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I passi della grande crisi 2008 - 2009 - Parte V


Chi sta al di sopra delle cose le porta a compimento.

I Ching


L’articolo è, sostanzialmente,  il seguito di Come si è arrivati alla grande crisi del 2008 Parte I, di I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte II, di  I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte III, di I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte IV. Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il quarto trimestre del 2009,  l’analisi delle performance economiche delle più importanti imprese del pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono inoltre prese in considerazione tutte le più importanti iniziative delle organizzazioni internazionali e nazionali.


Il problema delle pensioni in Italia (13 ottobre 2009)
Botta e risposta tra il governatore della Banca d'Italia e il ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Tema: l'innalzamento dell'età pensionabile. Un punto su cui è urgente intervenire secondo Mario Draghi, che al collegio Carlo Alberto ha tenuto una lezione per ricordare la figura di Onorato Castellino. «Per assicurare prestazioni di importo adeguato ad un numero crescente di pensionati - ha detto - è indispensabile un aumento significativo dell'età media effettiva di pensionamento» ha detto il governatore della Banca d'Italia: «Tale aumento - ha aggiunto - potrà contribuire, se accompagnato da azioni che consentano di rendere più flessibili orari e salari di lavoratori più anziani, a elevare il tasso di attività e a sostenere la crescita potenziale dell'economia». La replica del ministro Sacconi non tarda ad arrivare. Le riforme già fatte sono «più che sufficienti» per garantire la tenuta del sistema dice il titolare del Welfare. A margine della presentazione del rapporto Inpdap, Sacconi sottolinea: «La nostra riforma, quella realizzata col provvedimento anticrisi, non può essere sottovalutata per il fatto che, per fortuna, non ha determinato forme di mobilitazione sociale».  Secondo il ministro, insomma, la riforma contenuta nel dl anticrisi, e quelle previste da Dini e Prodi sulla «taratura delle pensioni» sono «più che sufficienti». Dunque «le riforme fatte bastano».  Il governatore della Banca d'Italia, nel suo intervento, aveva sollecitato una riforma degli ammortizzatori sociali. «Nell'anno in corso sono dovunque cresciute le risorse pubbliche destinate al sostegno del reddito di coloro che hanno perso il lavoro - ha sottolineato - anche in Italia lo sforzo è stato grande. Superata la fase di emergenza - ha affermato il governatore - resta la necessità di adeguare il nostro sistema di ammortizzatori sociali ad un mercato del lavoro divenuto più flessibile: ne sarebbe favorita la mobilità del lavoro, l'accresciuta efficienza produttiva, rafforzata la tutela dei lavoratori, aumentata l'equità sociale». Anche su questo punto il ministro è intervenuto annunciando che una riforma verrà presentata presto. «Draghi ha detto che la riforma degli ammortizzatori sociali è necessaria dopo la crisi, noi non siamo ancora usciti dalla crisi». E poi ha aggiunto: «Noi presto presenteremo una riforma consistente, nello statuto dei lavori» che mira «ad una razionalizzazione degli ammortizzatori».
La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia parlando a Firenze, dove ha inaugurato la nuova sede territoriale dell'associazione, interviene nel dibattito sulle pensioni, dopo il botta e risposta tra Mario Draghi e il ministro del Welfare Maurizio Sacconi: «La nostra posizione sulle pensioni è nota, pensiamo che si possa fare di più» anche se sono stati fatti passi avanti con il decreto anticrisi varato dal Governo nei mesi scorsi». È vero - ha spiegato Marcegaglia - che, come dice Sacconi, «con dl sono stati fatti ulteriori adeguamenti che entreranno in funzione dal 2015 con una sorta di meccanismo di stabilizzazione: si dovrà riflettere se farlo entrare in funzione prima ma qualche passo in avanti è stato fatto».  «Siamo d'accordo ad aprire una riflessione sugli ammortizzatori sociali, alcuni ritocchi sono necessari, però no a stravolgimenti» ha detto ancora la presidente di Confindustria. «Sulla riforma degli ammortizzatori sociali - ha spiegato - abbiamo discusso più volte, anche in direttivo. La nostra posizione è che oggi esiste un sistema criticato ma che, dal nostro punto di vista, ha delle positività; il meccanismo della Cigo e della Cigs sta reggendo, gli ammortizzatori in deroga hanno dato la possibilità a settori e aziende prima esclusi di accedere allo strumento. Probabilmente alcune cose vanno riviste, siamo però contrari a un radicale cambiamento dell'assetto attuale che sta tenendo». Vice presidente del Consiglio? «Assolutamente no». Ha replicato infine, sorridendo, Emma Marcegaglia, ai giornalisti che le chiedevano un commento sull'invito rivoltole dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, durante il suo intervento di lunedì all'assemblea degli industriali di Monza e Brianza.
Conti insostenibili per cinque paesi, sostiene la Commissione europea (14 ottobre 2009)
La situazione dei conti pubblici sul lungo termine in Italia - così come in Francia, Ungheria, Polonia e Portogallo - è «insostenibile» anche senza considerare eventuali incrementi della spesa per le pensioni. È quanto rileva la Commissione europea in una comunicazione sulla sostenibilità dei conti pubblici. È quindi «indispensabile»che l'Italia, una volta avviata sulla strada della ripresa, proceda a una «rapida» azione di risanamento per «garantire una stabile riduzione del suo molto alto livello di indebitamento», destinato a raggiungere nel 2010 il 116%, un tetto mai toccato dalla nascita dell'euro. Per Francia, Italia, Ungheria, Polonia e Portogallo, si legge ancora nel documento di Bruxelles, il costo derivante dall'invecchiamento della popolazione sul lungo termine non è previsto essere «particolarmente alto». Ma a determinare la «insostenibilità» della politiche fiscali di questi Paesi, rileva la Commissione, sono le «condizioni di partenza» dei loro conti. In tutti e cinque, si legge ancora nel documento, «la crisi e il sostegno alla ripresa stanno conducendo a un incremento molto veloce» del rapporto debito/Pil, «compensando rapidamente i progressi raggiunti negli ultimi anni» sul fronte del risanamento dei conti. «Poiché le risorse pubbliche sono scarse - scrive ancora Bruxelles nel rapporto - è indispensabile un aumento nella qualità delle finanze pubbliche». A esempio, spiega la Commissione, «modernizzare i servizi pubblici e ridurre la spesa non produttiva aiuta ad arginare l'aumento del debito, libera risorse per investire in aree che dànno slancio alla crescita, come l'istruzione, la ricerca e l'innovazione, e ad altri obiettivi (sociali, ambientali, sanità), e rafforza gli incentivi per l'innalzamento della capacità produttiva dell'economia». D'altro canto, si legge ancora nel rapporto, «il consolidamento di bilancio attraverso il prelievo di entrate aggiuntive dovrebbe tener conto degli effetti di incentivo, di efficienza e di concorrenza, ed esser concentrato sulle misure con i minori effetti distorsivi, in particolare sulla partecipazione al mercato del lavoro e sull'accumulo di capitale, e contribuire a soddisfare altri obiettivi, ed esempio le tasse verdi».
Migliorano le previsioni sul PIL (14 ottobre 2009).
L'Isae (l'Istituto di studi ed analisi economica) rivede al meglio le sue previsioni sull'andamento dell'economia italiana. Il Pil nel 2009 - stima l'Istituto - si attesterà a -4,7% con un miglioramento di sei decimi di punto rispetto al -5,3% delle precedenti previsioni. La crescita arriverà nel 2010 e sarà più decisa del +0,2% previsto in precedenza: la nuova stima indica un Pil in avanzamento dello 0,6% rispetto all'anno precedente. «In sintonia con la dinamica dell'economia mondiale, anche in Italia va concretizzandosi l'uscita dalla recessione», spiega l'Isae, che basa «le sue nuove stime anche sul positivo andamento della produzione industriale», che «in estate preannuncia il ritorno dell'attività economica su un sentiero positivo nel secondo semestre». La ripresa - secondo l'Isae - «viene trainata dalla domanda estera e dal lento recupero delle componenti della domanda interna. Su quest'ultime potrebbero incidere, come fattori di freno, il deterioramento del mercato del lavoro e la maggiore difficoltà/onerosità di accesso al credito. In pratica da una parte il venir meno di redditi, dall'altra una riduzione dei prestiti limiterebbero la liquidità necessaria per dare spinta ai consumi. L'occupazione - calcola l'Isae in base alle unità standard di lavoro - si riduce del 2,7% quest'anno e dello 0,6% nella media del 2010; il tasso di disoccupazione si porta all'8,6% il prossimo anno. Tornerebbero invece a salire i prezzi al consumo; dopo i minimi toccati in estate l'inflazione dovrebbe mostrare un profilo moderatamente crescente, con ritmi tendenziali prossimi all'1% a fine anno. Nella media del 2009, l'incremento dei prezzi al consumo si attesta allo 0,8%; nel 2010 all'1,7%.  L'Isae, nonostante le variazioni in meglio stimate sul fronte della crescita, non modifica le sue previsioni sui conti pubblici. Ma - aggiunge - le nuove proiezioni non tengono conto dell'impatto che potrebbe derivare dagli incassi dello Scudo fiscale e del fatto che gli effetti sui conti pubblici dipenderanno «dalle decisioni del Governo in merito alla destinazione dei fondi derivanti dalla sua applicazione». Senza considerare lo Scudo il rapporto deficit/Pil - secondo l'Istituto - si attesterà al 5,3% nel 2009 e al 5,1% nel 2010. Lo stock di debito pubblico salirebbe dal 105,7% del Pil nel 2008 al 114,8% a fine 2009, al 117,3% a fine 2010.
Cresce  la fame nel mondo (14 ottobre 2009)
La Fao conferma i dati di giugno: gli affamati nel mondo sono cresciuti del 9% nell'anno in corso, arrivando a 1,02 miliardi, il livello più alto dal 1970. Lo afferma il rapporto pubblicato dall'agenzia delle Nazioni Unite per l'agricoltura e l'alimentazione e dal Programma alimentare mondiale (Pam). A causa della crisi globale molti Paesi hanno subito cali generalizzati nei flussi finanziari e commerciali, la caduta verticale delle entrate delle esportazioni, degli investimenti esteri, degli aiuti allo sviluppo e delle rimesse in denaro. Ciò significa che non solo il consumo alimentare si è ridotto, ma alcuni Paesi a basso reddito con deficit alimentare hanno dovuto diminuire le importazioni di derrate alimentari, di medicine e attrezzature mediche. Secondo il rapporto Fao-Pam, la sottonutrizione è una realtà estesa in Asia e nel Pacifico dove si stima che gli affamati siano 642 milioni, ma non risparmia neanche i Paesi sviluppati dove sono 15 milioni a soffrire la fame. Una ricerca della Fondazione per la sussidiarietà resa nota recentemente, riporta che anche in Italia il 5,3% delle famiglie, pari a 3,5 milioni di persone, non ha abbastanza soldi per un’alimentazione adeguata. Gli affamati sono 265 milioni nell'Africa sub-sahariana, 53 milioni in America Latina e Caraibi, 42 milioni nel Vicino Oriente e Nord Africa. Nel corso dell'ultimo decennio, spiega il rapporto Fao-Pam, il numero delle persone sottonutrite è aumentato in modo lento ma costante. Proprio questo aumento, che si è verificato anche nei periodi di sviluppo, mostra la debolezza del sistema mondiale di controllo della sicurezza alimentare. «I leader mondiali hanno reagito con determinazione alla crisi economica e finanziaria e sono stati in grado di mobilitare miliardi di dollari in un lasso di tempo molto breve», afferma il direttore generale della Fao, Jacques Diouf. «La stessa azione decisa è adesso necessaria per combattere fame e povertà». Secondo Diouf è «essenziale investire nel settore agricolo dei Paesi in via di sviluppo, non solo per sconfiggere fame e povertà, ma anche per assicurare una generalizzata crescita economica, e dunque pace e stabilità nel mondo». Anche perché attualmente è in atto il più basso livello di aiuti alimentari mai registrato, ha dichiarato Josette Sheeran, direttrice esecutiva del Pam. «Sappiamo quello che occorre per coprire le necessità urgenti, quello che serve sono le risorse e l'impegno internazionale per farlo», ha concluso Sheeran.
Confindustria e la politica industriale in Italia (14 ottobre 2009).
«Abbiamo aspettato di capire cosa c'era in questa finanziaria e oggi esprimiamo un giudizio di insufficienza di quanto è stato fatto, in modo molto chiaro e netto, chiedendo che i capitoli per noi fondamentali a dare competitività alle imprese vengano rifinanziati». Lo ha detto la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, in audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato sulla Finanziaria a Palazzo Madama.  Tra le azioni che per Confindustria occorre mettere in campo ci sono: il finanziamento di Industria 2015 (il disegno di legge sulla nuova politica industriale varato dal governo il 22 settembre 2006, le cui previsioni sono state recepite dalla Legge Finanziaria 2007) per 300 milioni l'anno. E poi il sostegno a Ricerca e innovazione, l'aumento per il 2010 dello stanziamento previsto di 280 milioni di euro per il fondo di garanzia per le pmi, la proroga al 2010 del bonus fiscale per la patrimonializzazione delle imprese. «Tutti punti essenziali - ha detto la leader degli industriali - per dar vita a un disegno di politica industriale che possa aiutare il nostro sistema produttivo a uscire prima possibile da questa crisi, ma soprattutto a uscire in modo più forte». «Oggi ci troviamo su un crinale stretto - ha proseguito - da una parte abbiamo il problema del debito pubblico, che limita l'azione del governo e dall'altra c'è l'assoluta consapevolezza del fatto che dobbiamo intervenire per sostenere i primi segnali di miglioramento della congiuntura che sono ancora deboli». «Abbiamo anche avuto un atteggiamento di responsabilità - ha aggiunto - comprendendo che nella prima fase della crisi ci fosse una concentrazione di fondi sui temi sociali», ma oggi vediamo «un'insufficienza di alcune cose che chiediamo con determinazione».
Parlando delle previsioni contenute nella Finanziaria 2010, la leader degli industriali ha riconosciuto che i numeri «sono assolutamente in linea con il nostro Centro studi». E certo sul quadro dell'economia non c'è da stare allegri: «Ci vorranno almeno tre anni per tornare ai livelli di crescita del 2007».  Anche il tema dei Tremonti bond è stato oggetto di riflessione. Sarebbe un «peccato» ha detto, se questi strumento ideati per le banche, affinché queste sostenessero le imprese e che alcuni istituti hanno rifiutato non andassero in qualche modo alle imprese italiane. Il presidente di Confindustria ha poi ribadito la richiesta che almeno «parte di questi bond siano utilizzabili per dare credito alle imprese.  
Bankitalia, dubbi sul futuro (15 ottobre 2009).
"La recessione mondiale si è arrestata e si sta ora profilando una ripresa, in larga parte grazie al sostegno delle politiche economiche espansive adottate nei principali Paesi". Lo afferma la Banca d'Italia nel Bollettino economico, secondo il quale «rimane molto elevata l'incertezza sulla solidità della ripresa: vi è il rischio che con il venir meno degli stimoli fiscali e monetari, e una volta esaurito il ciclo di ricostituzione delle scorte, la domanda privata possa tornare a ristagnare, frenata in molte economie da una disoccupazione elevata e crescente e dalla limitata disponibilità di credito e dall'esigenza delle famiglie di risanare i propri bilanci».CONSUMI IN CRESCITA - Dal Bollettino emerge poi che tornano a crescere i consumi, anche se i segnali per il terzo trimestre restano incerti. Nel secondo trimestre «si è interrotto il calo della spesa delle famiglie, che ha segnato un aumento dello 0,3 per cento sul periodo precedente (-1,8 su quello corrispondente del 2008). Il risultato riflette soprattutto il netto rialzo degli acquisti di beni durevoli (4,0 per cento sul periodo precedente), tornati a crescere per la prima volta dall'estate del 2007 sulla spinta delle agevolazioni alla rottamazione degli autoveicoli». Secondo stime fondate su un insieme di informazioni ancora largamente incompleto, avvertono gli economisti di Via Nazionale, «nella media del primo semestre il reddito disponibile reale delle famiglie consumatrici avrebbe subito una flessione dell'ordine dell'1 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008, inferiore a quella della spesa». In questo contesto, «i segnali per il terzo trimestre rimangono incerti», anche se «si attenua il pessimismo delle famiglie». Si conferma inoltre «il peggioramento degli indicatori relativi alle intenzioni di acquisto di beni durevoli e alle condizioni del mercato del lavoro, che si sta verosimilmente riflettendo sulla domanda delle famiglie». DISOCCUPAZIONE IN AUMENTO - «In base ai dati della Rilevazione sulle forze di lavoro - rileva poi il Bollettino -, nel secondo trimestre del 2009, al netto dei fattori stagionali, il numero di occupati residenti in Italia è diminuito dello 0,3 per cento rispetto al periodo precedente (-58.000 persone), un ritmo in linea con quello registrato a partire dalla seconda metà dello scorso anno». «Rispetto allo stesso trimestre del 2008 - spiegano da via Nazionale - la diminuzione dell'occupazione è stata di 378.000 unità (-1,6 per cento), come risultato di una riduzione più forte del numero di occupati di nazionalità italiana (-562.000) e di un aumento dell'occupazione straniera (184.000). Quest'ultimo riflette tuttavia esclusivamente il recepimento nei dati anagrafici della crescita della popolazione straniera residente (aumentata di 307 mila unità) e potrebbe riguardare pertanto lavoratori di fatto già in attività. Secondo le stime di contabilità nazionale, che hanno potuto incorporare solo parzialmente le informazioni della rilevazione sulle forze di lavoro, la diminuzione dell'occupazione nel secondo trimestre sarebbe stata pari allo 0,9 per cento».
Le banche Usa, ancora in difficoltà (16 ottobre 2009).
Dopo i conti di Citigroup, la conferma è arrivata. Le banche retail in America hanno problemi che le ex investment bank come Goldman e JpMorgan mostrano di avere in maniera nettamente più limitata. Un'altra big, Bank of America, ha chiuso il terzo trimestre del 2009 con una perdita netta di un miliardo di dollari, contro l'utile da 1,2 miliardi dello stesso periodo del 2008. In crescita i ricavi, saliti del 32% a 26,4 miliardi. Sui risultati pesano svalutazioni di asset per 2,6 miliardi e l'incapacità della divisione investment di contrastare le ferite inferte dal credito al consumo. L'istituto ha comunque rafforzato i coefficienti patrimoniali. L'ultimo rosso di BofA risaliva al quarto trimestre 2008, tra l'altro il primo nell'arco di 17 anni. I risultati, si legge in un comunicato, «hanno risentito negativamente della continua debolezza dell'economia globale e statunitense e da stress sul lato del consumatore», situazione che »continua a tradursi in un costo del credito elevato». L'amministratore delegato uscente Kenneth Lewis ha puntato l'indice contro l'aumento di mancati pagamenti sulle carte di credito. «I costi del credito rimangono alti e, guardando avanti, questa è la sfida maggiore», ha detto Lewis. Bank of America è considerata particolarmente vulnerabile all'andamento del mercato del lavoro (il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è salito il mese scorso al 9,8 per cento, il massimo in 26 anni), perché influisce sui consumi e, di conseguenza, sull'utilizzo delle carte di credito, una delle attività principali della banca (le perdite della divisione sono cresciute a 1,03 miliardi di dollari dai 167 milioni di un anno fa). Proseguendo nell'analisi dei risultati, il margine di interesse è sceso a 11,42 miliardi di dollari da 11,64, mentre il margine finanziario é salito a 14,61 miliardi da 7,98. Quanto alla qualità del credito, gli accantonamenti per perdite si sono attestati a 11,7 miliardi, 5,3 miliardi al di sopra del livello di settembre 2008 ma 1,7 miliardi in meno rispetto a giugno 2009. In miglioramento, infine, i coefficienti patrimoniali: il tier 1 é salito al 12,46% dall'11,93 di fine giugno, il tangible common equity ratio al 4,82% dal 4,67%, il tier 1 common ratio al 7,25% dal 6,9% e il total capital ratio al 16,69% dal 15,99%. Bank of America sottolinea che nel trimestre sono stati positivi i risultati della controllata Merrill Lynch, che hanno "sostenuto" l'andamento globale dell'istituto. Come Impresa Oggi aveva previsto, dopo gli asset tossici, sarebbe stata la volta delle carte di credito.
