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Il riscaldamento del pianeta tra bugie e mezze verità


Si aggiunga che è necessario ricordare che il vapor d’acqua, sul quale le attività umane non hanno alcuna influenza, conta per oltre il 90 per cento dell’effetto serra. Inoltre vi sono altri gas serra, dei quali l’anidride carbonica è il più importante. Solo una piccola percentuale del CO2 presente è prodotta dall’uomo, mentre il resto è di origine naturale. Questo dimostra che il contributo umano all’effetto serra è complessivamente ridotto.Sull’effettiva entità di tale percentuale vi sono opinioni divergenti e i calcoli sono complessi. I sostenitori dell’origine umana dell’innalzamento delle temperature ritengono che il contributo umano sia nell’ordine del 4 per cento, mentre gli “scettici” propendono per uno 0,3 per cento. Entrambe le percentuali sono esigue, tuttavia il primo gruppo di studiosi crede che il contributo umano sia comunque significativo, giacché il sistema del clima terrestre si trova in uno stato di delicato equilibrio, che potrebbe essere facilmente turbato, innescando incontrollabili effetti nocivi. Gli "scettici", d’altro canto, sono convinti che l’equilibrio del sistema sia decisamente solido e che verrebbe automaticamente ripristinato da meccanismi compensativi di feedback.
Nel recente volume Climate Change on a Watery Planet: The CO  Question Re-examined, Arthur Rörsch, Dick Thoenes e Florens de Wit esortano il lettore ad esaminare con spirito aperto eventuali spiegazioni alternative del modesto innalzamento della temperatura che si è verificato a partire dal 1900. Gli autori non escludono la possibilità che la relazione causale sia esattamente l’opposto dell’opinione predominante oggigiorno. Vale a dire, potrebbe essere l’innalzamento della temperatura (ad esempio, in conseguenza di un’accresciuta attività solare) che provoca un aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, e non il contrario. Ciò potrebbe essere dovuto alla maggiore rapidità della degradazione della vegetazione, che emette CO2, e alla perdita di gas da parte degli oceani, che a temperature più elevate possono contenere una minore quantità di CO2 in soluzione.
Perché tanti studiosi si aggrappano con tanta ostinazione all’ipotesi di un effetto serra di origine umana?
Nel suo recente libro Global Warming: Myth or Reality. The Erring Ways of Climatology, l’eminente climatologo francese Marcel Leroux paragona l’ipotesi dell’origine antropica dell’innalzamento delle temperature terrestri ad un dogma. Afferma Leroux: «I cittadini si dividono in due categorie. La maggior parte di essi sono “buoni”, spesso sono sinceri, talvolta sono militanti o si fidano di quanto viene loro detto o ancora,  il più delle volte, semplicemente seguono il gregge come pecore.
Gli altri appartengono alla minoranza “cattiva” che si sono stancati dei continui annunci di catastrofi imminenti, oppure non ci credono più o preferiscono seguire un’altra strada. Chi non crede nello scenario dell’effetto serra si trova nella posizione di chi, secoli fa, non credeva nell’esistenza di Dio (…) Per loro fortuna l’Inquisizione non esiste più». «Da quando numerosi Stati hanno sottoscritto la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Mutamenti Climatici - osserva Leroux - il concetto di innalzamento globale delle temperature è stato canonizzato ai più alti livelli istituzionali ed è stato imposto come dogma incontrovertibile, una sorta di religione di Stato, sottratta ad ogni ipotesi di dibattito». Ha osservato James Schlesinger, ex-Segretario dell’Energia degli Stati Uniti: «…il ricorso a combustibili fossili (che accompagna necessariamente la crescita economica e l’innalzamento del livello di vita) rappresenta l’equivalente laico del Peccato Originale. Se solo ci pentissimo e decidessimo di non peccare più, le azioni umane potrebbero sventare la minaccia di un ulteriore surriscaldamento globale».

