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Seneca. L'arte di non adirarsi.


Se mai ci fossero dei dubbi, è certo che nessuna passione mostra nell'uomo un aspetto peggiore di quello che genera l'ira
Seneca, De ira

iracondi

Dante gli iracondi

Qualche tempo fa mi è capitato di essere stato aggredito verbalmente per un'offesa che io avrei architettato ai danni di una persona, offesa per la quale non solo ero innocente ma anche all'oscuro dell'esistenza di un'offesa. L'"aggressore verbale" aveva il volto deturpato dallo stato di "rabbia", gonfio, sudato e paonazzo, la voce strozzata e sibilante; mi vomitava improperi dei quali io nemmeno immaginavo l'esistenza, mi minacciava di gonfiarmi la faccia come un pallone, non mi permetteva di interloquire, minacciava i miei cari. Era pazzo. Dopo una decina di minuti, approfittando del fatto che l'aggressore doveva riprendere fiato riesco, finalmente, a parlare anch'io. Dopo pochi minuti il "pazzo" si sgonfia, gli occhi dilatati come quelli di un drogato e un'enorme senso di vergogna. Non sapeva più cosa dire e io ne approfittai per fargli comprendere che avrebbe dovuto prendersela solo con se stesso per il suo comportamento irrazionale e folle. Non profferì più una sola parola. Tornato a casa ho preso dalla libreria dei classici a me cari uno che mi ha sempre stimolato: il De ira di Seneca. Testo che propongo ai miei lettori. Per alleggerire la lettura ho eliminato quelle parti della storiografia che riguardano da vicino la vita di Seneca e il suo tempo, oppure personaggi che sono per noi, per lo più, sconosciuti. I personaggi che affollano il testo di Seneca sembrano tratti dalle pagine della cronaca dei giornali di oggi: corrotti, corruttori, ladri, violenti, invidiosi, feroci, avidi, arrampicatori sociali, "Tutto è pieno di delitti e di vizi, e si commettono più misfatti di quanti se ne possano rimediare con i mezzi coercitivi. È una specie di grande gara di iniquità; ogni giorno aumenta la cupidigia di peccare e diminuisce il ritegno; spazzata via ogni valutazione del meglio e del giusto, la libidine si slancia in qualunque direzione le pare, e i delitti nemmeno più si nascondono; ti passano sotto gli occhi; la nequizia si è talmente diffusa in pubblico e talmente rinvigorita nel cuore di tutti, che l’innocenza non è più rara: è inesistente". Per dare un'idea dell'argomento trattato da Seneca mi piace sottolineare quest'altro passaggio: "C’è un essere più mite dell'uomo quando la sua mente è nella giusta disposizione? E che cosa c’è di più crudele dell’ira? Esiste un essere che sappia amare gli altri più dell’uomo? E c’è cosa più indisponente dell’ira? L’uomo è nato per il reciproco aiuto, l’ira, per distruggere; l’uomo vuol associarsi, l’ira vuole separare; l’uomo vuole giovare, l’ira vuol nuocere; l’uomo vuol aiutare anche gli sconosciuti, l’ira, assalire anche gli esseri più cari; l’uomo è pronto anche a sacrificarsi a vantaggio degli altri, l’ira, ad affrontare il pericolo, pur di trascinare gli altri con sé, nella rovina ".