La trimestrale affonda anche GE (16 ottobre 2009)
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L'economia apparentemente sembra orientata a uscire dalla fase più nera della crisi, ma per la conglomerata americana General Electric continuano le preoccupazioni. Gli utili del terzo trimestre hanno registrato un un calo del 44 per cento, mentre la divisione finanziaria Ge Capital continua a essere il maggiore punto debole della società (il suo giro d'affari è calato dell'87%), annullando i progressi delle aree per la produzione di macchinari pesanti e industriali. L'amministratore delegato Jeffrey Immelt ha descritto la situazione attuale come "un contesto molto difficile", che nei mesi scorsi ha portato la società a tagliare i dividendi per la prima volta in sessant'anni e a perdere il rating AAA, assegnato alle compagnie in migliore salute. Immelt ha comunque cercato di gettare una luce ottimistica sui risultati, spiegando che "si comincia a intravedere una lenta ripresa e Ge è solida" e che la società proseguirà sulla via di "un aggressivo controllo dei costi, espandendo i margini e capitalizzando sulla buona performance dei servizi". Il colosso di Fairfield, in Connecticut, ha chiuso i tre mesi con utili per 2,42 miliardi di dollari, 23 centesimi per azione, contro i 4,3 miliardi di dollari, 43 centesimi per azione, dello stesso periodo di un anno fa. Nonostante i buoni risultati del comparto industriale, il giro d'affari è calato del 20 per cento a 37,8 miliardi di dollari, un chiaro segnale del fatto che per la conglomerata la via della ripresa è ancora lunga. A sostenere le attività sono state la divisione media Nbc Universal e quelle per la produzione di infrastrutture per il comparto energetico, il cui giro d'affari è cresciuto rispettivamente del 13 e dell'11 per cento.
Banche profitti dimezzati (19 ottobre 2009).
«Potrebbe essere imminente una nuova ondata di svalutazioni delle attività bancarie nell'area euro». L'allarme l'ha lanciato venerdì Lorenzo Bini Smaghi, esponente del comitato esecutivo della Banca centrale europea. E gli analisti concordano: la frenata dell'economia aumenterà la massa dei crediti di difficile recupero (incagli e sofferenze) nei bilanci delle banche. Anche in Italia. Già alla fine di giugno, il sistema creditizio del nostro Paese aveva 51,8 miliardi di sofferenze e un totale di 108 miliardi di crediti deteriorati. Ma gli esperti(analisti, agenzie di rating e società di consulenza) sono convinti che lo scenario sia destinato a peggiorare. Morale: le banche italiane – stima Boston Consulting Group – dovrebbero rinunciare quest'anno a ben 8 miliardi di utili a causa dei maggiori accantonamenti. I profitti saranno sufficienti per coprire le perdite senza intaccare il capitale, ma dopo un dimezzamento nel 2008 si dimezzeranno anche nel 2009. E questa è solo la buona notizia: quella cattiva è che il peggio – prevedono gli esperti – arriverà nel 2010. Per capire il motivo del deterioramento dei crediti bastano due cifre. Uno: il Pil italiano a giugno ha registrato una flessione del 6% (non era mai accaduto dal 1980). Due: il tasso di disoccupazione è salito al 7,4% (livello più alto dal 1994). La cinghia di trasmissione della crisi è ovvia: la recessione mette in difficoltà famiglie e imprese, che faticano a rimborsare le banche, che a loro volta sono costrette ad effettuare accantonamenti in bilancio per coprire le perdite. Un circolo vizioso. Già oggi il peggioramento è evidente, se si tiene conto che – secondo i dati della Banca d'Italia – rispetto all'agosto 2008 le sofferenze sono aumentate del 20% a 51,8 miliardi di euro: livello più elevato dal novembre 2005. Ma tutti gli addetti ai lavori sono convinti che questo non sia il tetto massimo. «Solitamente – spiega Gennaro Casale, partner e managing director di Boston Consulting Group – il picco degli accantonamenti avviene quattro anni dopo l'inizio della crisi, perché passa del tempo prima che il rallentamento economico si traduca in maggiori insolvenze e passa altro tempo prima che le banche iscrivano i crediti in sofferenza». Per questo Casale prevede un incremento degli accantonamenti del 50-70% di anno in anno fino al 2010. Per di più – riferiscono in tanti – le banche italiane sono state molto più veloci a ridurre l'erogazione di nuovi crediti piuttosto che ad aumentare gli accantonamenti per quelli vecchi. Insomma: quando si tratta di iscrivere un credito in bilancio a sofferenza, le banche non sono molto zelanti. Questo rallenta dunque il peggioramento dei bilanci, ma non cambia la situazione. Le previsioni sono dunque di «un'ondata di svalutazioni»: perché le sofferenze aumenteranno e molti incagli dovranno essere passati a sofferenza. Standard and Poor's stima che il rapporto tra gli accantonamenti e i crediti totali delle banche italiane salirà quest'anno e l'anno prossimo oltre l'1,2%: si tratta del massimo dal 1997, con un incremento notevole rispetto allo 0,5% del 2007. Boston Consulting Group ritiene addirittura che nel 2010 questo rapporto raggiungerà l'1,5-1,6%. Mentre gli analisti del Credit Suisse si aspettano un aumento dei crediti dubbi fino al 3,3% degli impieghi totali nei prossimi 18 mesi: questo significa che su 100 milioni di crediti, 3,3 milioni si deterioreranno nell'arco di un anno e mezzo. Anche Prometeia, pur senza cifre precise, prevede «una crescita rilevante delle rettifiche sui crediti nei bilanci delle banche, penalizzando l'evoluzione degli utili fino al 2010». Insomma: più sofferenze da un lato, utili dimezzati dall'altro. Questo scenario, seppur nero, non è però apocalittico. Anzi. Gli esperti sono tutti convinti che le banche italiane chiuderanno comunque il 2009 in profitto: dimezzato, certo, ma pur sempre profitto. L'aumento delle sofferenze – a differenza di quello che accadrà in altri Paesi europei – in Italia non dovrebbe dunque erodere il capitale delle banche: per coprirle basteranno gli utili. «Gli accantonamenti, mantenendo i livelli di copertura attuali, saranno coperti dai profitti», spiega un analista del Credit Suisse. Analoga l'opinione del Boston Consulting. Guardando il patrimonio, è più cauto Renato Panichi, responsabile istituzioni finanziarie per l'Italia di Standard and Poor's: «In media il capitale delle banche è appena sufficiente per far fronte alle perdite inattese». A questo punto, dunque, verrebbe da benedire il rally delle Borse e delle obbligazioni. Grazie al rialzo del 60% dai minimi di marzo 2009 per le Borse, grazie al boom dei corporate bond, grazie al rialzo dei titoli di Stato e soprattutto grazie alle Banche centrali (che pompando liquidità sul mercato hanno reso possibile tutti questi rally), le banche hanno registrato molti utili da trading. In Italia i primi 6 istituti hanno realizzato circa 2 miliardi di ricavi grazie alla negoziazione di titoli: poco rispetto alle banche estere, ma comunque abbastanza per rimpolpare gli utili. E per aiutare a coprire le perdite dovute alla svalutazioni dei crediti. Insomma: l'economia aumenta le sofferenze, ma la finanza salva le banche.
Crollano gli ordinativi nell'industria (20 ottobre 2009).
Gli ordinativi dell'industria italiana ad agosto sono calati dell'8,6% rispetto a luglio e del 27,5% rispetto allo stesso mese del 2008. Lo comunica l'Istat, precisando che il calo su base mensile è il più ampio da quando esistono serie storiche paragonabili, ovvero, da gennaio 2000. Ad agosto il fatturato dell'industria italiana è calato dell'1,4% rispetto al mese precedente e del 21,2% su base annua (indice corretto per le variazioni di calendario). Lo comunica ancora l'Istat, precisando che il calo su base mensile dipende da una diminuzione dell'1,1% del fatturato sul mercato interno e del -2% su quello estero. Gli indici destagionalizzati del fatturato per raggruppamenti principali di industrie hanno segnato una variazione congiunturale positiva per l'energia (+4,4%) e variazioni negative per i beni intermedi (-2,6%), per i beni di consumo (-2,3%, con -6,6% per quelli durevoli e -1,6% per quelli non durevoli) e per i beni strumentali (-0,3%). L'indice del fatturato corretto per gli effetti di calendario in agosto è calato in termini tendenziali del 29,9% per l'energia, del 26,2% per i beni intermedi, del 23,6% per i beni strumentali e del 10% per i beni di consumo (-24,4% per quelli durevoli e -8,4% per quelli non durevoli). In agosto, nel confronto con lo stesso mese del 2008, l'indice del fatturato corretto per gli effetti di calendario, ha segnato le contrazioni più ampie nei settori della metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-36,1%), della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-30%) e della fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (-29,7%); le diminuzioni più contenute hanno riguardato la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (-2,6%) e le industrie alimentari, bevande e tabacco (-5,5%).
Dal 2010 rate sospese per le famiglie in difficoltà (21 ottobre 2009).
Scatterà da gennaio 2010 la moratoria delle banche sulle rate dei mutui. Lo ha deciso a Milano il comitato esecutivo dell'Abi, l'Associazione bancaria italiana, che ha approvato il 'Piano Famiglie' dando mandato al presidente, Corrado Faissola, e al direttore generale, Giovanni Sabatini, di «avviare le azioni necessarie a coordinare ed estendere le misure già in atto a sostegno dei rapporti di credito con le famiglie in difficoltà a seguito della crisi». La sospensione del pagamento delle rate avrà una durata di 12 mesi. Secondo stime bancarie, le famiglie interessate sono 110-120mila, per un valore complessivo di 8 miliardi di mutui erogati. Come spiega una nota diffusa dall'Abi al termine della riunione dell'esecutivo, il Piano famiglie prevede la sospensione delle rate in alcuni casi specifici:
- lavoratore dipendente a tempo indeterminato che ha perso il posto di lavoro;
- lavoratore dipendente a tempo determinato, parasubordinato o assimilato il cui contratto è terminato;
- lavoratore autonomo che ha cessato l'attività;
- nucleo familiare in cui è deceduto uno dei componenti percettore del reddito di sostegno della famiglia;
- lavoratori in cassa integrazione ordinaria o straordinaria.
«Il Piano Famiglie - ha spiegato Faissola al termine della riunione - si pone l'obiettivo di definire un programma di sostegno delle famiglie che renda più generali ed omogenei i diversi interventi che sul territorio sono stati realizzati dalle banche nostre associate». Secondo Faissola «la finalità è fare un quadro generale delle iniziative per le famiglie in difficoltà che già sono state oggetto di altri interventi. Ci sarà un'interlocuzione con le varie autorità coinvolte tra cui la presidenza del Consiglio e le associazioni dei consumatori, enti pubblici e soggetti privati». Oltre alla moratoria sui mutui, il Piano famiglie nelle intenzioni dell'Abi punta a coinvolgere gli interlocutori istituzionali e della società civile su tre principali obiettivi:
1) innalzare la sostenibilità finanziaria delle operazioni di credito alle famiglie, adottando una misura di sospensione dei rimborsi di mutui in essere per i nuclei in situazioni di difficoltà oggettiva;
2) gestire il confronto con i principali interlocutori pubblici e privati;
3) coordinare e comunicare efficacemente gli strumenti di incentivazione già esistenti, molti dei quali costruiti in partnership con le pubbliche amministrazioni.
Il Piano si focalizza sulle misure oggi attive e relative alla sostenibilità della rata di mutuo per le famiglie che abbiano perso il reddito a causa della crisi; all'accesso a nuovo credito per garantire alcuni consumi primari; al sostegno per l'avvio di micro attività imprenditoriali o alla ricerca di nuova occupazione. Alcune di questi strumenti sono messi a disposizione dall'industria bancaria in modo autonomo (portabilità e rinegoziazione dei mutui), altri derivano da partnership con il Governo, le Regioni, i Comuni e la Conferenza Episcopale Italiana, che hanno istituito appositi fondi di garanzia o fondi a copertura di determinati oneri (interessi, commissioni ecc.), altri ancora da accordi con le parti sociali (convenzione per l'anticipazione Cig-Cigs).
L'Euro sfonda 1,5 dollari (23 ottobre 2009).
L'euro sfonda quota 1,50 contro il dollaro statunitense per la prima volta da agosto dell'anno scorso. La divisa unica europea si è sospinta fino a un massimo di 1,5002 prima di ritracciare leggermente in zona 1,4990. Indirettamente, a deprimere il biglietto verde ha contribuito la recente ondata di euforia che si è estesa sui mercati, che ha trovato conferme in vari rapporti trimestrali sugli utili di grandi società quotate. Il rinnovato ottimismo favorisce investimenti più a rischio, che si aprono chiudendo precedenti posizionamenti ritenuti sicuri, come appunto sul dollaro, uno degli asset rifugio per antonomasia. Era dall’11 agosto 2008 che l’euro non oltrepassava questa soglia psicologica, mentre da marzo ad oggi la divisa dell'Ue a 16 si è apprezzata di un 20 per cento complessivo rispetto al dollaro. Il deprezzamento del dollaro porta a inevitabili tensioni sul prezzo del petrolio (la benzina è oltre 1,3 euro al litro) e a una minore competività dei prodotti europei sul mercato Usa.
Salgono deficit e debito (23 ottobre 2009).
Con la crisi tornano a salire deficit e debito pubblico in Europa. Non è una novità quella che emerge dai dati pubblicati da Eurostat: il debito pubblico raggiunge il 69,3% del Pil nell'area euro, dopo il 66% del 2007, ed il 61,5% nell'Unione Europea (58,7% nel 2007). Quanto al deficit, l'Ufficio di statistica europeo indica un aumento in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil) al 2,0% del 2008 rispetto allo 0,6% del 2007 e per l'Ue al 2,3% rispetto allo 0,8% dell'anno precedente. L'Italia, secondo i dati diffusi dall'ufficio di statistica che conferma con una seconda notifica quelli già diffusi in aprile, è passata dall'1,5% del 2007 al 2,7% dell'anno scorso Per quanto riguarda il debito, l'Italia con un 105,8% (103,5%) detiene ancora il primo posto, seguita dalla Grecia (99,2%) mentre all'ultimo c'è l'Estonia che non supera il 4,6%, seguita dal Lussemburgo (13,5%). Il debito pubblico è in aumento in tutti i principali paesi europei: in Spagna dal 36,1 al 39,7%, in Gran Bretagna dal 43,3 al 55,5%, in Francia dal 63,8 al 67,4%, in Germania dal 65 al 65,9%.
Mario Draghi: quali rischi all'orizzonte (24 ottobre 2009).
Lo scenario della crisi presenta «nuovi problemi all'orizzonte:
- come uscire dalle misure eccezionali di sostegno all'economia di molti paesi;
- come rientrare da tendenze alla lunga insostenibili dei debiti pubblici;
- come disegnare nuove regole per il settore finanziario e contenere il problema dell'azzardo morale;
- come alleviare le sofferenze del mercato del lavoro;
- come aumentare un potenziale di crescita che rischia di essere durevolmente ridotto dagli effetti della crisi».
Di fronte a questo scenario - ha osservato il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, alla riunione annuale della Società italiana degli economisti - è necessaria una corretta analisi economica per produrre «proposte concrete, quantificate, motivate alla base di una politica economica efficace». Draghi ha colto l'occasione per difendere una categoria alla quale si sente di appartenere: «Per me è un ritorno a casa, da dove sono partito tanti anni fa e ritrovo maestri, amici e colleghi di una vita». Ecco perché il governatore ha respinto al mittente (il ministro Tremonti, ndr) l'idea di fare dei «pogrom» a danno degli economisti per non aver previsto la crisi e ha riaffermato l'importanza della ricerca economica. «La crisi che il mondo sta vivendo ha prodotto danni ingenti - ha detto Draghi- e rischia di farne anche alla cultura in campo economico». «Si è aperta una caccia al colpevole - ha sottolineato il governatore - si sognano pogrom di economisti, della disciplina economica si è negata sia la valenza scientifica sia l'utilità sociale; all'interno di una professione sempre pronta all'autocritica crescono le divisioni».
Confindustria chiede il taglio delle tasse (26 ottobre 2009).
«Il taglio delle tasse è indispensabile. Il governo si muova con un passo concreto. Abbiamo bisogno di certezze». Lo ha affermato Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, nell'intervento all'assemblea degli industriali di Biella. «Bisogna fare come sta avvenendo in Germania - ha aggiunto - nostro Paese competitor e nostro principale cliente. Anche i francesi si stanno muovendo nello stesso senso». La Marcegaglia ha sottolineato inoltre l'esigenza di ridurre la spesa pubblica: «ci sono 8.000 società e fra queste molte privatizzabili, oltre a enti inutili. L'Italia non può stare ferma». «Oggi entriamo in una fase nuova - ha osservato la leader degli industriali - la fase di caduta libera sta frenando e forse il peggio lo lasciamo alle spalle, ma dobbiamo tenere presente che il nostro Paese in dieci anni ha registrato una crescita solo dell'1%. Ci troviamo di fronte a una crisi simile a quelle del '70 e del '92, ma con una flessione del 25% dell'export, del 13% degli investimenti, del 27% della produzione industriale con picchi del 30, del 40 e del 50% e un calo del 5,8% del pil». Sulla stretta creditizia, la presidente di Confindustria ha detto che la moratoria deve essere applicata e che le banche devono valutare gli imprenditori non solo dai bilanci 2008 e 2009, che saranno tragici, «ma dalle persone e dalle loro potenzialità».
ArcelorMittal inizia a vedere la luce (28 ottobre 2009).
ArcelorMittal è tornata in utile nel terzo trimestre e prevede un modesto miglioramento negli ultimi tre mesi dell'anno. Il maggior produttore di acciaio al mondo ha annunciato un utile netto di 903 milioni di dollari, anche se legato a un beneficio fiscale, dopo tre trimestri consecutivi in perdita. L'AD Lakshmi Mittal ha detto che il gruppo ha visto i primi segnali di ripresa nel periodo luglio-settembre, con la produzione destinata ad aumentare a circa il 70% della capacità nel quarto trimestre, dopo essere rimasta ferma al 50% nel periodo più acuto della crisi. "Dovremmo continuare a vedere un ulteriore graduale miglioramento nel corso del 2010, anche se il contesto operativo resta impegnativo", ha dichiarato l'AD. Giova sottolineare che segnali incoraggianti dal settore dell'acciaio fanno prevedere un avvio della ripresa del settore produttivo.
L'economia usa torna a crescere (29 ottobre 2009).
Il pil degli Stati Uniti è cresciuto del 3,5% nel terzo trimestre dell'anno. Il dato reso noto dal governo è migliore delle stime degli analisti che avevano previsto una crescita del 3,2% rispetto ai tre mesi precedenti, quando il pil era calato dello 0,7%. Con il ritorno alla crescita si è interrotta la serie di quattro trimestri consecutivi di calo del pil: non era mai avvenuto da quando il governo aveva iniziato a pubblicare il dato nel 1947. Secondo i dati del dipartimento del Commercio, le spese per i consumi nel trimestre sono cresciute del 3,4%, il maggior incremento dal primo trimestre del 2007. Nei tre mesi precedenti, le spese per i consumi erano calate dello 0,9%. Gli investimenti residenziali, una delle principali cause della caduta in crisi dell'economia, sono salite nel terzo trimestre del 23,4%, fornendo un contributo positivo alla formazione del pil per la prima volta dal 2005. Sia le spese per i consumi che gli investimenti residenziali hanno beneficiato dei programmi di stimolo varati da governo e dunque resta da verificarne la tenuta nel lungo periodo, quando questi interventi di sostegno verranno a scemare. Positivo anche il contributo al pil delle variazioni delle scorte. Nel trimestre infatti le giacenze sono calate di 130,8 miliardi di dollari in netta frenata rispetto ai 160,2 miliardi del secondo trimestre: questa riduzione della flessione ha contribuito per 0,94 punti percentuali alla formazione del pil. Gli economisti sperano che la riduzione dei programmi di riduzione delle scorte possa fornire un aiuto all'economia anche nel quarto trimestre dell'anno anche se restano timori per la tenuta dei consumi a fronte del peggiore mercato del lavoro degli ultimi 26 anni. Al netto delle scorte, il pil è cresciuto del 2,5% nel terzo trimestre a fronte di un rialzo dello 0,7% nei tre mesi precedenti. Gli investimenti aziendali nel trimestre sono calati del 2,5% con un -9% per gli investimenti in strutture non-residenziali, a conferma delle attuali gravi difficoltà del mercato immobiliare a uso commerciale. Lievemente negativo invece il contributo della bilancia commerciale che ha visto le esportazioni crescere del 14,7% a fronte di un aumento delle importazioni maggiore, pari al 16.4%. Si conferma infine l'andamento moderato dell'inflazione. L'indice dei prezzi per i prodotti di uso personale è cresciuto nel trimestre del 2,8% dopo essere aumentato dell'1,4% nei tre mesi precedenti.
