Recensione di - Italiani volta gabbana - di Bruno Vespa.


"o Franza o Spagna, purché se magna"
Attribuito a Guicciardini

Nel suo ultimo libro «Italiani voltagabbana» (Mondadori, 374 pagine, 20 euro), Bruno Vespa, affrontando il tema dei voltagabbana, parte addirittura dalla terza guerra di indipendenza.
L'Italia puntando ad avere Veneto e Trentino, nel 1865, trattò segretamente con Austria e Prussia, allora avversarie per il controllo del centro Europa. "Dissi a Napoleone" raccontò Costantino Nigra "che per l'Italia era indifferente legarsi con l'una o l'altra pur di liberare Venezia". Alla fine l'Italia si alleò con Francia e Prussia; al primo serio scontro, a Custoza, il generale La Marmora ordinò la ritirata dichiarando di aver subito una dura sconfitta (600 furono i morti italiani 1200 quelli austriaci). La dichiarazione lasciò esterefatti austriaci e prussiani; d'altra parte Nigra e La Marmora si erano accordati "di non mettere troppo vigore in questa guerra", si voleva, cioè una guerra all'italiana. Persa, a tavolino, la battaglia di terra si voleva un riscatto sul mare; la nostra flotta, molto più forte di quella austriaca, era comandata da un pavido ammiraglio, Carlo Pellion di Persano, convinto di aver perso prima ancora che la battaglia iniziasse. A Lissa la flotta di Persano fu sconfitta dall'ammiraglio von Tegetthoff, che guidava equipaggi in gran parte veneti, infatti, quando la disfatta italiana fu palese dalle navi austriache si levò un grido "Viva San Marco" e ciò la dice lunga sul desiderio dei veneti di diventare italiani. Questo episodio ricorda la battaglia di Solferino, nella quale gli unici che si batterono da leoni furono i veneti inquadrati nell'esercito austriaco. Tegetthoff scrisse nel suo rapporto "Uomini di ferro su navi di legno, hammo sconfitto uomini di legno su navi di ferro". L'unico generale che si battè con onore, riscuotendo l'apprezzamento di Bismarck, fu Garibaldi, al quale, però, fu ordinato di abbandonare il Trentino quasi del tutto conquistato, da cui il famoso "Obbedisco". Con buona pace della pubblicistica risorgimentale e patriottarda la storia "che abbiamo vinto le guerre con i soldati degli altri non è una calunnia, ma ha origini antiche".
Dopo la terza guerra di indipendenza che assegnò il Veneto alla Francia e da questa all'Italia in cambio di Nizza e Savoia, il paese iniziò a ondeggiare tra La Triplice Alleanza (Germania, Austria e "teoricamente" Italia) e la Triplice Intesa. Per una trentina d'anni l'Italia non aveva avuto nemici, ma, pur facendo parte della Triplice Alleanza era in rapporti amichevoli con Francia e G.B. che con la Russia avevano formato La Triplice Intesa. L'idea era allearsi con una triplice o con l'altra in funzione di chi avesse offerto di più. Scriveva, a ragione, l'ambasciatore russo in Italia "Nessuno crede che la Triplice Intesa o la Triplice Alleanza possano contare sulla lealtà dell'Italia .... Nel caso di una guerra assumerà un atteggiamento di osservatore e poi si associerà alla parte cui arride la vittoria". E il generale tedesco Georg von Waldersee affermava "La nuova Italia sinora ha sempre fatto i suoi affari con le vittorie degli altri"; non diversamente la pensava il Consiglio suoperiore di difesa francese.
Quando il 28 luglio 1914 scoppiò la prima guerra mondiale dopo le iniziali incertezze, con chi allearsi e contro chi combattere, l'Italia di Giolitti optò per la neutralità perchè i generali assicurarono che le truppe non erano dotate di divise pesanti per sostenere i rigori dell'inverno; in realtà durante le trattative segrete, Francesco Giuseppe non aveva accettato di concedere il Trentino all'Italia perchè temeva lo smembramento dell'Impero. L'atteggiamento austriaco fece infuriare Guglielmo II che contava sull'intervento immediato dell'Italia. La pavidità italiana salvò, di converso, la Francia che potè sguarnire i confini con l'Italia e arginare sulla Marna la potente avanzata dell'esercito tedesco. La battaglia della Marna segnò un momento decisivo della prima guerra mondiale, decretò il fallimento degli ambiziosi piani tedeschi e delle loro speranze di vittoria entro sei settimane (anche a causa della morte dell'estensore del piano strategico, il generale Alfred von Schlieffen e la sua sostituzione con l'inadatto Helmuth von Moltke) rinsaldò la resistenza degli Alleati e trasformò la guerra in una lunga lotta di logoramento nelle trincee che sarebbe continuata per altri quattro anni fino alla sconfitta finale della Germania imperiale. Questa volta i morti italiani, tra militari e civili, furono 1.240.000, ancora a causa delle titubanze e dell'inadeguatezza del Capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna.