La critica degli scenari economici presentati dall’IPCC

Anche gli scenari economici presentati dall’IPCC sono stati sottoposti a dure critiche. L’allarmismo deriva da una serie di modelli climatici ed economici. Questi ultimi, a loro volta, si fondano su taluni assunti relativi alla crescita economica dei paesi del mondo e alle relative emissioni di gas serra. Tali emissioni vengono utilizzate come input per i modelli climatici, che a loro volta contengono specifici assunti sulla sensibilità delle temperature a concentrazioni crescenti di gas serra. In virtù della logica dell’interesse composto, qualsiasi sopravvalutazione, anche di modesta entità, della crescita economica e della sensibilità delle temperature porterà il modello a illustrare per la fine del secolo una devastante apocalisse climatica.
Sostiene Labohm, «Secondo una recente indagine della Commissione Ristretta Affari Economici della Camera dei Lord del Parlamento britannico, gli scenari economici dell’IPCC sono effettivamente distorti da un’esagerazione dei dati relativi alla crescita economica. Al fine di impedire che si verifichino storture del genere, la Commissione ha raccomandato che in futuro la redazione dei modelli sia verificata da esperti del Tesoro. Ma non è tutto. La Commissione si è chiesta se l’IPCC non avesse sottovalutato il ruolo delle cause naturali, come gli effetti dell’attività solare. Inoltre ha manifestato qualche preoccupazione in merito all’obiettività delle attività dell’IPCC. In particolare, la Commissione si è detta convinta che la selezione degli scenari sia stata eccessivamente influenzata da considerazioni politiche, piuttosto che da una realistica valutazione del fenomeno. In aggiunta, ha sottolineato il fatto che l’innalzamento della temperatura globale potrebbe avere anche effetti positivi, quali ad esempio un aumento della produttività agricola e un ampliamento delle terre coltivabili alle latitudini più elevate. Secondo la Commissione, nella redazione degli scenari gli effetti positivi sono stati deliberatamente messi in secondo piano. La Commissione, pertanto, ha esortato ad attuare un’analisi più equilibrata e ha sottolineato l’importanza di una corretta analisi di costi e benefici. La Commissione, inoltre, ha ritenuto che i meccanismi di attuazione previsti dal Protocollo di Kyoto siano estremamente deboli e persino controproducenti. Sostanzialmente, se uno Stato firmatario non dovesse rispettare gli impegni previsti dal Protocollo, gli verrebbe imposta una penale da raggiungere nell’obiettivo dell’eventuale accordo successivo. Di conseguenza, se un paese non riuscisse a raggiungere l’obiettivo di riduzione delle emissioni stabilito per il periodo 2008-2012, non solo dovrebbe recuperare la mancata riduzione nel secondo periodo di applicazione, ma dovrebbe pagare una “penale” consistente in una riduzione supplementare delle emissioni pari al 30 per cento del valore mancante. È abbastanza ovvio che, se uno Stato non riuscisse a raggiungere l’obiettivo previsto per il primo periodo, ben difficilmente accetterebbe di sottoscrivere questa forma di autopunizione per i periodi successivi. Qualora il mancato raggiungimento degli obiettivi interessasse più paesi, come prevedono numerosi osservatori, ciò significherebbe che i partecipanti avrebbero incontrato degli ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi prefissati, ostacoli di natura economica, politica o di altro genere. Ma, se vi sono difficoltà nel rispettare gli obiettivi di Kyoto, è verosimile che il raggiungimento di obiettivi ancora più rigorosi presenti difficoltà ancora maggiori. Il mancato rispetto degli impegni relativi al primo periodo fa sì che la partecipazione ad accordi successivi sia meno probabile. L’obiezione più importante, tuttavia, è che la Commissione ha sottolineato che l’attuazione del Protocollo di Kyoto non contribuirà in modo significativo a rallentare l’innalzamento delle temperature globali».

