Oggi vorrei parlare di economia e finanza in Italia negli ultimi trent'anni. Vorrei parlare della deriva che un'élite ha imposto a questo paese, da Tangentopoli all'affaire Covid, passando per il Britannia, le privatizzazioni, l'euro e la deregolamentazione del lavoro.
Vorrei parlare di come rispetto ai paesi OCSE l'Italia sia stata il bocconcino depredato e da sbranare. Di come la bolla speculativa si sia ripercossa sulla gente. Di come la crisi russo-ucraina abbia colpevolmente impattato sulla vita quotidiana delle persone. Di come il caro energia e il caro affitti abbia creato vittime. Di come l'abolizione delle tutele sindacali post eliminazione dell'art. 18 abbia cagionato morte e morti.
E vorrei parlare di un numero: centomila. Forse centocinquantamila. Forse duecento.
Almeno centomila morti in trent'anni. Non in una guerra dichiarata. Non in un'epidemia naturale: in una guerra economica silenziosa, combattuta nei cantieri senza tutele, nelle fabbriche degli appalti al ribasso, negli studi notarili dove si firmavano pignoramenti, nei bagni dove padri di famiglia si impiccavano perché la banca aveva chiuso il rubinetto, nei letti d'ospedale dove le liste d'attesa trasformavano tumori operabili in condanne a morte, nelle case gelide di anziani che sceglievano tra mangiare e riscaldarsi, sotto i ponti dove morivano i nuovi poveri che nessuno conta.
Nel 1992 sul panfilo Britannia, ormeggiato al largo di Civitavecchia, si decide il destino dell'Italia. Non con un colpo di stato. Non con i carri armati. Con champagne e strette di mano tra investitori internazionali e la nuova classe dirigente post-Tangentopoli. Si smantella l'IRI, si privatizzano le banche, si cedono le telecomunicazioni. Asset strategici svenduti quando la lira è sotto attacco e i prezzi sono ai minimi. Chi lavorava in quelle aziende scopre cosa significa ristrutturazione, delocalizzazione, esternalizzazione.
Nel 1999 entra l'euro: perdita della sovranità monetaria, vincolo di bilancio, camicia di forza. Trent'anni di crescita zero. Unico caso tra le economie avanzate. "Fanalino di coda" OCSE. I salari reali si fermano. Ma le élite festeggiano: spread sotto controllo, credibilità internazionale, riforme strutturali.
E le riforme arrivano: Treu, Biagi, Jobs Act. Precarizzazione del lavoro come soluzione alla disoccupazione. Poi il capolavoro: eliminare l'articolo 18. Togliere l'ultima protezione contro il licenziamento arbitrario. Il potere contrattuale crolla. Il salario crolla. La sicurezza sul lavoro crolla.
Trentaseimila morti nei cantieri, nelle fabbriche, nei magazzini. Mille all'anno, ogni anno, per trent'anni. Corpi schiacciati, bruciati, precipitati. Lavoratori precari, senza formazione, in subappalti dove la sicurezza è il primo costo da tagliare. Nessuno chiama questo un massacro. Si chiama incidente, fatalità. Mai scelta politica.
La "crisi finanziaria" del 2008. Arriva Monti, arriva l'austerità. Trentasette miliardi di tagli alla sanità in dieci anni. Undici milioni di italiani che rinunciano a curarsi per motivi economici. Tumori diagnosticati troppo tardi. Decine di migliaia di morti evitabili, dispersi nelle statistiche, mai contabilizzati come vittime dell'austerità.
E poi i suicidi. Diecimila, quindicimila tra il 2008 e il 2015. Piccoli imprenditori che si sparano perché Equitalia ha pignorato tutto. Padri di famiglia che si buttano dal balcone perché hanno perso il lavoro. Artigiani che si impiccano nel laboratorio vuoto. Nessuno li conta come morti ammazzati dal sistema. Si chiamano tragedie personali. Mai responsabilità collettiva.
