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I numeri che non tornane del DEF 2015


La sorte favorevole non esalta il saggio, né quella contraria lo abbatte.
Seneca, Consolatio ad Helviam matrem

Ora che disponiamo della versione integrale e ufficiale del Documento di economia e Finanza del governo e degli allegati, si può farne un esame non più basato sulle illazioni. Con una premessa, purtroppo inevitabile. Non aiuta a nutrire fiducia la pessima figura rimediata dall’esecutivo, quando si è scoperto che nel decreto legislativo sulla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato si prevedeva una clausola di salvaguardia alla Totò-truffa per la quale, visto che 1,8 miliardi potrebbero non bastare, raggiunta quella cifra sarebbero state le imprese e i lavoratori a vedersi aumentare i contributi. Gli sgravi pagati da coloro ai quali il governo li dispone mancavano, nella variopinta serie delle trovate circensi della politica. Il governo è stato costretto a una precipitosa marcia indietro, sorpreso con le dita nella marmellata su un aspetto paradossale, che aveva sempre nascosto. Non è una buona premessa per far saltare le clausole di salvaguardia fiscale per 2 punti di Pil previste nei prossimi 3 anni, ma tant’è. Sul DEF, procediamo per punti.
Renzi è stato abile, ha timbrato il DEF come la prima disponibilità di un tesoretto da spendere subito, dopo anni di strette. Viene naturale associare l’idea di un tesoretto a risultati virtuosi intanto conseguiti. Peccato che quel miliardo e seicento milioni che Renzi deciderà di usare vedremo come, se estendendo il bonus 80 euro o se in misure a sostegno della povertà, e guarda caso lo deciderà pochi giorni prima delle elezioni regionali in arrivo, sia di maggior deficit pubblico per il 2015, che passerà dal 2,5% del Pil al 2,6%. Deficit, non virtù. Ed è l’intero DEF, in realtà, a essere molto diluente sugli obiettivi da perseguire fino al 2018. La scelta è di non accelerare energicamente gli interventi sulla spesa per adottare subito energici sgravi fiscali aggiuntivi e consolidare così l’esile ripresa in corso. Peccato: a fine 2016 finisce il QE della BCE, il grande regalo di cui stiamo beneficiando e che abbatte anche il valore dell’euro trainando l’export. Diluendo gli obiettivi rischiamo di perdere la grande occasione.
C’è una grande scelta positiva, nel DEF. L’impegno a far saltare la clausola di salvaguardia fiscale che lo stesso governo aveva assunto nel 2016 per 1 punto di PIL, con aggravi di IVA e accise (più due altre clausole minori previste dai governi precedenti). Sarebbe stata una batosta. Viene annullata per lo 0,4% del Pil grazie ai minori interessi sul debito regalataci da Draghi, e per lo 0,6% con tagli di spesa che rappresentano tutto il nuovo sforzo sulla spesa del DEF, rispetto a quanto già stabilito per i prossimi anni nell’ultima legge di stabilità. Ma fu un demerito dell’attuale governo prevedere le clausole perché non abbracciò i tagli di Cottarelli un anno fa (che dovevano essere di 7 miliardi nello stesso 2014, poi di 16 nel 2015 e di 34 nel 2017). Dunque il demerito di allora si pareggia rimediando con la cancellazione: ma sempre errore di questo governo era stato.
Il governo è prudente sul 2015, limitandosi a una attesa di crescita dello 0,7%. Ma fin dal 2016 si scommette su una crescita reale doppia e su una componente di inflazione che risale rapidamente verso il 2% tra 2015 e a 2016: dunque una crescita nominale che dovrebbe essere più vicina al 3% che al 2%. E’ questo quadro, a reggere tutte le stime di finanza pubblica. A fronte del poco che si fa su spesa e tasse, è molto ottimistico. Perché – tranne che per il Jobs Act – dipende in realtà da un commercio mondiale che torni ad aumentare del 4% e ben oltre il 5% tra 2016-2018 , e da un petrolio che non salga per tutti i prossimi anni sopra i 57 dollari al barile.
