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Iri tra conservazione e privatizzazioni


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Il 12 settembre 1991, Michele Tedeschi rivela che gli apporti dello stato all'Iri, ammontano (a moneta 1990) a 41.776 miliardi, dei quali 32.837 sono affluiti tra il 1980 e il 1985; tra il 1986 e il 1990 gli apporti dello stato sono stati di soli 2.147 miliardi, ma l'indebitamento dell'Istituto è aumentato di 20.000 miliardi. Giovanni Goria, infatti, ministro del tesoro di Craxi e grande amico di Prodi, aveva inventato un altro trucchetto: lo stato in sostituzione dei fondi di dotazione concede all'Iri, per legge, di emettere obbligazioni a tasso agevolato con rimborso a carico dello stato.

Ma l'epoca dei soldi facili è oramai agli sgoccioli, il 15 ottobre 1991, la corte dei conti dichiara illegittima la legge 42/91 che legittima la concessione dei fondi di dotazione, poiché, l'articolo 81 della costituzione, cita «Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Andreotti cerca di dare una mano a Nobili, ma le elezioni incombenti non consentono di tradurre in legge una modifica della 42/91, che avrebbe permesso di aggirare l'ostacolo posto dalla corte dei conti. I fondi arriveranno, nel 1993, con Prodi nuovamente alla presidenza; afferma Pini «… a conferma che gli uomini della sinistra democristiana mantenevano un tocco magico ineguagliabile con le casse dello stato».
Nel 1991, Nobili, provenendo dal settore dei grandi lavori, elabora il progetto di fusione tra Italstat e Italimpianti, entrambe in situazioni desolanti, pensando di produrre delle sinergie; la nuova società Iritecna eredita, però, 382 miliardi di perdite da Italstat e 303 miliardi da Italimpianti. La fusione, invece di creare i vantaggi dello scaling up, crea gli svantaggi delle sovrapposizioni, i due amministratori delegati decidono, infatti, autonomamente senza alcun coordinamento. Nel giugno 1992, a causa di ben 1800 miliardi di crediti a rischio delle passate gestioni, l'indebitamento di Iritecna è aumentato di altri 500 miliardi.
Ma proprio da Iritecna arrivano le frecce avvelenate contro la gestione Nobili Tutto parte da un'interrogazione parlamentare di Castagnetti, braccio destro di De Mita in Emilia Romagna, su Italsanità, una piccola società di Italstat, che si occupa di residenze per anziani. La stampa economica parla di lotte di potere all'interno della Dc tra sottocorrenti del gruppo degli andreottiani. La successiva inchiesta della magistratura mette, invece, in luce lo scandalo dei "vecchietti d'oro", che porta a molti arresti e tra questi anche a quello di Nobili (successivamente dichiarato estraneo alla losca vicenda) e alla rimozione di Nobili stesso dalla presidenza dell'Iri. Il processo di Roma mette in evidenza il livello di degrado delle ppss, con un intreccio di complicità tra partiti, magistrati, finanzieri senza scrupoli, capaci di attingere a piene mani nei fondi dello stato, e dirigenti delle ppss in combutta con loro.

Il 1 ottobre 1991, Guido Carli, ministro del tesoro del governo Andreotti, illustrando la legge finanziaria per il 1992, indica tre indirizzi programmatici, contenere la spesa per il personale pubblico, contenere la spesa previdenziale e sanitaria, avviare la vendita di aziende pubbliche; lo stato si ripromette di incassare, nel 1992, da questa voce circa 15.000 miliardi.

Con l'annuncio di un decreto legge per la trasformazione in spa degli enti pubblici economici e di un disegno di legge per l'abolizione del ministero delle ppss, Andreotti, secondo Eugenio Scalfari, «arrivato il momento di guadare il fiume, ha abbandonato Cirino Pomicino ed è salito a cavalcioni sulle spalle di Carli», in nome di «una politica del rigore che è stata l'ultima piroetta di questo espertissimo giocoliere».
Chi non ha voglia di scherzare, guarda ai calcoli del professor Scognamiglio: risulta che i fondi versati dallo stato alle ppss, a tassi di interesse corrente e a moneta 1990, assommano a lire 245.000 miliardi (un quarto del debito complessivo dello stato), dei quali 100.000 erogati negli ultimi dieci anni.

