirare contro gli errori. Che dire di chi si arrabbia con gente che, al buio, cammina con passo insicuro? O con dei sordi che non possono sentire gli ordini? O con dei fanciulli che, invece di pensare ai loro doveri, guardano i giochi e i divertimenti? E se ti volessi adirare perché uno è malato, vecchio, spossato? Tra gli altri inconvenienti della condizione mortale, c’è anche questo: l’ottenebrarsi della mente, che non è soltanto inevitabilità dell’errore, ma amore di esso. [2] Se non vuoi adirarti con i singoli, devi perdonare a tutti, conceder venia all’umanità intera. Se ti adiri con i giovani o con i vecchi perché peccano, ti devi adirare anche con i bimbi: peccheranno. [3] Noi siamo nati in questa condizione di viventi soggetti a malattie dell’anima, non meno numerose di quelle del corpo, non perché siamo ottusi e tardi, ma perché non facciamo buon uso del nostro acume e siamo esempio di male l’uno all’altro; chiunque segue chi, prima di lui, s’è avviato sulla strada sbagliata, perché non deve essere scusato del percorrere la strada sbagliata che tutti percorrono? [6] Il saggio non s’adirerà con chi commette colpa: perché? Perché sa che saggi non si nasce, ma si diventa; sa che ben pochi, nell’intero arco della vita, riescono saggi, perché ha ben sondato la condizione del vivere umano, e nessuno, se è in senno, si adira con la natura. Che diresti, se volesse stupirsi che non pendano frutti dai cespugli selvatici? O che le spine ed i rovi non si caricano di nessun buon raccolto? Nessuno si adira, quando la natura rende ragione del difetto. [7] Quindi il saggio, tranquillo e sereno con gli errori, non nemico, ma censore di chi sbaglia, esce ogni giorno di casa con queste disposizioni: “Incontrerò molti beoni, molti dissoluti, molti ingrati, molti avari, molti esagitati dalle furie dell’ambizione”. E guarderà tutto questo con benevolenza, quanta ne ha il medico con i suoi pazienti.
11. L’ira non ha vera consistenza
[1] “L’ira è utile,” si obietta “perché ci evita il disprezzo, perché atterrisce i cattivi”. In primo luogo, se l’ira è efficace in proporzione delle minacce che fa, proprio perché è terribile, è anche detestata; ora è più pericoloso essere temuti che disprezzati. Se invece è priva di forza, è ancor più esposta al disprezzo e non sfugge al ridicolo: c’è una cosa che lasci più indifferenti di un’ira che strepita a vuoto? [2] Inoltre, dal fatto che certe prospettive sono più temibili, non segue che siano preferibili, e non vorrei che s’affibbiasse al saggio la massima: “Il saggio e la belva dispongono della medesima arma: sono temuti”. E che? Non temiamo la febbre, la gotta, la piaga in cancrena? E per questo, quei fatti hanno qualcosa di buono? Non sono invece spregevoli, disgustosi, vergognosi, e perciò stesso temuti? Così l’ira, per sua natura, è vergognosa e per nulla temibile, ma i più la temono, come i fanciulli temono una maschera turpe. [3] E che dire del fatto che il timore si riversa sempre su chi l’ha provocato, e nessuno riesce a farsi temere, restando lui tranquillo? Ricorda, a questo punto, il noto verso di Laberio che, recitato in teatro in piena guerra civile, avvinse tutto il pubblico perché risuonò come una voce di popolo:"molti deve temere colui che da molti è temuto".
12. Controllare l’ira è possibile
[1] “Se vuoi sopprimere l’ira,” si obietta “devi sopprimere dal mondo anche la malvagità, ma non è possibile fare le due cose insieme”. Intanto è possibile che uno non senta il freddo, anche se natura vuole che sia inverno, o che non senta il caldo, nonostante si sia nei mesi estivi: o è al sicuro dalle offese della stagione per la favorevole situazione del luogo o, con la sua capacità fisica di sopportazione, controlla le due sensazioni. [2] Poi capovolgi il discorso: diventa necessario eliminare dall’anima la virtù, prima di accogliere l’ira, dato che non è pensabile che il vizio si combini con la virtù, e uno non può essere contemporaneamente uomo buono e adirato, come non può essere insieme malato e sano. [3] “Non è possibile” si obietta “eliminare completamente l’ira dall’animo: la natura umana non lo comporta”. Eppure non c’è impresa tanto difficile e ardua, che la natura umana non possa affrontare con successo e che non sia resa abituale dall’esercizio continuo, e non esistono passioni tanto indomite e autonome, che non vengano soggiogate da una retta educazione. [4] Tutto quello che l’animo sa imporsi, lo ottiene; c’è chi è riuscito a non ridere mai; alcuni hanno negato al proprio corpo il vino, altri l’amore, altri ancora ogni bevanda; c’è chi, accontentandosi di un breve sonno, ha prolungato le sue veglie, senza cedere alla stanchezza; c’è chi ha imparato a correre su funi sottili e contro pendenza, o a portar pesi enormi quasi impossibili a forza umana, o a tuffarsi a profondità smisurate e sopportare il mare senza trarre respiro. [6] E noi non chiameremo in nostro aiuto la pazienza, se ci spetta un premio tanto grande, quanto lo è l’imperturbabile calma di un animo felice? Quanto è valida impresa fuggire il più grave dei mali, l’ira e, con essa, la rabbia, la ferocia, la crudeltà, il furore, e altri compagni di quella passione!
13. Vantaggi della tranquillità Vedi De tranquillitate animi.
[1] Non è il caso di cercare una giustificazione o un pretesto per permetterci un vizio, dicendo che esso è utile o inevitabile: quale vizio, in fin dei conti, s’è mai trovato privo d’avvocati? E non è neppure il caso di dire che è un vizio che non si può stroncare: soffriamo di malattie guaribili, e la natura stessa, che ci ha generati per la rettitudine, ci aiuta, se vogliamo emendarci. E non è vero che, come qualcuno ha sentenziato, il cammino verso la virtù sia ripido e scabroso: si giunge ad esso camminando in pianura. [2] Non vengo a farvi un discorso infondato. La via della felicità è facile: soltanto, intraprendila sotto buoni auspici e con il sicuro aiuto degli dèi. Che cosa è più riposante della tranquillità di spirito e più faticoso dell’ira? Che cosa è più distensivo della clemenza e più impegnativo della crudeltà? La pudicizia è libera, la libidine ha sempre mille impegni. Insomma, tutte le virtù sono facili da conservare, mentre coltivare i vizi costa caro. [3] L’ira deve essere eliminata: buttiamola via del tutto, non può servire a nulla. Senza di essa, si possono togliere di mezzo i delitti in modo più facile e giusto, si possono punire i cattivi e indurli a propositi migliori. Il saggio adempirà tutti i suoi doveri, senza mai fare ricorso a nessuna cosa cattiva e senza frapporre nulla che debba poi preoccuparsi di controllare.
14. È meglio ragionare che reagire
[1] Così l’ira non deve mai essere ammessa: qualche volta però deve essere simulata, quando è il caso di pungolare l’inerzia di chi ascolta, così come eccitiamo i cavalli a spiccare la corsa con i pungoli. A volte bisogna incutere paura a quegli individui con i quali la ragione non fa profitto, ma l’adirarsi non è più utile del piangere o del temere. [2] “E allora? Non si verificano situazioni che stimolano l’ira?”. Ma è soprattutto quello il momento di mettere le mani avanti. E non è difficile dominarsi, se anche gli atleti, impegnati nella parte più vile del loro essere, riescono a sopportare botte e dolore, pur di spossare chi li percuote, e non colpiscono quando lo vuole l’ira, ma al momento buono. [3] Pirro, il più grande allenatore di lotta, dicono che fosse solito ordinare, a quelli che allenava, di non adirarsi; l’ira, infatti, sconvolge la tecnica e bada solo a come far male. Spesso dunque la ragione ci suggerisce di sopportare, l’ira di vendicarci, e noi, che eravamo in condizione di toglierci dai guai all’inizio, andiamo a rotoli nel peggio. [4] Alcuni sono stati cacciati in esilio, per non aver saputo sopportare serenamente una parola ingiuriosa e, dopo essersi rifiutati di sopportare in silenzio un’offesa lieve, sono stati sommersi da disgrazie gravissime: sdegnando una piccola diminuzione della loro più che assoluta libertà, si sono tirati sul collo il giogo della schiavitù.
