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La delegittimazione della magistratura dopo tangentopoli


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"

Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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39. L'assetto politico dal 1994 al 1998

39.11 La delegittimazione della magistratura

Il 15 settembre 1996, viene arrestato Lorenzo Necci, amministratore delegato delle ferrovie dello stato e in procinto di fare il grande salto in politica, e con lui finiscono in carcere finanzieri, magistrati, avvocati, imprenditori. Il banchiere Francesco Pacini Battaglia risulta il perno attorno al quale ruoterebbe una collaudata rete di "maneggioni" e un gruppo di pressione politica ed economica, in grado di arrivare fin nelle stanze dei ministri. Grande è la sorpresa del mondo politico e dei media. Quattro anni dopo l'arresto di Mario Chiesa, mentre l'establishment sta cercando di formalizzare un percorso per uscire da tangentopoli, con accordi palesi e sotterranei tra destra e sinistra, si scopre che la corruzione è ancora ben radicata nel Paese. Personaggi, già inquisiti nell'ambito delle inchieste sulla P2 e su tangentopoli, possono orchestrare operazioni finanziarie con enti di stato, influenzarne gli organigrammi, distribuire mazzette e pilotare appalti pubblici.
Lo scandalo Necci capita proprio nel momento in cui il sistema dei partiti sta convincendo l'opinione pubblica che tangentopoli è una storia conclusa e che è arrivato il tempo di occuparsi del potere dei magistrati. Giuseppe De Rita scrive su Il Tempo del 12 settembre 1996, che l'Italia è uscita da tangentopoli con un apparato di potere fatto di pubblici ministeri, polizia, pentiti, apparato incontrollabile e incontrollato, una minaccia per lo stato di diritto. Il Giornale, titola, il 18 settembre, dopo l'arresto di Necci, «I giudici padroni d'Italia». Tiziana Parenti, un ex magistrato del pool “mani pulite” e successivamente parlamentare di Forza Italia, il 17 settembre, in una conferenza stampa, difende il magistrato Renato Squillante, arrestato, secondo lei, in seguito «a una macroscopica falsificazione della realtà processuale», ma viene smentita il 19 successivo quando si scopre che l'ex magistrato disponeva di nove miliardi presso una banca di Bellinzona. Ma l'arte del trasformismo raggiunge il suo acme con il Pds; il 20 settembre, Pietro Folena, responsabile del Pds per la giustizia, scrive su l'Unità «.. quello che di meno questo Paese oggi sopporta è il ripetersi di ciò che sopportò tra il 1992 e il 1994-1995...».
Il 6 ottobre, il senatore Cesare Salvi contesta i metodi usati dal pool di Milano, mentre l'ex senatore Colajanni rincara la dose, paragonando Saverio Borrelli all'inquisitore delle purghe staliniste, Andrej Vysinskij. Infine l'ex principe delle "toghe rosse", Luciano Violante, colui che teorizzava la sentenza come strumento di lotta politica (come ricorda Marcello Maddalena, procuratore capo a Torino), attacca ora i pubblici ministeri «che cercano legittimazione, non nelle leggi, ma nel consenso popolare». Il rapporto tra Pds e magistrati inquirenti è rotto; quando la loro opera serviva per annientare lo Psi, per distruggere il potere del caf, per incriminare Berlusconi, qualunque comportamento della magistratura era accolto con apprezzamento, nel momento in cui il Paese è governato dalla sinistra, essa deve ritirarsi in buon ordine.