LIBRO I
1. Il concetto di ira e il ritratto dell'adirato

[1] Hai insistito, o Novato (fratello maggiore di Seneca), perché scrivessi come si può placare l’ira, e mi pare che tu abbia buone ragioni di temere soprattutto questa passione che, più d’ogni altra, è spaventosa e furibonda. Le altre, a dir il vero, hanno una componente di tranquillità e calma, questa è tutta eccitazione e impulso, è furibonda e disumana, dimentica se stessa pur di nuocere all’altro ed è avida di vendetta. [2] Per questo motivo, alcuni saggi definirono l’ira “un momento di pazzia”; come quella, infatti, è incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a distinguere il giusto ed il vero. [3] Per convincerti che i posseduti dall’ira sono dei dissennati, osserva bene il loro atteggiamento: come sono sicuri sintomi di pazzia l’espressione risoluta e minacciosa, la fronte aggrottata, la faccia scura, il passo concitato, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro frequente ed affannoso, tali e quali sono i sintomi dell’ira incipiente: [4] gli occhi ardono e lampeggiano, il viso si copre di rossore per il rifluire di sangue dal fondo dei precordi, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si drizzano ispidi, il respiro diventa forzato e rumoroso, le articolazioni schioccano tormentandosi, i gemiti e i muggiti si intercalano in un parlare che inciampa in voci mozze, le mani battono continuamente e i piedi percuotono la terra, il corpo è tutto eccitato e “scagliante grandi minacce d’ira”, i lineamenti sono brutti e spaventosi, quando un uomo si sfigura per corruccio. [5] Impossibile sapere se è un vizio più detestabile. Tutti gli altri si possono nascondere o nutrire in segreto: l’ira si manifesta ed affiora sul volto e, quanto più è grande, tanto più apertamente ribolle.
2. Gli effetti dell’ira
[1] Ed ora, se vuoi esaminare gli effetti e i danni, nessuna calamità è costata più cara al genere umano. Vedrai uccisioni e avvelenamenti, reciproche infamie di colpevoli, distruzioni di città e stragi di intere popolazioni, vite di capi di Stato stroncate, fiaccole gettate nelle case, incendi non limitati alla cerchia delle mura, ma immense distese di territorio, rilucenti di fiaccole nemiche. [2] Osserva le fondamenta di città notissime, ormai quasi invisibili: le ha abbattute l’ira; osserva tanti deserti, disabitati per miglia e miglia: li ha spopolati l’ira. [3] E sto ancora narrando supplizi di singoli: che sarà, se vorrai tralasciare i casi in cui l’ira è divampata su individui e guardare intere assemblee passate a fil di spada, plebi trucidate da incursioni di soldatesche, interi popoli mandati a morte senza distinzione alcuna… (LACUNA DEL TESTO) [4] ... come se cessassero di occuparsi di noi o disprezzassero la nostra autorità. E che? Per quale motivo il popolo s’adira contro i gladiatori, e diventa tanto ingiusto, da ritenersi offeso se non muoiono volentieri? Si giudica sottovalutato e, con l’espressione, il gesto, l’eccitazione, da spettatore diventa nemico. [5] Ma fatti del genere non sono ira: sono una specie di ira, paragonabile a quella dei bambini che, se cadono, vogliono che si batta la terra e spesso non sanno nemmeno con chi si adirano: si adirano e basta, senza un motivo, senza essere stati ingiuriati, ma non senza una parvenza di ingiuria ed un desiderio di castigo. Perciò vengono ingannati con le finte percosse e placati con le false lacrime di scusa: una vendetta inconsistente pone fine ad un rancore inconsistente.
3. Alcune obiezioni e risposte. L’autorità di Aristotele. L’apparente ira degli animali
[1] “Spesso”, si obietta, “non ci adiriamo con chi ci ha fatto offesa, ma con chi si prepara a farla: sappi dunque che l’ira non è conseguenza dell’ingiuria”. [2] “Per renderti conto” si obietta “che l’ira non consiste nel desiderio di castigare, tieni presente che spesso i più deboli si adirano con i più potenti, senza un desiderio di castigarli, perché non possono sperare tanto”. Prima di tutto, ho detto che l’ira è il desiderio, non la possibilità concreta, di infliggere un castigo; ma gli uomini desiderano anche cose che non sono in grado di fare. Poi nessuno è tanto in basso da non sentirsela di sognarsi punitore anche dell’uomo più importante; in più, di fare del male ci sentiamo capaci tutti. [3] La definizione di Aristotele non è molto lontana dalla nostra: dice, infatti, che l’ira è il desiderio di contraccambiare il male. Sarebbe lungo esporre minuziosamente le differenze tra la nostra definizione e questa. Ma si obietta ad ambedue che le bestie s’adirano, senza esser state irritate da ingiuria o senza desiderare l’altrui castigo o dolore, e se le conseguenze della loro ira sono le medesime, non è quella la loro intenzione. [4] Bisogna però chiarire che né le bestie, né alcun altro essere tranne l’uomo, è soggetto all’ira; infatti, pur essendo l’ira incompatibile con la ragione, tuttavia non nasce, se non dove c’è luogo per la ragione. Le bestie hanno impulsività, rabbia, ferocia, aggressività, ma non sono soggette all’ira.