Poi l'affaire Covid. Centonovantamila morti di vigile attesa, di iniezioni letali. Anche bambini. Un paese bloccato, un'economia devastata. Profitti record per le case farmaceutiche, digitalizzazione forzata, controllo sociale accettato come necessità sanitaria, debito pubblico esploso. Il "virus" come occasione di test della menzogna.
E poi il 2022: guerra russo-ucraina. Bollette triplicate. Inflazione a due cifre. Il caro energia, il caro affitti. Anziani che muoiono di freddo. Famiglie sfrattate che finiscono per strada. Cinquantamila senzatetto che vivono vent'anni meno della media e muoiono invisibili.
Trent'anni di politiche che hanno trasferito ricchezza dal basso verso l'alto, smantellato lo Stato sociale, privatizzato i profitti e socializzato le perdite, reso il lavoro precario, malpagato, pericoloso. Ogni crisi usata per imporre nuove "riforme", nuovi sacrifici, nuova austerità. Sempre sulle spalle degli stessi.
Centomila morti. Forse centocinquantamila. Forse duecento.
Non è un numero ipotetico. È il conto approssimativo, conservativo, di chi è morto sul lavoro, chi si è suicidato per debiti, chi è morto per non potersi curare, chi è morto nell'affaire Covid e post sieri, chi è morto di freddo, di fame, di marginalità.
Non è un'esagerazione retorica. È il prezzo del sangue di trent'anni di riforme strutturali, di vincoli europei, di liberalizzazioni, di flessibilità, di competitività.
Nessuno ha mai fatto questo conto. Nessuno ha mai messo insieme questi morti e li ha chiamati con il loro nome: vittime di una guerra di classe combattuta da un'élite contro il proprio popolo.
Ma il conto è lì. Almeno centomila cadaveri distribuiti in trent'anni, mai riconosciuti, mai pianti collettivamente, mai vendicati
E nessuno ne parla.
Morti in casa nostra, ma fuori dai riflettori. In silenzio. Senza alcuna indignazione.

8 ottobre 2025
PRODI: "sono il re delle privatizzazioni"
PRODI NEL 1998: “SMONTERÒ IL PAESE PEZZO PER PEZZO”
di Francesco Agnoli
Il colosso dell’IRI viene svenduto, pezzo per pezzo, passando gradualmente da circa 500.000 dipendenti ai 108.970 del 1999, alla definitiva messa in liquidazione del 30/6/2000. I gioielli dello Stato, quelli attivi e quelli in passivo, vengono venduti, o svenduti secondo i punti di vista, con una facilità ed una leggerezza incredibili; chi li vende ha una grandissima possibilità: ridisegnare, ai danni dello Stato, il capitalismo italiano.
Oggi rimangono dello Stato la Rai, l’Alitalia, e piccole quote di altre aziende.
Il ’92 è l’anno della svolta, ma è nel 1993-94, con Prodi nuovamente all’IRI, che vengono vendute ben due Bin, il Credito Italiano (Credit), una vera e propria tigre, e la Banca Commerciale Italiana (Comit), oltre all’IMI (tutto tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, con una velocità straordinaria). Nello stesso periodo di fuoco vengono vendute le finanziarie Italgel e Cirio-Bertolli-De Rica; per quanto riguarda il settore agroalimentare, un settore tradizionalmente importante per la nostra economia, Mauro Bottareli ricorda che dopo il ’92 lo Stato vendette agli stranieri, specie inglesi e americani: Locatelli, Invernizzi, Buitoni, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini, Perugina, Mira Lanza e tante altre. Tra il ’93 e il ’94 viene venduta la SME, le vetrerie Siv dell’Efim, il Nuovo Pignone dell’Eni… Nel 1994 vengono venduti Acciai Speciali Terni; nel 1995 Ilva Laminati Piani e Italimpianti; nel 1996 Dalmine…(M.Cataldo, op.cit.).
