
Il  passaggio della storica fabbrica dell'ing. Romeo dallo stato ai privati avrebbe  dovuto segnare il rilancio di un marchio che negli anni sessanta e settanta era  stato il sogno dei giovani di tutta europa, e non solo. Ma Fiat era una società  privata solo di fatto, nella realtà, mantenuta perennemente sotto tutela dello  stato (5) e di Mediobanca, non  sarà mai in grado di realizzare una politica industriale di ampio respiro. Il  marchio Alfa Romeo, come quello altrettanto glorioso di Lancia, finirà per  essere assorbito dal grigiore dei modelli Fiat e non verrà sfruttato come  strumento di vantaggio competitivo e di rilancio di tutto il gruppo  automobilistico (6). 
La  siderurgia targata Iri
Un  altro incubo per i bilanci dell'Iri è rappresentato dalla siderurgia.  Sinigaglia, dal 1945 al 1953 presidente di Finsider (la solita finanziaria che  controlla le società operative), si era posto l'obiettivo di fornire  alle imprese italiane l'acciaio di cui avevano bisogno, a bassi prezzi, anche  nella convinzione che i privati non ne fossero in grado. 
  Il  Paese diventa uno dei massimi produttori di acciaio nel mondo, ma i faraonici  progetti dell'Iri hanno fragili basi finanziarie e poggiano su un sistema  produttivo antieconomico nel suo complesso. La principale società operativa,  l'Italsider, nel 1970, ha  debiti pari al doppio dei ricavi; nel 1981 viene ricostituito il capitale  sociale bruciato dai debiti, con una rivalutazione dei cespiti pari a 2.500  miliardi. 
  Nel  1983, Prodi fa approvare un piano di risanamento che prevede un'iniezione di  liquidità che, sommandosi a quella del 1981, porta, entro il 1985, al gruppo  siderurgico la bella somma di 13.159 miliardi. Eppure, nel 1987, il gruppo  perde ancora 100 miliardi al mese; tutti i paesi europei stanno, nel frattempo,  riducendo la produzione siderurgica. L'assemblea dell'Iri, nel 1987, approva,  sia il bilancio di Finsider, che chiude con 835 miliardi di perdite, sia la  nomina di Lupo e Gambardella a presidente e amministratore delegato di  Finsider. Il lavoro di Gambardella porta, in un anno, alla messa in  liquidazione volontaria della Finsider, alla nascita dell'Ilva, all'emersione  di migliaia di miliardi di perdite e alla polemica sulla sparizione delle  stesse dai conti dell'Iri; nel corso della sua vita travagliata Finsider ha  bruciato più di 25.000 miliardi di lire. Ma il risanamento della siderurgia è  scritto solo sulla carta, cosicché, come afferma Pini «le conseguenze sia degli  errori che dei rimedi escogitati da Prodi andarono a ricadere sul suo  successore, Franco Nobili».
  Il  bubbone della siderurgia esploderà ancora nel 1993, con un duro scontro tra il  governo italiano e l'unione europea. In quell'epoca, tutti i governi dell'Ue  hanno accettato, in cambio di cospicui aiuti al settore, tagli nella  produzione, mentre l'Italia si oppone al processo di ristrutturazione. 
Le  decisioni del governo italiano sono ostacolate, infatti, dalla grave crisi  dell'Ilva che, dopo cinque anni dalla sua costituzione, si trova già gravata da  novemila miliardi di debiti finanziari. 
Il  settore delle telecomunicazioni
La Stet è la più ricca delle  finanziarie dell'Iri, non solo perché controlla la Sip, l'impresa statale dei  telefoni, ma, secondo la peggiore delle prassi monopolistiche, anche le imprese  fornitrici della Sip, come l'Italtel e la Sirti. 
  Nel  1985, la Fiat,  che vuole rafforzare la propria presenza nel settore delle telecomunicazioni,  propone la costituzione di Telit, dalla fusione tra la Telettra (Fiat) e  l'Italtel (Iri). L'operazione non riesce perché l'Iri propone come  amministratore delegato la   Bellisario (a.d. dell'Italtel), sostenuta dallo Psi, e la Fiat ne vuole uno estraneo  all'influenza dei partiti; nella realtà lo scontro verte su chi, Stet o Fiat,  debba controllare la nuova società.
Nel  1989 l'Italtel  è venduta alla AT&T americana; nel quadro dell'accordo complessivo la Stet rileva dall'Iri il 26%  del pacchetto azionario di Italtel per 440 miliardi. Nel progetto elaborato da  Prodi e Fiat, l'Iri ne avrebbe incassati solo 210.