4. L’ira e l’irascibilità
[1] Abbiamo già spiegato a sufficienza che cosa è l’ira. Si veda anche come differisca dall’irascibilità: come l’ubriaco dall’ubriacone e lo spaventato dal timido. Un adirato può non essere irascibile, un irascibile, talvolta, può non essere adirato. [2] Tutte le altre suddivisioni, con cui i Greci designano le sottospecie dell’ira, con ricca terminologia, le lascio cadere perché, in latino, non esistono vocaboli appropriati, anche se noi usiamo gli aggettivi “stizzoso, burbero”, e anche “bilioso, rabbioso, becero, intrattabile, rozzo”, che esprimono altrettante sottospecie dell’ira. [3] Ci sono delle ire che si limitano al gridare, altre sono tanto ostinate quanto frequenti, altre sono pronte alle vie di fatto e avare di parole, altre si sfogano nell’amarezza dell’ingiuria, altre ancora non vanno oltre la lagna e il brontolio, altre sono profonde, opprimenti, introverse, e ci sono mille altri aspetti di questo male dai tanti volti.
5. L’ira ripugna alla natura umana
[1] Ci siamo chiesti che cosa è l’ira, se ad essa sono soggetti altri esseri oltre l’uomo, come si diversifica dall’irascibilità, in quante specie si suddivide; domandiamoci, ora, se essa è consona alla natura, se è utile, se, almeno in parte, dobbiamo tenercela. [2] Se essa sia consona alla natura, emergerà chiaramente da una attenta osservazione dell’uomo. C’è un essere più mite quando la sua mente è nel giusto assetto? E che cosa c’è di più crudele dell’ira? Esiste un essere che sappia amare gli altri più dell’uomo? E c’è cosa più indisponente dell’ira? L’uomo è nato per il reciproco aiuto, l’ira, per distruggere; l’uomo vuol associarsi, l’ira vuole la separazione; l’uomo vuole giovare, l’ira vuol nuocere; l’uomo vuol aiutare anche gli sconosciuti, l’ira, assalire anche gli esseri più cari; l’uomo è pronto anche a sacrificarsi a vantaggio degli altri, l’ira, ad affrontare il pericolo, pur di trascinare gli altri con sé.
6. Casistica e norme: a) l’ira e la punizione del male
[1] “Allora non si danno casi in cui è necessaria una punizione?”. Perché no? Ma leale, ragionata, perché non deve nuocere, ma guarire dietro la parvenza del nuocere. Come scottiamo al fuoco certi giavellotti storti, per drizzarli, e li tagliamo e applichiamo loro degli spinotti, non per spezzarli, ma per allungarli, così correggiamo i caratteri depravati dal vizio, con il dolore fisico e morale. [2] Appunto il medico, nei disturbi leggeri, per prima cosa tenta di modificare in parte le nostre abitudini quotidiane, di porre una regola al cibo, alle bevande, all’attività, e di rafforzare la nostra salute, limitandosi a cambiare il nostro tenore di vita. La restrizione giova subito; ma, se la restrizione e l’ordine non ci giovano, ci toglie e riduce qualche altra cosa; se neppure così c’è risultato, ci mette a digiuno e sbarazza il corpo con l’astinenza; se i rimedi più blandi non hanno avuto efficacia, ci fa un salasso e interviene chirurgicamente su quelle membra che danneggiano le vicine o diffondono il male: nessuna terapia sembra dura, se produce la guarigione. [3] Allo stesso modo, chi tutela la legge e governa la città deve curare le indoli, più a lungo che può con le parole, e le più garbate; per indurre al bene da farsi e instillare negli animi il desiderio dell’onestà e della giustizia, provocare l’odio dei vizi e la stima delle virtù; in un secondo momento, deve passare ad un discorso più severo, per insistere sulle ammonizioni e per rimproverare; infine, passi alle pene, ma si limiti a quelle lievi e revocabili; assegni il supplizio estremo ai delitti estremi, affinché nessuno vada a morte, se non nel caso in cui il morire giovi anche a chi muore. [4] Su