Nei processi di Mani Pulite di tutto ciò non vi è traccia, a parte un interrogatorio di Di Pietro a Prodi, nel luglio 1993, durante il quale al professore bolognese viene chiesto con veemenza a quali partiti il suo Istituto abbia dato soldi. Ma poi non succede più nulla. Viene invece processato e condannato Franco Nobili, entrato all’Iri nel dicembre 1989, dopo sette anni di gestione Prodi: finisce in carcere, poi agli gli arresti domiciliari, perché un suo dirigente s’era sentito silenziosamente autorizzato a pagare una tangente postuma. Eppure, durante la sua breve gestione, all’Iri non succede pressochè nulla di rilevante!
Successivamente il nuovo boom di vendite è proprio quando Prodi passa dalla Presidenza dell’IRI all’improvvisa notorietà al grande pubblico e alla Presidenza del Consiglio: la tattica è già stata studiata: bisogna vendere. “Smonterò il paese pezzo per pezzo”, dichiara il 17 gennaio 1998, in un celebre discorso in provincia di Lecce. Detto, fatto: “gli anni più ricchi delle privatizzazioni italiane sono state il ’97 e il ’98 quando gli incassi superarono i 20 miliardi di euro” (Corriere della sera, 5/12/2003). Da grande manager, dietro le quinte, a capo del governo, la politica di Romano è sempre quella: prima gli fruttava “solo” relazioni e contatti importanti, in seguito gli permetterà di continuare su questa strada e di abbassare il rapporto tra debito pubblico e Pil, presentandosi come il grande economista, in realtà a spese dello Stato.
La copertura mediatica è data dai grandi giornali, di Agnelli e De Benedetti, che urlano alla necessità di modernizzare il paese, privatizzando. Si assiste al paradosso che la destra, sempre accusata dalla sinistra, demagogicamente, di essere seguace di un “liberismo selvaggio”, è ora rimproverata di essere statalista e di ignorare non solo la Thatcher ma anche Adam Smith. E’ Massimo Giannini, sulla prima de la Repubblica di De Benedetti, a sostenerlo, in un articolo dove, tra l’altro, scrive: “In fondo la sinistra di governo è obbligata dalla globalizzazione a fare dell’efficienza, del mercato, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni il nucleo duro del suo riformismo…La vera anomalia è la destra. La cultura di mercato, per la destra, è un puro gadget, un ‘usa e getta’ elettorale.
Quando il Polo ha governato nel ’94, non una sola azienda pubblica è stata alienata. Il cavalere-premier arrivò al punto di raccontare una balla in diretta TV: ‘Non cederemo la Stet, nemmeno la Thatcher ha privatizzato le telecomunicazioni’ Peccato che proprio la vendita di British Telecom sia stato il fiore all’occhiello della Signora Maggie” (la Repubblica 17/11/’98). Nel 1999 il Tesoro decide di privatizzare il monopolista elettrico Enel; lo stesso anno si chiude con la cessione da parte dell’IRI di Autostrade: il 30% va alla Edizione Holding dei Benetton (Corriere della Sera, 5/12/2003).
Coi governi dell’Ulivo la liberalizzazione è talmente selvaggia, che le USL, Unità sanitarie locali, divengono ASL, e cioè aziende; che i presidi delle scuole divengono manager; che si diffonde come non mai il lavoro interinale e vengono creati i cosiddetti co.co.co; soprattutto, per dire la più divertente, quando il patrimonio statale non è più disponibile per essere venduto, viene liberalizzato il gioco d’azzardo. Pur di fare soldi, infatti, ci si getta in un affare poco nobile: la creazione delle sale Bingo.