Tremonti, la crisi è bloccata, ma ... (29 ottobre 2009).
«La fenomenologia della crisi, la patologia sono in continuo divenire come in un videogame». È l'immagine usata dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, nel suo intervento alla Giornata mondiale del risparmio. «La crisi si è bloccata è vero - aggiunge Tremonti - ma solo per l'intervento degli Stati che ha trasmesso un messaggio di fiducia». Il Tesoro sta lavorando con le banche per mettere a punto un sistema di uno o più fondi per assistere le piccole e medie imprese sul territorio, ha annunciato Tremonti, sottolineando che «occorre fare di più sull'economia reale». Si tratterà, ha spiegato il ministro, di uno o più fondi per i quali «avremo fra due-tre settimane un primo schema di lavoro. Che dovrà essere una struttura compatibile con il mercato. La Cassa Depositi e Prestiti avrà un ruolo di regia, non è escluso un adattamento del regime fiscale, più dal lato delle imprese che delle banche. Questo aiuterà le piccole e medie imprese sui territori». La moratoria sui debiti alle imprese, precisa il ministro, «è stata necessaria ma non è più sufficiente». Nel suo intervento il ministro ha parlato dei proventi dello scudo fiscale. «Dai dati che abbiamo il rientro dei capitali avviene soprattutto per rimpatrio e non con regolarizzazione». Questo vuol dire, ha puntualizzato il ministro, che i capitali rientrano nel nostro paese e vengono reinvestiti. Si tratta, ha detto il ministro, di fondi che «rafforzano la nostra economia» e non solo il sistema bancario. Tremonti ha anche sottolineato che si sta lavorando per migliorare la circolare. Sul fronte dell'immissione di liquidità nell'economia attraverso le banche. «Il bilancio» di questa operazione è «positivo, ma non totalmente, in particolare per quanto riguarda la distribuzione». Secondo il ministro infatti non tutta la liquidità immessa nel sistema è passata dalle banche all'economia reale e questo ha consentito «fenomeni di sviluppo della massa finanziaria». Di qui due preoccupazioni: «Il livello delle borse - spiega il ministro - è tornato a quello ante-crisi, senza che i fondamentali abbiano fatto lo stesso. In secondo luogo la massa dei derivati non è in riduzione ma in aumento». La riduzione delle imposte è «una discussione che si sta facendo in Europa» e per l'Italia è «fondamentale una responsabile politica di consenso europeo» prima di usare la leva fiscale. Il sistema pensionistico italiano «è tra i più stabili d'Europa». Il ministro ha fatto riferimento alla norma recentemente approvata che aggancia le pensioni all'allungamento delle speranze di vita. Una norma che, ha detto «é stata fondamentale». Ma ha anche rilevato che il sistema non è ottimo e in prospettiva servirà una riflessione sul rapporto tra giovani e anziani. «Ma nell'immediato il sistema italiano é tra i più stabili d'Europa». No a un sistema bancario orientato solo verso la grande impresa. «Non si può avere un sistema bancario orientato soprattutto sulla grande industria quando la forma predominante è la media o piccola impresa. È necessaria, ha detto Tremonti, una convergenza, quindi un ritorno sui territorio. Rispondendo al presidente dell'Abi, Corrado Faissola, sulla concentrazione delle banche il ministro sottolinea che «una riflessione va fatta non solo sulla concentrazione delle banche ma anche sulla distribuzione nel territorio». La concentrazione degli istituti di credito «è un fatto positivo ma è ancora grande l'asimmetria rispetto al territorio». La «formula» non è la «scissione delle banche o il divieto di essere una grande banca». Ma è importante organizzarsi sul territorio. «Molti segni indicano l'impegno di tutti per far quadrare di più la domanda e l'offerta sulle dimensioni territoriali, tanto le imprese quanto le banche».
Per il FMI l'Asia è la locomotiva della ripresa (29 ottobre 2009).
Le economie asiatiche «stanno rimbalzando velocemente» dai minimi toccati durante la crisi globale e, dopo aver subito un tracollo congiunturale in alcuni casi più pesante di quello di Paesi all'epicentro della crisi, «sta guidando il mondo intero al di fuori dalla crisi». Il giudizio è del Fondo monetario internazionale che, nel suo ultimo Rapporto regionale economico sull'area dell'Asia e Pacifico, sottolinea che la ripresa, tuttavia, porterà questa regione in un «nuovo mondo»: nel lungo termine la capacità di crescere delle economie asiatiche dipenderà da una serie di riforme strutturali per dare più peso ai motori interni di crescita. I germogli di ripresa emersi in tutta la congiuntura globale «sembrano più radicati in Asia che in altre parti del mondo» e per questo l'Fmi ha nettamente riveduto al rialzo le stime di crescita per la regione e per le sue principali economie, Cina e India, nel 2009 e nel 2010. Come si legge nell'ultimo Rapporto economico regionale su Asia e Pacifico, l'Asia nel suo complesso crescerà quest'anno del 2,8% (+1,6% rispetto alle stime di maggio) e del 5,8% nel 2010 (+1,5%) dopo il +5,1% del 2008. Per la Cina la crescita per il 2009 è stata riveduta al rialzo dal 6,5% previsto in maggio all'8,5% e da +7,5% a +9% per il 2010, la stessa percentuale di crescita registrata nel 2008. Per l'India le stime sono state innalzate dello 0,8% per entrambi gli anni a +5,4% per il 2009 e +8,4% per il 2010 (+7,3% nel 2008). Per il Giappone la stima di recessione è stata migliorata per quest'anno di 0,8 punti percentuali a -5,4% e quella per il 2010 è stata portata a +1,7% contro il +0,5% previsto in maggio (-0,7% nel 2008).
Disoccupazione in crescita (30 ottobre 2009). Cit Group chiede la bancarotta pilotata: a poche ore dal via libera alla richiesta del Chapter 11 da parte del consiglio di amministrazione, il gruppo finanziario americano specializzato nei prestiti commerciali presenta al tribunale per la bancarotta del Southern District di New York la documentazione, denunciando debiti per 65 miliardi di dollari e asset per 71 miliardi di dollari. La richiesta di bancarotta pilotata della società potrebbe tradursi - riporta il Wall Street Journal - per il Tesoro americano nella prima perdita nell'ambito del programma di salvataggi messo in atto. Il Dipartimento guidato da Timothy Geithner ha investito 2,3 miliardi di dollari di soldi dei contribuenti nella società nel tentativo di stabilizzarla. Dallo scorso anno il Tesoro ha investito 400 miliardi di dollari in diverse aziende americane in tutti i settori di attività: molte società, come Goldman Sachs, hanno già provveduto a restituire i fondi ottenuti. Cit Group si presenta in tribunale con i creditori che hanno già dato il loro via libera al piano di riorganizzazione della società, che potrà avvalersi di una linea di credito da 1 miliardo di dollari accordato dall'investitore Carl Icahn come prestito debtor-in-possession. Cit Group punta a uscire dalla bancarotta in due mesi. Con il Chapter 11 Cit Group mira a riddure il proprio debito di 10 miliardi di dollari. «La decisione di procedere con il nostro piano di riorganizzazione - spiega in una nota il presidente e amministratore delegato Jeffrey Peek - consentirà a Cit Group di continuare a fornire fondi alle piccole e medie imprese, un settore di importanza vitale per l'economia americana». Cit Group, vittima 'credit crunch' e la recessione, ha tentato in tutti i modi di evitare la bancarotta, ma senza successo. I creditori hanno bocciato seccamente l'ultima offerta di swap avanzata: il 90% ha invece appoggiato il piano per la bancarotta pilotata. Secondo Brian Charles, analista di R.W. Pressprich and Co, anche se Cit Group emergesse intatta dalla bancarotta la sua capacità di concedere prestiti si ridurrebbe di circa il 20% in due anni. Il Chapter 11 «è rischioso: non c'è certzza che Cit Group ne emergerà» osserva Donald Workman, dello studio legale Baker Hostetler. Ma per altri osservatori il piano di riorganizzaizone di Cit Group mette la società in una buona posizione: «Se l'accordo è già concordato - mettono in evidenza alcuni osservatori - i problemi possono essere risolti in bancarotta senza perdere i clienti». «Il Pil mondiale sta ricominciando a migliorare, ma ci aspettano ancora 12 mesi di aumento della disoccupazione, la crisi non è finita». Le parole pronunciate da Dominique Strauss-Kahn, intervenendo a Rocca di Papa al Festival internazionale del lavoro, gelano quanti di fronte ai primi "germogli di ripresa" hanno ottimisticamente annunciato che la crisi è finita. Il direttore generale del Fondo monetario internazionale, esprime una proccupazione perché «molti governi hanno già detto che la crisi è finita: non è esattamente così», è vero ci sono segnali di una ripresa «che continuerà, ma sarà lenta», la crescita «ripartirà dal novembre del 2010 a livello globale» ma c'è il rischio che «non sia accompagnata dalla creazione di posti di lavoro». Occorre quindi proseguire con «le politiche di sostegno all'economia», è ancora «troppo presto per avviare le exit-strategy e ritirare gli aiuti, si corre il rischio di una crisi a "w"», anche se – è il monito ai governi – «dobbiamo aiutare la ripresa senza aumentare il deficit». Secondo l'Fmi negli ultimi due anni 15 milioni di persone hanno perso il lavoro, ma il numero è assai più alto se si considerano le situazioni lavorative che non rientrano nelle statistiche ufficiali e i part-time: «Non possiamo dichiarare vittoria prima di avere avviato una diminuzione della disoccupazione», continua Strauss-Kahn, che si dice favorevole al coinvolgimento dei sindacati per un capitalismo "partecipativo". Quanto al governo italiano, il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi nel sottolineare che «il peggio è alle nostre spalle», riconosce che «la crisi sociale potrebbe riservare aspetti di criticità». Per il ministro siamo già in uno scenario post-crisi, ciò non significa che «la ripresa sia lineare e generalizzata», tutt'altro: «Sarà selettiva, dobbiamo accompagnarla sostenendo la liquidità delle imprese e l'occupabilità delle persone, che non significa solo il reddito ma anche le competenze». Il quadro tracciato dal ministro del Lavoro per l'immediato futuro non è privo di criticità: «I prossimi 3-4 mesi saranno certamente difficili – continua Sacconi – nel senso che partiranno molte ristrutturazioni. Molte imprese possono essere indotte a fare quelle riorganizzazioni che in precedenza non sono state fatte. È giusto negoziarle, discuterle, non prenderle a scatola chiusa e soprattutto proteggere quei lavoratori che alla fine, anche sulla base di un accordo, risultassero in esubero». Agli istituti di credito Sacconi rivolge un appello: «Dobbiamo chiedere alle banche, anche alle nostre banche, di collegarsi al territorio che è il vero antidoto all'autoreferenzialità». Per i sindacati, Guy Ryder, segretario generale della Cis (la Confederazione internazionale dei sindacati) concorda con l'invito alla prudenza lanciato dal numero uno del Fmi con cui «è stato avviato un buon dialogo», sottolineando che «la crisi è lontana dalla risoluzione». E polemizza con il Financial stability board presieduto da Mario Draghi, sostenendo che «è molto difficile per i sindacati dialogarci». Invita a non abbassare la guardia il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «l'uscita dalla crisi è di fronte a noi – sostiene –, ma tutte le esperienze umane dimostrano che l'ultimo miglio è quello più pericoloso».
Usa la quinta maggiore bancarotta di tutti i tempi (2 novembre 2009).
Cit Group chiede la bancarotta pilotata: a poche ore dal via libera alla richiesta del Chapter 11 da parte del consiglio di amministrazione, il gruppo finanziario americano specializzato nei prestiti commerciali presenta al tribunale per la bancarotta del Southern District di New York la documentazione, denunciando debiti per 65 miliardi di dollari e asset per 71 miliardi di dollari. La richiesta di bancarotta pilotata della società potrebbe tradursi - riporta il Wall Street Journal - per il Tesoro americano nella prima perdita nell'ambito del programma di salvataggi messo in atto. Il Dipartimento guidato da Timothy Geithner ha investito 2,3 miliardi di dollari di soldi dei contribuenti nella società nel tentativo di stabilizzarla. Dallo scorso anno il Tesoro ha investito 400 miliardi di dollari in diverse aziende americane in tutti i settori di attività: molte società, come Goldman Sachs, hanno già provveduto a restituire i fondi ottenuti. Cit Group si presenta in tribunale con i creditori che hanno già dato il loro via libera al piano di riorganizzazione della società, che potrà avvalersi di una linea di credito da 1 miliardo di dollari accordato dall'investitore Carl Icahn come prestito debtor-in-possession. Cit Group punta a uscire dalla bancarotta in due mesi. Con il Chapter 11 Cit Group mira a riddure il proprio debito di 10 miliardi di dollari. «La decisione di procedere con il nostro piano di riorganizzazione - spiega in una nota il presidente e amministratore delegato Jeffrey Peek - consentirà a Cit Group di continuare a fornire fondi alle piccole e medie imprese, un settore di importanza vitale per l'economia americana». Cit Group, vittima 'credit crunch' e la recessione, ha tentato in tutti i modi di evitare la bancarotta, ma senza successo. I creditori hanno bocciato seccamente l'ultima offerta di swap avanzata: il 90% ha invece appoggiato il piano per la bancarotta pilotata. Anche in questo caso emerge il ruolo "criminale" del sistema bancario usa nell'innescare la grave crisi nella quale ancora ci dibattiamo.
FMI, la ripresa è ancora fragile (3 novembre 2009).
La ripresa economica resta «fragile» e per questo è bene che vengano mantenute in piedi le politiche di stimolo fiscale, specie nei paesi avanzati, almeno nel 2010. Lo sostiene il Fondo Monetario Internazionale nel suo ultimo Cross Country Fiscal Monitor. In ogni caso, secondo il Fondo, i governi devono iniziare a disegnare «strategie di uscita credibili» dalla crisi che affrontino il peggioramento dei conti pubblici. Lo studio prevede infatti un raddoppio dei livelli del debito pubblico nelle economie avanzate che dovrebbe raddoppiare rispetto al 60% del Pil pre-crisi al 2014. Circostanza che porterà ad un aumento di 200 punti base dei tassi d'interesse che potrebbe a sua volta rallentare ulteriormente la ripresa. In una tale situazione, paesi come l'Italia devono essere particolarmente attenti e attivi. In altre parole, occorrerà pensare al più presto a una exit strategy. L'Italia, secondo il Fmi, dovrà fare una manovra pari a 4,8 punti di Pil tra il prossimo anno e il 2020 per portare il debito pubblico sotto il 60% entro il 2030. Per il nostro paese quindi si tratterebbe di una manovra di 75 miliardi di euro in dieci anni. Per paesi come l'Italia e il Belgio, scrive il Fmi nel Cross-Country Fiscal Monitor, «il bisogno di aggiustamento dei conti è quasi interamente il risultato degli alti livelli del debito già prima della crisi». Una zavorra che, insieme alle «rigidità del mercato del lavoro o le difficoltà finanziarie» pesa sul nostro Paese.
La Opel non è più in vendita (4 novemnre 2009).
Dopo mesi e mesi di tira e molla alla fine gli americani della General Motors hanno deciso: la Opel non è più in vendita. Addio quindi agli austro canadesi di Magna che, nella trattativa per l'acquisto della casa tedesca, avevano avuto la meglio anche sulla Fiat. La società automobilistica di Detroit ha motivato la sua decisione con il miglioramento della situazione economica. Ma la Germania ha criticato fortemente Gm: "E' un comportamento inaccettabile", e ha chiesto così la restituzione degli 1,5 miliardi di euro di prestito ponte fornito dalle banche. Berlino aveva avuto un ruolo molto attivo nell'operazione. Il governo tedesco, infatti, aveva appoggiato sin dallo scorso maggio l'offerta degli austro canadesi, approvando anche un aiuto finanziario di 4,5 miliardi, con un prestito ponte, già erogato, di 1,5 miliardi. La stessa cancelliera Angela Merkel si era esposta personalmente nella trattativa, sostenendo la cessione del 55% a Magna e ai suoi partner russi, Sberbank e Gaz. Ora, alla luce della decisione di Gm, il ministro dell'Economia, Rainer Bruederle, ha detto di volere indietro "i soldi dei contribuenti" e si attende quindi "il rimborso secondo le scadenze e i termini previsti del finanziamento-ponte". Inoltre chiede di vedere "al più presto possibile il nuovo piano di riorganizzazione" per Opel che ha quattro siti produttivi in Germania. E sottolinea che, qualunque siano i piani per la controllata tedesca e per quella in Gran Bretagna (con il marchio Vauxhall), Gm dovrà comunque "rispettare i diritti dei dipendenti Opel". Ma a Wiesbaden, il primo ministro del land dell'Assia, dove si trovano gli impianti della Opel, ha espresso "choc" e "rabbia" di fronte alla decisione degli americani. "Alla luce delle esperienze negative del passato con la strategia di Gm, sono molto preoccupato per il futuro della società e dell'occupazione", ha affermato Roland Koch. Il sindacato tedesco: "Giornata nera, i sindacati si mobilitano". Pesanti critiche alla decisione di Gm arrivano dai dipendenti e dai sindacati di Opel. Klaus Franz, presidente del consiglio di fabbrica di Opel, ha parlato di "una giornata nera" e anche Ig Metall, il sindacato dei metallurgici, ha avuto parole dure sulla cancellazione dell'accordo con Magna e Sberbank. Il sindacato di Opel "non parteciperà attivamente al ritorno di Opel entro il perimetro di Gm, ma svolgerà esclusivamente la funzione tradizionale di tutela dei dipendenti" e, per questo, chiederà immediatamente gli adeguamenti tariffari e il pagamento delle tredicesime che erano stati oggetto di un accordo per favorire il passaggio a Magna. Il costo per Gm, ha detto Franz, sarà di oltre 500 milioni di euro. Il governo russo: la priorità è la nostra industria dell'auto. Per il governo russo attualmente la cosa principale è il sostegno all'industria automobilistica nazionale. Così il vicepremier Aleksandr Zhukov, ha commentato la decisione della General Motors di non cedere la Opel a Magna-Sberbank. "Noi abbiamo talmente tanti problemi con la nostra industria dell'auto che ora la nostra priorità principale è il sostegno al comparto automobilistico nazionale". Il vicepremier si e' riferito poi alla crisi economica, osservando che la Russia ha già toccato il punto più basso della fase di recessione, e che vi sono "prospettive di una ripresa dell'industria automobilistica nazionale". General Motors: "Risanare da soli ci costa meno". Tutto è successo perchè Gm, sulla vendita di Opel, ci ha ripensato: non si vende più. Detroit ha giustificato la decisione con il miglioramento della situazione economica del gruppo: "Tenuto conto dell'importanza del marcio tedesco nella strategia è stato deciso di tenere Opel e di avviarne quanto prima la ristrutturazione", si legge nel comunicato. Gm si scusa per la durata con cui è giunta alla decisione. Ma allo stesso tempo rivendica concreti motivi economici: stima che portando avanti da solo il riassetto di Opel le spese totali risulteranno di 3 miliardi di dollari più basse "di tutte le offerte" alternative. Per il governo tedesco è un brutto colpo, perchè Gm procederà a drastici tagli, però "chi è causa del suo mal piamga se stesso". La cordata alecchina messa in pidi per Opel non era credibile e i tempi per arrivare a una decisione sono stati interminabili: governo, sindacati, governatori dei lander, imbozzolati nella logica di un consociativismo estremo, hanno fatto di tutto per scoraggiare Gm, che, nel frattempo, è uscita dalla crisi. A rendere più amara la pillola è la notizia, dello stesso giorno, che l'ad della Fiat Marchionne, ha presentato il progetto di ristrutturazione della Khrysler; quella stessa Fiat che, dai tedeschi, non era stata ritenuta in grado di risanare Opel.
Chrysler in utile in un anno (5 novembre 2009).