La posizione degli Usa

Afferma Labohm,  «Con il trascorrere del tempo è diventato chiaro che i costi imposti dal Protocollo di Kyoto sono eccessivi, mentre i benefici in termini di riduzione netta delle temperature, anche a distanza di decenni, sono infinitesimi. Le stime dei costi relativi al primo periodo di applicazione del Protocollo di Kyoto (ossia all’attuale “mini-Kyoto” economico), che terminerà nel 2012, sono nell’ordine dei 500-1.000 miliardi di euro. Secondo i sostenitori di Kyoto, ciò permetterebbe di ottenere di qui al 2050 una riduzione netta delle temperature dell’ordine di due centesimi di grado centigrado. Politicamente, è ormai evidente che la stragrande maggioranza dei paesi del mondo non ha alcuna intenzione di seguire il metodo economico per l’attuazione del Protocollo di Kyoto, con i suoi limiti vincolanti alle emissioni di CO2 uniti ad un sistema di scambio di quote di emissione. Quali sono i motivi di questo rifiuto? Forse questi paesi non sono convinti della validità dell’ipotesi dell’origine antropica del surriscaldamento terrestre? Temono che l’applicazione del Protocollo di Kyoto possa nuocere alla loro crescita economica? In effetti, numerosi portavoce dell’Amministrazione americana hanno espresso dubbi in merito alla teoria corrente sul mutamento climatico. Su tale questione, tuttavia, altri paesi hanno preferito tacere. In ogni caso, sembra verosimile che non ne siano particolarmente preoccupati, o che le loro priorità economiche abbiano la precedenza sulle loro eventuali preoccupazioni in merito al clima.
Non solo paesi sviluppati, come gli Stati Uniti e l’Australia, ma anche paesi come Cina, India e Brasile hanno annunciato che non parteciperanno né al primo periodo di attuazione del Protocollo di Kyoto, né ad eventuali periodi successivi.
I leader che, nel luglio 2005, hanno partecipato all’incontro al vertice dei G8 a Gleneagles, in Scozia, non sono riusciti a trovare un accordo sul dopo Kyoto. Tuttavia a prima vista il comunicato congiunto emesso al termine del vertice non fa menzione del profondo disaccordo in merito a tale questione: per ravvisarne l’esistenza si deve leggere tra le righe. Probabilmente è per questo motivo che le divergenze sulle politiche climatiche non hanno fatto notizia. La dichiarazione congiunta è un capolavoro di retorica e solo i più accorti esegeti di questo tipo di comunicati hanno potuto accorgersi che il testo era del tutto privo di sostanza, ossia non menzionava in alcun modo impegni vincolanti. Ciò dovrebbe sorprendere, in quanto già diversi mesi prima del vertice, Tony Blair, che a Gleneagles faceva il padrone di casa, aveva annunciato che il futuro delle politiche climatiche sarebbe stato uno dei temi principali dell’incontro. Successivamente, tuttavia, Blair aveva dichiarato a New York di avere cambiato opinione sul Protocollo di Kyoto. Secondo Jonathan Leake, redattore ambientale del Sunday Times, da tempo Blair stava facendo trasparire di non essere più tanto convinto della validità del Protocollo».