Sono oltre 400, create nel 2001, e garantiscono introiti immensi. Sentiamo casa scrive il quotidiano cattolico “Avvenire”( 1/7/2001): “mai visti tanti uomini vicini ai DS davanti alle cartelle del Bingo. La metà delle sale pronte ad aprire saranno gestite da chi è in qualche modo legato alla Quercia. Duecentododici sale su quattrocentoquindici. Più della metà. Un business che va dai settanta ai centocinquanta miliardi l’anno per sala. Difficile resistere. I ‘D’Alema boys’ hanno fatto tombola prima ancora che si cominciasse a giocare. Hanno fondato una società, la Formula Bingo, e fatto il lavoro migliore. I frutti si sono visti. Già, ma perché D’Alema boys? A loro il nome non piace. Ma come sanno tutti nessuno può sceglierselo. Sta di fatto che lo staff di Formula Bingo vede alla vicepresidenza Luciano Consoli (militante PCI sezione Trastevere) e nessuno può negare che sia un amico dell’ex presidente del Consiglio diessino. Così come non passa inosservata la sede della società: Via San Nicola de Cesarini al 3, Roma. Nello stesso palazzo dove si trovano gli uffici di ‘Italianieuropei’, la fondazione creata da D’Alema…”.
Mesi prima, il 20/1/2001, sempre Avvenire specificava che Formula Bingo “è posseduta per metà da una banca, la London Court, a sua volta guidata da un vecchio amico di D’Alema, Roberto De Santis. Così amico che è stato lui a cedere al leader diessino la fin troppo nota barca Ikarus. Ma la London Court ha un altro azionista al 50%, la Chance Mode Italia, il cui patrono è un altro amico di d’Alema, Luciano Consoli…”. L’accusa arriva anche da sinistra. Marco Travaglio, autore di libri anti Berlusconi e giornalista de l’Unità, durante un raduno ad una convention girotondina, parlando del governo D’Alema si lascia scappare una frase piuttosto imbarazzante: “Quelli sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo, e ne sono riusciti ricchi”.
Perché queste accuse? Per la missione Arcobaleno, i rapporti con Colaninno, l’inchiesta sulla Banca del Salento, e i “D’Alema boys”, “imputati di improvvisa fama e ricchezza”(Corriere della Sera, 16/1/2004). Pronta la replica degli interessati: D’Alema annuncia una querela forse. Pasquale Cascella, ex portavoce di D’Alema, lamenta “la cultura politica e giornalistica che esprime Travaglio”, dimenticando che è quella che ne ha fatto un eroe della sinistra anti-berlusconiana, e un suo collega all’Unità!
13 ottobre 2025

Prodi nel 2024
Editoriale di Marco Travaglio
Bisogna ringraziarli, questi pazzi scatenati che chiamiamo Ue, perché confessano senza neppure accorgersene: 6.800 miliardi in 10 anni per le armi (1.500 l’anno per ogni europeo, bimbi compresi). E tutti ai piedi di Zelensky che ci chiede “il 2,5% del vostro Pil per un totale di 60 miliardi nel 2026” (e una fettina di culo vicino all’osso no?) per continuare a perdere la guerra. Fino a un mese fa si davano il cambio nel segnalare ogni giorno terribili sconfinamenti di droni senza vittime né danni, promettendo indagini per dimostrare che erano russi e che l’attacco di Putin era finalmente partito. Poi i servizi polacchi rivelarono che l’unica casa polacca danneggiata dal terribile attacco dei droni pseudorussi l’aveva bombardata un missile polacco. E, dopo 20 giorni di avvistamenti quotidiani, i droni scomparvero dai cieli. E con essi le indagini per dimostrare che erano russi. Tanto ormai avevano ottenuto il loro duplice scopo. 1) Spaventare i popoli europei e far loro ingoiare le leggi di Bilancio dei 27 governi, con decine di miliardi rubati al Welfare per comprare armi, perlopiù Usa. 2) Giustificare il “Muro di droni” inventato da Von der Leyen, Kallas, Kubilius e altri svalvolati per ingrassare le industrie belliche soprattutto tedesche e salvare le altre distrutte dalle autosanzioni Ue.