Sergio Marchionne ha presentato ad Auburn Hills, quartier generale della Chrysler, il piano di rilancio della casa automobilistica americana. "Dal Chapter 11 al Chapter 1, un nuovo inizio per Chrysler"; un piano che rispecchia in molti punti - e anche nel tipo di presentazione - quello annunciato per Fiat tre anni fa al Lingotto di Torino. Un piano, in primo luogo, ambizioso: ritorno in utile operativo l'anno prossimo, utile netto dal 2011, che arriverà fino a 3 miliardi di dollari nel 2014, con una generazione di cassa per complessivi 15 miliardi di dollari in 5 anni. Il miglioramento della redditività permetterà di ridurre i debiti, e in particolare di restituire quelli con i Governi di Stati Uniti e Canada entro il 2014. "Non ho intenzione di chiedere altri fondi al contribuente" ha detto Marchionne. Chrysler, anzi, dovrà andare in Borsa il più presto possibile per permettere allo Stato di monetizzare la sua quota. L'amministratore delegato ha esordito con una buona notizia: Chrysler "ha già smesso di perdere soldi" con 200 milioni di dollari di margine lordo nel 3° trimestre, utile operativo a settembre e 5,7 miliardi di dollari in cassa a fine mese. "La maggior parte di voi - ha detto - ha sottostimato i tagli ai costi fissi realizzati dalla vecchia Chrysler". Il risultato è che ora Chrysler è in grado di chiudere in pareggio a 2 milioni di auto vendute (e in pareggio operativo a 1,65 milioni su base annua). Questi i numeri principali del piano finanziario quinquennale; il mercato sarà in grado di verificarne i progressi a partire dalla primavera prossima poiché Chrysler, pur non essendo quotata, renderà noti i risultati trimestrali a partire dall'ultimo trimestre 2009. La sfida dei prossimi anni resta comunque "monumentale", ha detto il presidente di Chrysler Robert Kidder, a causa "della difficile situazione economica e del sottoinvestimento degli anni precedenti". Le vendite Chrysler a livello mondiale dovranno più che raddoppiare nel 2014 a 2,8 milioni dagli 1,3 previsti per quest'anno (un livello anormalmente basso a causa delle traversie legate al Chapter 11. Oltre che il ritorno del mercato Usa a condizioni più normali, al balzo contribuirà l'espansione all'estero con la crescita del marchio Jeep e la produzione di 300mila vetture annue per la Fiat. Quanto ai singoli marchi, Jeep conta di passare a 800mila unità vendute nel 2014 dalle 500mila del 2008; Ram punta a toccare le 420 mila unità da 280 mila; Chrysler a più che raddoppiare le consegne sul mercato americano a 487mila nel 2014 rispetto alle meno di 200 mila previste per quest'anno (ma erano oltre 500mila nel 2007). Il manager italo-canadese ha sottolineato ieri che le cifre del piano si basano su ipotesi di andamento del mercato americano prudenti: 14,5 milioni di auto vendute nel 2014, in netta crescita rispetto ai poco più di 10 milioni previsti per quest'anno ma ancora lontani dai quasi 17 milioni del 2007. Il miglioramento della redditività non impedirà di finanziare investimenti per 23 miliardi di dollari in 5 anni che porteranno a un rinnovo completo della gamma di Chrysler, con un ampio utilizzo di piattaforme Fiat. Per quanto riguarda i prodotti, l'offerta Chrysler nel 2014 si baserà su 7 piattaforme (rispetto alle attuali 11), di cui 3 verranno dalla Fiat: quella di Panda/500, quella della Punto e la cosiddetta C-Evo (Bravo e futura Alfa Milano). Il debutto dei modelli Chrysler su piattaforme Fiat arriverà però non prima di un paio d'anni (2012 per Dodge, con una "piccola" su base Fiat nel 2013); nel frattempo, il gruppo Usa procederà a un rinnovo accelerato dei modelli esistenti, sia con face lifting che, con interventi pià consistenti, come l'adozione di nuovi motori. La sportiva Viper non verrà più prodotta dal 2010, ma sarà sostituita nel 2012 da un nuovo modello che si baserà "sull'esperienza dei nostri partner, che costruiscono le sportive migliori del mondo". I campi in cui è previsto un sostanziale apporto di tecnologie Fiat sono quello dei motori, con l'arrivo della tecnologia Multiair per i benzina, del Multijet per i diesel, e dei cambi automatici a doppia frizione (dal 2010), una tecnologia questa, che non è ancora stata introdotta sulle vetture prodotte in Italia. Al di là dei dettagli sui singoli marchi e prodotti, è evidente in tentativo di trasportare a Detroit non solo piattaforme o motori, ma un'intera filosofia organizzativa, dal metodo Wcm negli stabilimenti, alla ricerca di una maggiore qualità, ai metodi di sviluppo prodotto che hanno permesso alla casa torinese di tagliare i tempi di lancio dei modelli più recenti. Le presentazioni di ieri hanno fatto emergere nuovi campi di possibili cooperazioni: il nuovo marchio Ram dei truck, per esempio, arricchirà la propria gamma con veicoli commerciali leggeri su base Fiat; potrebbe essere un'occasione per lo sbarco di Iveco negli Usa, come conferma Paolo Monferino, a.d. dell'azienda italiana. Le sinergie con Fiat negli acquisti dovrebbero assicurare a Chrysler risparmi per 3,4 miliardi di dollari dal 2010 al 2014. La trasmissione di tecnologie sarà comunque nelle due direzioni: Chrysler sarà responsabile per entrambe le aziende dello sviluppo dei motori ibridi ed elettrici - anche grazie ai finanziamenti dell'amministrazione Obama; Fiat sfrutterà i nuovi motori a benzina di grossa cilindrata della casa americana. In cifre, a fine piano (2014) Chrysler avrà il 50% dei modelli basati su piattaforme Fiat e il 40% dei motori che utilizzeranno una qualche forma di tecnologia del Lingotto. La realtà che emerge è stata condensata a fine presentazione da Marchionne: "Il futuro di Fiat Auto e di Chrysler è ora inestricabilmente legato". Fiat delegherà d'ora in poi la progettazione e la produzione (finché i costi saranno convenienti) di tutte le sue auto di dimensioni medio grandi (a partire dal cosiddetto segmento D, quello dell'Alfa 159). Chrysler fornirà dunque queste auto dal Nordamerica, in un volume previsto (come accennato sopra) in 300mila auto esportate a regime. Ad esse si aggiungeranno 100mila unità di auto Fiat vendute in Nordamerica, principalmente 500 (i cui profitti, ha detto Marchionne, resteranno a Chrysler). Vi sarà una progressiva integrazione tra i due marchi Chrysler e Lancia: a parte i rispettivi mercati domestici, gli stessi modelli (o modelli simili) potranno venire offerti con uno o l'altro dei marchi a seconda dei mercati. Due marchi che soffrono entrambi di gamme prodotto incomplete, ha detto Marchionne, possono completarsi a vicenda. Sembra invece congelato, almeno per ora, il progetto di riportare in America l'Alfa Romeo: "Tocca a Chrysler decidere - ha detto Marchionne - e finché Alfa non li avrà convinti di poter competere contro i tedeschi, non se ne farà nulla". Marchionne ha detto invece di aver "perso interesse" nella Opel ma ha aggiunto che la decisione di Gm di non venderla a Magna "è stata la più razionale".
Unioncamere. Consumi in calo (5 novembre 2009).

I segnali di ripresa dell'economia si sentono nell'industria, ma non nelle tasche degli italiani. Nel terzo trimestre dell'anno, infatti, i consumi delle famiglie sono calati del 4,8% rispetto allo stesso periodo del 2008. Lo rileva l'indagine congiunturale del centro studi di Unioncamere. Il calo è superiore dell'1% anche rispetto al trimestre precedente. Il calo delle vendite commerciali si fa sentire di più al Sud e in generale colpisce soprattutto il settore alimentare. La gente acquista meno anche i beni di prima necessità e non solo nei piccoli negozi, ma anche in iper e supermercati, a dimostrazione che gli effetti della crisi superano le politiche dei prezzi-offerta della grande distribuzione. Lo studio Unioncamere segnala che il decremento delle vendite, dunque, coinvolge non soltanto le strutture con meno di 20 dipendenti, che pagano peraltro un prezzo superiore con una flessione del 6,5% (era 5,8% nel secondo trimestre), ma anche i punti vendita di dimensioni maggiori: -2,1% le vendite delle aziende con oltre 20 dipendenti (a fronte del -0,6% del secondo trimestre). Iper e supermercati registrano un calo dell'1,7%. Quanto ai settori di attività, a contrarsi è principalmente il commercio dei prodotti alimentari, che nel periodo luglio-settembre mette a segno un -5,9% contro il -5,3% dei prodotti non alimentari (-5,3%). A livello geografico, la caduta dei consumi appare invece consistente nel Mezzogiorno dove si registra, sempre nel confronto annuo, un -6,2% (due punti percentuali in meno di aprile-giugno); a seguirlo è il Centro con un -5,1% nel terzo trimestre contro il -4,0% del secondo. Sotto la media nazionale, al contrario, le riduzioni nel nord-ovest e del nord-est (rispettivamente -4,4% e -3,1%).
L'Italia ha sorpassato la Gran Bretagna (6 novembre 2009).
L'Italia ha ormai sorpassato la Gran Bretagna per Prodotto interno lordo e quindi è ormai la sesta nazione più ricca tra i paesi industrializzati del pianeta. A confermare questa affermazione del governo ci sono i dati che riguardano l'area Ocse; non è solo un trucco finanziario come quello escogitato negli anni '80 da Bettino Craxi. Secondo l'Organizzazione parigina infatti, non solo il superindice registra un nuovo rialzo a settembre (di 1,3 punti rispetto ad agosto, e di 3,4 punti su settembre 2008), ma, in questo quadro, l'Italia è il Paese che mostra l'incremento maggiore su base annua (+10,8 punti), con un'economia giudicata «in espansione», mentre su base mensile si registra un +1,3. Su base congiunturale, il Paese che mostra un incremento maggiore è invece la Germania (+2 punti, e +5,7 punti rispetto al 2008). Le uniche economie che rispetto a settembre dello scorso anno risultano in calo sono il Giappone (-0,7 punti), il Brasile (-7,1 punti) e la Russia (-6,7 punti). Il presidente del consiglio, Berlusconi, durante la conferenza stampa al termine del Cdm, ha commentato i dati Ocse: «Ci sono forti segnali di ripresa, basta vedere i dati dell'Ocse», ha detto il premier. «Il peggio della crisi è alle spalle. La crisi ha segnato più di altri la Gran Bretagna, essendo la sua economia basata sulla finanza e ha portato l'Italia al terzo posto in Europa e siamo sesti nelle Nazioni Unite».
Royal Bank of Scotland ancora in perdita (6 novembre 2009).
La settimana più lunga per Royal Bank of Scotland si è conclusa oggi con i risultati del trimestre. Nessuno si attendeva numeri scintillanti e le aspettative con una perdita operativa di 1,5 miliardi di sterline sono state soddisfatte. Un andamento migliore di quello del trimestre precedente, ma in ovvia caduta rispetto a un anno fa quando l'utile pre tasse era stato di 2,2 miliardi. Ma evidentemente parliamo di un altro mondo, quello pre credit crunch. In questi tre mesi, ha sottolineato il Ceo Stephen Hester, ci sono state 3,3 miliardi di perdite sui crediti e l'utile dell'investment banking si è dimezzato. Le sofferenze prodotte dalle svalutazioni del portafoglio si sono ridotte del 30% rispetto al trimestre precedente, ma continueranno su questi livelli, secondo la banca, per qualche tempo ancora. Nei giorni scorsi, Rbs aveva accettato l'adesione al programma di garanzia pubblica sugli asset tossici che porterà il tesoro britannico all'84% del capitale della banca ovvero a un'iniezione di altri 25 miliardi di sterline. Nelle stesse ore la banca scozzese chiudeva l'intesa con Bruxelles sulle cessioni di attività in ossequio alle norme sulla concorrenza a fronte di aiuti pubblici. Oltre a 312 filiali Rbs dovrà mettere in vendita tutte le attività assicurative. In parole povere gran parte del sistema bancario britannico e statunitense è nelle mani dello stato.
Crescita dei disoccupati in Usa (6 novembre 2009).
Aumento ben superiore al previsto a ottobre per la disoccupazione negli Stati Uniti, che per la prima volta dal 1983 supera la soglia critica del 10 per cento. Il mese scorso la prima economia globale ha perso altri 190.000 posti di lavoro, secondo quanto riferito dall’amministrazione Usa. In questo modo il tasso di disoccupazione è balzato al 10,2 per cento, contro il 9,9 per cento di settembre. A questo punto negli Usa si contano quasi 16 milioni di disoccupati. Ottobre ha segnato il 22esimo mese consecutivo di incremento della disoccupazione negli Usa, che rappresenta la fase più lunga di peggioramento da 70 ani a questa parte. Le perdite di posti hanno mostrato una attenuazione rispetto al mese precedente, quando ne erano venuti a mancare 219.000. Secondo i dati del dipartimento del Lavoro, se ai disoccupati si aggiungessero coloro che hanno ripiegato su lavori part time e quelli che hanno rinunciato a cercare un posto, il tasso di disoccupazione salirebbe al 17,5 per cento. Si tratta del valore più elevato nelle serie storiche, che tuttavia per questa voce risalgono solo al 1994. Un altro indicatore che mostra quanto sia difficile in questa fase trovare lavoro negli Usa è rappresentato dal numero di persone disoccupate da almeno sei mesi: 5,6 milioni per un paese tradizionalmente dinamico. Rappresentano il 35,6 per cento dei disoccupati totali, lo stesso livello del mese precedente. Diversi economisti temono che la persistenza di una elevata disoccupazione possa gravemente compromettere le dinamiche dei consumi negli Usa, che rappresentano il 70 per cento dell’economia. I dati di oggi sono i primi a giungere dopo che nei giorni scorsi sono stati pubblicati quelli sulla ripresa in termini di Pil, un più 3,5 per cento nel terzo trimestre che si era rivelato migliore del previsto. Tuttavia, tipicamente le difficoltà sul mercato del lavoro si trascinano più a lungo rispetto all’andamento degli aggregati statistici sul Pil. Quello sulla disoccupazione è «un numero che ci fa tornare con i piedi per terra» ha detto Obama. «Ci vorrà tempo e pazienza, ho fiducia nel fatto che la nostra economia si riprenderà. Sono fiducioso che ci stiamo muovendo nella direzione giusta. E assicuro che non mi riposerò fino a quando l’America non sarà tornatà nuovamente e prosperare» ha aggiunto il presidente degli Stati Uniti, annunciando di aver firmato il progetto di legge che prevede l’estensione dei sussidi alla disoccupazione fino a 20 ulteriori settimane. Obama ha firmato anche l’estensione del progetto di legge che allunga le agevolazioni per l’acquisto di case. I progetti di legge firmati «aiuteranno la nostra economia a crescere, a salvare e creare nuovi posti di lavoro, e a dare sollievo alle famiglie e alle imprese in difficoltà» precisa, osservando come «quando sono entrato in questo ufficio l’obiettivo era quello di fermare la caduta libera dell’economia che si contraeva a un ritmo allarmante. Abbia raggiunto questo obiettivo, con l’economia tornata a crescere per la prima volta in un anno lo scorso trimestre. Ma la storia ci insegna che la crescita occupazionale arriva successivamente a quella economica, ed è per questo che dobbiamo continuare a favorire misure che creeranno occupazione. E posso assicurare che non mollerò fino a quando gli americani che vogliono un lavoro non l’avranno trovato, e fino a quando gli americani non guadagneranno abbastanza per far crescere le loro famiglie e tenere aperte le loro imprese».
Gordon Brown propone la Tobin Tax al G20 finanziario (7 novembre 2009).
Ciò che propone il premier britannico Gordon Brown non è altro che la "Tobin tax", così chiamata dal nome del premio Nobel per l'economia James Tobin che la propose nel lontano 1972. Da allora di questa proposta si è discusso in svariate occasioni, ma soprattutto dopo le due più importanti crisi finanziarie precedenti a quella attuale: quella del 1992, che ebbe l'effetto di scardinare il Sistema monetario europeo e portò l'Italia sull'orlo del default, con una successiva svalutazione della lira di circa il 30%; e la crisi asiatica del 1997, che mise in ginocchio numerosi paesi dell'Estremo Oriente arrivando a provocare in alcuni di essi disordini per la fame. La Tobin tax consisterebbe in una tassazione delle transazioni finanziarie con un'aliquota molto bassa, per esempio lo 0,5% (come ipotizzò lo stesso Tobin in una famosa intervista a Der Spiegel nel 2001). Anche un prelievo minimo di questo genere, però, avrebbe l'effetto di cancellare una quantità enorme di transazioni, rendendole non più convenienti. Nella finanza ormai completamente gestita attraverso programmi informatici, infatti, è sufficiente che i guadagni siano infinitesimali, perché l'altissima frequenza delle operazioni e l'enormità delle somme spostate hanno comunque l'effetto di far raggiungere profitti stellari. In pratica, una grossa fetta dei movimenti puramente speculativi sarebbe cancellata dai mercati, che ne guadagnerebbero in stabilità. Inoltre il gettito della tassa sarebbe comunque ingente: a quell'aliquota si calcola che ne deriverebbero oltre 80 miliardi di dollari l'anno, una somma che, secondo alcuni, sarebbe sufficiente ad eliminare le situazioni di povertà estrema in tutto il mondo. L'ipotesi di questa tassa - che per essere introdotta avrebbe bisogno ovviamente di un accordo mondiale - ha sempre incontrato la fortissima opposizione di tutti gli operatori finanziari - cosa di cui sarebbe difficile stupirsi - e anche di molti economisti. La speculazione, sostengono gli oppositori, può non piacere da un punto di vista etico, ma ha un ruolo importantissimo nel funzionamento dei mercati finanziari, soprattutto per garantire la loro liquidità, che è un aspetto fondamentale. Si può però ben nutrire il sospetto che i rischi che deriverebbero dalla Tobin tax siano sopravvalutati in modo interessato, visto che persino George Soros, lo speculatore che provocò la crisi valutaria del '92, dichiarò che sicuramente avrebbe danneggiato i suoi interessi, ma sarebbe stata invece positiva per l'economia mondiale. La proposta della Tobin tax è stata adottata da tutti i movimenti no-global e contro la povertà nel mondo, ma il suo inventore, nell'intervista citata, ci tenne a precisare che la sua idea muoveva soltanto dall'intenzione di far funzionare meglio l'economia mondiale e che non aveva nulla a che vedere con quei movimenti, anche se non avrebbe avuto obiezioni su un eventuale uso anti-povertà del ricavato della tassa. Da molti anni esiste comunque un'organizzazione che sostiene l'introduzione della tassa: si chiama Attac (Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie e per l'Aiuto dei Cittadini) e sul suo sito si possono trovare vari approfondimenti in proposito. Dell'introduzione della Tobin tax aveva parlato nei giorni scorsi il ministro francese dell'Ecologia Jean-Louis Borloo, annunciando che il suo paese l'avrebbe proposta. Si era osservato in quell'occasione che la leader tedesca Angela Merkel sarebbe stata favorevole, ma si sarebbe certamente opposta la Gran Bretagna, cosa che oggi viene smentita dalla dichiarazione di Brown. In ogni caso un accordo solo europeo non basterebbe ancora: sarebbe necessario il consenso almeno del G20 al completo.
Produzione industriale in calo nel mese di settembre (10 novembre 2009).
A settembre 2009 l'indice della produzione industriale destagionalizzato ha segnato un calo del 5,3% rispetto ad agosto (calo maggiore dal 1990). Lo rende noto l'Istat secondo cui, inoltre, la variazione congiunturale della media degli ultimi tre mesi, rispetto a quella dei tre mesi precedenti, è pari a 4%. L'indice grezzo, invece, risulta in calo del 15,3% rispetto a settembre 2008 mentre l'indice corretto per gli effetti di calendario scende del 15,7% annuo. Nel confronto tendenziale, l'indice grezzo relativo al periodo gennaio-settembre 2009 é in diminuzione del 20,5% e del 20,3% al netto degli effetti di calendario. Rivisto al ribasso il dato di agosto, con un rialzo congiunturale del 5,8% rispetto al +7% già comunicato. Guardando ai principali raggruppamenti di industrie, l'Istat segnala variazioni congiunturali negative del dato destagionalizzato per i beni intermedi (-7,9%), per i beni strumentali (-5,6%), per i beni di consumo (-4,1%), per l'energia (-3,9%). Considerando la dinamica tendenziale su settembre 2008 i dati corretti per gli effetti di calendario segnalano un calo del 21,2% per i beni intermedi, del 20,4% per i beni strumentali, del 10,5% per l'energia e del 5,5% per i beni di consumo. A livello dei singoli settori di attività economica, l'indice della produzione industriale corretto per gli effetti del calendario ha registrato, rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, variazioni tendenziali positive per i prodotti farmaceutici (+5,9%) e per le industrie alimentari, bevande e tabacchi (+0,2%). Le diminuzioni maggiori si registrano per i macchinari e attrezzature n.c.a. (-27,5%), per la metallurgia e prodotti in metallo (-25,2%) e per i mezzi di trasporto (-20,2%). Nel confronto tra i primi nove mesi del 2009 e il corrispondente periodo del 2008 le diminuzioni più ampie hanno riguardato la metallurgia e i prodotti in metallo (-32,1%) e i macchinari e attrezzature. (-31,8%). L'unica variazione positiva ha riguardato i prodotti farmaceutici (+2,5%). Il rallentamento della produzione riguarda anche il settore automobilistico. A settembre, l'Istat comunica che il dato corretto per gli effetti di calendario ha segnato una flessione del 7,9% (dato grezzo -7,6%) su base annua, mentre il dato relativo ai primi nove mesi ha segnato un calo del 29% (-29,5% dato grezzo). Purtroppo ialcuni dati Istat arrivano con troppo ritardo, in questo caso dànno un'informazione negativa in contrasto con dati più recenti.