Leake ha affermato: «Tony Blair ha lasciato intendere che la Gran Bretagna potrebbe abbandonare il tentativo di trovare un accordo di prosecuzione del Protocollo di Kyoto, in quanto il costo economico che comporta la riduzione delle emissioni di gas serra è troppo elevato. Nel corso di un incontro internazionale tenuto a New York, il Primo Ministro ha dichiarato che le sue opinioni in merito a questo tema stanno cambiando». D’altra parte Blair ha affermato, «Dobbiamo iniziare ad affrontare con brutale onestà il contesto politico nel quale vogliamo affrontare il problema. La verità è che nessun paese è disposto a ridurre in misura sostanziale la propria crescita o i propri consumi per venire alle prese con un problema ambientale di lungo periodo. Ad essere onesti, non credo che, almeno nel breve periodo, nessuno voglia negoziare un trattato di alto profilo come il Protocollo di Kyoto».
Il Primo Ministro britannico ha fatto queste dichiarazioni in occasione della Clinton Global Initiative, organizzata dall’ex-presidente all’Hotel Sheraton di New York, nel settembre 2005. Oltre a Blair, hanno preso parte ai lavori Condoleeza Rice, Segretario di Stato americano e re Abdullah di Giordania. Nella sua dichiarazione Blair ha fatto capire di non essere più convinto che gli accordi su scala planetaria siano il metodo più opportuno per invertire la crescita delle emissioni di gas serra. Viceversa, il Primo Ministro ha dato l’impressione di riporre le proprie speranze nella scienza, nella tecnologia e nel libero mercato, schierandosi così sulle posizioni assunte dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush quando, nel 2001, ha ripudiato il Protocollo di Kyoto. Nel corso del vertice di Gleneagles il presidente Bush ha ammesso l’esistenza di un contributo umano all’innalzamento globale delle temperature, facendo così cosa gradita ai sostenitori di Kyoto, ma non ha specificato quale sia la possibile entità di tale contributo. Incidentalmente, ci si potrebbe chiedere chi mai potrebbe farlo: la scienza non offre risposte a questa domanda. Comunque, in passato, il presidente Bush aveva affermato chiaramente che il Protocollo di Kyoto rappresenterebbe un onere eccessivo per l’economia americana, contraddistinta com’è da un’elevata intensità energetica. I calcoli effettuati alcuni anni prima avevano valutato che i costi annuali dell’attuazione del Protocollo sarebbero stati pari, per gli Usa, al 4 per cento del PIL. Indipendentemente dalla sua appartenenza politica, qualsiasi presidente americano porrebbe il veto alla partecipazione degli Stati Uniti al Protocollo, giacché fare diversamente rappresenterebbe un vero e proprio suicidio politico. Non fosse altro che per questa ragione, la partecipazione americana al Protocollo di Kyoto è del tutto improbabile.
Nel complesso, tutto ciò significa che l’Europa si trova isolata sul piano internazionale, cosa che per la diplomazia europea rappresenta un autentico schiaffo. L’Europa si è sempre considerata un leader illuminato delle iniziative ambientali su scala planetaria, ma i fatti dimostrano che il nostro continente si illudeva. Come se non bastasse, il metodo americano per creare una cooperazione internazionale al fine di sviluppare tecnologie più pulite e più economiche, come via alternativa a Kyoto, ha ottenuto il sostegno di numerosi paesi, quali la Cina, l’India, il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia. Queste attività proseguiranno nel contesto della Asia Pacific Partnership on Clean Development. I risultati di questa iniziativa sono importanti perché, indipendentemente dal fatto che l’innalzamento della temperatura abbia cause naturali o umane, ridurre gli sprechi di energia è un obiettivo di per sé fondamentale.
Afferma Labohm, «Tutto ciò significa che nel 2012 la scadenza del primo periodo di attuazione del Protocollo di Kyoto segnerà anche la fine di questo accordo internazionale. I sostenitori di Kyoto hanno sempre asserito che il primo periodo di attuazione non era che un modesto primo passo, al quale avrebbero dovuto fare seguito ulteriori riduzioni (si calcola che sarebbero necessarie dalle 10 alle 30 fasi successive all’attuale). Oggi, tuttavia, queste speranze appaiono irrimediabilmente infrante. Ovviamente ciò induce a chiedersi a che scopo proseguire con l’attuazione dell’attuale mini-Kyoto europeo, che costa una fortuna, ha effetti pressoché nulli e per giunta danneggerà la competitività europea, con tutte le conseguenze che ne conseguiranno. Perché, dunque, ostinarsi in questa politica irrazionale? Per salvare la faccia? Per placare un senso di colpa? Ameno che non sia vero che il motivo ultimo debba essere visto nei comandamenti di una nuova religione secolare ambientalista...».

Con questo articolo Impresa Oggi non vuole prendere una posizione, ma aprire il dialogo a più voci, non sempre concordanti.


Tratto da un articolo di Hans Labohm, rielaborato da Eugenio Caruso
30/11/2006


Interessante è prendere in considerazione anche il seguente articolo di FRANCO BATTAGLIA

La terra, il clima, e le bugie sull'effetto serra

(pubblicato su Il Giornale, 20 Settembre 2005)