un sol punto si comporterà diversamente dai medici, in quanto quelli procurano una morte blanda a coloro cui non poterono donare la vita, egli invece toglie la vita ai condannati con disonore e pubblico scherno, non perché si diletti d’assistere a una esecuzione (il saggio è alieno da una ferocia tanto disumana), ma perché siano di ammonimento per tutti e perché, dopo che quelli non hanno voluto giovare a nessuno, lo Stato abbia un sicuro utile dalla loro morte. La natura umana non è, dunque, incline al punire; perciò neppure l’ira, in quanto brama il castigo, è consona alla natura umana. [5] Riporterò un argomento di Platone: “L’uomo buono” dice “non infligge il male”. Castigare è infliggere un male; il castigare, dunque, non s’addice all’uomo buono; e perciò neppure l’ira, perché l’ira comporta il castigo. Se l’uomo buono non gioisce del castigo, non gioirà neppure di quella passione per la quale il castigo è voluttà: dunque l’ira non è consona alla natura.
7. b) l’ira non è mai utile
[1] “Anche se l’ira non è consona alla natura, non è ugualmente bene ammetterla, dato che in più di un caso è stata utile? Esalta ed eccita l’ardimento e, in guerra, senza di essa il coraggio non compie nessuna impresa straordinaria; è indispensabile accendere con questa fiamma e pungolare con questi sproni gli audaci, al momento di lanciarli nel pericolo. Perciò alcuni pensano che la regola migliore sia quella di moderare l’ira, ma senza eliminarla del tutto: una volta che le sia stato tolto quanto trabocca, ridurla a misura di utilità pratica, serbandone quel tanto senza cui l’azione si smorza e la forza ed il vigore d’animo si dileguano”. [2] Prima di tutto, è più facile eliminare le passioni rovinose che controllarle, non dare loro adito che governarle, dopo averle accolte; infatti, una volta che sono diventate padrone, sono più forti del loro presunto governatore, e non si lasciano sfrondare o sminuire. [4] Certe cose sono sotto nostro controllo all’inizio, ma, con la loro forza, ci sottraggono il seguito e non ci consentono un ripensamento. Come i corpi, che stanno precipitando, non possono più disporre di se stessi, non sono in grado di arrestare o di rallentare la propria caduta, perché il precipitare irrevocabile esclude ogni riflessione e pentimento e non è più possibile non arrivare là dove, prima, era possibile non andare, così l’animo, se si getta nell’ira non si sente più in grado di frenare lo slancio: è ineluttabile che il suo stesso peso e la natura del vizio lo trascinino e lo spingano fino in fondo.
8. c) bisogna controllare l’ira fin dal suo primo insorgere
[1] La regola migliore è di rifiutare subito il primo insorgere dell’ira, combatterne i remoti principi e impegnarsi in concreto a non adirarsi. Infatti, se comincia a trasportarci fuori strada, è difficile tornare a salvezza, perché non c’è più nulla di ragionevole, una volta che s’è intromessa l'ira e le si è concesso, di nostra volontà, un settore di dominio: su ciò che resta, farà quanto vorrà, non quanto le permetterai. [4] “Ma alcuni”, si obietta “nell’ira sanno moderarsi”. Ma al punto di non far nulla di quanto l’ira detta, o di farne qualcosa? Se non ne fanno nulla, è chiaro che l’ira non è necessaria a condurre in porto le imprese, eppure voi la chiamavate in aiuto, come se avesse qualcosa di più forte della ragione. [5] Per sbrigare la questione, vi chiedo: è più forte della ragione, o più debole? Se è più forte, in che modo la ragione potrà dettarle legge, dato che non sono avvezzi all’ubbidienza se non gli esseri più deboli? Se è più debole, la ragione, da sola e senza quella, basta a condurre a effetto le imprese, senza invocare l’aiuto del più debole.