Il Pil ha ripreso a salire (13 novembre 2009).
Il prodotto interno lordo dell'Italia é tornato a crescere: nel terzo trimestre 2009; è aumentato dello 0,6% rispetto al trimestre precedente. Lo comunica l'Istat, precisando che si tratta delle prima variazione congiunturale positiva dopo 5 trimestri negativi consecutivi. Rispetto al terzo trimestre 2008, comunica ancora l'Istat, il Pil è diminuito del 4,6%. L'aumento congiunturale del Pil italiano, spiega l'Istat, è il risultato di un aumento del valore aggiunto dell'industria e dei servizi e di una diminuzione del valore aggiunto dell'agricoltura. L'Istituto di statistica specifica che il terzo trimestre 2009 ha avuto quattro giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e una giornata lavorativa in più rispetto all'analogo periodo del 2008. Il confronto congiunturale con gli altri Paesi mostra che il Pil nel terzo trimestre è aumentato dello 0,9% negli Stati Uniti ed è diminuito dello 0,4% nel Regno Unito. In termini tendenziali, il prodotto interno lordo americano è diminuito del 2,3% mentre quello del Regno Unito è calato del 5,2% (contro il -4,6% registrato in Italia). Il prodotto interno lordo nel terzo trimestre 2009 si è attestato a 304,3 miliardi. L'Istat comunica infine di aver rivisto il dato relativo al secondo trimestre 2009: la variazione tendenziale passa da -6% inizialmente comunicato a -5,9%. La variazione del Pil registrata nel terzo trimestre 2009 (+0,6% congiunturale) è la migliore dal quarto trimestre del 2006, quando la crescita fu pari allo 0,9% congiunturale. Lo comunica l'Istat. Il calo del Pil già acquisito per il 2009, ovvero quello che si avrebbe a fine anno se non si registrano ulteriori variazioni, migliora a -4,8% dal -5,1% calcolato nel secondo trimestre.
Vendite al dttaglio in crescita negli Usa (16 novembre 2009).
Le vendite al dettaglio negli Usa sono migliorate in ottobre oltre le attese, grazie soprattutto agli acquisti di veicoli, mentre il dato del mese precedente è stato rivisto nettamente al ribasso. Il dipartimento al Commercio ha comunicato oggi che le vendite retail lo scorso mese hanno registrato un incremento dell'1,4%, il maggior aumento da agosto. Il dato di settembre è stato rivisto a -2,3% dalla precedente lettura di -1,5%. Gli analisti avevano indicato una stima di vendite in aumento dell'1%. Le vendite in ottobre sono state favorite da acquisti di nuovi veicoli e di parti auto, categoria che ha registrato un incremento del 7,4%. Escludendo la voce auto, le vendite al dettaglio sono migliorate dello 0,2% dopo il +0,4% di settembre, in aumento per il terzo mese consecutivo, contro attese degli economisti di un più 0,4%.
OCSE: ripresa ancora timida (19 novembre 2009).
La ripresa economica a livello globale si è rafforzata ma è «ancora troppo timida» per scongiurare un aumento della disoccupazione. È questo il monito lanciato dall'Ocse nel rapporto semestrale sulle previsioni economiche sottolineando che il picco della disoccupazione sarà toccato nella prima metà del 2010 negli Stati Uniti ma nell'area euro la disoccupazione non scenderà prima del 2011. Per quanto riguarda l'area euro, l'economia nel 2009 accuserà una flessione del 4% per poi risalire l'anno prossimo con un tasso di espansione dello 0,9% e dell'1,7% nel 2011. La disoccupazione sarà in costante aumento raggiungendo il 9,4% nell'anno in corso, il 10,6% nel 2011 e il 10,8% l'anno successivo. Un quadro non proprio positivo. L'Ocse infatti sottolinea che «tutto ciò rischia di portare a un indebolimento della fiducia dei consumatori, che potrà fiaccare la ripresa». Più dinamica la ripresa negli Stati Uniti che chiuderanno il 2008 con un calo del Pil del 2,5% ma già l'anno prossimo si avrà una crescita del 2,5% che si rafforzerà nel 2011 al +2,8%. Anche negli States la disoccupazione continuerà a crescere salendo al 9,2% quest'anno per arrivare a un picco del 9,9% nel 2010 per poi scendere al 9,1% nel 2011. Il quadro globale è migliorato ma sull'economia continuano a incombere una serie di rischi. In particolare l'Ocse sottolinea gli squilibri internazionali, il surplus commerciale cinese e il deficit della bilancia commerciale americano al primo posto, destinato a salire all'11,2% del Pil quest'anno, per poi attestarsi al 10,7% nel 2010 e al 9,4% nel 2011. Secondo l'Ocse «non si può escludere un disordinato aggiustamento dei tassi di cambio». Sul fronte dei tassi d'interesse, l'Ocse ha auspicato che Bce e Fed continuino la politica espansiva per sostenere la ripresa. Secondo l'organizzazione le due banche centrali avvieranno una politica più restrittiva solo a partire dalla fine dell'anno prossimo.
Fiat e sindacati ai ferri corti (22 novembre 2009).
I sindacati alzano le barricate contro la Fiat. Replicano compatti e con durezza alle parole dell'amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne. Chiedono all'ad e al governo "chiarezza, una volta per tutte, sul futuro degli stabilimenti italiani e dei posti di lavoro". In caso contrario, annunciano, "sarà mobilitazione". Lo scontro nasce dopo le dichiarazioni di Marchionne: "In Italia abbiamo sei stabilimenti che realizzano l'equivalente di una sola fabbrica in Brasile. Questo è fuori da ogni logica industriale. Sono disposto a lavorare con il governo e le parti sociali ma - ha aggiunto - non illudiamoci...". Dichiarazioni che suonano come un campanello d'allarme per il Meridione e in particolare per Termini Imerese. "Ci mobiliteremo per far cambiare impostazione a Fiat: il taglio di stabilimenti in Italia significa un disastro" afferma Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom Cgil. "Fiat punta a un ridimensionamento complessivo per poi spostare la produzione all'estero. Chiudere Termini Imerese - aggiunge Masini - significherebbe perdere 2.200 con l'indotto". Il segretario nazionale della Fim-Cisl, Bruno Vitali, chiarisce che "il vincolo occupazionale è inalienabile". E secondo il segretario Uilm, Antonino Regazzi c'è il rischio concreto che "si voglia spostare parte delle produzioni in Brasile, Polonia e Serbia: come si fa a dire che si vogliono produrre 6 milioni di auto con Chrysler e poi annunciare tagli in Italia? Le due cose non stanno in piedi". Roberto Di Maulo, segretario generale del Fismic dice che "Fiat sta sbagliando nel metodo e nel merito" mentre Giovanni Centrella, segretario nazionale dell'Ugl Metalmeccanici ribadisce: "Ricorreremo a ogni azione necessaria per difendere i lavoratori e le fabbriche del gruppo".
Rischio Dubai (27 novembre 2009).
L'allarme sulla possibile insolvenza di Dubai World, la holding dell'emirato che ha chiesto di congelare i propri debiti per sei mesi (che ammontano in totale a 59 miliardi di dollari), resta altissimo sui mercati internazionali, che ieri hanno vissuto una giornata di passione. La tensione degli investitori non cambia, però i programmi degli sceicchi, che si apprestano a dare il via al «più grande spettacolo pirotecnico nella Storia dell'umanità», come scrive il quotidiano degli Emirati Arabi Uniti al Ittihad, non cambiano. L'occasione è offerta dai festeggiamenti per il 38° anniversario dell'indipendenza di Abu Dhabi, ma ai festeggiamenti partecipa anche lo sceicco e primo ministro di Dubai, Mohammed Bin Rashid Al Maktoum. Eppure non ci sarebbe granché da festeggiare. Nonostante l'esposizione delle banche nel mondo sia consistente (intorno ai 40 miliardi di dollari) e, sostanzialmente, l'incidenza sugli utili non sembri (almeno per quanto delineato da alcuni studi) giustificare il panico di ieri, i credit default swaps (Cds) a cinque anni di Dubai, cioè il costo per assicurare il debito sovrano dell'emirato del Golfo, sono ulteriormente schizzati oggi di 134 punti 670 punti base. Si tratta di un livello doppio rispetto a quello di una settimana fa, precedente lo scoppio della crisi finanziaria. In pratica ci vorrebbero 670mila dollari (contro i 318mila di martedì) per assicurarsi per cinque anni 10 milioni di dollari di debito sovrano. I Cds per assicurare la Dubai Ports World, maggior operatore portuale del medio Oriente, una controllata della holding statale Dubai World sono saliti di oltre 200 punti base a 810. Lo stato di Dubai, secondo gli operatori, non garantisce il debito delle controllate Dubai World e Nakheel (attiva nel settore immobiliare). La crisi in Dubai ha spinto al rialzo anche i Cds dei vicini emirati come quelli di Abu Dhabi saliti di 24 punti a 184,2 punti base, quelli del Qatar di 5 a 129 punti. Le preoccupazioni sulla tenuta finanziaria di Dubai hanno influenzato negativamente, pur in modo leggero, anche le corporate europee. L'indice iTraxx Europe, che registra il costo di assicurazione per un paniere di 125 società investmement-grade ha visto aumentare la quotazione di 2,5 punti base dopo un'apertura in rialzo di 5 punti base. In salita anche il rischio paese di Grecia e Irlanda, in questa fase anello debole della catena nell'area dell'Unione europea. Quanto al calo dei rendimenti dei titoli di stato è proseguito anche oggi: il Treasury scadenza biennale è sceso di 9 punti base allo 0,66% dopo avere toccato i minimi dal 17 dicembre 2008. Ha toccato un minimo attorno ai 72 dollari il petrolio, risalito poi a 75, mentre lo yen ha confermato la scalata sul dollaro (sceso a 84,8). Il biglietto verde, a sua volta, ha recuperato terreno sull'euro (chiusura in Europa a 1,49 dopo un minimo a 1,4830), a conferma del ruolo delle valute rifugio in una nuova fase di irrequietezza dei mercati. Cosa succederà a questo punto? In attesa di una comunicazione annunciata per l'inizio della prossima settimana circolano varie ipotesi. Potrebbe, tra l'altro, intervenire in auto il vicino emirato di Abu Dhabi, che a differenza di Dubai fonda la propria ricchezza sul petrolio. Secondo uno studio della banca elvetica Ubs all'origine dell'annuncio shock potrebbe esserci stato proprio un sostegno di Abu Dhabi meno generoso, oppure un indebitamento più alto di quanto si pensasse o forse una mossa premeditata per affrontare una volta per tutte i problemi del mondo societario del Dubai. La richiesta-shock di moratoria del debito di Dubai World avanzata dall'Emirato, del resto, «non può essere stata presa alla leggera, date le gravi implicazioni per la reputazione degli Emirati» sui mercati finanziari, colti di sorpresa. Vulnerabilità e problemi del Dubai, in realtà, non sono una novità, sottolinea Ubs: niente petrolio, niente risparmi, un debito stimato a 80-90 miliardi di dollari pari al 100% del Pil e una grossa bolla immobiliare. Tuttavia negli ultimi due mesi la situazione sembrava migliorata e recentemente lo sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum aveva rassicurato gli investitori sull'affidabilità dell'Emirato. Data la "mancanza di trasparenza", si possono avanzare solo scenari sui motivi dell'improvvisa ristrutturazione del debito. Il primo ipotizza che l'Abu Dhabi intenda soccorrere il Dubai solo dopo che l'Emirato avrà fatto ordine in casa propria, il che solleverebbe preoccupazioni sullo stato delle relazioni tra i due emirati. Il fondo sovrano dell'Abu Dhabi ha asset per 500 miliardi di dollari e fare fronte alla scadenza di 3,5 miliardi del 14 dicembre del debito Nakheel non avrebbe dovuto essere un grosso sforzo, se ci fosse stata la volontà politica di farlo.
Aumenta la produzione industriale in novembre (30 novembre 2009). Sui tassi di interesse dell'area euro è attesa una conferma al minimo storico dell'1 per cento, ma la Banca centrale europea potrebbe iniziare una progressiva rimozione di alcune delle misure supplementari che nei mesi scorsi ha approntato per aiutare l'economia, che prevalentemente fanno leva sulla liquidità. Giovedì torna a riunirsi il Consiglio direttivo, mentre nell'Unione monetaria si è appena riaffacciata l'inflazione. La cautela è d'obbligo, sia per la perdurante fragilità dei mercati appena evidenziata dall'effetto che hanno avuto le difficoltà sui debiti di Dubai World; sia per la situazione dell'economia reale. La disoccupazione si consolida ai massimi storici, al 9,8 per cento a ottobre nell'area, valore, secondo i dati Eurostat, che equivale a tre milioni di disoccupati in più rispetto ad un anno fa. La decisione sui tassi verrà comunicata alle 13 e 45, mentre alle 14 e 30 il presidente Jean-Claude Trichet terrà la consueta conferenza stampa esplicativa. Per fronteggiare la crisi, nei mesi scorsi la Bce ha assicurato al sistema creditizio abbondante liquidità a condizioni molto più favorevoli del normale. Ma nelle ultime settimane diversi esponenti dell'istituzione di Francoforte hanno espresso la preoccupazione che continuare troppo a lungo potrebbe favorire l'insorgere di nuove destabilizzazioni o crisi. Per questo già il mese scorso Trichet aveva avvertito che a dicembre si sarebbe deciso se iniziare una progressiva rimozione. In questo modo la Bce si distinguerebbe rispetto a coloro, come vari governi ma anche il Fondo monetario internazionale, che invece sostengono che è più rischioso muoversi troppo presto sulle «exit strategies», piuttosto che troppo tardi. Quanto all'inflazione, sempre Eurostat ha pubblicato questa settimana la stima preliminare di novembre, che ha mostrato una crescita su base annua dei prezzi dello 0,6 per cento nell'area euro, contro il meno 0,1 per cento di ottobre. Si tratta del primo incremento annuale dallo scorso maggio. Un ritorno che era atteso dalla Bce, che in precedenza ha riferito di attendersi un andamento sommesso nei mesi a venire. I tassi di interesse sono il principale strumento delle Banche centrali per tentare di contenere l'inflazione e l'obiettivo ufficiale della Bce è di mantenerla inferiore ma prossima al 2 per cento nel medio periodo, circa un anno e mezzo. Finora Trichet ha più volte ripetuto che al livello attuale i tassi di interesse sono "appropriati", termine che viene interpretato dai mercati come un segnale sull'orientamento a non modificarli nel breve termine. La ripresa inflazionistica appare prevalentemente legata ai rincari di energia e alimentari, voci particolarmente volatili nell'indice, inoltre altri indicatori rafforzano le prospettive di debolezza. La scorsa settimana la stessa Bce ha pubblicato i dati di ottobre sugli aggregati monetari - di cui tiene conto nelle sue previsioni sul caro vita - che mostrano una contrazione del credito ai privati, famiglie e imprese, meno 0,8 per cento su base annua. La decisione sui tassi verrà comunicata alle 13 e 45, mentre alle 14 e 30 Trichet terrà la consueta conferenza stampa esplicativa. Il Centro Studi Confindustria rileva un aumento della produzione industriale dell'1% a novembre 2009 su ottobre, quando si è avuto un recupero dell'1,6% sul mese precedente (dati destagionalizzati)». Lo afferma una nota del CsC nella quale si precisa che «la variazione di ottobre è stata rivista al rialzo rispetto all'indicazione preliminare (+0,3%) sulla base dei consuntivi comunicati dalle imprese. L'attività industriale - aggiunge il comunicato di Confindustria - si è attestata in novembre sui livelli inferiori del 20,8% al picco precrisi (aprile 2998) ed ha recuperato il 6% dal minimo di marzo 2008». "La produzione media giornaliera si é ridotta a novembre 2009 del 5,6% su novembre 2008. In ottobre - afferma ancora il comunicato di Confindustria - la contrazione annua era stata del 10,7% (variazioni al netto del diverso numero di giornate lavorative). Nei dati grezzi l'attività é diminuita in novembre del 2,9% sullo stesso mese del 2008 (-12,8% in ottobre). I nuovi ordini sono saliti dello 0,6% in novembre su ottobre (dati destagionalizzati), ma sono scesi del 6,2% su novembre 2008 (dati grezzi). In ottobre - conclude la nota - erano aumentati dello 0,4% su settembre e diminuiti dell'11,3% annuo".Sui tassi di interesse dell'area euro è attesa una conferma al minimo storico dell'1 per cento, ma la Banca centrale europea potrebbe iniziare una progressiva rimozione di alcune delle misure supplementari che nei mesi scorsi ha approntato per aiutare l'economia, che prevalentemente fanno leva sulla liquidità. Giovedì torna a riunirsi il Consiglio direttivo, mentre nell'Unione monetaria si è appena riaffacciata l'inflazione. La cautela è d'obbligo, sia per la perdurante fragilità dei mercati appena evidenziata dall'effetto che hanno avuto le difficoltà sui debiti di Dubai World; sia per la situazione dell'economia reale. La disoccupazione si consolida ai massimi storici, al 9,8 per cento a ottobre nell'area, valore, secondo i dati Eurostat, che equivale a tre milioni di disoccupati in più rispetto ad un anno fa. La decisione sui tassi verrà comunicata alle 13 e 45, mentre alle 14 e 30 il presidente Jean-Claude Trichet terrà la consueta conferenza stampa esplicativa. Per fronteggiare la crisi, nei mesi scorsi la Bce ha assicurato al sistema creditizio abbondante liquidità a condizioni molto più favorevoli del normale. Ma nelle ultime settimane diversi esponenti dell'istituzione di Francoforte hanno espresso la preoccupazione che continuare troppo a lungo potrebbe favorire l'insorgere di nuove destabilizzazioni o crisi. Per questo già il mese scorso Trichet aveva avvertito che a dicembre si sarebbe deciso se iniziare una progressiva rimozione. In questo modo la Bce si distinguerebbe rispetto a coloro, come vari governi ma anche il Fondo monetario internazionale, che invece sostengono che è più rischioso muoversi troppo presto sulle «exit strategies», piuttosto che troppo tardi. Quanto all'inflazione, sempre Eurostat ha pubblicato questa settimana la stima preliminare di novembre, che ha mostrato una crescita su base annua dei prezzi dello 0,6 per cento nell'area euro, contro il meno 0,1 per cento di ottobre. Si tratta del primo incremento annuale dallo scorso maggio. Un ritorno che era atteso dalla Bce, che in precedenza ha riferito di attendersi un andamento sommesso nei mesi a venire. I tassi di interesse sono il principale strumento delle Banche centrali per tentare di contenere l'inflazione e l'obiettivo ufficiale della Bce è di mantenerla inferiore ma prossima al 2 per cento nel medio periodo, circa un anno e mezzo. Finora Trichet ha più volte ripetuto che al livello attuale i tassi di interesse sono "appropriati", termine che viene interpretato dai mercati come un segnale sull'orientamento a non modificarli nel breve termine. La ripresa inflazionistica appare prevalentemente legata ai rincari di energia e alimentari, voci particolarmente volatili nell'indice, inoltre altri indicatori rafforzano le prospettive di debolezza. La scorsa settimana la stessa Bce ha pubblicato i dati di ottobre sugli aggregati monetari - di cui tiene conto nelle sue previsioni sul caro vita - che mostrano una contrazione del credito ai privati, famiglie e imprese, meno 0,8 per cento su base annua. La decisione sui tassi verrà comunicata alle 13 e 45, mentre alle 14 e 30 Trichet terrà la consueta conferenza stampa esplicativa.Sui tassi di interesse dell'area euro è attesa una conferma al minimo storico dell'1 per cento, ma la Banca centrale europea potrebbe iniziare una progressiva rimozione di alcune delle misure supplementari che nei mesi scorsi ha approntato per aiutare l'economia, che prevalentemente fanno leva sulla liquidità. Giovedì torna a riunirsi il Consiglio direttivo, mentre nell'Unione monetaria si è appena riaffacciata l'inflazione. La cautela è d'obbligo, sia per la perdurante fragilità dei mercati appena evidenziata dall'effetto che hanno avuto le difficoltà sui debiti di Dubai World; sia per la situazione dell'economia reale. La disoccupazione si consolida ai massimi storici, al 9,8 per cento a ottobre nell'area, valore, secondo i dati Eurostat, che equivale a tre milioni di disoccupati in più rispetto ad un anno fa. La decisione sui tassi verrà comunicata alle 13 e 45, mentre alle 14 e 30 il presidente Jean-Claude Trichet terrà la consueta conferenza stampa esplicativa. Per fronteggiare la crisi, nei mesi scorsi la Bce ha assicurato al sistema creditizio abbondante liquidità a condizioni molto più favorevoli del normale. Ma nelle ultime settimane diversi esponenti dell'istituzione di Francoforte hanno espresso la preoccupazione che continuare troppo a lungo potrebbe favorire l'insorgere di nuove destabilizzazioni o crisi. Per questo già il mese scorso Trichet aveva avvertito che a dicembre si sarebbe deciso se iniziare una progressiva rimozione. In questo modo la Bce si distinguerebbe rispetto a coloro, come vari governi ma anche il Fondo monetario internazionale, che invece sostengono che è più rischioso muoversi troppo presto sulle «exit strategies», piuttosto che troppo tardi. Quanto all'inflazione, sempre Eurostat ha pubblicato questa settimana la stima preliminare di novembre, che ha mostrato una crescita su base annua dei prezzi dello 0,6 per cento nell'area euro, contro il meno 0,1 per cento di ottobre. Si tratta del primo incremento annuale dallo scorso maggio. Un ritorno che era atteso dalla Bce, che in precedenza ha riferito di attendersi un andamento sommesso nei mesi a venire. I tassi di interesse sono il principale strumento delle Banche centrali per tentare di contenere l'inflazione e l'obiettivo ufficiale della Bce è di mantenerla inferiore ma prossima al 2 per cento nel medio periodo, circa un anno e mezzo. Finora Trichet ha più volte ripetuto che al livello attuale i tassi di interesse sono "appropriati", termine che viene interpretato dai mercati come un segnale sull'orientamento a non modificarli nel breve termine. La ripresa inflazionistica appare prevalentemente legata ai rincari di energia e alimentari, voci particolarmente volatili nell'indice, inoltre altri indicatori rafforzano le prospettive di debolezza. La scorsa settimana la stessa Bce ha pubblicato i dati di ottobre sugli aggregati monetari - di cui tiene conto nelle sue previsioni sul caro vita - che mostrano una contrazione del credito ai privati, famiglie e imprese, meno 0,8 per cento su base annua. La decisione sui tassi verrà comunicata alle 13 e 45, mentre alle 14 e 30 Trichet terrà la consueta conferenza stampa esplicativa.