Mediobanca
Nel  1946, nasce Mediobanca, per le pressioni di Raffaele Mattioli, presidente della  Comit; affermerà Antonio Maccanico «si trattava di far nascere un istituto  speciale con il compito di aiutare la ricostruzione del sistema industriale del  Paese, compito che la legge bancaria del 1936 precludeva agli istituti di  credito ordinario». 
  L'ambiente  finanziario italiano vede con ostilità la nascita della banca di credito,  quattordici banche interpellate si defilano, cosicché viene siglato un accordo  solo con le tre banche in possesso dell'Iri (Comit, Credit e Banco di Roma),  che diventano i soci di controllo della nuova banca. Mediobanca si procura,  attraverso le tre Bin (7), i mezzi per la  raccolta finanziaria necessaria per operare come banca d'affari. Essa  rappresenta un'anomalia del sistema bancario in quanto, è un'istituzione con  una maggioranza di controllo in mano allo stato, al servizio degli interessi  dei grandi industriali del Nord, grazie ai depositi delle banche Iri, ma  operante in assoluta autonomia, come se fosse un soggetto privato, grazie alla  sorveglianza del dominus della banca,  Enrico Cuccia, che riesce a tenere i partiti lontani da Mediobanca. Cuccia,  come molti personaggi cresciuti all'ombra dei padri del partito d'azione, aveva  un gran disprezzo per la politica vissuta come professione esclusiva. 
  Nel  1958, viene costituito un sindacato di controllo nel quale i privati, pur  controllando solo il 6,25% delle azioni, hanno un diritto di veto sulle decisioni  della maggioranza costituita dalle tre Bin. Nel 1984 Cuccia cerca di forzare la  mano verso una maggiore privatizzazione di Mediobanca, cercando di vendere il  20% di azioni alla Banque Lazard; Prodi reagisce duramente, impedisce che  Cuccia venga rieletto nel consiglio di amministrazione tra i consiglieri  espressi dall'Iri, sostiene che mai l'Iri avrebbe rinunciato al controllo di  Mediobanca, concede di vendere solo il 6% di azioni e fa scadere il patto di  sindacato stipulato nel 1958. Seguono furiose lotte di palazzo, nei partiti e  nei vari centri di potere; usando le parole di Massimo Pini «Era necessario a  quel punto rivolgersi a un mediatore per sciogliere il nodo gordiano senza  usare la spada di Gordio: in quell'ottica, il 16 marzo 1987, viene eletto  presidente di Mediobanca Antonio Maccanico, nipote di Adolfo Tino» che ne era  stato per trent'anni presidente.
  Maccanico,  anche lui cresciuto alla scuola dell'azionismo, porta Mediobanca alla  privatizzazione entro un anno. Il 13 ottobre 1987, Maccanico presenta un piano,  che dopo veti, interferenze politiche e relative modifiche, consente alle tre  Bin con il 25% e al gruppo privato con un altro 25%, di costituire il sindacato  di controllo, con il restante 50% delle azioni posto sul mercato. Nel novembre  1988, le plusvalenze realizzate dalle tre Bin assommeranno a 1.235 miliardi;  dall'iniziale "provocazione" di Cuccia, che aveva tanto irritato  Prodi, ne nasce quindi un'operazione che porta liquidità nelle casse dell'Iri.
Il  21 aprile 1988, il ministro delle partecipazioni statali, Fracanzani, invita i  dirigenti delle imprese pubbliche a presentare le loro proposte per gli  stanziamenti, da parte del tesoro, dei fondi di dotazione per il triennio  '89-'91; le richieste sono di 3.000 miliardi dall'Eni e di 11.500 miliardi  dall'Iri (senza contare gli oneri della reindustrializzazione delle aree ex  siderurgiche, valutate 1.600 miliardi). Fracanzani si chiede come si concili la  forte richiesta di fondi da parte dell'Iri, con i comunicati trionfalistici di  Prodi e dei suoi amici che parlano di una gestione risanata; cosicché invia al  presidente dell'Iri una nota nella quale chiede di essere informato  preventivamente su tutte le iniziative di una certa importanza. Prodi risponde  rivendicando l'autonomia di gestione dell'Istituto e il ministro, con una nota  durissima, afferma che il ministro delle ppss è il solo responsabile nei  confronti di governo e Parlamento «per tutto quanto attiene alla attività e  alla gestione degli enti».