Il libro attraversa il periodo fascista con il cambiamento di alleanza dopo l'8 settembre 1943. Vespa ricorda che dopo la sigla dell'armistizio di Cassibile, Badoglio riunì il governo, solo per annunciare che le trattative per la resa erano "iniziate". Gli Alleati, da parte loro, fecero pressioni sullo stesso Badoglio affinché rendesse pubblico il passaggio di campo dell'Italia, ma il generale tergiversò. La risposta degli anglo-americani fu drammatica: gli aerei alleati scaricarono bombe sulle città della penisola. Nei giorni dal 5 al 7 settembre i bombardamenti furono intensi: oltre 130 aerei B-17 ("Fortezze volanti") attaccarono Civitavecchia e Viterbo. Il 6 fu la volta di Napoli. Perdurando l'incertezza da parte italiana, gli Alleati decisero di annunciare autonomamente l'avvenuto armistizio: l'8 settembre, alle 17:30 (le 18:30 in Italia), il generale Dwight Eisenhower lesse il proclama ai microfoni di Radio Algeri. Poco più di un'ora dopo, Badoglio fece il suo annuncio da Roma. La fuga dalla Capitale dei vertici militari, del Capo del Governo Pietro Badoglio, del Re Vittorio Emanuele III e di suo figlio Umberto dapprima verso Pescara, poi verso Brindisi, e la confusione, provocata soprattutto dall'utilizzo di una forma che non faceva comprendere il reale senso delle clausole armistiziali e che fu dai più invece erroneamente interpretata come indicazione della fine della guerra, generarono enorme confusione presso tutte le forze armate italiane, le quali, lasciate senza precisi ordini, si sbandarono. 815 000 soldati italiani vennero catturati dall'esercito tedesco, e destinati a diversi Lager con la qualifica di I.M.I. (internati militari italiani) nelle settimane immediatamente successive. Tra questi militari vi fu anche mio padre del quale ho raccontato la storia.
Vespa dedica un capitolo ai «Giornalisti famosi e Premi Nobel in camicia nera». Un capitolo breve e sferzante. Vi si narra, tra gli altri, di Enzo Biagi, di Giorgio Bocca e di Dario Fo. Vespa ricorda che nel 1941 Enzo Biagi, allora ventunenne, recensì il film “Süss l’ebreo”, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese “L’Assalto” scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo», e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». Biagi era in buona compagnia, nota Vespa. Infatti sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini,, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani. Biagi restò al «Resto del Carlino», controllato dai fascisti e anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del ’44 ricevendo – come tutta la redazione – generosi sussidi economici dal Ministero della Cultura Popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo, Biagi entrava a Bologna con le truppe americane. Ma veniamo a Giorgio Bocca, mito dell’antifascismo piemontese e non soltanto. Vespa riporta un articolo pubblicato da Bocca l’8 gennaio 1943 sul settimanale «La Provincia Granda», della federazione fascista di Cuneo. Nell’articolo, intitolato «La sberla e la bestia», Bocca racconta che il 5 gennaio aveva incontrato in treno, sulla linea Cuneo-Torino, l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo sui «Protocolli dei Savi di Sion», che si sarebbero rivelati poi (ma lui, poverino, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell’articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo ebreo intende giungere al dominio del mondo. . .». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». E veniamo a Dario Fo. Vespa racconta come Dario Fo si arruolò a 18 anni quale volontario prima nel Battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del Battaglione Mazzarino della Repubblica Sociale Italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per i suoi lavori teatrali, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), «Il Nord», pubblicò una lettera del suo lettore Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato. Secondo quanto riferì «Il Giorno» (8 febbraio 1978), l’attore disse in aula che «il suo arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l’azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L’allievo paracadutista Darlo Fo era con me durante un rastrellamento in Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l’ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…». «L’11 marzo 1978» – scrive ancora Bruno Vespa – «mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale “Gente” una foto dell’attore in divisa della Repubblica Sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra (“Sono apocrife e aggiunte da altri!”, si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che “è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani”. Il futuro Premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva».
Il libro termina con l'elenco di tutti i volta gabbana della repubblica italiana, specie della seconda, ma questa è storia contemporanea; giova ricordare che per questi recenti volta gabbana è stato coniato un nuovo sostantivo "scilipotismo".
La lettura di questo libro ha condotto la mia memoria a un saggio di grande successo "Ammazziamo il Gattopardo" di Alan Friedman, saggio che ci dà una visione del voltagabbanismo italiano da un'altra angolazione.


Eugenio Caruso - 09-04-2015

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