BCE - Tassi ed exit strategy (3 dicembre 2009).
Sui tassi di interesse dell'area euro è attesa una conferma al minimo storico dell'1 per cento, ma la Banca centrale europea potrebbe iniziare una progressiva rimozione di alcune delle misure che nei mesi scorsi ha approntato per aiutare l'economia, che prevalentemente fanno leva sulla liquidità, mentre nell'Unione monetaria si è appena riaffacciata l'inflazione. La cautela è d'obbligo, sia per la perdurante fragilità dei mercati appena evidenziata dall'effetto che hanno avuto le difficoltà sui debiti di Dubai World; sia per la situazione dell'economia reale. La disoccupazione si consolida ai massimi storici, al 9,8 per cento a ottobre nell'area, valore, secondo i dati Eurostat, che equivale a tre milioni di disoccupati in più rispetto a un anno fa. Per fronteggiare la crisi, nei mesi scorsi la Bce ha assicurato al sistema creditizio abbondante liquidità a condizioni molto più favorevoli del normale. Ma nelle ultime settimane diversi esponenti dell'istituzione di Francoforte hanno espresso la preoccupazione che continuare troppo a lungo potrebbe favorire l'insorgere di nuove destabilizzazioni o crisi. Per questo già il mese scorso Trichet aveva avvertito che a dicembre si sarebbe deciso se iniziare una progressiva rimozione. In questo modo la Bce si distinguerebbe rispetto a coloro, come vari governi ma anche il Fondo monetario internazionale, che invece sostengono che è più rischioso muoversi troppo presto sulle «exit strategies», piuttosto che troppo tardi. Quanto all'inflazione, sempre Eurostat ha pubblicato questa settimana la stima preliminare di novembre, che ha mostrato una crescita su base annua dei prezzi dello 0,6 per cento nell'area euro, contro il meno 0,1 per cento di ottobre. Si tratta del primo incremento annuale dallo scorso maggio. Un ritorno che era atteso dalla Bce, che in precedenza ha riferito di attendersi un andamento sommesso nei mesi a venire. I tassi di interesse sono il principale strumento delle Banche centrali per tentare di contenere l'inflazione e l'obiettivo ufficiale della Bce è di mantenerla inferiore ma prossima al 2 per cento nel medio periodo, circa un anno e mezzo. Finora Trichet ha più volte ripetuto che al livello attuale i tassi di interesse sono "appropriati", termine che viene interpretato dai mercati come un segnale sull'orientamento a non modificarli nel breve termine. La ripresa inflazionistica appare prevalentemente legata ai rincari di energia e alimentari, voci particolarmente volatili nell'indice, inoltre altri indicatori rafforzano le prospettive di debolezza. La scorsa settimana la stessa Bce ha pubblicato i dati di ottobre sugli aggregati monetari - di cui tiene conto nelle sue previsioni sul caro vita - che mostrano una contrazione del credito ai privati, famiglie e imprese, meno 0,8 per cento su base annua.
Rapporto Censis (4 dicembre 2009).
In Italia, 3 famiglie su 10 hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Sono, esattamente, il 28,5%, con un picco al Sud, dove arrivano a quota 36,5 per cento. Ormai, stringere la cinta non basta più: il 41%, per andare avanti, usa i risparmi accumulati, il 22%, la carta di credito, per rinviare i pagamenti al mese successivo e, ancora, in un caso su 4, si tenta, pure, la strada del lavoretto saltuario, per arrotondare. Ma la situazione è tutt'altro che rosea, visto che la crisi non ha risparmiato, neppure, le aziende: nel solo terziario, nel 2009, hanno chiuso i battenti ben 162 mila imprese. Nel Mezzogiorno, sono stati bruciati qualcosa come 271 mila posti di lavoro (-4,1%) e l'industria e il turismo hanno perso il loro ruolo di "posto rifugio". Non esita a parlare di "vita in apnea", il direttore generale del Censis, Giuseppe Roma, nel corso della presentazione, nella sede del Cnel, a Roma, dell'annuale rapporto sulle condizioni sociali ed economiche del paese. Interi settori produttivi in profondo rosso. È un'Italia in chiaro-scuro, quella fotografata dalla ricerca, con un mercato del lavoro che regge, ma penalizza, soprattutto, le fasce più deboli, un debito pubblico alle stelle, che paralizza le scelte di politica economica, mentre interi settori produttivi entrano in profondo rosso. La crisi, però, non frena il boom di internet e, soprattutto, dei servizi telefonici, cresciuti del 214%, con una spesa, nel 2008, di circa 22,7 miliardi di euro. Ma, al tempo stesso, rende tutti più nervosi: aumenta la micro-conflittualità nei condomini (specie per futili motivi, come utilizzo di parti comuni e rumori molesti) e il numero di violenze familiari, dai 97 omicidi in famiglia, del 1992, si è passati ai 192, del 2006, + 98 per cento. Persi 378 mila posti di lavoro, soprattutto al Sud. Complessivamente, anche, il Censis, confermando i dati di altre recenti ricerche nazionali e internazionali, evidenzia una sostanziale tenuta del nostro mercato del lavoro. A metà 2009, si sono persi 378 mila posti di lavoro (-1,6%, rispetto allo stesso periodo 2008), di cui 271 mila al Sud. Abbiamo fatto meglio della Spagna (1 milione 480 mila occupati in meno, -7,2%) e della Gran Bretagna (600 mila, -2%), ma perdiamo terreno rispetto a Francia (-0,3%) e Germania (+0,5 per cento). Tuttavia, la crisi ha toccato il settore lavoro, lasciando alcuni segni preoccupanti. Il primo, è che si sono colpite, specialmente, le diverse forme di lavoro a termine (-229 mila lavoratori, -9,4%), le collaborazioni a progetto (-12,1%) e quelle occasionali (-19,9 per cento). Mentre il popolo delle partite Iva è aumentato, a causa della sostituzione dei contratti flessibili con formule, ancora, più esternalizzate e a basso costo, raggiungendo quasi quota un milione (+132 mila, +16,3 per cento). Lavoro sempre più precario per i giovani. La difficile situazione lavorativa pesa, poi, soprattutto sui ragazzi. Tre i dati più significativi. Intanto, deve far rifletter come il 45,4% di chi ha perso il lavoro nell'ultimo anno abbia meno di 34 anni. Praticamente uno su 2. E preoccupano, anche, le aspettative retributive dei giovani "colletti bianchi" (il Censis intervista quelli laureati in economia e in ingegneria), che risultano essere di gran lunga minori di quelle dei loro colleghi europei. Nel 2009 il primo stipendio annuo atteso è inferiore rispettivamente del 20,2% e del 21,4% di quello medio europeo. A questo dato si aggiunga, pure, che il 19,3% dei giovani italiani di 18-24 anni non è in possesso di un diploma e non è più in formazione, contro il 12,7% di Francia e Germania, il 13% del Regno Unito, il 14,8% medio europeo. L'Isfol, recentemente, li ha definiti "ragazzi fantasma", cioè, ad altissimo rischio di dispersione e di finire a ingrossare le già robuste fila del lavoro nero e clandestino. La difficile congiuntura economica, prosegue il Censis, si è abbattuta, anche, sul mondo delle imprese. A preoccupare è, in primo luogo, la grave flessione delle esportazioni del manifatturiero (-24% nei primi 8 mesi dell'anno), che ha portato, tra gennaio e settembre, a far chiudere i battenti a oltre 30 mila imprese (quasi l'1 per cento). Ma è il commercio al dettaglio il settore più colpito, con più di 50 mila aziende cessate. Anche l'intero comparto del terziario è entrato in una fase di profonda riorganizzazione, con un saldo fortemente negativo tra iscrizioni e cancellazioni di imprese: -162mila. I segmenti più in difficoltà sono: trasporti e magazzinaggio, (-29,1 per mille imprese attive), immobiliare (-16,9), attività finanziarie e assicurative (-12,5), servizi di informazione e comunicazione (-8,5), servizi legati al turismo (-6,5). Sfogliando le circa 700 pagine del rapporto del Censis, emergono, anche, altri dati piuttosto interessanti. Come, per esempio, quello sul peso del sommerso in Italia, che viene stimato intorno al 19% del Pil. Con la crisi, sottolinea lo studio, tale quota potrebbe essere aumentata, raggiungendo un valore di 275 miliardi di euro. Cresce, poi, la spesa pensionistica e sanitaria (intorno, rispettivamente, a 250 miliardi e a 120 miliardi di euro) e gli interessi sul debito (poco meno di 100 miliardi di euro, nel 2013). Ma diminuiscono le spese in conto capitale (non supereranno i 60 miliardi di euro). E per ripartire, la ricetta degli italiani è molto semplice: bisogna aiutare soprattutto le famiglie con figli (49,7% di risposte) e i giovani (48,8%), piuttosto che gli anziani (21,8 per cento). Oltre il 33% del campione, poi, ritiene importante aiutare la piccola impresa, meno del 5% richiama la necessità di supportare le grandi aziende. Il 57,7% delle famiglie del ceto medio ritiene, anche, indispensabile ridurre le tasse sui lavoratori dipendenti, il 42,3% è convinto, invece, che solo la riduzione di imposte e oneri gravanti sulle imprese (ad esempio, la progressiva abolizione dell'Irap) favorirà la ripartenza, che, quasi tutti, concordano: «inizierà nel 2010».
Terapia intenmsiva per la Grecia (9 dicembre 2009).
La Grecia si trova "nel reparto di cure intensive" e la crisi finanziaria ne minaccia "la sovranità" per la prima volta dal 1974, quando il Paese tornò alla democrazia dopo la dittatura dei colonnelli. Lo ha detto il premier Giorgio Papandreou, assicurando però che il suo governo è pronto a fare "tutto il necessario" per riacquistare credibilità e fermare la crisi. Papandreou, parlando in occasione di una riunione di gabinetto per esaminare l'emergenza finanziaria, ha ribadito che il suo governo "è deciso a fare tutto quello che è necessario" per "porre sotto controllo l'enorme deficit, consolidare le finanze pubbliche e promuovere lo sviluppo". A tal fine il governo greco presenterà "nei prossimi giorni" ai partner europei il programma di risanamento dell'economia che sarà depositato a gennaio alla Commissione europea nel quadro del patto di stabilità e di crescita. Papandreou ha ricordato di "aver già presentato un progetto di bilancio che è un primissimo passo per la ripresa dell'economia e la riduzione drastica del debito lasciato dal governo precedente". Inoltre, il premier greco ha riconosciuto che "il peggioramento del giudizio da parte delle agenzie di rating renderà difficile la politica del governo" greco, prevedendo che il Paese da lui guidato "conoscerà delle turbolenze sui mercati nei prossimi mesi". Fitch, infatti, ha tagliato il rating sul debito pubblico della Grecia portandolo a BBB+ con outlook 'negative', ed è la prima volta da dieci anni a questa parte che il debito greco scende sotto il grado 'A'.
Panasonic acquista Sanyo (10 dicembre 2009).
Panasonic mette la sua bandierina su Sanyo, numero uno mondiale della batterie ricaricabili, e si prepara a dare vita a un colosso mondiale dell'elettronica, capace di sfidare l'attuale leader, la coreana Samsung. La società giapponese, al termine dell'Opa lanciata per trasformare la più piccola rivale in una sussidiaria, ha comunicato di aver raccolto adesioni pari al 50,19% del capitale. Dopo mesi e mesi di indiscrezioni e trattative riservate Panasonic l'ha spuntata. E non è cosa da poco. Questa acquisizione è un affare da 403,8 miliardi di yen ossia di circa 3 miliardi di euro che proietta il gruppo nipponico in vetta al ranking mondiale del settore delle batterie per le auto ibride, un mercato in forte ascesa. I tre principali soci di Sanyo avevano già disposto di mettere le loro quote nell'intesa, consentendo a Panasonic di avere la maggioranza delle azioni della società. E anche la Federal Trade Commission aveva dato la sua benedizione lo scorso 25 novembre al piano di Panasonic Corp di acquisire Sanyo Electric Co., eliminando così l'ultimo ostacolo al fatto che Sanyo diventasse una sussidiaria Panasonic. Entrando nel dettaglio le due società giapponesi hanno concordato di vendere parte delle attività di produzione e vendita di batterie all'idruro di nickel a FDK Corp, sussidiaria di Fujitsu Ltd. Una decisione che azzera i problemi di concorrenza che erano stati evidenziati in un primo tempo.
Al via il vertice dei 27 capi di Stato e di Governo dell'Unione (10 dicembre 2009).
Clima e Grecia sono al centro dell'attenzione dell'ultimo vertice 2009 dei 27 capi di Stato e di Governo dell'Unione, che sta cominciando nei saloni del palazzo Justus Lipsius a Bruxelles ed e' anche il primo dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. I leader europei dovranno fissare la cifra del loro impegno finanziario a sostegno degli sforzi dei paesi emergenti per diminuire il riscaldamento globale; inoltre, dovranno trovare una linea comune con la quale presentarsi a Copenhagen dove e' in corso la conferenza Onu sul clima. Proprio al momento dell'ingresso delle delegazioni, un gruppo di attivisti di Greenpeace e' riuscito ad arrivare fino all'ingresso principale del palazzo del Consiglio europeo mostrando cartelli con la scritta "Eu: save Copenhagen". Quanto alla Grecia, il rischio che il suo elevato debito pubblico possa influenzare anche gli altri paesi dell'area euro, impegnati in una difficile fase di recupero dopo la crisi globale, verra' affrontato dai 27, anche se il presidente di turno Fredrik Reinfeldt ha gia' dichiarato che la Grecia deve affrontare i suoi problemi finanziari "con decisioni interne". Ma secondo la cancelliera tedesca Angela Merkel, gli Stati dell'Unione discuteranno su come mantenere stabile l'euro, "una preoccupazione per tutti noi", ha detto al suo arrivo a Bruxelles. Il vertice di oggi e domani sara' anche l'occasione per il "debutto" fra i leader del primo presidente permanente del Consiglio, Herman Van Rompuy, che entrera' in funzione ufficialmente dal primo gennaio prossimo, quando la presidenza di turno passera' invece agli spagnoli.
Sale il debito pubblico (14 dicembre 2009).
Ancora in aumento il debito pubblico italiano e la disoccupazione nell'Unione europea. I due dati arrivano rispettivamente da Bankitalia e da Eurostat. A ottobre il debito pubblico si è attestato a 1.801,6 miliardi di euro contro i 1.786,8 miliardi di settembre. Secondo i dati di Bankitalia diffusi nel Supplemento al bollettino statistico - Finanza pubblica, fabbisogno e debito, la tendenza al rialzo del debito va avanti da dicembre 2008: in un mese, tra settembre e ottobre, è cresciuto di 15 miliardi. Da Bruxelles arrivano intanto dati preoccupanti sull'occupazione: sono oltre un milione i posti di lavoro persi in Europa nel terzo trimestre 2009 rispetto al trimestre precedente, di cui 712 mila nella zona euro. Secondo i dati Eurostat in Italia il calo dell'occupazione da luglio a settembre è stato dello 0,5 per cento, in linea con la media Ue. Un po' meglio è andata in Francia (-0,2 per cento) e in Germania (-0,1 per cento). Decisamente peggio in Spagna (-1,5 per cento). Da luglio a settembre "tutti i settori dell'economia hanno fatto registrare una diminuzione dell'occupazione" sottolinea Eurostat, spiegando come l'unica eccezione sia rappresentata da alcune attività nel settore dei servizi, principalmente nell'amministrazione pubblica, nella sanità e nell'istruzione (+0,3 per cento). Nelle costruzioni il calo dei posti di lavoro è stato del 2 per cento nella zona euro e dell'1,9 per cento nell'Ue-27; nell'industria manifatturiera dell'1,7 per cento e dell'1,6 per cento; nell'agricoltura dell'1,1 per cento e dello 0,4 per cento; nel settore finanziario dello 0,5 per cento e dello 0,4 per cento; nel commercio, trasporti e comunicazioni dello 0,1 per cento e dello 0,2 per cento. Altro dato comunicato da Bankitalia riguarda invece le entrate tributarie che a ottobre, per la prima volta, tornano a salire rispetto al mese precedente: 28,4 miliardi di euro rispetto ai 20,1 di settembre e comunque sempre in ribasso rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Le entrate del mese di ottobre sono in calo del 2,9 per cento rispetto ai 29,3 miliardi dello stesso mese del 2008. Nei primi 10 mesi il dato complessivo è di 299,55 miliardi in flessione del 3,2 per cento rispetto ai primi dieci mesi dello scorso anno.
La crisi pesa sulle famiglie (16 dicembre 2009).