15. Obiezione: la sana ira dei popoli primitivi
[1] “Se vuoi renderti conto” si obietta “che l’ira ha la sua parte di nobiltà, vai a vedere i popoli liberi, che sono i più iracondi, come i Germani e gli Sciti”. Questo accade perché i caratteri forti e tutti d’un pezzo per natura, se non sono ancora stati ammansiti dall’educazione, propendono all’ira. Certe tendenze però sono innate soltanto nei caratteri meglio dotati: anche la terra produce arbusti forti e rigogliosi, nonostante venga lasciata incolta, ed è lussureggiante la vegetazione dovuta alla sola fertilità del terreno. [2] Allo stesso modo, anche i caratteri forti comportano l’ira per natura, e non contengono nulla di delicato ed esile, tutti fuoco e bollore come sono, ma il loro vigore non è perfetto, come non lo è quello degli esseri che crescono senza il sussidio dell’arte, con il solo spontaneo beneficio della natura. Ma se non vengono domate subito, queste doti, che avrebbero dovuto produrre la fortezza, si abituano all’audacia ed alla temerità. [4] Poi, tutti questi popoli, che sono liberi per la loro ferocia, alla stregua dei leoni e dei lupi, come non s’adattano al dominio altrui, così non sanno comandare; infatti non hanno la forza tipica del genio umano, ma la ferocia e l’intrattabilità del bruto; ora, non è capace di comandare chi non sa anche ubbidire. Per questo, questi popoli sono stati tutti sottomessi.
16. Seconda obiezione: l’ira è forza e schiettezza
[1] “Tra gli animali,” si obietta “sono ritenuti più nobili i più propensi all’ira”. È uno sbaglio l’addurre come esempio per gli uomini degli esseri nei quali l’istinto sostituisce la ragione: nell’uomo la ragione sostituisce l’istinto. Ma neppure in quegli esseri l’istinto che giova è sempre il medesimo: ai leoni giova l’aggressività, ai cervi la paura, allo sparviero lo slancio, alla colomba la fuga. [2] E se ti dico che non è neppure vero che gli animali migliori sono i più iracondi? Sì, le belve, dato che si nutrono di preda, sono tanto migliori quanto più feroci; ma vorrei anche lodare la pazienza dei buoi e dei cavalli che ubbidiscono al morso. Ma che motivo c’è di indirizzare l’uomo a esempi tanto infelici, quando hai davanti il cosmo e Dio che solo l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, riesce a comprendere, per poterlo, lui solo, prendere a modello?
17. Terza obiezione: l’ira può dare buoni risultati
[1] “L’oratore irato,” si obietta “di solito riesce migliore”. Meglio: quello che fa la parte dell’irato; infatti, anche gli attori, quando recitano, commuovono il pubblico, non perché sono irati, ma perché fanno bene la parte dell’irato. Allora, davanti ai giudici e nelle assemblee popolari e dovunque vogliamo manipolare a nostro piacimento i sentimenti altrui, noi simuleremo ora l’ira, ora il timore, ora la compassione, per incuterli negli altri, e spesso le passioni simulate hanno ottenuto quei risultati che le passioni vere non avrebbero ottenuti.
18. I rimedi contro l’ira: premesse
[1] Ora che abbiamo trattato le questioni che riguardano l’ira, passiamo ai suoi rimedi. A mio parere, sono due: il non incorrere nell’ira ed il non sbagliare nell’ira. Come nell’arte medica le regole che riguardano la difesa della salute sono diverse da quelle che vertono sul suo ristabilimento, così c’è un procedimento per cacciare l’ira, un altro per tenerla sotto controllo. Per evitare l’ira, ci sono alcuni precetti che interessano l’intera vita: si suddividono in precetti per il periodo dell’educazione e precetti per l’età successiva. [2] L’educazione esige la massima diligenza, per poter dare il frutto più abbondante. È facile, infatti, adattare le anime ancora tenere, è difficile recidere i vizi che sono cresciuti con noi.
20. Altre cause dell’ira e relative terapie
[1] Ma come la natura produce soggetti inclini all’ira, così sopravvengono molte cause che producono i medesimi effetti della natura: alcuni sono stati condotti a quel vizio da una malattia o da una menomazione fisica, altri dalla fatica, dalle veglie continue, dalle ansie notturne e dai desideri d’amore; ogni altro fattore, che risulti nocivo al corpo o all’anima, predispone la mente malata alle lamentele. [2] Ma tutti questi fatti sono inizi e cause: moltissimo può l’assuefazione che, se fa sentire il suo peso, alimenta il vizio. Certo, è difficile cambiare la natura, e non è possibile reimpastare la mistura di elementi che s’è formata, una volta per tutte, al nostro nascere.
21. I fanciulli e l’ira: precetti di sana pedagogia
[1] Sarà utilissimo, direi, che venga subito avviata una salutare educazione dei fanciulli; guidarli, però, è difficile, perché si deve far in modo di non nutrire in loro l’ira e insieme di non smussarne il carattere. [2] È un impegno che presuppone una scrupolosa circospezione, perché sia ciò che dobbiamo sviluppare, sia ciò che dobbiamo reprimere si alimenta con mezzi simili, ed è facile che le cose simili inducano in errore anche chi fa attenzione. [3] L’indisciplina provoca un aumento della baldanza, ma la repressione la annienta; questa si erge e sbocca nella fiducia in se stessi con le lodi, ma le medesime producono intolleranza ed irascibilità: perciò, per tenere il nostro allievo ugualmente lontano dai due eccessi, dobbiamo guidarlo usando ora il morso ora lo sprone. [4] Non deve subire nulla di avvilente o di servile, non deve mai esser messo in condizione di chiedere e supplicare, mai deve ricavare vantaggio dall’insistenza nel chiedere: è meglio dare tenendo conto della situazione oggettiva, della condotta passata e dei buoni propositi per l’avvenire. [5] Nelle gare con i coetanei, non gli dobbiamo permettere né di lasciarsi sconfiggere, né di adirarsi; facciamo in modo che frequenti coloro con i quali è solito gareggiare, perché si abitui a gareggiare per vincere, non per nuocere; quando vincerà o farà azioni degne di lode, permettiamogli d’esserne soddisfatto, ma non di vantarsene: la gioia, infatti, diventa esultanza e l’esultanza diventa arroganza ed eccessiva stima di sé. [6] Gli concederemo anche momenti di riposo, ma non lo snerveremo nell’inazione e nell’ozio e lo terremo lontano dall’esperienza dei piaceri; non c’è nulla di più atto a produrre iracondi di un’educazione molle e blanda: è per questo che sono più corrotti d’animo i figli unici, che godono di maggior indulgenza, e gli orfani adottati, che ottengono tutti i permessi. Non saprà resistere a una offesa colui che non s’è mai sentito dire un no, che ha sempre avuto una mammina che gli asciugava le lacrime, o che ha ottenuto soddisfazione ai danni del suo pedagogo. [7] Non vedi come ad una maggior agiatezza s’accompagna una maggiore irascibilità? La si nota soprattutto nei ricchi, nei nobili, nelle alte cariche, quando un infondato e vano capriccio ingrandisce per un soffio di vento favorevole. La felicità nutre l’iracondia, quando una turba di piaggiatori assedia le orecchie dei presuntuosi: “Quello là ha il coraggio di rispondere a te? Non ti valuti quanto meriti, ti butti giù”, ed altre espressioni alle quali difficilmente sanno resistere; in età giovanile, anche caratteri di buona stoffa. [8] I fanciulli devono quindi esser tenuti ben lontano dai piaggiatori: odano la verità. Il fanciullo deve provare talvolta timore, essere sempre rispettoso, alzarsi davanti ai più anziani. Non deve ottenere nulla con l’ira: quello che gli si è negato quando piangeva, gli si offra quando è calmo. Abbia sotto gli occhi le ricchezze dei genitori, ma non possa disporne. Gli si rimproverino le sue malefatte. [10] Un fanciullo, educato in casa di Platone, quando, restituito ai genitori, sentì il padre gridare: “Mai” disse “ho visto cose del genere in casa di Platone”. Io però sono sicuro che passò ben presto dall’imitazione di Platone a quella del padre. [11] E, prima di tutto, il vitto sia misurato, i vestiti non siano costosi, il tenore di vita sia uguale a quello dei coetanei: non si adirerà d’essere paragonato con gli altri se, fin dall’inizio, lo avrai messo alla pari con molti.
22. Un suggerimento agli adulti: prendere tempo
[1] Ma tutto questo riguarda i nostri figli; in noi, ormai, la condizione di nascita e l’educazione non concedono più spazio a vizi o a regole: dobbiamo mettere in ordine quanto ci resta da vivere. [2] Perciò dobbiamo combattere contro le cause immediate. Causa dell’adirarsi è il ritenersi offesi ed è cosa che non dobbiamo essere propensi a credere. E neppure dobbiamo decidere su due piedi sulla base degli indizi più appariscenti e manifesti: ci sono cose false che hanno l’apparenza del vero. [3] Bisogna sempre concedere un rinvio: il tempo mette in luce la verità.