La teoria climatica secondo cui dovremmo ridurre le emissioni d’anidride carbonica (CO2) poggia sull’assunto che l’eccezionale - ed eccezionalmente rapido - cambiamento climatico di cui saremmo testimoni sarebbe da addebitarsi alle emissioni antropogeniche di quel gas-serra. Le cose non stanno esattamente così. Non foss'altro per il fatto che d’eccezionale non v'è né l'attuale cambiamento climatico né la sua rapidità. Un fatto è certo: il clima del pianeta può radicalmente cambiare, come le ere glaciali inconfutabilmente attestano. Cinquant'anni fa, quando ancora si riteneva che ciò potesse avvenire solo con tempi dell'ordine delle decine di migliaia d’anni, ci si è confrontati con l'evidenza che seri cambiamenti climatici avvennero anche nell'arco di pochi millenni; ridotti a pochi secoli dai risultati delle ricerche nei successivi 20 anni, e ulteriormente ridotti ad un solo secolo dai resoconti scientifici degli anni 70 e 80. Oggi, la scienza sa che cambiamenti climatici, nel passato, sono avvenuti anche nell'arco di pochi decenni. Nel 1955, datazioni al carbonio-14 effettuate su reperti scandinavi rivelarono che il passaggio, circa 12000 anni fa, da clima caldo a clima freddo, avvenne durante un millennio. Un periodo che fu definito “rapido”, vista l'universale convinzione che tali cambiamenti potevano avvenire solo in tempi di decine di migliaia d’anni. Conferme vennero da altre ricerche: ad esempio, quella dell'anno successivo che accertò che l'ultima era glaciale finì col "rapido" aumento di un grado per millennio della temperatura globale media; e quella di 4 anni dopo, secondo cui vi furono nel passato, e nell'arco di un solo millennio, aumenti di temperatura anche di 10 gradi. E altre ancora, finché nel 1972 il climatologo Murray Mitchell ammetteva che le evidenze degli ultimi 20 anni forzavano a sostituire la vecchia visione di un grande, ritmico ciclo con quella di una successione rapida e irregolare di periodi glaciali e interglaciali nell'arco di un millennio. Anche se, allora, il timore dominante era la possibilità che la fine del secolo avrebbe potuto segnare l'inizio di un periodo glaciale con evoluzione rapida (cioè nell'arco di pochi secoli) verso condizioni “fredde” catastrofiche per l'umanità non mancava chi avvertiva del pericolo opposto: il riscaldamento globale a causa delle emissioni umane. In quello stesso 1972, infatti, il climatologo M. Budyko dichiarava che alla velocità con cui l'uomo immetteva CO2 nell'atmosfera, i ghiacciai ai poli si sarebbero completamente sciolti entro il 2050. Insomma, ancora 30 anni fa gli scienziati non si erano messi d'accordo se un'eventuale minaccia proveniva dal troppo freddo o dal troppo caldo. Mentre erano concordi su una cosa, che di troppo era certamente: la loro ignoranza. E invocarono, giustamente, maggiori risorse. Grazie alle quali andarono in Groenlandia ove, dopo 10 anni di tenace lavoro, estrassero, dalle profondità fino ad oltre 2 km, "carote" di ghiaccio di 10 cm di diametro. Dalle analisi dell'abbondanza relativa degli isotopi dell'ossigeno nei diversi strati di ghiaccio (il più profondo dei quali conserva le informazioni sulle temperature di 14 mila anni fa) si ebbe la conferma che drammatiche diminuzioni di temperatura erano avvenute nell'arco di pochi secoli. Ma fu solo 12 anni fa, nel 1993, che gli scienziati rimasero, è il caso di dire, di ghiaccio: quando scoprirono, da nuovi carotaggi, che la Groenlandia aveva subito aumenti di anche 7 gradi nell'arco di soli 50 anni; e, a volte, con drastiche oscillazioni anche di soli 5 anni! Anche se «questi rapidissimi cambiamenti del passato non hanno ancora una spiegazione», come dichiara un recente rapporto dell'Accademia delle Scienze americana, la scienza ha accettato l'idea di un sistema climatico la cui variabilità naturale si può manifestare anche nell'arco di pochi decenni. Non c'è nessuna ragione - di là da quella che ci rassicura psicologicamente - per ritenere che essi non debbano manifestarsi oggi. Vi sono invece tutte le ragioni per essere certi che quella secondo cui l'uomo avrebbe influenzato i cambiamenti climatici è un'idea priva di fondamento. Semmai, come sempre, sono i cambiamenti climatici ad aver influenzato l'uomo e il percorso della civiltà.


Io ho guidato strutture di ricerca per decenni e posso affermare, categoricamente, che professori e scienziati, spesso, sono poco credibili. Si innammorano della loro idea o di una loro teoria ed è difficile che l'abbandonino; combattono con armi lecite e illecite, come la calunnia (i catastrifisti, ad esempio, accusano gli scettici di essere pagati dalle multinazionali del petrolio) contro chi non la pensa come loro. Quando poi assurgono a livello dei media o della spettacolo mediatico allora è il momento di non dare loro alcun credito. Scienziati e professori devono raffrontare le proprie idee all'interno delle riviste scientifiche e dei congressi. Alla lunga gli aspetti puramente scientifici e non emotivi hanno il sopravvento e diventano "verità scientifica".

Eugenio Caruso


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