La crisi si fa sentire sulle famiglie italiane: negli ultimi due anni la ricchezza media è diminuita dell'1,9% (161 miliardi di euro), ed è diventata anche sempre più concentrata: il 10% più ricco ne detiene il 44%, mentre la metà più povera arriva appena al 10%. E' quanto rileva Bankitalia nel supplemento al bollettino statistico. La casa continua ancora a rappresentare la principale fonte di ricchezza per circa il 50%. Cambia la forma di risparmio: più depositi postali o bancari e meno azioni. Dal 2007 alla fine del 2008 la ricchezza delle famiglie è calata, dunque dell'1,9% a 8.284 miliardi di euro. A pesare è stata soprattutto la riduzione delle attività finanziarie, per "effetto della forte contrazione dei corsi azionari", calate dell'8,2% e l'aumento delle passività cresciute del 3%. A prezzi costanti lo scorso anno il calo è stato del 5% con -433 miliardi. Secondo il quadro tracciato dalla Banca d'Italia nel 2008 la ricchezza netta delle famiglie italiane, cioè la somma di attività reali (abitazioni, terreni) e attività finanziarie (depositi, titoli, azioni), al netto delle passività finanziarie (mutui, prestiti personali), risultava pari a circa 8.284 miliardi di euro. La ricchezza netta per famiglia tra il 2007 e il 2008 è scesa del 3,5% a prezzi correnti. A prezzi costanti il valore della ricchezza netta per famiglia si è ridotto del 6,5%, tornando sui livelli di inizio decennio. La casa continua a rappresentare la principale fonte di ricchezza delle famiglie italiane con un valore nel 2008 di 4.700 miliardi di euro a fronte di quasi 8.300 miliardi di ricchezza complessiva. I tecnici di Palazzo Koch sottolineano che alla fine del 2008 le attività reali rappresentavano circa il 69% della ricchezza netta (5.715 miliardi), le attività finanziarie circa il 41% (3.374 miliardi) e le passività finanziarie circa il 10% (805 miliardi). "Rispetto ai precedenti anni", si legge nel documento di via Nazionale, "la quota di ricchezza netta in attività reali è cresciuta, mentre quella detenuta in attività finanziarie ha subìto una riduzione. La crescita della quota in passività finanziarie è stata lenta ma costante", sebbene il livello resti ancora piuttosto basso nel confronto internazionale. Per quanto riguarda le attività reali, quasi l'82% del valore risulta in abitazioni, 6% fabbricati non residenziali, poco più del 6% impianti e macchinari, terreni 4% e oggetti di valore 2%. L'ammontare di passività delle famiglie italiane è infatti pari al 74% contro il 100% di Germania e Francia, il 130% degli Stati Uniti, il 140% del Canada e il 180% del Regno Unito.
Sale la disoccupazione (17 dicembre 2009).
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto a ottobre l'8,2%: si tratta del dato peggiore da aprile 2004. Lo rileva l'Istat, che ha corretto al rialzo il dato diffuso nelle scorse settimane (8%). Il numero di disoccupati nel mese è salito a 2.039.000. Nel terzo trimestre 2009 l'occupazione è diminuita di 508.000 unità rispetto allo stesso periodo del 2008 (-2,2%), mentre è calata di 120.000 rispetto al secondo trimestre del 2009. L'Istat precisa che è il calo peggiore dal '92, anno di inizio delle serie storiche, e che 386.000 posti sono stati persi nell'industria. Cala ovviamente il tasso di occupazione dal 59% al 57,5%. Si tratta del «quinto consecutivo arretramento tendenziale». L'Istat rileva un'ulteriore caduta dell'occupazione autonoma, dei dipendenti a termine e dei collaboratori, cui si aggiunge una significativa flessione dei dipendenti a tempo indeterminato. Anche la Confindustria lancia l'allarme lavoro. «Sono stati bruciati 470 mila posti di lavoro - si legge nel rapporto del Centro Studi - mentre altri 195 mila sono a rischio». Quella che si profila per i prossimi anni, afferma Confindustria, rimane una ripresa «lenta e faticosa, in salita e ostacolata da venti contrari». Secondo le previsioni, l'Italia registrerà nel 2010 un Pil del 1,1% che si rafforzerà nel 2011 con un 1,3% riportando il Pil ai livelli del 2005. «La ripresa - dicono gli economisti di Viale dell'Astronomia - sarà sospinta da politiche economiche di straordinaria portata espansiva, tali da aver rinsaldato la fiducia di famiglie, imprese e mercati finanziari. I quali restano però esposti a turbolenze, come dimostrano le vicende di Dubai e della Grecia». «Il recupero del Pil perduto avverrà con tempistiche diverse tra diversi paesi. Tenuto conto dei tassi di crescita potenziali, all’Italia saranno necessari quattro anni, per tornare ai livelli pre-crisi dopo una perdita che nel biennio di recessione ha riportato l’economia italiana indietro di quasi otto anni». Dalle rilevazioni del Csc emerge che «sono lunghi anche i tempi di recupero per Giappone (tre anni e nove mesi) e Spagna (tre anni e mezzo). La Germania impiegherà due anni e mezzo mentre la Francia già nella seconda metà del 2011 avrà pienamente compensato le perdite accumulate. Gli Stati Uniti saranno i più rapidi: solo un anno».
Copenhagen, incontro Usa, Cina (18 dicembre 2009).
I due paesi che hanno in mano la maggior parte dei destini del mondo si sono incontrati: Obama ha avuto un lungo faccia a faccia con il premier cinese Wen Jiabao a margine della conferenza sul clima a Copenaghen. «È stata una discussione costruttiva su tutte le questioni chiave» ha spiegato una fonte della delegazione di Obama, e si tratta di un «passo avanti» verso il raggiungimento di un accordo. Obama e Wen proseguiranno i negoziati con una serie di «incontri bilaterali con gli altri Paesi per vedere se si riesce ad arrivare a un'intesa», ha aggiunto la fonte. «Il mondo accetti anche un'intesa non perfetta. L'America è pronta a prendersi le sue responsabilità in quanto leader. Non sareste qui se non foste convinti che il pericolo è reale. Il cambiamento climatico non è fantascienza, ma è scienza, è reale»». Si era espresso così Barack Obama davanti al plenum del vertice Onu, prima di incontrare il premier cinese. «Siamo qui non per parlare ma per agire» ha poi detto ancora Obma, ma la verità è che la possibilità di un accordo sul clima resta al momento ancora lontana, se non avverrà qualche fatto nuovo. Obama non ha però fatto nuovi annunci su impegni ulteriori degli Usa. Sulla riduzione di C02, ha detto di sperare che gli Usa saranno in grado di ridurre le loro emissioni di gas ad effetto serra del 17% entro il 2020 rispetto al 2005, così come previsto dalla legislazione pendente davanti al Congresso. Passi avanti sono comunque stati fatti rispetto agli ultimi giorni. Nel giorno conclusivo del vertice sul clima, dopo una discussione durata per gran parte della notte a Copenaghen è pronta una bozza d'intesa da sottoporre all'esame dei «grandi» del mondo: l'aumento della temperatura globale del pianeta dovrà essere tenuto entro i 2 gradi centigradi sui livelli pre-industriali e i Paesi poveri saranno finanziati con un fondo che raggiungerà i 100 miliardi di dollari l'anno entro il 2020 per adottare tecnologie «pulite» e affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Queste le linee-guida anticipate da due fonti che hanno partecipato ai negoziati. Tuttavia la resistenza della Cina e dell'India a un'intesa rimane forte e per questo c'è grande attesa per quanto sarà in grado di fare il presidente degli Stati Uniti Barack Obama giunto oggi a Copenaghen, per superare le ultime difficoltà, se la cosa sarà possibile. La bozza, presentata dalla presidenza danese che ospita il summit, è stata già sottoposta all'esame degli esperti di clima di 26 Paesi diversi, i più influenti, e sarà oggi esaminata dagli oltre 100 capi di Stato e di governo che sono già arrivati o che stanno sbarcando a Copenaghen. Il testo messo a punto dagli «sherpa» e che ovviamente potrebbe ancora subire cambiamenti, allo stato non cita però obiettivi per i tagli delle emissioni dei Paesi industrializzati. Si è lavorato fino a notte fonda per limare il documento. «Abbiamo tentato di dare un ombrello politico all'accordo», ha detto il premier svedese, Fredrik Reinfeldt, che detiene la presidente di turno dell'Ue. «C'è stato un dialogo molto costruttivo», gil ha fatto eco il premier danese e presidente della conferenza Onu, Lars Loekke Rasmussen. La bozza, come detto, prevede un pacchetto di aiuti ai Paesi più vulnerabili, che parte da 10 miliardi di dollari all'anno tra il 2010 e il 2012, passa a 50 miliardi di dollari annualmente fino al 2015 e 100 miliardi entro il 2020; e propone una serie di meccanismi di raccolta del denaro. I tagli alle emissioni dovranno invece essere tali da non far superare l'aumento di due gradi Celsius (le piccole isole che rischiano di essere sommerse dall'innalzamento del livello dei mari causati dallo scioglimento dei ghiacci avevano chiesto un limite massimo di 1,5 gradi). Le prossime ore saranno decisive per le trattative sul nodo centrale, il taglio alle emissioni. I leader di 26 Paesi ricchi e in via di sviluppo si sono già incontrati nelle primissime ore del giorno per tentare di superare le profonde divisioni; e si incontreranno di nuovo. Trattative febbrili dunque, soprattutto per convincere Cina e India, al primo e al quarto posto nella lista dei Paesi più inquinanti: i due giganti asiatici si sono detti finora disponibili a misure volontarie per rallentare le emissioni di CO2, ma sono riluttanti a consentire ispezioni dall'esterno che verifichino il rispetto degli impegni. La svolta che ha ridato fiato al negoziato è comunque ancora una volta «made in Usa» anche se gli europei hanno spinto al massimo per un risultato più incisivo. Obama si è fatto precedere a sorpresa dal segretario di Stato Hillary Clinton che giovedì ha sparso a piene mani fiducia accompagnando le dichiarazioni di buona volontà con una apertura forte: gli Stati Uniti accettano di partecipare al fondo di aiuti per i Paesi in via di sviluppo per 100 miliardi di dollari entro il 2020. Resta in piedi l'incognita Cina che giovedì ha mostrato un eccesso di tattica: prima ha gettato nel panico i negoziatori delle Nazioni Unite facendo sapere che un accordo era «impossibile»; quindi, attraverso una dichiarazione del premier cinese Wen Jiabao, ha chiesto un «accordo equilibrato, giusto e ragionevole». Intanto oggi, forse non a caso, è trapelato uno studio choc delle Nazioni Unite che dice a chiare lettere che se si firmasse un accordo alle condizioni attuali il Pianeta rimarrebbe a rischio catastrofe. Secondo questo documento confidenziale, le offerte di riduzione delle emissioni di Co2 sul tavolo dei negoziati, porterebbero ad un aumento medio delle temperature mondiali di tre gradi rispetto all'obiettivo dei 2 gradi. E sarebbe una catastrofe per il pianeta.
Draghi, riformare gli ammorzizzatori sociali (18 dicembre 2009).
Il sistema italiano degli ammortizzatori sociali deve essere rivisto, dal momento che "circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti non avrebbero copertura in caso di interruzione del rapporto di lavoro". A sostenerlo, ottenendo il convinto plauso dei sindacati, è il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, che stamane ha tenuto una lectio magistralis in occasione della laurea honoris causa ricevuta dalla facoltà di Statistica dell'Università di Padova. L'intervento di Draghi è stata un'ampia panoramica dello stato attuale dell'economia, partendo dall'Italia. Il governatore ha ricordato che nel terzo trimestre il Pil è salito dello 0,6%, interrompendo una sequenza di cinque cali consecutivi, e che la ripresa è stata guidata dal recupero delle esportazione, il primo dopo cinque trimestri di calo. Anche i consumi hanno registrato un lieve incremento, +0,4% grazie soprattutto al sostegno pubblico per l'acquisto di beni durevoli, mentre gli investimenti sono aumentati dello 0,3% dopo sei trimestri. Il recupero, ha analizzato Draghi, prosegue adesso nel quarto trimestre, sia pure a un ritmo più contenuto: la crescita acquisita (che si avrebbe cioè se nei prossimi trimestri si registrasse crescita zero) per il prossimo anno è dello 0,4%. Ma la ripresa globale, ha osservato il governatore, è largamente debitrice del sostegno pubblico. Riferendosi poi alla laurea in statistica ricevuta, Draghi ha sottolineato l'importanza del ruolo della statistica pubblica, che non deve essere contrapposta a sondaggi d'opinione o a superficiali ricerche di mercato: "La statistica è essenziale per la politica economica: rivelando la realtà scuote le persone dall'ignoranza, comoda per giustificare l'inerzia dei loro comportamenti, prepara e informa il consenso politico necessario per l'azione conseguente, a cui dà il sostegno essenziale per misurarne l'intensità e la precisione. Perciò la discussione della politica economica deve ancorarsi a informazioni quantitative da tutti ritenute affidabili, più che a sondaggi spesso espressione di un'opinione pubblica largamente disinformata". Per questo, ha detto Draghi, l'indipendenza della statistica è "essenziale e va tutelata in ogni suo aspetto". Approfondendo i temi della politica economica italiana, Draghi ha ricordato l'importanza del sostegno al mondo del lavoro: "Circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti non avrebbero copertura in caso di interruzione del rapporto di lavoro. A questi si affiancano 450mila lavoratori parasubordinati che non godono di alcun sussidio o che non hanno i requisiti per accedere ai benefici introdotti dai provvedimenti del governo". Da qui la necessità di una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, che porterebbe "benefici per l'efficienza produttiva, la tutela dei lavoratori, l'equità sociale. Essa è oggi il prerequisito per un'estensione della flessibilità del mercato del lavoro a tutti i suoi comparti".
Raggiunto l'accordo sul clima (19 dicembre 2009).
Alla fine anche i Paesi in via di sviluppo hanno ceduto e «hanno preso nota» poco dopo le 10,30 di sabato 19 dicembre dell'Accordo di Copenaghen, la cui intesa (senza valore vincolante) era stata raggiunta venerdì sera dal presidente americano Barack Obama e sottoscritta dal premier cinese Wen Jiabao, dal primo ministro indiano Manmohan Singh e dal presidente sudafricano Jacob Zuma. Nella dichiarazione finale saranno elencate le nazioni a favore dell'Accordo e quelle contrarie. «L'accordo è stato siglato, si tratta di una prima tappa essenziale. La tempestica non è chiara, ma faremo di tutto perché l'accordo diventi legalmente vincolante entro il 2010», ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. L’accordo, un documento di appena tre pagine, fissa come obiettivo il limite di riscaldamento del pianeta a 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Prevede anche aiuti di 30 miliardi di dollari su tre anni (rispetto ai 10 inizialmente previsti) per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici, e una successiva crescita degli aiuti fino a 100 miliardi di dollari entro il 2020. Il fatto di «prendere nota» dell’accordo «dà uno statuto giuridico sufficiente per rendere l’accordo operativo senza avere bisogno dell’approvazione delle parti», ha spiegato Alden Mayer, un esperto e direttore della Union of concerned scientists. Il Terzo mondo ha ceduto anche perché, senza un accordo all'unanimità come previsto in casi simili dalle Nazioni Unite (e questo, come hanno fatto notare in molti, tra i quali il presidente francese Nicolas Sarzoky, è un grande limite perché è oggettivamente arduo mettere d'accordo gli interessi di 193 nazioni diverse), non avrebbero potuto essere attivati nemmeno i fondi compensativi. Durante la notte si era registrata la ferma opposizione del piccolo arcipelago nel Pacifico di Tuvalu (il primo Paese che ha già avuto «rifugiati climatici») e poi da una raffica di interventi contrari di nazioni latinoamericane: Venezuela, Bolivia, Cuba, Nicaragua e Costarica. Poco dopo le 3 di notte è arrivato il no di Jan Fry, il rappresentante di Tuvalu che già nei giorni scorsi si era distinto per aver descritto in lacrime la minaccia climatica che pesa sul suo Paese. «Avete messo trenta denari sul tavolo per farci tradire il nostro popolo, ma il nostro popolo non è in vendita», ha detto Fry. Sono seguite decine di interventi, con molte critiche per i metodi seguiti dalla presidenza danese e dal gruppo dei leader di 25-30 nazioni che ha cercato di far uscire il negoziato dalla situazione di stallo. Molto virulento, e poi molto criticato, è stato l’intervento del rappresentante del Sudan e del G77, che ha paragonato il tentativo di imporre l’accordo all’Olocausto, dicendo che condannerebbe il popolo dell’Africa all’incenerimento. L’intesa fra Usa, Cina, India e Sudafrica, dopo un lungo momento d’incertezza a tarda sera era stata sottoscritta a malincuore anche dall’Ue, che non aveva partecipato all’incontro quadrilaterale promosso da Obama. L'Ue aveva valutato criticamente il testo scaturitone. Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, durante una conferenza stampa convocata alle 2 di notte con il presidente di turno dell’Ue e primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt, ha sostanzialmente spiegato come a quel punto sembrasse essere ormai l’unico accordo possibile, pur riconoscendo che restava al di sotto delle attese e delle ambizioni di Bruxelles. La presidenza dalla conferenza del premier danese Lars Loekke Rasmussen, nonostante le critiche iniziali, è stata poi difesa da molti altri interventi. Si discute ancora se retrocedere la proposta di accordo a un documento informativo, o se approvarlo mettendo una nota a piè di pagina con la menzione dei Paesi contrari.
Lavoro e retribuziomi (21 dicembre 2009).
Le retribuzioni contrattuali orarie a novembre sono rimaste invariate rispetto a ottobre, mentre hanno sono aumentate del 3,1% sul 2008. Lo comunica l'Istat, sottolineando che i contratti in vigore riguardano l'89% degli occupati dipendenti. Anche nel periodo gennaio-novembre, l'aumento in confronto al corrispondente periodo del 2008 è stato del 3,1%. Nei primi nove mesi dell'anno il numero delle ore perse per sciopero e' stato di 1,3 milioni, -63,2% sul corrispondente periodo del 2008.
Il piano della FIAT (23 dicembre 2009).
La giornata di Sergio Marchionne a Palazzo Chigi con i sindacati della Fiat, è stata cruciale. Un pomeriggio di quelli che si faranno ricordare. E che fanno discutere. Intanto gli annunci di carattere operativo: la Fiat crescerà. L'impegno sottoscritto con gli Stati Uniti, i mercati che si allargano ma solo ai grandi Gruppi, imporranno al Lingotto un massiccio piano di investimenti: 8 miliardi di euro, che saranno spalmati nei prossimi due anni. Per arrivarci, tuttavia, occorrerà anche rivedere l'assetto del Gruppo più grande d'Italia. Trasferimenti di produzione, lancio di nuovi modelli, uno sforzo produttivo e gestionale per uscire dalla fase degli incentivi senza rischiare cali nelle vendite. Ed ecco la notizia della chiusura di Termini Imerese, prevista per il Dicembre 2011. Questi sono i dettagli del piano che Sergio Marchionne ha presentato a Roma. Mirafiori: al via la riorganizzazione Confermata la produzione di Fiat Idea, Lancia Musa e Alfa MiTo. Annunciata la fine produzione della Punto (peraltro ancora presente nelle linee di montaggio negli stabilimenti serbi della Zastava che la Fiat, l'altro ieri, ha acquisito al 67%). In arrivo, fra due anni, la Lo, una monovolume prevista in due versioni: a 5 e a 7 posti: una Multipla di nuova generazione. Annunciato anche l'arrivo della nuova serie di Doblò, Panda (che sarà prodotta a Pomigliano d'Arco) e Ypsilon. La Giulietta sarà realizzata a Cassino. Nuovo corso per Mirafiori. Lo stabilimento più importante del Gruppo sarà rivisto nei suoi reparti: si annuncia una linea di produzione tutta nuova, per realizzare nello stesso tempo modelli diversi. Anche il Reparto lastratura sarà rivisto, per "Ottimizzarne la flessibilità, migliorare l'utilizzo della manodopera, ridurre i tempi di formazione e le operazioni di lavoro per ogni persona. Si tratta di interventi che muteranno in maniera radicale lo stabilimento di Mirafiori", anticipa Marchionne. Cosa succederà alla Bertone All'appello mancava solo il riferimento alla storica Carrozzeria. Sarà negli impianti Bertone che, dal 2011, saranno prodotti due modelli Chrysler alto di gamma. L'obbiettivo è di realizzarne 50.000 all'anno. Riconversione per Termini Imerese Marchionne ha motivato questo provvedimento in termini economici: "Lo stabilimento è in perdita e in questo momento, la Fiat non può permettersi di mantenere un impianto che non garantisca un risultato positivo". E sembra passata in secondo piano la notizia che non tutto sembra perduto: "Sono favorevole a una riconversione degli impianti. Aspetto un cenno da parte della Regione Sicilia e dei privati, per iniziare una discussione". Le delegazioni dei lavoratori di Termini che erano presenti fuori da Palazzo Chigi, però, non ci credono. Non vogliono la chiusura dell'impianto.
Dimezzate le pensioni di anzianità (26 dicembre 2009).