24. Altri suggerimenti: non esser sospettosi
[1] Nella maggior parte dei casi, il male è prodotto dalla credulità. A volte non si deve nemmeno ascoltare, perché ci sono situazioni nelle quali è meglio sbagliare che diffidare. Dobbiamo bandire dall’anima sospetti e congetture, che sono gli incentivi più ingannevoli: “Quello mi ha salutato con poca cortesia; quello non ha risposto al mio abbraccio; quello ha interrotto il mio discorso; quello non mi ha invitato a cena; quello mi ha mostrato un volto ostile”. [2] Per sospettare, si trovano sempre buoni motivi: bisogna essere semplici e valutare i fatti con benevolenza. Non dobbiamo credere a nulla, tranne a quello che ci balza agli occhi e ben chiaro, e quando il nostro sospetto si dimostrerà infondato, rimproveriamoci di credulità. Questo castigo ci abituerà a non credere facilmente.
26. Non adirarsi con gli esseri irragionevoli
[1] Ci adiriamo con esseri dai quali non era neppure possibile che ricevessimo ingiuria. [2] Ci sono certi esseri oggetti privi dei sensi, come il libro che talvolta buttiamo, perché è scritto in grafia troppo minuta, o facciamo a pezzi, perché zeppo di errori, così come strappiamo i vestiti che non ci piacciono o i sandali che non sono di moda: quanto è stolto adirarsi con questi oggetti che né hanno meritato né sentono la nostra ira! (NDR Ricordo questo episodio. Una macchina si ferma in mezzo alla strada, il guidatore fa molti tentativi per farla ripartire. Non riuscendovi esce dal veicolo e inizia a prenderlo a calci).
27. L’ira contro gli dèi e contro l’autorità
[1] Ci sono degli esseri che non possono assolutamente nuocere e non hanno forza che non sia benefica e salutare, come gli dèi immortali, che non vogliono e non possono fare il male. Hanno, infatti, natura mite e placida, tanto immune dall’offesa altrui, quanto dalla propria. [2] Dunque, sono pazzi ed ignari del vero quelli che imputano loro la furia del mare, l’eccesso delle piogge, il perdurare dell’inverno, mentre, in realtà, nessuno di questi fatti, che ci danneggiano o ci giovano, prende di mira specificamente noi. Non siamo noi il motivo per cui il cielo alterna l’estate e l’inverno: questi fenomeni osservano le leggi specifiche che presiedono ai moti dei corpi celesti. Ci sopravvalutiamo, se ci riteniamo tali che fenomeni tanto grandi accadano per noi. Nulla, dunque, di tutto questo accade per offenderci, anzi, non c’è nulla che non accada per il nostro bene. (NDR "Bestemmiavano Dio e lor parenti, l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti" Dante Aligjueri)
28. Anche noi abbiamo le nostre colpe
[1] Se vogliamo essere giudici giusti di tutte le situazioni, in primo luogo dobbiamo convincerci che nessuno di noi è senza colpa. Lo sdegno maggiore nasce da questa mentalità: “Non ho commesso colpa” e: “Non ho fatto niente”. Ci sdegniamo se ci è stata inflitta una ammonizione o una pena e, nello stesso tempo, pecchiamo di nuovo, aggiungendo al male fatto l’arroganza e la ribellione. [2] Chi è costui, che si professa innocente davanti a tutte le leggi? E ammesso che sia così, che innocenza striminzita è l’esser buoni a norma di legge! Quanto è più estesa la regola del dovere di quella della legge! Quanti obblighi impongono la pietà, l’umanità, la liberalità, la giustizia, la lealtà, tutti valori che non sono traducibili in leggi dello Stato! [3] Ma non riusciamo nemmeno ad esser fedeli a quella normativa ridotta all’osso: alcune cose abbiamo fatto, altre pensato, altre desiderato, altre favorito; di certe azioni, siamo innocenti perché non ci sono riuscite. [4] Pensando a questo, siamo più giusti con chi sbaglia, abbiamo fiducia in chi ci rimprovera; non adiriamoci per nulla con i buoni e, soprattutto, non adiriamoci, con gli dèi: non è per legge loro, ma per la nostra condizione di mortali, che soffriamo i disagi che ci accadono. “Ma ci piombano addosso malattie e dolori”. In un modo o nell’altro, dovremo pur lasciare questa casa fatiscente, che ci è toccata in sorte. Ti diranno che uno ha parlato male di te: pensa se non sei stato il primo tu, pensa di quante persone parli.
29. Valutare i fatti, prima di decidere
[1] Il miglior rimedio dell’ira è il saper rinviare. All’inizio non chiederle di perdonare, ma di formulare un giudizio: i suoi primi impulsi sono pesanti, ma si placherà, se saprà aspettare. E non cercare di eliminarla in blocco: rimarrà sconfitta, se saprai ridurla in brandelli. [2] Tra le cose che ci offendono, alcune ci vengono riferite, altre le udiamo o vediamo di persona. Non dobbiamo prestar subito fede al merito di quanto ci viene raccontato: molti mentiscono per ingannare, molti perché sono in inganno; c’è chi cerca di entrare nelle tue grazie facendosi portatore di accuse ed inventa l’ingiuria, per sembrare rammaricato che ti sia stata fatta; c’è chi opera per malvagità e vuol spezzare le tue amicizie più strette, e c’è chi vuol esser spettatore, come se si trattasse d’assistere a dei giochi, e sta a guardare, da lontano ed al sicuro, quelli che ha messo in urto. [4] La persona stessa che è venuta a riferirti smetterà di parlare, se le verrà imposto di addurre prove. “Non è il caso” dice “che tu faccia il mio nome; se tiri in ballo me, negherò tutto; diversamente, io non ti riferirò più nulla”. Mentre istiga te, si sottrae alla lotta, allo scontro. Chi non vuol riferire a te se non in segreto, è quasi come non riferisse: che c’è di più ingiusto del prestar fede in segreto, ed adirarsi in pubblico?
30. Valutare le situazioni
[1] A certi fatti, assistiamo di persona: in questi casi, vaglieremo l’indole e le intenzioni di chi li commette. È un fanciullo: l’età merita indulgenza, perché non si rende conto dello sbaglio. È un padre: o ti ha già fatto tanto bene che ha acquistato anche il diritto di offenderti o, forse, è un servizio che ti presta quello che tu stimi offesa. È una donna: sbaglia. È uno che esegue degli ordini: chi, se non è ingiusto, se la prende con gli stati di necessità? È uno che hai offeso: non è ingiuria subire quanto tu hai fatto per primo. È un giudice: devi dare più credito alla sua sentenza che alla tua. È un re: se punisce un colpevole, accetta la giustizia, se un innocente, accetta la mala sorte.
31. Di fronte all’ingiustizia
[1] Sono due, come ho detto, i moventi atti a suscitare l’ira: il primo è la convinzione di aver ricevuto ingiuria, e ne abbiamo già parlato abbastanza; il secondo, quella di averla ricevuta ingiustamente. Dobbiamo parlare di quest’ultimo. Certe cose, gli uomini le giudicano ingiuste, perché pensano che non avrebbero dovuto subirle; certe altre, perché non se le aspettavano: noi giudichiamo immeritato tutto l’inopinato. [2] Perciò ci commuovono soprattutto quei fatti che accadono contro le nostre speranze e attese, e non abbiamo altro motivo di sentirci offesi da piccolezze delle persone di casa o di chiamare ingiuria la distrazione di un amico. [3] “Ma allora,” si obietta “in che modo ci turbano le ingiurie dei nemici?”. Perché non ce le aspettavamo, o certamente non ce le aspettavamo tanto gravi. Questo deriva dall’eccessivo amore di noi stessi: pensiamo di dover essere intangibili anche ai nostri nemici; ciascuno ha in sé sentimenti di re e vuole che a lui sia concessa la massima libertà, agli altri, contro se stesso, no. [4] Ed ecco che ci rende iracondi o la novità della cosa o il non sapere come va il mondo: perché, infatti, dobbiamo meravigliarci se i cattivi fanno azioni cattive? Che novità è un nemico che ti fa del male, un amico che ti offende, un figlio che sbaglia? Fabio diceva che la peggior scusa per un generale era: “Non l’avrei mai pensato!”: io la reputo la più vergognosa per un uomo. Pensa a tutto, aspettati tutto: anche dalle persone di buoni costumi avrai qualche difficoltà. [5] La natura umana produce anime perfide e ne produce di ingrate, di cupide, di empie. Quando devi giudicare del comportamento di una persona, pensa a quello di tutti. Dove troverai più soddisfazione, troverai maggiori motivi per temere. Dove tutto ti sembra tranquillo, là non manca ciò che ti danneggerà, ma sta covando. Pensa sempre che sta per accadere qualcosa che ti farà male. Il pilota non ha mai spiegato a tutto vento le vele in tranquillità, senza tener pronti gli attrezzi necessari per ammainarle alla svelta.