Il post comunista D'Alema spinge il suo partito nella direzione di una politica riformista neo liberale; ma, per essere credibile, deve trovare un accordo con il mondo imprenditoriale e con Berlusconi e sa che la strada per raggiungere tale accordo passa, anche, attraverso iniziative volte a ridurre l'attivismo dell'autorità giudiziaria. Osserva Giorgio Bocca, il 75 % degli italiani conserva la propria fiducia nell'operato dei giudici di mani pulite, ma, chi detiene il potere, attraverso media, avvocati, giudici corrotti, faccendieri, banche ecc. continua a diffamare e a spaccare la magistratura, il cui operato, oggi, è salvaguardato quasi esclusivamente dalla gente comune. Ancora Bocca, osserva, « … la sinistra, ora, afferma che la magistratura ha usurpato funzioni che non sono sue e ha acquisito un'intollerabile esposizione», ma, nella realtà, dei seimila magistrati italiani la maggioranza si adegua al volere dei potenti, ha visto insabbiare gli scandali e la cassazione rimettere in libertà centinaia di assassini e mafiosi.
Dall'altra parte, la magistratura, che coraggiosamente prosegue sulla strada delle indagini, è sottoposta alla «diffamazione massiccia, continua ossessiva di un'informazione in gran parte di proprietà degli accusati».
Ma quella che i media hanno battezzato tangentopoli due, era nella natura delle cose. Fin quando l'Italia resta un Paese fortemente statalista, con banche, telefonia, elettricità, radiotelevisione, imprese manifatturiere in mano allo stato, in modo chiaro o surrettizio, quando dovrebbero essere affidate al mercato, resta un Paese altrettanto fortemente corrotto. La stampa sottolinea il fatto che non si sia realizzata in Italia una rivoluzione morale, ma questa è una pura affermazione teorica; la realtà è che non ci può essere rivoluzione morale fin quando non si riuscirà, finalmente, a smantellare l'immenso potere dello stato padrone.
Il 26 novembre la procura di Roma richiede il rinvio a giudizio di Prodi, per concorso in abuso d'ufficio e per conflitti di interesse in occasione della cessione del gruppo alimentare Cirio alla Fisvi. L'operazione, a suo tempo, sollevò un turbinio di polemiche; Fabio Mussi, assieme ad altri deputati del Pds, presentò un'interrogazione parlamentare per protestare contro la scelta di «un acquirente, che non dà garanzie sotto il profilo industriale e finanziario». Oggi, scontata la manifestazione di solidarietà di Berlusconi, impegnato in un'opera di delegittimazione della magistratura, non sorprende nemmeno quella dei pidiessini; in prima linea è Violante, che afferma la necessità di dover fermare questa «repubblica giudiziaria».
I mesi di novembre e dicembre sono caratterizzati dalla "caccia al magistrato", il polo mette in campo l'artiglieria pesante, Feltri, Ferrara, Fede, Mentana, sparano contro la magistratura, Berlusconi, a proposito delle procure di Milano e Palermo, parla di ruolo illiberale e antidemocratico, e annuncia «sono venuto a conoscenza di particolari agghiaccianti», Achille Serra, accusa Caselli e Borrelli di «protagonismo patologico», Michele Saponara di «delirio di onnipotenza», Tiziana Maiolo di «progetto politico che viene dal salotto buono di Mediobanca». Gli attacchi del Polo sembrano scontati, considerando le inchieste contro Berlusconi; ma le critiche giungono anche dal governo e dalla sinistra, Valiani invoca l'amnistia per l'illecito finanziamento ai partiti, il senatore Pellegrino denuncia un «disegno strategico delle procure per accrescere il loro potere».
Al tribunale di Brescia si susseguono processi, che hanno tutti un denominatore comune: far fuori il pool di Milano. Il 6 dicembre, il capo della procura di Brescia, Giancarlo Tarquini, ordina un impressionante blitz in tutta Italia, nel quale, 230 finanzieri, con oltre 60 perquisizioni, setacciano uffici e residenze private dell'ex pm di Milano ed ex ministro. Di Pietro è umiliato, come volevano inquisiti e condannati di ieri, che ora esultano. I cultori del rigore formale osservano che le azioni dei magistrati sono atti dovuti, quello che il cittadino non comprende è come possa accadere che decine di magistrati e centinaia di finanzieri e poliziotti siano impegnati da due anni attorno a un'inchiesta che non riesce a far emergere nulla più che peccati di ingenuità e di stile, poiché tutto torna sempre a ruotare attorno a un prestito senza interessi, a un'auto ottenuta a buon mercato, a un appartamento concesso in uso gratuito.