Il guaio è che la gente continua a schifare il riarmo da 800 miliardi contro nemici immaginari. Così Ursula gli cambia nome per la terza volta: da “ReArm Europe” a “Prontezza 2030” (un ossimoro) a “Preservare la Pace” (con più armi: altro ossimoro). Il prossimo sarà “Diversamente Disarmo” o “Sex Bomb”. Intanto i partiti del riarmo continuano a perdere milioni di voti, aggrappandosi al Lecornu di turno, e quelli anti-riarmo (incredibilmente di destra) a guadagnarne. E ci mancherebbe che non accadesse. Mettetevi nei panni di un polacco che legge l’intervista a Rep del suo vicepremier Radek Sikorski: siccome l’Europa non ha più nemmeno gli occhi per piangere, deve devolvere “45-50 miliardi all’anno a Kiev per i prossimi tre anni”. Cioè la guerra deve continuare fino al 2028, tanto si sa come andrà a finire: “La Russia ha perso la guerra di Crimea nel XIX secolo e quella col Giappone nel 1905”, quindi perderà anche in Ucraina dove avanza da tre anni. Avendo studiato la storia su Tiramolla, gli sfugge la fine fatta da Napoleone e Hitler, quando Mosca non aveva ancora neppure le atomiche. La Merkel ci mette in guardia dai corresponsabili della guerra russo-ucraina: Polonia e Baltici. Tre anni e mezzo fa, in combutta con Biden e Johnson, usarono Kiev per attirare Mosca nella guerra. Ora, siccome l’hanno persa, ci riprovano usando l’intera Europa, Italia compresa. Cioè noi. Quando ci decidiamo a farla finita con questi dementi? E con la nostra Meloni che insiste a fare la trottolina attorno al reuccio.

21ottobre 2025
MASSIMO CACCIARI NON SI TRATTIENE E SVELA LA “CRUDA VERITA'” SUL VERO RUOLO DI MATTARELLA!
Un’onda d’urto. Un terremoto che ha scosso le fondamenta del dibattito pubblico italiano, riaccendendo una discussione cruciale e, per molti, pericolosa. Al centro di questa tempesta, le parole taglienti, affilate come lame, di uno degli intellettuali più in vista del Paese. Non si è trattato di un’analisi politica come tante, ma di una vera e propria dichiarazione di guerra culturale, pronunciata in uno dei salotti televisivi più seguiti, che ha costretto milioni di italiani a riflettere sullo stato reale delle nostre istituzioni.
La scena è quella di “8 e mezzo” su La7, un palcoscenico privilegiato condotto con la consueta maestria da Lilli Gruber. Ma quella sera, il confronto ha superato ogni aspettativa. Il protagonista indiscusso è stato Massimo Cacciari. La sua presenza è sempre garanzia di analisi profonde, spesso scomode, ma questa volta le sue affermazioni hanno travalicato il semplice commento. Hanno assunto i contorni di una denuncia pubblica di rara veemenza, squarciando quello che il filosofo ha implicitamente definito un velo di ipocrisia e omissione.
L’attacco di Cacciari non è stato generico. Non ha puntato il dito contro la “politica” nel suo insieme. No, ha mirato dritto al vertice. Al Colle. Al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
È raro, nel nostro Paese, assistere a una critica così diretta e incisiva nei confronti del Capo dello Stato, la figura che per definizione incarna l’unità nazionale. Ma Cacciari non si è trattenuto. Con una lucidità spietata, ha sollevato interrogativi che molti, forse, pensano in privato ma che nessuno osa pronunciare in pubblico.
I punti focali della sua denuncia sono stati chiari. Ha parlato di una “condiscendenza inaccettabile” da parte del Quirinale nella gestione delle recenti crisi istituzionali. Secondo il filosofo, di fronte a decisioni che avrebbero richiesto fermezza, il Colle avrebbe mostrato una flessibilità che, a suo dire, mina la credibilità stessa delle istituzioni e, di conseguenza, la fiducia dei cittadini nel sistema.
Non solo. Cacciari ha rincarato la dose, parlando di un “silenzio complice” e di una “omissione” che permetterebbe a determinate pratiche di perpetuarsi indisturbate. Nella sua analisi, questo silenzio non è una semplice mancanza, un’assenza. È un’attiva complicità, un fattore che erode lentamente ma inesorabilmente le basi stesse della nostra democrazia.