32. Non ricambiare l’ingiuria
[2] Un tizio, ai bagni, percosse Marco Catone senza conoscerlo (ma chi, conoscendolo, gli avrebbe recato ingiuria?). Quando poi si scusò, Catone gli disse: “Non ricordo d’esser stato colpito”. [3] Ritenne cosa migliore non riconoscere l’ingiuria che vendicarla. “Quel tizio,” dici “non ha subìto alcun male, dopo tanta insolenza?”. Anzi, tanto bene: cominciò a conoscere Catone. È magnanimità il disprezzare l’ingiuria; il modo più offensivo di vendetta è il dimostrare all’offensore che non val la pena di vendicarsi di lui. Molti, nel tentativo di vendicarsi, hanno reso più profonde le leggere ingiurie che avevano subìto; è grande e nobile quell’uomo che, come la belva di grossa taglia, sopporta imperterrito il latrare della canea.
33. Vantaggi della longanimità
[1] “Saremo meno disprezzati,” si obietta, “se vendicheremo l’ingiuria”. Se adottiamo la vendetta come rimedio, adottiamola senza ira, non perché la vendetta sia piacevole, ma perché è utile: spesso, però, è risultato più conveniente dissimulare che vendicarsi. Le ingiurie dei più potenti dobbiamo sopportarle con volto lieto, non soltanto con pazienza: torneranno a farcene, se si convinceranno di esserci riusciti la prima volta. Gli animi resi insolenti dalla loro grande fortuna, hanno questo bruttissimo difetto: odiano quelli che hanno offeso. [2] È noto il detto di quel tale che era giunto alla vecchiaia dopo una vita passata a corte: avendogli chiesto un tizio come fosse riuscito a giungere a vecchiaia, cosa rarissima a corte, gli rispose: “Ricevendo ingiurie e ringraziando”. A volte è così sconveniente vendicare l’ingiuria, che non è neppure il caso di confessarla.
34. Altri motivi di longanimità
[1] Dunque, ci si deve astenere dall’ira, tanto se è un pari tuo colui che devi attaccare, quanto se è un superiore o un inferiore. Mettersi in lotta con un pari è impresa incerta, con un superiore, pazzesco, con un inferiore, meschino. È piccineria e grettezza cercare di mordere chi ti morde: i topi e le formiche, se avvicini la mano, volgono il muso: gli esseri deboli temono d’esser danneggiati da chi li tocca. [2] Ci renderà più indulgenti il ripensare ai benefici che eventualmente ci ha fatti la persona con la quale ci adiriamo, e le sue buone azioni ne riscatteranno l’offesa. Teniamo anche presente quanto buon nome ci può procurare la reputazione di clemenza e quanti utili amici ci può produrre il perdono. [3] Non adiriamoci con i figli dei nostri nemici ed avversari. Tra gli altri esempi della crudeltà di Silla, c’è anche l’aver comminato l’interdizione dai pubblici uffici ai figli dei proscritti: non c’è nulla di più iniquo del far ereditare a qualcuno l’odio che si ha per suo padre.
35. Ritratto dell’adirato e prosopopea dell’ira
[1] Tuttavia, nulla sarà tanto utile quanto l’osservare dapprima la bruttezza della cosa, poi il pericolo che comporta. Nessuna passione ha la faccia più scomposta: deturpa i visi più belli e rende biechi i più tranquilli. Gli adirati perdono ogni decoro e, se le pieghe del loro vestito erano disposte a regola d’arte, si trascineranno dietro l’abito e sciuperanno tutto il loro abbigliamento; se i capelli ricadenti naturalmente o per arte, avevano aspetto aggraziato, all’insorgere dell’ira si rizzano; [2] le vene si ingrossano, il petto è scosso dall’ansimare, il rabbioso erompere della voce gonfia il collo; ed aggiungi gli arti tremanti, le mani irrequiete, il corpo tutto in agitazione. [3] E come credi che sia, dentro, l’animo della persona che ha un aspetto esterno così ripugnante? Come deve essere più terribile il suo aspetto interno, più veemente il respiro, più impetuosa la tensione, destinata a scoppiare, se non trova sfogo!
36. L’estrema conseguenza dell’ira: la pazzia
[1] “A certi adirati” così dice Sestio “ha giovato guardarsi nello specchio: tutto quel loro cambiamento li ha turbati; messi come di fronte a se stessi, non si sono riconosciuti. Eppure, quell’immagine riflessa nello specchio rendeva ben poco della reale deformità. [2] Se si potesse mettere a nudo l’animo, farlo trasparire mediante qualche materiale, ci confonderebbe, quando lo guardassimo, nero, macchiato, tempestoso, distorto e gonfio com’è. Anche ora, però, è tanto brutto, quando affiora attraverso le ossa e la carne e tutti gli altri ostacoli. Che accadrebbe se lo vedessimo nudo?”. [3] Non credere che nessuno sia mai stato distolto dall’ira guardandosi nello specchio. “Che dici?”. Chi è venuto allo specchio per cambiare, era già cambiato: per gli adirati, di fatto, nessuna immagine è più bella di quella atroce ed orrenda, e tali vogliono sembrare anche loro. [4] Dobbiamo piuttosto osservare a quanti l’ira, in sé e per sé, ha nuociuto. Alcuni, per eccessivo ribollire, si sono fatti scoppiare le vene, mentre il gridare più di quanto non permettessero le forze ha provocato emorragie e l’umore che affluiva troppo violento agli occhi ha ottuso la vista, e gli ammalati hanno avuto ricadute. Non c’è via più sbrigativa, per giungere alla pazzia. [5] Pertanto, molti sono passati dall’ira al furore, e non ricuperarono più il senno che avevano buttato: Aiace fu condotto a morte dal furore, e al furore dall’ira. Imprecano la morte ai figli, la miseria a se stessi e la rovina alla casa, e non ammettono d’essere adirati, come i deliranti non ammettono d’esser pazzi. Nemici dei loro migliori amici, pericolosi per le persone più care, immemori delle leggi, ad eccezione di quelle che comminano pene, mutevoli per motivi da nulla, inaccessibili alle buone parole ed ai buoni uffici, fanno tutto con la violenza, pronti a combattere di spada o a gettarsi sulla spada. [6] Li ha colti infatti il più grande dei mali, quello che supera tutti i vizi. Gli altri vizi si insinuano a poco a poco: la forza di questo è istantanea e coinvolge tutto. Perciò si assoggetta tutte le altre passioni: vince l’amore più ardente, e c’è stato chi ha trafitto la persona amata e si è ucciso, abbracciando la sua vittima; l’ira ha calpestato l’avarizia, male ben robusto e per nulla disposto a piegarsi, obbligandola a buttar via le sue ricchezze ed a farne un solo mucchio di casa e di averi, per dar fuoco a tutto. E l’ambizioso non ha forse buttato le insegne che aveva stimato tanto, e rifiutate le onorificenze che gli venivano offerte? Non esiste passione sulla quale l’ira non eserciti il suo dominio.

Lucio Anneo Seneca - Commenti di Eugenio Caruso - 04-03-2015

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LIBRO III
1. Prologo: l’ira passione repentina

[1] Ora tenteremo di fare, o Novato, la cosa che hai desiderato più di tutte: sradicare l’ira dalle nostre anime o, almeno, frenarla e trattenerne gli impulsi. È una cosa che, a volte, si deve fare palesemente e a viso aperto, quando lo permette la minor forza del male, a volte, di nascosto, quando essa è troppo accesa e ogni ostacolo la esaspera e accresce. È importante valutare quali forze ha e quanto integre, se è da colpire e respingere, o se dobbiamo cederle, al primo infuriare della tempesta. [2] Si deve deliberare in base al comportamento di ciascuno: alcuni si lasciano vincere dalle preghiere, alcuni attaccano e incalzano chi si fa piccolo di fronte a loro; alcuni li placheremo spaventandoli, altri abbandonano l’impresa in seguito a un rimprovero, altri per averla dovuta confessare, altri perché se ne vergognano, altri con il passare del tempo, rimedio lento per un male precipitoso, al quale dobbiamo ridurci solo come ad una scelta estrema. [3] Veramente tutte le altre passioni ammettono dilazioni e si possono curare con respiro, invece la violenza di questa, che è tutta eccitazione e trascina se stessa, non procede per fasi successive, ma è già completa al suo primo insorgere; poi non stimola gli animi al modo degli altri vizi, ma li aliena, li rende incapaci di dominare e desiderosi del male, anche a costo d’esserne coinvolti, e non infuria soltanto sui bersagli prestabiliti, ma su tutto quanto incontra sul suo cammino. [4] Gli altri vizi spingono gli animi, l’ira li trae a precipizio. Anche quando non è possibile resistere alle proprie passioni, è però possibile che le passioni stesse si fermino: questa, invece, non diversamente dai fulmini, dalle procelle e da tutti gli altri fenomeni che sono inarrestabili, perché non camminano ma cadono, intensifica man mano la sua forza. [5] Gli altri vizi si allontanano dalla ragione, questa dal senno; gli altri vizi hanno inizi blandi ed una crescita che sfugge alla nostra attenzione; nell’ira, gli animi si buttano a capofitto. Non ci incombe dunque nessun’altra realtà più insensata e schiava delle sue stesse forze, superba in caso di successo, furibonda in caso di insuccesso, la quale, poiché non si lascia fiaccare neppure dalla sconfitta, quando il caso le ha sottratto l’avversario, rivolge i suoi morsi su se stessa. E non importa quanto grande sia il suo momento iniziale: dagli sfoghi più leggeri, sfocia nei più gravi.