9. d) lo slancio e la decisione non sono ira
[1] Inoltre: l’ira non ha in sé niente di utile e non stimola l’anima alle imprese di guerra. La virtù non deve mai essere aiutata con il vizio: basta a se stessa. Ogni volta che ha bisogno di slancio, non si adira: si innalza, e si stimola nella misura che ritiene necessaria, poi si placa, proprio come quei dardi che vengono lanciati dalle macchine e che sono a completa disposizione di chi li lancia e ne regola la portata. [2] “L’ira, dice Aristotele, è necessaria e, senza di essa, non si può venire a capo di nulla: essa deve gonfiarci l’animo ed infiammarci l’ardire. Ma non dobbiamo servircene come di un comandante, ma come di un soldato”. È falso. Infatti, se ascolta la ragione e la segue nel cammino che essa le traccia, non è più ira, dato che la caratteristica dell’ira è la ribellione; se, invece, recalcitra e non si ferma quando ne riceve l’ordine, ma si lascia portar oltre dalla sua indomabile sfrenatezza, è un inserviente dell’animo tanto inutile, quanto un soldato che non tiene conto del segnale di ritirata.
10. e) anche se controllata, l’ira è sempre un male
[1] Perciò la ragione non assumerà mai come aiutanti le passioni sprovvedute e violente, sulle quali essa non ha alcuna autorità e che sa di non poter mai frenare, se non opponendo loro passioni equivalenti e simili, come il timore all’ira, l’ira all’inettitudine o la cupidigia al timore. [2] Alla virtù, non accadrà mai la sciagura di vedere la ragione rifugiarsi dietro i vizi! Un animo così non può fruire di duratura tranquillità: è inevitabile che rimanga scosso e agitato l’uomo che cerca sicurezza nei suoi mali, che non sa essere forte senza l’ira, operoso senza la cupidigia, tranquillo senza il timore: deve vivere sotto tirannide, colui che finisce schiavo di una passione. E non è vergogna umiliare la virtù, sottoponendola al patronato dei vizi?
11. Prima conclusione: la razionalità e la tecnica giovano più dell’ira
[1] “Ma”, si obietta “contro i nemici, l’ira è indispensabile”. In nessun caso serve meno: è proprio allora che gli impulsi non debbono traboccare, ma esser controllati e sottomessi. Quale altro fattore fiacca i barbari, fisicamente tanto più robusti, tanto più resistenti alla fatica, se non l’ira quanto mai ostile a se stessa? E i gladiatori? La tecnica li protegge, l’ira li scopre. [5] Con quale altro mezzo, Fabio rimise in sesto le forze stremate dell'esercito romano, se non con il saper temporeggiare, tirare in lungo e rinviare, espedienti del tutto ignoti agli adirati? Si sarebbe estinta quella dominazione che, in quel momento, si reggeva in condizioni disperate, se Fabio avesse osato tanto quanto suggeriva l’ira. Tenne fisso il pensiero al bene dello Stato e, valutate le forze, delle quali nulla si poteva perdere senza la catastrofe totale, mise da parte il dolore e la vendetta, badando a un solo scopo pratico: cogliere le occasioni favorevoli. Sconfisse prima l’ira che Annibale. [6] E Scipione? Abbandonato Annibale, l’esercito cartaginese e tutti coloro contro i quali ci si doveva adirare, non trasferì la guerra in Africa, con tanta lentezza che i maligni poterono credere in una sua mollezza ed indolenza? [7] E il secondo Scipione? Non mantenne un duro e lungo assedio attorno a Numanzia, e sopportò serenamente il cruccio suo e dello Stato, perché occorreva più tempo a sconfiggere Numanzia che Cartagine? A furia di scavar trincee e chiudere i nemici, li spinse al punto che si uccidevano con le loro stesse armi. Dunque, l’ira non è utile, nemmeno nelle battaglie e nelle guerre, è propensa infatti alla temerità e non bada al proprio pericolo, nell’intento di arrecarne agli altri. È invece sicurissimo quel valore che sa guardarsi attorno a lungo e con attenzione, mettersi sulla strada buona ed avanzare con calma, secondo un preciso disegno.