E poi, la domanda che è risuonata come un tuono nello studio e nelle case degli italiani: “Dov’è il garante della Costituzione?”. Cacciari ha chiesto pubblicamente conto a Sergio Mattarella, sostenendo con forza che il Presidente, pur essendo il supremo garante della Carta, permetterebbe “che i principi fondamentali dello Stato vengano violati quotidianamente”. Un’affermazione di una gravità inaudita, che solleva un quesito fondamentale: chi vigila sul rispetto della Costituzione, se il suo garante è messo in discussione in modo così aperto?
L’analisi di Cacciari, però, è andata ben oltre la persona del Presidente. Si è trasformata in un atto d’accusa contro un intero sistema che, secondo il filosofo, ha “smarrito la bussola”, tradendo la fiducia dei cittadini. Un sistema, ha spiegato, dove la forma ormai prevale nettamente sulla sostanza, e dove le voci critiche, quelle fuori dal coro, vengono sistematicamente messe a tacere o ridicolizzate.
Ha denunciato la creazione di “emergenze costruite a tavolino”, utilizzate come strumenti per giustificare misure discutibili e, di fatto, limitare le libertà individuali e collettive. Un meccanismo pericoloso, ha avvertito, che serve a consolidare il potere di pochi a scapito dei diritti di tutti.
Nel suo j’accuse è finito anche il Parlamento, descritto come “esautorato”, spogliato del suo potere e ridotto a un mero organo di ratifica. Un “passacarte” di decisioni prese altrove. Questa debolezza della rappresentanza democratica, ha sottolineato Cacciari, svuota di significato il voto dei cittadini e allontana la politica dalla vita reale delle persone. Un parlamento debole è, per definizione, una democrazia debole.
Infine, l’affondo sui media, accusati di essere “piegati al potere”, di evitare le domande scomode, compromettendo così la loro funzione essenziale di “cani da guardia” e di informazione. Un vulnus grave, perché una cittadinanza non informata è una cittadinanza che non può partecipare consapevolmente.
La tensione nello studio di “8 e mezzo” era palpabile. I tentativi, peraltro professionali, di Lilli Gruber di arginare la piena del filosofo si sono rivelati vani, quasi impotenti di fronte alla forza delle sue argomentazioni. Cacciari non era lì per un dibattito. Era lì per lanciare un messaggio, senza filtri né compromessi.
Il momento culminante, quello che è già diventato un simbolo, è arrivato quando Cacciari ha pronunciato la frase: “Spegnatemi il microfono!”. Un’affermazione che ha lasciato tutti attoniti. Non è stato un capriccio, non una provocazione fine a se stessa. È stato interpretato da molti come il culmine della sua denuncia. Un grido di protesta estremo contro quel “silenzio complice” che, a suo dire, soffoca il dibattito reale nel Paese.
“Spegnatemi il microfono” è diventato, in pochi istanti, il simbolo della frustrazione di milioni di cittadini che si sentono inascoltati, che vedono le loro preoccupazioni ignorate da un sistema che sembra non voler sentire le voci fuori dal coro. Un gesto che ha travalicato il contesto televisivo per diventare un’icona di resistenza intellettuale.
L’episodio, come prevedibile, ha generato un’onda d’urto immediata sui social media, con un dibattito infuocato. Ma, come sottolineato da molti osservatori, la reazione dei principali quotidiani italiani è stata, per usare un eufemismo, “imbarazzata”. Si è tentato di minimizzare l’evento, di ridurlo a una “provocazione”, a un “eccesso di retorica” del filosofo. Una reazione che, involontariamente, sembra quasi confermare una delle tesi di Cacciari: quella di un sistema mediatico che fatica a gestire il dissenso radicale, specialmente quando tocca i vertici dello Stato.