Il 12 novembre 1996, Di Pietro apprende di essere finito sul registro degli indagati a Brescia per abuso d'ufficio e ipotesi di concussione. L'inchiesta è stata avviata a seguito di intercettazioni effettuate al banchiere Pacini Battaglia, che avrebbe detto «Si è pagato per uscire da mani pulite». Di Pietro rassegna le dimissioni da ministro, inviando a Prodi una lettera sdegnata nella quale, tra l'altro, afferma «Signor Presidente, il tiro al piccione continua perché mi si deve far pagare a ogni costo di aver fatto il mio dovere. A questo punto dico basta. Basta con certi magistrati invidiosi e teorizzatori. Basta con i calunniatori prezzolati che mettono tutti nella stessa barca solo per salvare i loro mandanti. Basta con quegli avvocati che non hanno saputo accettare i verdetti dei giudici. Basta dar spazio e credito a imputati rancorosi e vendicativi». La folta schiera di coloro, che sono interessati alla delegittimazione di Di Pietro e del pool di Milano, sostiene che Pacini sia stato favorito da Di Pietro, in cambio di rivelazioni preziose, se non, addirittura di soldi.  L'accusa nasce dal fatto che, il 10 marzo '93, Pacini si era presentato spontaneamente al pool di Milano e, dopo dodici ore di interrogatorio con Di Pietro era stato lasciato libero. In questo, come nei successivi interrogatori, il banchiere aveva gettato squarci di luce sul malaffare dell'Eni; il banchiere pensava di averla fatta franca, in realtà i magistrati milanesi stavano indagando ancora su di lui. Il fronte dei nemici di Di Pietro appare compatto e agguerrito, e utilizza, senza risparmio, come armi d'offesa i giornali, la televisione e le aule del Parlamento.
In prima linea troviamo Berlusconi, Giuliano Ferrara, Sgarbi, Tiziana Parenti, Filippo Mancuso, gli avvocati Pecorella e Taormina per non parlare di condannati o accusati, come Craxi, il generale della GdF Cerciello, Sergio Cusani. Il 16 novembre, Giancarlo Caselli afferma «Se affonda mani pulite, affondiamo tutti. Oggi è in gioco non solo l'onore di Di Pietro e del pool di Milano, ma anche la legittimazione della nuova classe dirigente...». Queste parole non piacciono alla classe politica, Pietro Folena afferma «... la democrazia non ha certo bisogno di Caselli», ma la realtà dice che l'Italia politica di oggi, inizia con "mani pulite", senza la quale non esiterebbero Bossi, Berlusconi, Fini, Casini e altri, e che è necessario mantenere vivo il principio che democrazia è etica dello stato e che in uno stato di corruzione politica non può esserci vera democrazia. Successivamente si viene a sapere che durante l'intercettazione ambientale nella quale Pacini avrebbe affermato «Di Pietro e Lucibello mi hanno sicuramente sbancato …», affermazione strombazzata ai quattro venti da tutti i media, compariva anche l'affermazione «No, no io a quei due non li ho dati …» in risposta alla domanda dell'avvocato di Pacini «Hai dato soldi anche a Di Pietro e Lucibello?». Di Pietro è, ancora, fatto oggetto di un attacco volto alla sua delegittimazione, questa volta dal gruppo investigativo della guardia di finanza di Firenze (Gico). Contestualmente Il Foglio di Giuliano Ferrara scatena una campagna contro il pm, tanto che non si capisce se è Il Foglio ad anticipare gli sviluppi investigativi del Gico o il Gico a rincorrere le fantasiose ricostruzioni de Il Foglio. Anche quest'indagine, sapientemente orchestrata, si risolverà in una bolla di sapone.


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Eugenio Caruso - 7 agosto 2019

Tratto da

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www.impresaoggi.com