12. Seconda serie di norme: a) saper fare il proprio dovere senza adirarsi
[1] “Ma allora”, si obietta, “l’uomo buono non deve adirarsi se, sotto i suoi occhi, gli percuotono il padre o gli rapiscono la madre?”. Non deve adirarsi, ma farne vendetta, difenderli. Teme forse che la pietà filiale, anche senza l’ira, non sia per lui un pungolo sufficiente? Puoi formulare l’obiezione anche così: “Ma allora l’uomo buono, quando vede far a pezzi suo padre o suo figlio, non deve piangere, non deve perdersi d’animo?”. Sono le cose che vediamo accadere alle donne, ogni volta che le sbigottisce il sospetto di un lieve pericolo. [2] L’uomo buono adempirà i suoi doveri senza turbarsi né trepidare e, compiendo le azioni proprie dell’uomo buono, terrà una condotta che non ammette nulla che sia indegno per un uomo. Vogliono percuotere mio padre? Lo difenderò. Lo hanno già percosso? Lo vendicherò, perché è mio dovere, non per rancore. [5] Adirarsi per i propri cari non è pietà d’animo, ma debolezza; è condotta bella e dignitosa uscire in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei concittadini, sotto la guida e l’imperativo del dovere, con discernimento e cautela, non con impulsività e rabbia. Infatti nessuna passione brama la vendetta più dell’ira che, proprio per questo, diventa inadatta a vendicarsi. Troppo impetuosa e forsennata, come, in genere, ogni passione, si ostacola da sé nel dirigersi allo scopo verso il quale si precipita. Perciò non è mai stata un bene, né in pace né in guerra; rende, infatti, la pace simile alla guerra e, in combattimento, dimentica che Marte non parteggia per nessuno; finisce sotto il dominio altrui, perché non sa dominare se stessa.
13. L’ira non aiuta la virtù
[1] Poi, le virtù che si debbono avere, quanto più sono grandi, tanto più sono buone e desiderabili. Se la giustizia è un bene, nessuno dirà che essa diverrà migliore se le si sottrae qualche cosa; [2] se la fortezza è un bene, nessuno desidererà che essa sia sminuita di qualche sua componente. Dunque, anche l’ira, quanto più è grande, tanto più è buona: chi, infatti, ricuserebbe l’aumento di un bene? Eppure l’aumentarla non produce alcun utile: quindi, nemmeno la sua presenza. Non è un bene ciò che, aumentando, diventa un male. [3] “L’ira è utile”, si obietta “perché rende più combattivi”. Ragionando così, lo è anche l’ebbrezza: rende, infatti, sfrontati ed arroganti, e molti si troveranno più validi, nel maneggiare le armi, dopo una discreta bevuta, ma, ragionando così, devi dir necessario alla vigoria anche il delirio e la demenza, perché il furore rende spesso più forti. [4] E che? La paura non ha reso qualcuno audace per contrasto, ed il timore della morte non ha risvegliato a combattere anche i più indolenti? Ma l’ira, l’ebbrezza, la paura e altre passioni simili sono stimoli vergognosi e momentanei, e non pongono in assetto di combattimento la virtù, che non ha nessun bisogno dei vizi, ma risvegliano per un attimo un animo altrimenti pigro e codardo. [5] Non diventa più forte con l’ira se non colui che, senza l’ira, non sarebbe stato forte. Così, essa non viene ad aiutare la virtù, ma a sostituirla. E non è vero che, se l’ira fosse un bene, accompagnerebbe tutti i più perfetti? Eppure i più irascibili sono i bambini, i vecchi ed i malati: tutti i deboli sono lagnosi per natura.