Le tasse. La versione finale del DEF ha mutato la scansione della pressione fiscale, che dal 43,5 del PIL a cui era salita nel 2014 e restava nel 2015 e cresceva ulteriormente al 44,1% nel 2016 e 2017. La nuova tabella è basata sull’assunto caparbio che gli 80 euro vanno contati come meno tasse e non più spese – come accade invece per criterio contabile europeo – e dunque in base a questo afferma che la pressione fiscale scenderà dal 43,5% del Pil al quale restava nel 2015 al 42,9% quest’anno, per poi decrescere nel 2016 al 42,6%, e via via fino al 41,1% nel 2019. La diminuzione rispetto al previsto ingloba per quest’anno il criterio degli 80 euro come meno tasse, ma se l’Europa non l’approva la pressione resterà al 43,5%. Per gli anni a venire, oltre il solito criterio sugli 80 euro si sommano le mancate clausole fiscali, che dovrebbero saltare a partire dal 2016. Ma attenzione, sono previsioni al netto di che cosa potrebbe avvenire ripetendo quanto accaduto dal 2008 ad oggi: quando i tagli alle Autonomie sono state compensati per oltre un terzo da aumenti della pressione fiscale locale. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, finché un governo non deciderà sgravi universali per tutti abbassando questa o quella aliquota di questa o quella tassa.
E’ l’annuncio del governo. Che va interpretato: si legge così: nessun taglio aggiuntivo a quelli già disposti per i prossimi anni dall’ultima legge di stabilità. Che sono puntualmente riportati nelle tabelle del DEF. Intendiamoci: poca roba. La spesa pubblica complessiva è stata del 51,1% del Pil nel 2014. Se levate gli interessi sul debito, la spesa primaria è del 46,5% del PIL. Dovrebbe scendere gradualissimamente al 43,3% del PIL solo entro il 2019, mentre gli interessi sul debito passerebbero dal 4,6% del 2014 fino al 3,7% fino al 2019, non si capisce in base a quale ottimismo sull’orizzonte successivo alla fine del QE della BCE. Se esaminate le tabelle programmatiche dei grandi aggregati della spesa pubblica a venire, troverete che un solo comparto scende significativamente, quello dei consumi intermedi cioè delle forniture, che dovrebbe passare dai 134 miliardi 2014 pari all’8,3% del PIL al 7,8% nel 2016 e via via fino al 7% in altri 3 anni. Nessun’altra grande voce, stipendi e pensioni, presenta diminuzioni comparabili, né superiori allo 0,3-0,4% del Pil in 5 anni.
Il più della non troppo rilevante riduzione della spesa pubblica complessiva – dal 50,5% del PIl in questo 2015 al 49,4% nel 2016 al 48,6% nel 2017 – ha però un andamento previsionale asimmetrico. La spesa corrente di cassa dello Stato centrale sale dal 26,6% del PIL nel 2014 al 28,1% nel 2015, al 29,1% nel 2016, e al 29,2% nel 2017. Quella degli Enti Locali scende dal 13,7% del Pil 2014 al 13,1% nel 2015, al 12,7% nel 2016, e continua a scendere fino all’11,9% nel 2018. Ecco l’allarme rosso: i tagli veri alle Autonomie restano, sono già disposti. E i contribuenti devono vivere questa prospettiva sapendo che, con la nuova local tax in arrivo sul mattone al posto di IMU-TASI o con sovrattasse come quelle ai passeggeri di porti e aeroporti, la pressione fiscale può risalire per compensare parte dei tagli veri che lo Stato non vuole per sé. ma dispone alle Autonomie locali.
Indispettito per la protesta preventiva delle Regioni, Renzi alla conferenza stampa del DEF ha sparato contro le troppe ASL che restano in Italia. Abbia ragione o no, nel DEF però i numeri raccontano un’altra sttoria. La sanità nel 2014 è costata 111 miliardi, con un +0,9% sul 2013, ed era composta da spese per personale di 35,4 miliardi, forniture per 29,6mld, prestazioni per 39,6 miliardi. Nel 2015 costerà lo 0,2% in più poiché le spese di personale e forniture salgono, e scende a 38,8 la spesa per prestazioni. Nel 2016 è previsto che la sanità costi l’1,9% in più, per 113 miliardi. Nel 2017 la spesa diventa di 115,5, nel 2018 di 117,7 e nel 2019 di 120 miliardi, con tassi di aumento del 2% l’anno. Quella di Renzi era un’ottima battuta, peccato che i conti del governo dicano cose diverse.


Oscar Giannino da www.leoniblog.it - 14-04-2015

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www.impresaoggi.com