2. L’ira delle masse
[1] Non le sfugge nessuna età, non fa eccezione per nessuna razza umana. Ci sono popolazioni che, grazie alla loro povertà, non conobbero il fasto; altre, continuamente travagliate e nomadi, sono sfuggite alla pigrizia; quelle che hanno costumi primitivi e vivono la vita dei campi, non conoscono l’inganno, la frode e tutti quei mali che nascono nel foro: ma non c’è nazione che l’ira non istighi. Fa sentire il suo potere tanto tra i Greci, quanto tra i Barbari; non è meno perniciosa per chi vive nel rispetto delle leggi, che per chi misura il diritto con il metro della forza. [2] Infine, tutti gli altri vizi trascinano persone singole, ma questo è il solo che, talvolta, riesce a scaturire nell’ambito dello Stato. Mai un popolo intero s’è sentito bruciare d’amore per una sola donna, né un’intera città ha riposto la sua speranza nel denaro o nel guadagno; l’ambizione prende gli uomini ad uno ad uno, la prepotenza non è vizio di popolo. [3] Ma all’ira, si è andati tante volte in schiera compatta: uomini e donne, vecchi e fanciulli, dignitari e volgo si sono trovati d’accordo, e un’intera folla, sollevata da pochissime parole, ha preceduto anche chi la sollevava: si è corsi immediatamente alle armi e al fuoco e si sono dichiarate guerre ai popoli vicini, o le si sono combattute contro i concittadini.
3. Nuova confutazione della dottrina di Aristotele sull’ira
[1] “È fuori dubbio”, mi dici “che si tratta di una forza immensa ed esiziale; mostraci dunque come la si deve guarire”. Sì, ma, come ho detto nei libri precedenti, Aristotele si erge a difesa dell’ira e ci proibisce di liberarcene con un taglio netto: dice che è sprone della virtù e che, se la togliamo di mezzo, l’animo resta disarmato e diventa pigro ed indifferente di fronte alle grandi imprese. [2] Dunque è necessario denunciarne la bruttezza e bestialità e mettere davanti agli occhi quanto sia mostruoso un uomo furente contro un altro uomo e con quanto impeto si precipiti a recar danno, anche con danno proprio, e a buttare a fondo cose che non possono venir sommerse, se non trascinando chi le sommerge.
4. Nuova descrizione dell’irato e conclusione del prologo
[1] Ammesso che ci siano dubbi sugli altri aspetti negativi, certo nessuna passione si presenta con volto peggiore, e lo abbiamo già descritto nei libri precedenti: aspro e pungente, ed ora pallido per il ritirarsi e rifuggire del sangue, ora rossastro, perché tutto il calore e la vitalità si riversano sul volto, o quasi insanguinato, per il rigonfiarsi delle vene; gli occhi, intanto, ora tremano e sembrano voler balzar fuori, ora si fissano in una sola direzione e restano immobili. [2] Aggiungi i denti, che s’urtano tra di loro come volessero divorare qualcuno e non mandano altro suono che quello dei cinghiali, quando arrotano le loro zanne per affilarle; aggiungi lo schioccare delle dita, quando le mani si tormentano a vicenda, ed il petto battuto ripetutamente, il respiro affannoso ed i gemiti che sgorgano dal profondo, il corpo che non sa star fermo, le parole inarticolate, spezzate dalle esclamazioni, le labbra che tremano e talora si richiudono, emettendo un sibilo minaccioso. [3] L’aspetto delle belve, per Ercole, è meno brutto di quello di un uomo ribollente d’ira, quando le tormenta la fame o un ferro loro conficcato nelle viscere, anche nel momento in cui, moribonde, rivolgono l’ultimo morso contro il cacciatore. E se hai voglia di ascoltare voci e minacce, pròvati ad ascoltare le parole di un animo straziato.
5. Schema generale della trattazione e illustrazione del primo punto: come non adirarsi
[1] “Dove vuoi arrivare” mi chiedi “con questo discorso?”. A far sì che nessuno si ritenga immune dall’ira, poiché la natura provoca alla crudeltà ed alla violenza anche le persone calme e tranquille. Come la robusta costituzione e l’attenta cura della salute non giovano a nulla contro la pestilenza, che colpisce indiscriminatamente i deboli e i robusti, così è esposto al pericolo dell’ira tanto chi è abitualmente inquieto, quanto chi è calmo ed arrendevole, ma, per questi ultimi, essa comporta maggior vergogna e pericolo, perché opera in essi maggiori cambiamenti. [2] Ma poiché il primo punto è il non adirarsi, il secondo, deporre l’ira, il terzo, porre rimedio anche all’ira degli altri, dirò, in primo luogo, come possiamo non incorrere nell’ira, poi come possiamo liberarcene, infine come è possibile trattenere un adirato, placarlo e riportarlo all’uso del senno. [3] Riusciremo a non adirarci, se prenderemo in osservazione tutti gli aspetti negativi dell’ira e la valuteremo nel modo giusto. Dobbiamo metterla sotto accusa davanti a noi stessi ed emettere la condanna; le sue male azioni debbono essere esaminate a fondo e trascinate in pubblico giudizio.
6. Bisogna esser superiori alle provocazioni e non accollarsi troppi impegni
[1] Non c’è prova più sicura di grandezza del non lasciarsi aizzare, qualunque cosa possa accadere. La parte superiore del cielo, la più ordinata, quella vicina alle stelle, non si lascia addensare in nube, spingere in tempesta, agitare in turbine; è libera da ogni turbamento: sono le zone più basse che scagliano i fulmini. Allo stesso modo, un animo sublime, sempre sereno e posto in un soggiorno tranquillo, soffocando dentro di sé tutto ciò che può concentrarsi in ira, rimane moderato, degno di venerazione e in bell’ordine: di tutto ciò, nulla trovi nell’uomo adirato. [2] Chi infatti, una volta che s’è arreso al dolore ed è furibondo, non butta via, per prima cosa, il ritegno? Chi, turbato dall’impulsività e pronto a lanciarsi contro un altro, non ripudia tutto ciò che in lui dice contegno? Chi, nell’eccitazione, resta cosciente del numero e dell’ordine dei suoi doveri? Chi ha saputo misurare le parole, controllare una sola parte del suo corpo, guidarsi nel suo slancio?
7. Bisogna assumere soltanto quegli impegni che si è in grado di sbrigare
[1] Tieni presente che accade altrettanto nella vita politica e in quella privata. Gli affari spicci e agevoli sono alla mercé di chi li tratta, quelli impegnativi, superiori alle forze di colui che se li accolla, non si lasciano sbrigare facilmente e, una volta intrapresi, sviano chi li cura: quando crede di averli in pugno, crollano insieme con lui. Accade così che spesso va a vuoto l’intento di colui che si dedica alle imprese, non perché è in grado di compierle, ma perché pretende che sia facile la cosa cui s’è dedicato. [2] Ogni volta che tenterai qualcosa, misura insieme te stesso e l’impresa alla quale ti accingi e ti devi adeguare: il rincrescimento di non essere riuscito ti renderebbe intrattabile. Certo, c’è differenza tra un carattere estroverso ed uno freddo ed introverso: nell’uomo di carattere, l’insuccesso farà scoppiare l’ira, nel languido ed inerte, la tristezza. Le nostre azioni non siano dunque né meschine, né presuntuose ed ostinate, i nostri progetti abbiano traguardi raggiungibili, non temiamo nulla il cui ottenimento susciti subito in noi stupore per il buon esito.
8. Bisogna scegliere bene le proprie compagnie
[1] Facciamo in modo di non ricevere ingiuria, dato che non la sappiamo sopportare. Bisogna vivere con persone estremamente calme ed abbordabili, per nulla ansiose o pedanti; il nostro comportamento si adegua a quello delle persone che frequentiamo e, come certe malattie del corpo si trasmettono per contatto, così l’animo infetta dei suoi mali i vicini.