L’intervento di Cacciari non è stato solo un momento di televisione. È stato un campanello d’allarme. Ci piaccia o no, ha dimostrato come la parola, anche se scomoda e controcorrente, possa ancora scuotere le coscienze e mettere in discussione lo status quo. È un monito potente sul valore del pensiero critico in una società che tende sempre più all’omologazione. Ci ha ricordato l’importanza di figure che non temono di sfidare il potere e di porre domande difficili, anche quando la risposta è difficile da ascoltare.
12/12/2025
MOSCA CONDANNA A 15 ANNI GIUDICE ITALIANO
Per il mandato d'arresto contro Putin
Mosca, 12 dicembre 2025 –
Proprio mentre le trattative per la tregua in Ucraina entrano nella fase “decisiva”, la Russia manda un messaggio inequivocabile: 15 anni di carcere in contumacia per Rosario Salvatore Aitala, giudice italiano della Corte Penale Internazionale (CPI), primo firmatario del mandato d’arresto contro Vladimir Putin emesso il 17 marzo 2023 per deportazione illegale di bambini ucraini (poi esteso ad altri crimini di guerra, come la distruzione deliberata di infrastrutture civili).
La sentenza, emessa dal tribunale di Mosca presieduto dal giudice Suvorov accusa Aitala (55 anni, catanese, vicepresidente CPI dal 2018) di “detenzione illegale”, “preparazione attacco a protetti internazionali” e “persecuzione innocenti”. Pene simili (da 10 a 15 anni) per altri 8: ex presidente Petr Hofmanski, Tomoko Akane, Reine Alapini-Gansou, Sergio Ugalde Godínez, Haikel Ben Mahfoud, Carranza Ibáñez e Bertram Schmitt. Tutti inseriti nella lista dei ricercati russi, con possibile mandato Interpol.
Mosca: «Mandati CPI illegali, senza fondamento». La CPI tace, ma l’Italia e l’Ue condannano come “attacco al diritto internazionale”. Aitala, eletto nel 2018, ha istruito indagini su crimini russi in Ucraina.
IN QUESTO MOMENTO DI FOLLIA LE UNICHE PAROLE SENSATE VENGONO DAL GENERALE DELLA FOLGORE MARCO BERTOLINI:
Rendiamocene conto prima, soprattutto per il bene dei nostri figli e di chi verrà dopo di noi, perché dopo sarà troppo tardi.
La UE di Ventotene, di Spinelli e della Pace, non esiste più, se mai fosse esistita. È morta con il sostegno guerrafondaio dato all'Ucraina e con la guerra contro la Federazione Russa.
Ora è nelle mani di avventurieri che, per proprio tornaconto e vile danaro, si riuniscono sotto il comando di una nazione, il Regno Unito, che ha ripudiato l'Europa unita fuoriuscendone ed ora, mettendosi a capo dei restanti Paesi europei, vuole portarci tutti in guerra per realizzare il suo obiettivo storico, quello di distruggere la Russia per smembrarla in tanti piccoli stati vassalli e depredarne con il loro classico spirito colonialista le sue immense risorse.
Le élite europee, immemori delle catastrofi verso cui sono andati incontro tutti coloro che, dalla Confederazione polacco-lituana nel 1632-1634, all'Impero svedese nel 1788-1790 , da Napoleone nel 1813 a Hitler nel 1941, hanno tentato di conquistare i territori russi, oggi vorrebbero di nuovo attaccare la Russia portando ancora una volta guerra e distruzione in Europa.
Il paradosso è che questa guerra la vogliono tutti coloro che hanno sbandierato fino ad ora i colori della pace e ciarlato di Europa di Pace, di Libertà e di Democrazia proprio nel momento in cui USA e Federazione Russa stanno trovando un accordo di pace. Falsi, più falsi di una banconota da 1 euro.
Per questo motivo spero vivamente che questa orribile U.E, oligarchica, guerrafondaia, autoritaria e antipopolare, fallisca presto e che Stati veramente sovrani trovino forme di collaborazione e cooperazione diverse da quelle attuali tendenti alla Pace e al benessere sociale ed economico dei loro cittadini.”
16 dicembre 2025
Gen. Marco Bertolini

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