14. b) la comprensione e la correzione
[1] “Non può darsi” obietta Teofrasto “che l’uomo buono non s’adiri contro i cattivi”. Ragionando così, quanto più uno è buono, tanto più, per questo, dev’essere irascibile: vedi se, invece, non debba essere più calmo, libero da passioni e incapace di odiare alcuno. [2] E che motivo dovrebbe avere di odiare i colpevoli, se è l’errore a spingerli ai loro delitti? Non è da uomo riflessivo odiare chi sbaglia, altrimenti diverrà odioso a se stesso. Si renda conto di quante azioni egli compie contro la retta norma morale, di quante, tra le sue azioni, domandano venia: a quel punto, dovrà adirarsi anche contro se stesso. Il giudice giusto non pronuncia una sentenza diversa in casa propria ed in casa altrui.
15. c) saper punire senza adirarsi
[1] Si deve dunque correggere chi è in colpa, sia con gli ammonimenti, sia con la forza e, con modi ora blandi ora duri, renderlo migliore per se stesso, e per gli altri, senza rinunciare al castigo, ma senza ira: quale medico, infatti, s’adira con il paziente? [3] Nulla è meno opportuno dell’ira in chi punisce, tanto più che la pena giova ad emendare nella misura in cui è inflitta con giudizio. Da ciò deriva l’aver Socrate detto al suo schiavo: “Ti picchierei, se non fossi adirato”. Rimandò la punizione dello schiavo a un momento più sereno e, in quel momento, castigò se stesso. Chi presumerà di saper controllare le sue passioni, se un Socrate non ha osato affidarsi all’ira?
16. Non bisogna adirarsi, anche se sono molto gravi i delitti da punire
[1] Dunque, per reprimere chi commette errori e delitti, non è necessario un censore irato; infatti, essendo l’ira un delitto dell’animo, non ha senso che siano i peccati ad emendare il peccatore. “Vuoi dire che non debbo adirarmi con un brigante? Vuoi dire che non debbo adirarmi con un avvelenatore?”. Non devi: e neppure io m’adiro con me stesso, quando mi pratico un salasso. Applico la pena, di qualunque genere sia, come una medicina. [
17. La ragione è coerente, l’ira è incostante
[1] Aristotele sostiene che certe passioni, se utilizzate a dovere, sono come delle armi. Questo sarebbe vero, se si potessero prendere e deporre, come gli strumenti di guerra, a piacimento di chi li deve portare. Ma queste armi, che Aristotele fornisce alla virtù, combattono da sole, non aspettano la mano, sono delle padrone, non degli strumenti. [2] Non c’è nessun bisogno di strumenti accessori: la natura ci ha provveduti a sufficienza, dandoci la ragione. Essa è l’arma che ci ha dato, solida, duratura, docile, non pericolosa o tale da poter esser rilanciata contro il padrone. Non solo per prevedere, ma per gestire le cose, la ragione è sufficiente di per se stessa. Ed allora, che cosa c’è di più insensato che il mandarla a chiedere aiuto all’irascibilità, lei stabile ad una incostante, lei leale ad una perfida, lei sana ad una malata?
18. Si deve sempre preferire la ragione. Esempi di irragionevolezza
[1] La ragione concede tempo alle due parti, poi chiede una dilazione anche per se stessa, per aver modo di vagliare la verità: l’ira ha fretta. La ragione vuol prendere quella decisione che è giusta, l’ira vuole che sembri giusta la decisione già presa.
19. Compostezza e oculatezza della ragione
[1] Di male, direi, l’iracondia ha questo: non accetta d’esser governata; si adira anche contro la verità, se le si presenta contraria al suo volere; perseguita le sue vittime designate con grida, rumore, scomposti movimenti di tutto il corpo, ed aggiunge ingiurie ed insolenze. [2] Questo, la ragione non lo fa ma, se così è necessario, in calma e silenzio, demolisce dalle fondamenta intere case e stermina famiglie funeste allo Stato, con mogli e figli, ne abbatte anche le case e le rade al suolo, ed estirpa i nomi dei nemici della libertà: tutto questo senza fremere né scuotere il capo, né fare alcunché di sconveniente al decoro di un giudice, il cui volto dev’essere calmo ed impassibile, soprattutto nel momento in cui pronuncia sentenze dure.


Lucio Anneo Seneca - Commenti di Eugenio Caruso - 04-03-2015

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