9. Bisogna ricrearsi ed evitare l’affaticamento
[1] Gli iracondi debbono anche lasciar da parte le occupazioni troppo gravose, o praticarle badando di non raggiungere il limite di affaticamento. La mente non deve sentirsi tormentata da molti impegni, ma potersi dedicare alle arti gradevoli; si plachi con la lettura di poesie e si distenda con le narrazioni storiche: ha bisogno di esser trattata con la debita moderazione e delicatezza. [2] Pitagora placava i turbamenti dell’animo suonando la lira: chi non sa che litui e trombe sono eccitanti, mentre certe musiche ci calmano e dissipano i nostri crucci? Agli occhi annebbiati giova il verde, una vista debole trova riposanti certi colori e viene abbagliata dallo splendore di altri: così gli studi distensivi leniscono gli animi malati. [3] Dobbiamo fuggire l’attività del foro, le avvocature, i processi e tutto ciò che esulcera il vizio; allo stesso modo, dobbiamo guardarci dalla stanchezza fisica, che consuma in noi tutta la mitezza e la tranquillità e stuzzica l’acredine.
10. Bisogna curarsi ai primi sintomi del male
[1] La cosa migliore, dunque, è curarsi ai primi sintomi del male, cominciando dal concedere una libertà minima alle proprie parole e contenerne la foga. [2] È facile intercettare le proprie passioni al loro primo insorgere: i segni delle malattie si manifestano in anticipo e, come i presagi della tempesta e della pioggia vengono prima di esse, così ci sono dei prenunzi di codeste procelle che tormentano gli animi. [4] Giova conoscere la propria malattia e soffocarne le forze, prima che prendano campo. Osserviamo che cosa è che ci eccita più di tutto: uno si risente delle offese verbali, un altro, di quelle di fatto; questo vuole che si abbia riguardo alla sua nobiltà, quello alla sua bellezza; uno vuol essere ritenuto il più raffinato, un altro il più dotto; questo non sopporta la superbia, quello la disubbidienza; quello non ritiene che valga la pena adirarsi con gli schiavi, questo è feroce in casa e mite fuori; quello giudica segno di astio ogni preghiera, questo s’offende se non lo si prega. Non tutti sono vulnerabili dallo stesso lato; devi dunque sapere quale è il tuo punto debole, per proteggere soprattutto quello.
11. Bisogna non essere troppo curiosi
[1] Non conviene vedere tutto, ascoltare tutto. Molte ingiurie debbono sfuggirci: esse, nella maggior parte dei casi, non colpiscono, perché restano sconosciute. Non vuoi essere iracondo? Non essere curioso. Chi si informa di quanto è stato detto contro di lui, chi dissotterra i discorsi malevoli, anche se fatti in segreto, si inquieta da sé. Il voler interpretare certe cose, ci spinge al punto di considerarle ingiurie; perciò, talora, dobbiamo prender tempo, talora riderne, talora passarci sopra. [2] L’ira si può circoscrivere in molti modi: tantissime cose debbono essere risolte con l’arguzia o la battuta. Dicono che Socrate, una volta che si prese uno schiavo, non abbia detto niente altro che: “È un guaio che gli uomini non sappiano quando devono uscir di casa con l’elmo!”. [3] Non importa in che modo l’ingiuria è stata inflitta, ma come viene sopportata, e non vedo per quale motivo sia difficile moderarsi, quando so che uomini, nati per esser tiranni, gonfi di successo e di strapotere, hanno saputo reprimere la loro abituale crudeltà.
12. Non bisogna suggestionarsi
[1] Molte persone si fabbricano da sé i motivi di lagnarsi, o sospettando il falso, o dando peso a cose da nulla. Spesso è l’ira che viene a noi, più spesso siamo noi che la andiamo a cercare. Eppure non la si deve mai chiamare: anche quando l’incontriamo a caso, dobbiamo respingerla. [2] Non c’è nessuno che sappia dire a se stesso: “Questa cosa, che mi fa adirare, o l’ho fatta anch’io o l’avrei potuta fare”; nessuno valuta l’intento di chi agisce, ma il fatto puro e semplice; eppure bisogna considerare la persona, se ha agito volontariamente o accidentalmente, se per costrizione o per inganno, se è stata spinta dall’odio o dalla mira d’un vantaggio, se ha accondisceso a se stessa o s’è messa a disposizione di altri. In parte, l’età di chi sbaglia, in parte, le condizioni di fortuna fanno sì che sopportare e tacere sia umanità o, certamente, non sia viltà. [3] Mettiamoci ora nella condizione in cui è la persona con la quale ci adiriamo e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a renderci iracondi, cioè il non voler subire cose che vorremmo fare. [4] Nessuno si concede un rinvio: eppure il rinvio è il miglior rimedio dell’ira, perché permette al primo suo bollore di placarsi ed a quella nebbia, che ci chiude la mente, di cadere o di farsi meno densa. Alcuni di quegli impulsi che ti trascinavano a precipizio, basterà un’ora, non dico una giornata, a metterli sotto controllo; altri svaniranno del tutto. Ma se il rinvio richiesto non otterrà alcun effetto, sarà chiaro che non si tratta di ira, ma di condanna già pronunciata. Quando vorrai renderti conto esattamente di una cosa, affidala al tempo: non si può osservare esattamente un oggetto che fluttua. [5] Platone, adirato con un suo schiavo, non riuscì ad imporsi un rinvio; ordinò allo schiavo di abbassare la tunica e di offrire le spalle alla frusta, pronto a colpire personalmente. Ma quando s’avvide di essere preso dall’ira, come aveva alzato la mano, la manteneva sollevata, nell’atteggiamento di chi sta per colpire. Chiedendogli poi un amico, che era sopravvenuto per caso, che cosa stesse facendo: “Punisco” rispose “un uomo iracondo”.
13. Conclusione del primo punto: bisogna usare una continua vigilanza
[1] Combatti tu, contro te stesso; se vuoi vincere l’ira, essa non può vincere te. Cominci a vincere, quando rimane nascosta, quando non le dai sfogo. Seppelliamone i segni e, per quanto è possibile, teniamola occulta, segreta. [2] Ciò comporterà per noi grave molestia, perché essa desidera balzar fuori, accenderci gli occhi e mutarci il volto, ma se le permettiamo di uscire da noi, diventa più forte di noi. Nascondiamola nel più profondo recesso del petto e portiamola con noi, non lasciamoci portare. Anzi, volgiamo al contrario tutti i suoi indizi: il volto sia disteso, la voce si faccia più blanda, il passo più lento; l’interno, a poco a poco, si plasma sull’esterno. [3] In Socrate, era segno d’ira l’abbassare la voce e parlare meno. Si vedeva che, allora, egli contrastava se stesso. Se ne accorgevano dunque gli amici e glielo dicevano apertamente, ma a lui non dispiaceva sentirsi rimproverare un’ira latente. Perché non doveva esser soddisfatto che molti intuissero la sua ira, senza che nessuno la dovesse sperimentare? L’avrebbero sperimentata, se egli non avesse concesso agli amici il diritto di rimproverarlo, come se lo era preso per sé nei riguardi degli amici.
25. Tutti possono sbagliare
[1] Come per un uomo da nulla è di conforto, nella disgrazia, il pensare che è instabile anche la fortuna dei grandi e come, nel suo cantuccio, piange con maggior rassegnazione la morte di un figlio chi vede uscire funerali di fanciulli anche dal palazzo del re, così sopporta con maggior serenità di essere talvolta offeso, talvolta disprezzato, chiunque pensa che non esiste potere tanto grande che l’ingiuria non osi attaccarlo. [2] Se sbagliano anche i più prudenti, c’è qualcuno che sbagli, senza avere la sua brava scusa? Ripensiamo quante volte, da adolescenti, siamo stati poco diligenti nel dovere, poco misurati nel parlare, poco temperanti nel bere. Se uno è adirato, diamogli il tempo di rendersi conto di ciò che ha fatto: diverrà il punitore di se stesso. Ammettiamo che ci sia debitore di un castigo: non è il caso di mettere i conti in pari con lui. [3] Non sarà posto in dubbio che si sia sottratto al comportamento della massa e si sia eretto più in alto, colui che ha saputo non tener conto dei suoi offensori: è caratteristico della vera grandezza non avvertire il colpo. Così una belva gigantesca tarda a volgersi al latrare dei cani, così il flutto si rovescia invano contro un grande scoglio. Colui che non s’adira, resta immobile di fronte all’ingiuria, chi si adira, ne ha risentito.