Avvio della privatizzazione con il governo Amato

Amato, salito al governo il 28 giugno 1992, mette i partiti (in quel momento più impegnati a seguire faccende giudiziarie che problemi economici) davanti al fatto compiuto del decreto legge 333 dell'11 luglio 1992, che prevede la trasformazione di Iri, Eni, Enel e Ina in spa e la liquidazione dell'Egam. I consigli di amministrazione vengono azzerati e composti da tre sole persone, il presidente uscente, un dirigente ministeriale di nomina del tesoro e un amministratore delegato scelto tra i direttori generali; una sorta di gestione commissariale diretta dal ministero del tesoro. All'Eni, presidente rimane Gabriele Cagliari e alla poltrona di amministratore delegato approda Bernabè, all'Iri, il presidente Franco Nobili viene affiancato da Michele Tedeschi, all'Enel, il presidente Franco Viezzoli lavorerà in tandem con Alfonso Limbruno e all'Ina, Lorenzo Pallesi lavorerà con Mario Fornari.
I media parlano di privatizzazioni, della fine dei finanziamenti alle imprese pubbliche, di colpo di mano, ma in realtà, al momento, si tratta del passaggio degli enti pubblici, dalla forma giuridica pubblica a quella privata, con l'unico immediato risultato che lo stato non potrà più servirsi delle ppss per finalità sociali.
Il 18 luglio, con decreto legge 340, il governo mette in liquidazione l'Efim, le cui controllate passano all'Iri; inoltre il governo congela, per due anni, i debiti del gruppo, compresi quelli esteri, sollevando lo sdegno del mondo economico internazionale e facendo declassare il debitore Italia da AA1 ad AA3 da parte dell'agenzia di rating Moody's. Lo stesso Amato ammetterà, nel 1993, «È stato grave, da parte mia, prendere quella decisione che ha sconquassato la credibilità internazionale dell'Italia e della lira».
La trasformazione degli enti da diritto pubblico a diritto privato non significa, automaticamente, che lo stato non potrà più intervenire a sostegno delle imprese; infatti, anche i privati hanno sempre beneficiato di finanziamenti pubblici. A titolo di esempio, durante la permanenza di Cirino Pomicino alla commissione bilancio, le imprese private hanno beneficiato di almeno 10.000 miliardi di finanziamenti e di questi 3.000 sono andati alla Fiat per lo stabilimento di Melfi.

Nel rapporto del ministro Barucci ad Amato, il programma di riordino di Iri, Eni, Enel, Imi e Ina privilegia l'ipotesi della costituzione di nuclei stabili di controllo delle imprese pubbliche da privatizzare contro l'ipotesi della public company sostenuta da tutta la sinistra e dai sindacati. Il primo obiettivo del tesoro è la privatizzazione delle banche, «esse possono essere cedute senza provocare crisi occupazionali»; le camere chiedono un aggiornamento al marzo del 1993 del programma proposto dal tesoro e si limitano a notare la mancanza di un progetto di politica industriale che sottenda il processo delle privatizzazioni nel loro complesso.

Le privatizzazioni con il governo Ciampi

Nell'aprile '93, si insedia al governo Carlo Azeglio Ciampi, che, al convegno I Nobel a Milano, afferma che i mali d'Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione.
«Assieme, queste tre rigidità - afferma Ciampi - hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere - favorendo in tal modo l'inquinamento da corruzione - e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell'azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell'economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti». I politici nostrani mostrano sempre una grande capacità nell'individuazione delle cause delle anomalie della nostra economia, come se tali anomalie siano da attribuirsi, solo, ad altri e non in parte anche a se stessi.