Nel  1989, al termine del prima presidenza Prodi, con le cautele suggerite dalla  corte dei conti che afferma «l'attuale sistema contabile dell'Iri rende di non  facile comprensione all'esterno l'interpretazione dei risultati economici», il  bilancio dell'Iri segna un meno 2.416 miliardi (considerando anche le perdite  transitate solo nel conto patrimoniale), il netto patrimoniale dell'Iri passa  da 3.959 miliardi del 1982,   a 2.102 miliardi, l'indebitamento dell'Istituto da 7.349  del 1982, a  20.873 miliardi (+184%); dei 28.500 miliardi, erogati dallo stato a titolo di  fondo di dotazione dalla nascita dell'Iri, Prodi ne ottiene ben 17.500. Ma  quali sono, allora, i tanto decantati successi di Prodi all'Iri? E come mai «La  stampa di informazione economica non si risparmiò nel diffondere urbi et orbi i trionfalistici comunicati  dell'Istituto sul bilancio del 1988», che chiudeva con una perdita di 1.403  miliardi? Solo Milano Finanza riporta  le analisi di Mediobanca che mostrano come gli utili siano invece perdite. 
La  gestione Nobili
Al  termine del suo secondo mandato, Prodi lascia al suo successore, l'andreottiano  Franco Nobili, una serie di gatte da pelare: dai nuovi fondi di dotazione solo  promessi dal governo ma già impegnati, al problema della siderurgia, dai grossi  crediti inesigibili di Fincantieri, Italstat e Italimpianti, ai grandi  programmi di investimento già approvati senza nessuna copertura finanziaria.  Quando Nobili tira le somme del bilancio del 1989 l'indebitamento del  gruppo si rivela superiore al previsto e pari a 47.500 miliardi, nonostante che  dal 1982 siano affluiti nelle sue casse fondi freschi per oltre 17.000  miliardi. 
  Tra  l'altro i tempi sono cambiati anche per le imprese di stato; Prodi aveva goduto  del periodo d'oro della ripresa economica della seconda metà degli anni  ottanta, senza essere stato capace di attuare i bellicosi propositi enunciati  al suo insediamento. Ma, ora, il debito pubblico, dal quale avevano attinto a  piene mani i manager delle imprese pubbliche, ha superato il 100% del pil e  Andreotti annuncia tagli alla spesa. Arrivano all'Iri i fondi di dotazione, ma  essi sono insufficienti per coprire la voragine di debiti, l'unica soluzione è  mettere in borsa partecipazioni di minoranza di alcune imprese.
Nel  febbraio 1989, Leon Brittan viene nominato commissario alla concorrenza nella  Cee; egli cerca di imporre le sue idee, di stampo thatcheriano, e, nel suo  mirino, mette in primo luogo le imprese pubbliche. Nel consiglio Cee del 15  ottobre 1990, Brittan contesta, alla radice, ogni forma di sovvenzione degli  stati alle imprese, pubbliche o private; è il trionfo di una visione liberista  che toglie agli stati il potere di politiche industriali difensive e  anticoncorrenziali. 
  Per  dare un segnale che, da quel momento, l'Iri si sarebbe finanziata con i propri  cespiti, alla fine del 1991, Nobili decide di mettere in vendita la Cementir; l'asta viene  vinta dal gruppo Caltagirone, per 480 miliardi e ciò significa una plusvalenza  di 193 miliardi per l'Istituto.
  Nel  1989, il Banco di Roma, da tre anni non distribuisce dividendi ed è un altro  elemento di preoccupazione per Nobili: Andreotti diventa, pertanto,  l'ispiratore della costituzione del grande polo bancario capitolino con la  concentrazione della Cassa di risparmio di Roma, del Banco di Santo Spirito e  del Banco di Roma e con la nascita di quella che verrà chiamata Banca di Roma.
Nello  stesso periodo, Andreotti tenta un attacco insidioso contro Cuccia; per mettere  lo gnomo di via Filodrammatici con le spalle al muro sarebbe stato sufficiente  non rinnovare l'accordo che impegnava le tre Bin dell'Iri a vendere alla  propria clientela certificati  Mediobanca. La questione del rinnovo viene affidata al presidente del Banco di  Roma, che fa slittare nel tempo la convenzione; ma Cuccia, nonostante gli  ottantatré anni e pur essendo reduce da un'operazione chirurgica, affila le  armi. La maggioranza del consiglio dell'Iri è favorevole al rinnovo, i  repubblicani premono e Craxi si muove per crearsi un rapporto privilegiato con  l'alta finanza; Nobili preferisce evitare uno scontro, che è diventato  prevalentemente politico, e, sia pure in extremis, la convenzione viene  rinnovata. 
    
 (5) Ad esempio grazie  ai cospicui finanziamenti per gli investimenti nel sud e ai molteplici  provvedimenti a favore della rottamazione.
    (6)  Con l'introduzione  della moneta unica e con l'assottigliamento degli aiuti statali la Fiat non sarà in grado di  affrontare una concorrenza sempre più agguerrita, perdendo quote di mercato  sempre maggiori.
    (7)  Banche di interesse  nazionale