26. Tutti abbiamo i medesimi difetti
[1] “Ma”, mi obietti “è gravoso tollerare un’ingiuria”. Mentisci: chi non può sopportare l’ingiuria, se sopporta l’ira? Aggiungi che lo scopo di questo esercizio è giungere a sopportare sia l’ingiuria che l’ira. Perché compatisci la rabbia del malato, le parole del delirante, le mani insolenti dei fanciulli? Certamente, perché è chiaro che non sanno quello che fanno. A che serve distinguere quale vizio renda ciascuno incosciente? L’incoscienza è scusante ugualmente valida per tutti. [2] “Ma allora”, dici “la passerà liscia?”. Anche se tu lo volessi, non accadrebbe: la più grande punizione dell’ingiuria fatta è la coscienza d’averla fatta e nessuno subisce punizione più grave di colui che viene consegnato al tormento del rimorso. [3] In secondo luogo, si deve tener conto della situazione comune a tutte le vicende umane, per farsi giudici obiettivi di tutto quanto accade: è ingiusto colui che addebita al singolo un vizio di tutti.
27. È meglio saper perdonare
[1] Quanto è meglio guarire l’ingiuria che vendicarla! La vendetta assorbe molto tempo e si espone a molte ingiurie, mentre ne lamenta una sola. La nostra ira dura più della nostra ferita. Quanto è meglio prendere un’altra direzione e non contrapporre vizio a vizio. Ti sembrerebbe in senno colui che restituisse i calci alla sua mula o i morsi al suo cane? "Ma codesti esseri”, mi obietti “non sanno di offendere”. [2] Prima di tutto, quanto è iniquo colui per il quale l’esser uomini costituisce ostacolo al perdono! Poi, se tutti gli altri animali sono esenti dalla tua ira, perché incoscienti, valuta allo stesso modo, chiunque agisca con poca coscienza. Che importa, infatti, che sia diverso dagli animali per altri aspetti, quando assomiglia loro in ciò che rende gli animali irresponsabili di qualunque errore, l’aver cioè la mente ottenebrata? [3] Ha sbagliato. È la prima volta? È l’ultima? Non hai motivo di credergli; anche se dice: “Non lo farò più”, costui sbaglierà ancora, ed altri sbaglieranno a suo danno, e l’intera vita rotolerà tra gli sbagli. Chi non è buono, va trattato con bontà.
28. La vendetta danneggia chi la compie e non sa discernere le persone.
[1] Prima ti adiri con uno, poi con un altro; prima con gli schiavi, poi con i liberti; con i genitori, poi con i figli; con le persone che conosci, poi con sconosciuti: motivi ce ne sono dovunque in abbondanza, se l’animo non si frappone a scongiurarti. Il furore ti trascina da questa direzione a un’altra, poi da quella a un’altra ancora e, con il sorgere via via di nuove provocazioni, la rabbia sarà continua: suvvia, infelice, verrà per te il momento d’amare? Quanto tempo utile perdi in una occupazione malvagia! [2] Come sarebbe stato meglio, allora, procurarti degli amici, rappacificarti i nemici, amministrare lo Stato, dedicare la tua attività agli affari di casa, invece di cercarti attorno come poter fare del male a qualcuno, come ferirlo nel prestigio, nei beni, nel corpo, cose che non puoi ottenere senza contesa e senza pericolo, anche se ti mettessi in lizza con chi ti è da meno!
29. Ancora sul discernimento e sull’ostinazione
[1] È vergogna odiare la persona che devi lodare, ma ancor più vergognoso è odiare qualcuno per motivi che lo rendono degno di compassione. Un prigioniero che ha appena subìto l’onta della schiavitù, conserva i residui della libertà e non è sollecito ad accollarsi mansioni umilianti e faticose; uno schiavo, impigrito dal riposo, non riesce a tener dietro, di corsa, al cavallo e alla carrozza del padrone; uno sfinito da più giorni di veglia, cade addormentato; rifiuta il lavoro nei campi, o non lo affronta con il debito vigore, uno che è stato trasferito dalla riposante schiavitù della città ad una fatica tanto dura! [2] Teniamo distinto colui che non può, da colui che non vuole; assolveremo molti, se cominceremo a farci un giudizio, prima di adirarci. Ora invece noi seguiamo il primo impulso, poi, per inconsistenti che siano i motivi della nostra eccitazione, perseveriamo, perché non sembri che abbiamo incominciato senza motivo, infine, e sta qui l’ingiustizia più grave, la pretestuosità della nostra ira ci rende più ostinati; ce la teniamo e la accresciamo, come se l’essere molto adirati dimostrasse che avevamo un buon motivo di adirarci.

31. Bisogna sapersi accontentare
[1] A nessuno piace il suo, se si volta a guardare l’altrui: perciò ce la prendiamo anche con gli dèi, se qualcuno ci passa davanti, e dimentichiamo quale folla abbiamo dietro e quale smisurata invidia ha, dietro la schiena, chi ha pochi da invidiare. Ma la sfrontatezza degli uomini è tale che, sebbene abbiano ricevuto molto, si sentono come offesi, perché avrebbero potuto ricevere di più. [2] “Mi ha dato la pretura, ma io speravo il consolato; mi ha dato i dodici fasci, ma non mi ha fatto console ordinario; ha voluto che l’anno si datasse con il mio nome, ma non mi fa avere un sacerdozio; sono stato cooptato in un collegio, ma perché in uno solo? Mi ha concesso tutti gli onori, ma non ha aggiunto nulla al mio patrimonio: mi ha dato quello che doveva pur dare a qualcuno ma, di suo, non ci ha aggiunto nulla”.
32. Bisogna saper soprassedere
[1] A seconda delle persone, scegliamo motivi diversi di controllo: con alcuni, non dobbiamo adirarci per timore, con altri per rispetto, con altri per disgusto. Sarà certamente una grande impresa mandare in carcere uno schiavo che ci serve male! Che fretta abbiamo di farlo sferzare subito, di fargli spezzare subito le gambe? [2] Questa possibilità non ci verrà meno, se rimanderemo. Lascia che venga il momento in cui siamo noi a comandare: ora parleremmo agli ordini dell’ira. Quando se ne sarà andata, vedremo finalmente quanto vale la contesa. Sbagliamo soprattutto in questo: giungiamo alla spada, alla pena capitale e puniamo con catene, carcere e fame, un fatto che dovrebbe essere castigato con pochi colpi di sferza.
33. Il denaro, primo fattore d’ira
[1] Il denaro è la cosa che fa gridare di più: è lui che affatica i tribunali, mette a lite padri e figli, versa i veleni, consegna le spade ai sicari, è bagnato del nostro sangue: per lui, le notti di mogli e mariti sono uno strepito di litigi e le folle pressano i seggi dei magistrati, i re incrudeliscono e derubano. [2] Vuoi guardare gli scrigni che giacciono nei ripostigli? È per quelli che si grida fino a farsi uscire gli occhi dalle orbite, che le basiliche risuonano dello strepito dei processi e che giudici, fatti venire dalle regioni più lontane, siedono per decidere di chi è più giustificata l’avidità. [3] Che dire, se non si tratta nemmeno di uno scrigno e, per un pugno di monete, o per un denaro messo in conto da uno schiavo, crepa di bile un vecchio che non lascia eredi? E se, per un misero uno per mille di interesse, un usuraio paralizzato, coi piedi storti e le mani incapaci di prendere, grida e rivendica, negli accessi del male, i suoi assi, richiamandosi alle cauzioni? [4] Se tu mi portassi davanti tutto il denaro delle miniere che sappiamo scavare profondissime, se tu buttassi a mia disposizione tutto ciò che è nascosto nei tesori (gli avari usano riportare sotto terra quello che non doveva uscirne), io non stimerei tutto quel mucchio capace di far corrugare la fronte ad un uomo buono. Con quante risa dovremmo accogliere le cose che ci strappano le lacrime!
34. Altri incentivi d’ira: l’umana piccineria
[1] Suvvia, passa ora in rivista gli altri incentivi d’ira, il mangiare, il bere e il pretendere, per quelle occasioni, apparecchiature fastose, la raffinatezza e poi le parole offensive, i gesti poco rispettosi, gli animali restii e gli schiavi indolenti, e poi i sospetti, le interpretazioni malevole dei discorsi altrui, in seguito alle quali dobbiamo annoverare tra le ingiurie di madre natura l’aver dato all’uomo la parola. Credimi, non hanno peso i motivi per i quali diamo in pesanti escandescenze, come non ne hanno quelli che eccitano i fanciulli a rissare ed insultarsi. [2] Di ciò che facciamo tanto corrucciati, nulla è serio, nulla è importante: la vostra ira, vi dico, la vostra pazzia nasce dal vostro sopravvalutare cose da nulla. Costui mi ha voluto portar via una eredità, quello lì mi ha infamato presso persone che mi ero conquistate, in vista del testamento; quel tizio s’è invaghito della mia amante. [3] Ed ecco che il voler la stessa cosa, che dovrebbe diventare un vincolo di amicizia, provoca invece liti e odio. Una strada stretta suscita risse tra i passanti, una strada spaziosa, larga, aperta, non permette che s’urtino nemmeno le folle: le cose che voi desiderate, perché sono di poco conto e non possono passare da un padrone all’altro se non per furto, suscitano lotte ed alterchi tra i loro contendenti.