Il Ciampi governatore della Banca d'Italia aveva inviato frequenti messaggi ai politici circa la sua contrarietà che le banche entrassero nel processo di privatizzazione degli enti pubblici, ma ora il Ciampi capo del governo può essere di avviso contrario. D'altra parte, a fine 1992, le sofferenze bancarie ammontano a circa 38.000 miliardi, ciò significa che le industrie debitrici non sono in grado di restituire i crediti ricevuti; l'unica via d'uscita è quella di trasformare i crediti inesigibili in azioni.
Ciampi, l'11 giugno 1993, abolisce il divieto della legge bancaria del 1936, cosicché le banche, ora, possono controllare fino al 15% del capitale di ogni impresa. Ma le stesse banche sono perplesse perché si trovano davanti ad un panorama disastrato di grandi debitori, cosicché, per stabilizzare la situazione, il 10 giugno, la Banca d'Italia invia a tutto il sistema creditizio una circolare in base alla quale i prestiti a Iri, Ina, Eni ed Enel vengono definiti a rischio zero essendo garantiti dallo stato.

Il 30 giugno, Ciampi nomina un comitato di consulenza per le privatizzazioni, presieduto da Mario Draghi. Per Enel, Ina, Imi, Stet, Agip, Comit e Credit si dovrebbe procedere subito alla privatizzazione, previa la costituzione di nuclei stabili; ai primi di agosto, la commissione arriva alla conclusione che le banche debbano avere la precedenza. Intanto si prepara uno scontro tra il ministro dell'industria, Paolo Savona e Romano Prodi, tornato alla testa dell'Iri. Il primo è favorevole alla costituzione dei "noccioli duri" alla francese, mentre Prodi è favorevole alla public company. Le dimissioni di Ciampi, il 13 gennaio 1994, pongono fine alla querelle.

Il ritorno di Prodi

Con il ritorno di Prodi all'Iri, riprende anche il flusso monetario: 2.100 miliardi di crediti di imposta, vanamente sollecitati da Nobili, 3.000 miliardi per la siderurgia, che Prodi aveva già impegnati nel lontano '87, e infine la possibilità, concessa all'Iri, di sostituire i debiti verso le banche con un importo, presso la cassa depositi e prestiti, fino a 10.000 miliardi di obbligazioni emesse dal tesoro e sottoscritte dall'Iri, che avrebbe restituito capitale e interessi con i proventi delle privatizzazioni.
Data la necessità di produrre liquidità, nel settembre 1993, l'Iri affida a Lehman Brothers l'incarico del collocamento in borsa delle azioni della Comit e alla Goldman Sachs (della quale Prodi era consulente prima di far ritorno all'Iri) delle azioni del Credit. Sotto le acque limacciose degli intrecci tra politica ed economia si svolgono le grandi manovre tra chi opta per il nocciolo duro e chi per la public company; degno di nota un intervento di Giorgio La Malfa che afferma «Al professor Prodi non riconosco alcun titolo di privatizzatore di aziende, e tantomeno, di risanatore dell'Iri. Quel che gli riconosco è invece un preciso ruolo politico: il presidente dell'Iri non è un tecnico, ma un fior di democristiano. La spartizione continua».
Ciampi impone, per la vendita delle banche, al fine di evitare la costituzione di un nucleo di controllo, il limite del 3% al possesso azionario per ogni soggetto.

Intanto Prodi prosegue l'azione di Nobili volta alla vendita della Sme, che era stata smembrata; deve essere venduta la Cbd (Cirio-Bertolli-De Rica), gruppo valutato, nel marzo '93, dal Credito Italiano tra i 900 e i 1.350 miliardi. Prodi convince il consiglio di amministrazione di abbandonare la strada dell'asta competitiva, sulla quale si stava muovendo Nobili, e di procedere per trattativa privata.



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