36. Conclusione del secondo punto: la pratica dell’esame di coscienza
[1] Tutti i nostri sensi devono essere indirizzati a fermzza; per natura sono pazienti, se l’animo smette di corromperli: esso deve esser convocato ogni giorno alla resa dei conti. Era un’abitudine di Sestio: al cadere della giornata, non appena si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua coscienza: “Qual tuo male hai guarito oggi? A qual difetto ti sei opposto? In qual settore sei migliorato?”. [2] L’ira cesserà, e sarà più moderato l’uomo che sa di doversi presentare ogni giorno al giudice. C’è usanza più bella di questa, di esaminare un’intera giornata? Che sonno segue questa inchiesta su se stessi, quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi. [3] Io mi avvalgo di questa possibilità, e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: [4] “Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona, alla quale parli, è in grado di accettare la verità”. L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi.
38. Appendice: esempi di Diogene e di Catone
[1] Qualcuno ti ha fatto offesa: certo non è più grave di quella fatta al filosofo stoico Diogene, al quale un giovane insolente sputò addosso, mentre era infervorato in un discorso sull’ira. Egli sopportò il fatto con serenità e disse saggiamente: “Certo, non mi adiro, ma nemmeno so se sarebbe il caso di adirarsi”. [2] Quanto meglio si comportò il nostro Catone! Mentre discuteva un processo, quel tal Lentulo, che i nostri padri ricordano come fazioso e prepotente, raccolse abbondante saliva e gli sputò in mezzo alla fronte. Quello si ripulì e disse: “Dichiarerò davanti a tutti, o Lentulo, che sbagliano quelli che dicono che non hai bocca”.
39. Terzo punto: bisogna placare l’ira altrui ed essere cauti
[1] Siamo già riusciti, o Novato, a dare la giusta compostezza al nostro animo; o non avverte l’irascibilità o la sa vincere. Vediamo, ora, come rabbonire l’ira altrui: non vogliamo soltanto essere sani, ma saper guarire. [2] Non ci prenderemo la libertà di rabbonire a parole il primo scatto d’ira, perché sordo e pazzo; dobbiamo concedere tempo. Le medicine giovano nei periodi di calma; non tocchiamo gli occhi gonfi, tentando di eccitarne la rigidezza col muoverli; e nemmeno le altre malattie in stato acuto: le malattie, all’inizio, si curano con il riposo. [3] “Giova ben poco” mi obietti “la tua medicina, se placa l’ira che sta gi spegnendosi da sé!”. In primo luogo, ne anticipa la fine; poi la mette al riparo da ricadute; infine, trarrà in inganno anche quel primo impulso che non osa placare: allontanerà tutti gli strumenti di vendetta, simulerà l’ira, per aver maggior autorità nel dare consigli in veste di aiutante che condivide il dolore, inventerà rinvii e, fingendo di cercare vendette più aspre, ritarderà quella immediata. [4] Userà ogni artificio per dar tregua al furore: se sarà molto impetuoso, gli incuterà una vergogna o un timore al quale non sappia resistere; se sarà piuttosto limitato, avvierà discorsi piacevoli o nuovi, e lo distrarrà con la curiosità. Raccontano che un medico, che doveva curare la figlia del re e non poteva farlo senza operare, mentre le applicava un fomento sulla mammella gonfia, vi introdusse il bisturi nascosto sotto una spugna: la fanciulla si sarebbe opposta, se egli avesse avvicinato lo strumento allo scoperto, ma, dato che non se l’aspettava, sopportò il dolore. Ci sono dei mali che si guariscono soltanto con l’inganno.
41. Epilogo: la pace dell’animo
[1] Diamo pace al nostro animo, quella pace che deriva dalla continua meditazione dei dettami salutari, dalle azioni buone e da una mente intenta a desiderare soltanto la virtù. Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza, senza preoccuparci della fama: ci tocchi magari cattiva, purché ce la meritiamo buona. [2] “Ma la gente ammira le imprese coraggiose ed onora gli audaci: i pacifici, li giudica indolenti”. A prima vista, forse. Ma non appena la coerenza della loro vita ha fatto fede che quella non è pigrizia d’animo, ma pace, quel medesimo popolo li rispetta, li onora. [3] Non porta, dunque, con sé nulla di utile, questa passione tetra ed ostile, ma porta invece tutti i mali, il ferro ed il fuoco. Calpestando ogni ritegno, s’è lordata le mani di stragi, ha disperso le membra dei figli, non ha lasciato niente libero dal delitto e, senza ricordarsi della gloria, senza temere l’infamia, è divenuta incorreggibile quando, da ira, s’è incallita in odio.
42. Riflessione sulla brevità della vita
[1] Stiamo lontani da questo male, ripuliamone l’anima ed estirpiamo alla radice quei germogli che, per esili che siano, attecchiranno dovunque troveranno terreno, e l’ira, non moderiamola, ma allontaniamola del tutto: come ci può essere, infatti, una giusta misura in una cosa cattiva? [2] Ci riusciremo, se sapremo sforzarci. Non c’è sussidio più utile che il riflettere sulla nostra condizione di mortali. Ognuno dica a se stesso ed agli altri: “A che serve dichiarare la nostra ira, come fossimo nati per l’eternità, e sciupare una vita tanto breve? A che serve trasferire in dolore e tormento altrui quei giorni che possiamo impiegare nei piaceri onesti? Queste attività non sopportano perdite, e non disponiamo di tempo da sciupare.” [3] Perché ci precipitiamo nella battaglia? Perché ci andiamo a cercare le lotte? Perché dimentichiamo la nostra debolezza, ci accolliamo inimicizie enormi e ci leviamo, noi fragili, per infrangere? Ben presto, una febbre o qualche malattia ci impedirà di portare a termine queste inimicizie che coviamo implacabili in seno; ben presto, la morte si metterà di mezzo, a separare i due accanitissimi avversari. [4] “Per quale motivo fare tumulti e turbare la vita con sedizioni? Il destino incombe sul nostro capo e tiene il giusto conto dei giorni che passano e si avvicina sempre, e sempre più. Quell’ora che tu designi per la morte altrui, forse coincide con la tua”.
43. Finché noi restiamo tra gli uomini, dobbiamo anche essere umani
[1] Perché non ripensi piuttosto alla tua vita breve, e non la progetti pacifica, per te e per tutti gli altri? Perché, piuttosto, non ti rendi degno d’amore per tutti, finché vivi, di rimpianto, quando te ne sarai andato? Perché vuoi tirar giù quel tale che tratta con te troppo dall’alto? Perché vuoi schiacciare con la tua forza quell’altro che ti latra contro, abietto e spregevole, ma acido e molesto a chi gli sta sopra? Perché t’arrabbi con il tuo schiavo, il tuo padrone, il tuo patrono, il tuo cliente? Abbi un poco di pazienza ed ecco: verrà la morte e vi metterà alla pari. [2] Tra gli spettacoli mattutini dell’arena, assistiamo di solito alla lotta di un orso e un toro, legati insieme: quando si sono tormentati a vicenda, li aspetta l’abbattitore. Noi facciamo altrettanto, assaliamo uno che è legato a noi e, intanto, pende sul capo del vincitore e del vinto la fine, e ben vicina. Trascorriamo invece in tranquillità e pace quel poco tempo che ci resta! Che il nostro cadavere non giaccia detestato da nessuno! [3] Talvolta una rissa s’è sciolta, perché nelle vicinanze s’è sentito gridare: “Al fuoco!”, e il sopravvenire di una belva ha separato il viaggiatore dal ladro. Non c’è tempo di lottare con i mali minori, quando si prospetta un timore più grave. E noi, quanto abbiamo a che vedere con i combattimenti e gli agguati? A colui con il quale sei adirato, auguri forse più della morte? Anche se rimani immobile, morirà. Lavori inutilmente: vuoi fare quello che accadrà. [4] “Non voglio” dici “ucciderlo, ma infliggergli l’esilio, l’infamia, un danno”. Sono più disposto a perdonare a chi augura al suo nemico una ferita, che a chi gli augura una pustola: quest’ultimo non è soltanto malvagio, ma anche vile. Che tu pensi al supplizio estremo o ai meno gravi, quanto breve è il tempo in cui quello sarà tormentato dalla sua pena, mentre tu proverai l’amara gioia della pena altrui! Stiamo già esalando il respiro! [5] Ma per ora, finché restiamo tra gli uomini, siamo umani; non siamo oggetto di paura, motivo di pericolo, per nessuno! Disprezziamo i danni, le ingiurie, gli insulti, le punzecchiature e sopportiamo, con la magnanimità, questi inconvenienti di breve durata.

Il tempo di volger l’occhio, dice il proverbio, di girarci, e la morte arriva.

Lucio Anneo Seneca - Commenti di Eugenio Caruso - 04-03-2015

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