Dimezzate le pensioni di anzianità nel 2009: i trattamenti anticipati rispetto all'età di vecchiaia erogati dall'Inps nei primi 11 mesi dell'anno sono stati 91.925, con un calo del 53% rispetto al 2008 quando furono, nell'intero anno, 196.522. E' quanto emerge dagli ultimi dati Inps, che mostrano un forte calo soprattutto tra le pensioni di anzianità dei lavoratori dipendenti, con 52.132 nuovi assegni a fronte dei 120.626 erogati nell'intero 2008. Un dato che naturalmente viene salutato con particolare soddisfazione dal presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua, che ritiene che quest'anno per le pensioni anticipate rispetto all'età di vecchiaia si starà "sotto quota 100.000", registrando il dato migliore dal 2002. "Mi sembra di poter registrare - ha detto Mastrapasqua - che le riforme hanno funzionato generando un arretramento delle pensioni di anzianità". Secondo il presidente Inps non c'è solo un effetto riforma, ma anche una maggiore disponibilità delle persone a restare al lavoro. "Siamo abbondantemente sopra i 60 anni di età per l'uscita dal lavoro". Sono cresciute invece nei primi 11 mesi dell'anno le pensioni di vecchiaia (65 anni per gli uomini, 60 per le donne), anche se in numero inferiore rispetto alle previsioni. Nei primi 11 mesi di quest'anno i lavoratori privati andati in pensione per limiti di età sono stati 152.546, in aumento del 63,1% rispetto ai 93.512 dell'intero 2008, ma in forte calo rispetto ai 210.940 previsti. Nel 2009 quindi, anche a causa dell'inasprimento dei criteri per la pensione anticipata, si è rimasti al lavoro più a lungo, andando a riposo in media oltre i 60 anni. Nel complesso, tra vecchiaia e anzianità nei primi 11 mesi dell'anno sono uscite 244.471 persone a fronte delle 290.034 dell'intero 2008 (con un -15,7%), un dato in calo anche rispetto alle previsioni (312.190 le uscite attese). Mastropasqua ha anticipato che l'Inps chiuderà il 2009 con almeno 6-7 miliardi di avanzo finanziario. "Riteniamo di chiudere il 2009 con 6-7 miliardi di avanzo finanziario - ha detto - ma il risultato potrebbe essere anche molto superiore". Come Impresa Oggi ha sempre sostenuto, considerando l'allungamento della vita media, i lavoratori preferiscono lasciare il lavoro il più tardi possibile.
Sempre più numerose le famiglie in difficoltà (29 dicembre 2009).
Sono sempre di più le famiglie italiane che vivono gravi difficoltà economiche. Lo rivela l'indagine annuale dell'Istat su "reddito e condizioni di vita", effettuata nell'ultimo trimestre del 2008 su un campione di circa 21.000 nuclei familiari (oltre 52.000 persone). La quota di famiglie che dichiara di arrivare alla fine del mese con molta difficoltà è salita dal 15,4% del 2007 al 17,0%. In aumento anche quelle che non riescono a provvedere regolarmente al pagamento delle bollette (11,9% contro l'8,8% dell'anno precedente) e all'acquisto di abiti necessari (18,2% contro il 16,9%). Statisticamente significativo è pure l'incremento delle famiglie cui è capitato di non avere, in almeno un'occasione, soldi sufficienti per pagare le spese per i trasporti (8,3% contro il 7,3% del 2007) e di quelle che sono in arretrato con il pagamento del mutuo (7,1% di quelle che hanno un mutuo, contro il 5,0%). Risultano sostanzialmente stabili, rispetto al 2007, almeno a livello nazionale, le quote di famiglie che non si possono permettere di riscaldare adeguatamente la propria abitazione (10,9%), così come quelle che hanno risorse insufficienti per gli alimenti (5,7%) e per le spese mediche (11,2%). Quasi un terzo delle famiglie (31,9%) ha poi detto di non essere in grado di far fronte a una spesa imprevista di 750 euro con risorse proprie. Peggiora la situazione nel Mezzogiorno e nelle isole: tra il 2007 e il 2008, infatti, è aumentata in misura significativa la percentuale di famiglie che arriva con molta difficoltà a fine mese (dal 22,0% al 25,6%), al contrario di quanto avviene nel nord e nel centro dove tale quota rimane sostanzialmente stabile (nel 2008 rispettivamente, il 12,6% e il 14,3%). La maggiore frequenza di situazioni di difficoltà economica nelle regioni meridionali e insulari, osserva l'Istat, si rileva in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Tra le regioni del nord e del centro, i maggiori segni di disagio si registrano in Piemonte e nel Lazio. Le difficoltà economiche aumentano se il numero dei membri del nucleo familiare è più alto e risultano particolarmente evidenti per le famiglie con cinque o più componenti. In particolare, a incidere è soprattutto il numero di percettori di reddito presenti in famiglia e il tipo di fonte di reddito disponibile: nel 2008, più di un quinto delle famiglie monoreddito (20,6%) ha dichiarato di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese. La tipologia familiare che meno frequentemente riferisce di sperimentare difficoltà economiche è quella delle coppie senza figli (nel 2008, il 12,3% dichiara di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese). Le famiglie con figli risultano, invece, relativamente più esposte a situazioni di disagio: il 14,1% delle coppie con figli e, tra queste, il 24,3% di quelle con tre o più figli dichiara di essersi trovata in arretrato con il pagamento delle bollette (contro il 7,8% di quelle senza figli); il 32,9% delle famiglie con tre o più minori dichiara di arrivare con molta difficoltà a fine mese, il 42,3% ritiene di non poter affrontare una spesa inattesa di 750 euro e il 14,2% di quelle che hanno un mutuo sono state in arretrato con il pagamento delle rate. Insieme alle coppie con almeno tre figli, si trovano più frequentemente coinvolte in situazioni di difficoltà economica anche le famiglie con un solo genitore e gli anziani soli: il 39% delle prime e oltre il 40,6% delle seconde ritiene di non poter affrontare una spesa inattesa di 750 euro.
Redditi in crescita nel 2008 (31 dicembre 2009).
A leggere l’ultima indagine della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie, diffusa solo un paio di settimane fa, viene fuori la fotografia di un popolo che se la passa abbastanza bene, con una ricchezza netta pro capite nel 2008 di 137.956 euro (347 mila euro quella per famiglia), composta da attività reali (immobili, terreni) e finanziarie (stipendi, pensioni, risparmi, investimenti). A leggere invece i dati delle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche emerge un’immagine diversa, certamente non di ricchezza diffusa e anzi, nel Mezzogiorno, di depressione. L’Agenzia delle entrate guidata da Attilio Befera ha praticamente finito di elaborare la montagna di dichiarazioni presentate nel 2009 sui redditi 2008 (mancano solo 6-700 mila modelli, spiegano i tecnici) e il risultato è il seguente: gli oltre 41 milioni di contribuenti Ire (l’ex Irpef, imposta sui redditi delle persone fisiche) hanno dichiarato un imponibile medio di 19.110 euro, pari a 1.592 euro al mese. Un dato in crescita del 3% rispetto ai 18.540 euro denunciati l’anno precedente (imponibile 2007), che non è poco se si tiene conto che nel 2008 c’era già la recessione e il prodotto interno lordo è diminuito dell’1%. Ma un dato che, come tutte queste medie statistiche, nasconde al proprio interno profonde differenze territoriali. Si va così dalla Lombardia, che si conferma la regione più ricca d’Italia con 22.580 euro di reddito medio, cioè 1.881 euro al mese, alla Calabria, che chiude la classifica con 13.920 euro (1.160 euro al mese). Insomma, tra la regione più ricca e quella più povera c’è uno uno scarto del 62,2%. Del resto, se prendiamo i dati Eurostat sul Pil pro capite in Italia nel 2008, vediamo anche qui che a fronte di una media di 26.300 euro, tra il Centronord con 30.700 euro e il Sud con 17.900 euro, la differenza è addirittura del 71,5%. maggiore rispetto alle medie regionali che tengono conto di tutti i piccoli comuni, il quadro è quello di un Paese a due velocità. In testa troviamo Milano, con 30.930 euro medi, cioè 2.577 euro al mese, che dà effettivamente l’idea di una città con un discreto tenore di vita. All’estremo opposto c’è Catania, in Sicilia, con 18.600 euro di imponibile medio per il 2008, il 66% in meno del capoluogo lombardo. Al secondo posto c’è Roma, con 25.650 euro e appena sotto Bologna con 25.240 euro. La città del Mezzogiorno meglio piazzata è Bari, all’ottavo posto con un imponibile medio denunciato nel 2008 di 21.720 euro. Al Sud aumentano di più i guadagni dichiarati. Analizzando la variazione dei redditi denunciati nel 2009 (imponibile 2008) rispetto a quelli dell’anno prima il dato più interessante che si osserva è quello che viene dal Mezzogiorno. Nelle regioni del Sud c’è stato un aumento dei redditi dichiarati molto superiore alla media nazionale del 3%. In Calabria l’incremento è stato del 6,4%: si è passati infatti dai 13.080 euro del 2007 ai 13.920 del 2008. In Molise l’aumento è stato del 5,1%, in Campania del 5%, in Sicilia del 4,8%, in Sardegna del 4,5% e cosi via. Al Nord le variazioni sono state molto più contenute. In Lombardia, per esempio, la media dell’imponibile 2008 è superiore del 2% a quella del 2007, in Piemonte dell’1,9%, in Veneto dell’1,5%, in Emilia Romagna dell’1,7%. La stessa tendenza risulta dalle dichiarazioni riferite alle grandi città. Così a Bari i redditi denunciati sono aumentati del 7,9%, a Catania del 5% mentre a Torino dell’1,9% e a Milano del 3,6%. Trend che appaiono difficilmente spiegabili con l’andamento dell’economia, visto che nel 2008 la recessione è stata più forte nel Sud, con un calo del prodotto interno lordo dell’1,5%, contro un meno 0,8% del Nord. È probabile quindi, suggeriscono gli esperti, che il maggior aumento dell’imponibile nel Mezzogiorno sia dovuto al fatto che i lavoratori autonomi in particolare (per i dipendenti non ci sono grandi margini) si sono messi a dichiarare più di quanto facessero in passato, tenendo conto che partivano — e ancora stanno— su livelli molto bassi, così come potrebbe esserci una certa emersione del nero, sempre nel settore dei servizi: artigianato, commercio, professioni. È chiaro comunque che anche i dati delle dichiarazioni 2009, pur dando un certo grado di soddisfazione all’amministrazione fiscale — perché appunto un aumento dell’imponibile medio del 3% non era per nulla scontato in un anno di crisi — confermano che c’è ancora molto da fare per recuperare un’evasione fiscale che lo stesso governo ha quantificato nella strabiliante cifra di 100 miliardi di euro: dieci volte quanto l’ultima manovra finanziaria. Da questo punto di vista il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha di recente annunciato l’intenzione di varare una riforma generale del sistema fiscale, proprio partendo dal presupposto che quello attuale, basato sull’Irpef, cioè sulla tassazione delle persone fisiche, non sia più adeguato. Il 2010 sarà il banco di prova.
Ancora banche in difficoltà (31 dicembre 2009).
Utili dimezzati, patrimoni ancora da rinvigorire, ma soprattutto crediti a rischio in continua e preoccupante progressione. È questa, in estrema sintesi, la fotografia delle banche italiane appena uscite dall'anno più cupo della finanza mondiale degli ultimi decenni. Quel 2009 in cui si è rischiata letteralmente l'implosione del sistema creditizio a livello mondiale, scongiurata solo a colpi di massicci interventi dei Governi e di quel fiume di liquidità immessa dalle banche centrali nei gangli vitali del circuito finanziario. E che il 2009 sia stato un anno da brividi, lo dicono le statistiche di Borsa. Solo per stare a Piazza Affari, un titolo come UniCredit è arrivato a toccare nel marzo scorso un minimo di 70 centesimi, un prezzo da liquidazione della banca. O IntesaSanpalo scesa fino a 1,4 euro dai 3,7 fatti segnare prima del crack di Lehman. La grande paura è infine rientrata, segnalata dal violento e veloce recupero delle quotazioni. E a pensarci bene, per essere passate dall'annus horribilis della finanza mondiale, le banche italiane sono riuscite a limitare i danni. Merito senz'altro del fatto che negli istituti domestici si parla poco l'inglese, come è solito ricordare il ministro Tremonti. Non si sono viste come nel mondo anglosassone montagne di titoli tossici, maxi-svalutazioni, ingressi forzosi degli Stati nel capitale. Utili dimezzati Chiudere la stagione più difficile, con un monte profitti che per le prime 10 banche si ridurrà, secondo le stime degli analisti di Banca Leonardo, da 9,2 miliardi del 2008 ai 5,9 miliardi dell'anno appena trascorso appare un prezzo più che accettabile. Tra i big paga di più, sul fronte degli utili, UniCredit che ha chiuso i nove mesi del 2009 con 1,33 miliardi rispetto ai 3,5 di 12 mesi prima. Intesa lascia sul campo della crisi un miliardo e mezzo di minori utili, passando dai 3,78 milairdi del settembre 2008 ai 2,26 dei primi nove mesi del 2009. Paga, soprattutto grazie all'affare Italease, il Banco Popolare che perde in 12 mesi due terzi del monte utili. Ma anche Ubi ha subito una forte decelerazione della redditività con i profitti netti calati dai 620 milioni del settembre 2008 ai 187 del settembre 2009. Cosa ha inceppato il motore delle banche? Il business tradizionale certo, con i volumi dei crediti in flessione un po' per tutti. Ma quel calo, con l'eccezione di UniCredit tra le prime 5 banche che ha contratto i volumi di prestiti alla clientela per un 7,6%, si limita a pochi punti percentuali. Non abbastanza per dar conto del vistoso calo degli utili del settore. Del resto gli indicatori nella parte alta del bilancio mostrano più che una tenuta. Ricavi da margine di interesse e commissioni sono in linea con l'anno precedente e anche i costi, tanto che le prime dieci banche italiane sommano profitti operativi lordi per 21 miliardi. Accantonamenti raddoppiati La vera nota dolente sono gli accantonamenti per le perdite sui crediti che schizzano da 6 a 12 miliardi negli ultimi 12 mesi. La crisi del credito è tutta lì: sul forte incremento di sofferenze, incagli, insomma crediti pericolanti che, dicono tutti gli osservatori, proseguiranno con forza per tutto il 2010. Per il momento la somma complessiva dei crediti a rischio per il campione delle banche più significative vale circa il 5% dell'intero portafoglio prestiti. E dato che quel portafoglio vale quasi 1.500 miliardi, il conto è presto fatto. A fine 2009 i crediti a rischio per le prime dieci banche sfiorano gli 80 miliardi. Con il rischio che salgono ulteriormente nel 2010. E così ecco ridimensionarsi (e di molto) la reddività: valori di ritorno sul capitale sopra il 10% cui molte banche ci avevano abituati nei primi anni Duemila, sono lontani anni luce. Oggi il Roe viaggia per UniCredit al 4% e per Intesa al 5-6%. E in fondo c'è poco da stupirsi se in Borsa, nonostante il violento recupero dei prezzi quasi tutti i bancari valgano meno del patrimonio netto. La Borsa guarda alle redditività e teme ancora contraccolpi sul lato di eventuali futuri svalutazioni. Il che rende cauto il mercato sull'intraprendere nuove cavalcate sui listini. Ok dal trading Ma qualche consolazione (per le banche) arriva dal trading. Lì la macchina si è rimessa in moto. Dalla compravendita di bond e azioni le banche stanno tornando a guadagnare. Solo UniCredit e Intesa hanno incamerato oltre 2,5 miliardi di ricavi da questa attività nei primi 9 mesi del 2009. Più facile e meno rischioso che prestare soldi alle imprese. Ma non è proprio quel che si chiede a una banca.
La crisi dell'Irlanda (31 dicembre 2009).
I giovani irlandesi, cresciuti al sole del boom economico, abituati al calore del benessere, sono i più sconcertati dall'ombra scura che la crisi ha fatto scendere sull'isola. Il gelo della recessione ha colpito loro più di tutti: la disoccupazione è raddoppiata al 12,5%, ma il 90% dei posti di lavoro perduti si è concentrato nella fascia di età sotto i 30 anni. Per questo l'Irlanda, per quindici anni calamita d'Europa, autoproclamata Tigre celtica che ha accolto stranieri da paesi vicini e lontani offrendo la certezza di un lavoro, oggi è tornata a essere un paese di emigranti in cerca di impiego. Quest'anno per la prima volta il numero di irlandesi che hanno deciso di emigrare ha superato il numero degli immigrati. Nell'arco di 12 mesi, 40mila irlandesi sono partiti alla ricerca di una nuova vita. L'anno prima erano stati solo 7.800. Le mete tradizionali, Gran Bretagna e Stati Uniti, sono ora trascurate perché colpite dalla crisi. Il boom delle partenze è verso Canada e Australia, paesi altrettanto anglofoni ma ora più stabili e quindi più invitanti. Anche gli ottimisti ammettono che il 2010 non promette miglioramenti improvvisi: troppo grave lo shock immobiliare dopo lo scoppio della bolla, troppo pesanti i sacrifici richiesti ai contribuenti, troppo profonda la crisi dei consumi. I pessimisti, che in Irlanda abbondano, possono elencare ragioni convincenti per giustificare le loro fosche previsioni, a partire dalle difficoltà irrisolte del sistema bancario. Resta la possibilità che il governo debba rimpiangere la solenne promessa di garantire tutti i depositi bancari: 400 miliardi di euro, il doppio del Pil. Un'altra possibilità, più concreta, è che Dublino debba nazionalizzare un'altra banca dopo la Anglo-Irish Bank e forse più di una. Restano mille dubbi sull'efficacia di Nama, la "bad bank" creata dal Governo per assorbire i crediti inesigibili e gli asset a rischio. «Le banche irlandesi - avverte Morgan Kelly, professore di economia all'University College di Dublino - restano zombie e rischiano di essere troppo grandi per essere salvate. Il dubbio ora è se le banche travolgeranno lo Stato, costringendo entità esterne come l'Fmi o la Ue a intervenire». L'Irlanda, primo paese dell'Eurozona a entrare in recessione, è ancora in crisi. Tecnicamente l'economia è uscita dalla recessione, dato che nel terzo trimestre il Pil è cresciuto dello 0,3%, ma è pressoché certo il ritorno in territorio negativo nel quarto trimestre. Su base annua il calo del Pil è del 7,5 per cento. Inoltre nel caso dell'Irlanda il dato più significativo è il prodotto nazionale lordo (Pnl), che esclude l'apporto delle multinazionali e che nel terzo trimestre è sceso dell'1,4%, accelerando il declino rispetto al -0,5% registrato nel secondo. Se le multinazionali, specie quelle in settori anti-ciclici come il farmaceutico, vanno bene, le imprese locali continuano ad annaspare. Resta però il fatto che la depressione è stata evitata. Le ragioni per essere ottimisti sono soprattutto due. Il governo ha dimostrato di sapere gestire la crisi, tracciando il percorso per uscirne e soprattutto mantenendo la rotta con decisione. Seguendo il saggio principio che quando si parla di rating internazionali non basta agire ma bisogna anche far vedere che si agisce, Dublino ha sbandierato la sua determinazione. «Non siamo la Grecia» è stato il messaggio ripetuto fino alla nausea. Quindi decisioni difficili, pugno di ferro con i sindacati, niente compromessi. La finanziaria di dicembre, la terza in un anno, ha stabilito tagli alla spesa pubblica di 4 miliardi di euro per riuscire a contenere il deficit sotto il 12,5% del Pil e ha imposto supertasse sui ricchi. Però il ministro delle Finanze, Brian Lenihan, ha deciso di non alzare l'imposta societaria del 12,5%, mandando un chiaro messaggio agli investitori: l'Irlanda resta "open for business". La seconda ragione per essere ottimisti è invece esterna: l'economia mondiale si sta riprendendo, ripartono gli scambi commerciali e aumentano i consumi. Per un'economia votata all'export come quella irlandese le prospettive sono positive. Il mercato immobiliare resta malato grave, ma le esportazioni possono trainare la ripresa se l'Irlanda resta competitiva. «Dobbiamo ricordarci - afferma Alan McQuaid, chief economist di Bloxham Stockbrokers a Dublino - che è stato l'export a creare la tigre, ben prima del boom immobiliare. Ora il costo del lavoro è sceso sotto la media europea, abbiamo una popolazione giovane e istruita, non c'è la bomba pensioni di altri paesi europei e le imposte societarie sono basse: ci sono tutte le condizioni per attrarre investimenti dall'estero e ricostruire l'economia in modo sostenibile. Il 2010 sarà un anno difficile, ma prevedo un 2011 positivo per l'Irlanda». Anche la crisi potrà avere un risvolto positivo, se servirà a porre le basi per una crescita più sostenibile e a dimostrare che l'Irlanda può farcela. «Da un certo punto di vista - spiega Rachel - questa crisi è la cosa migliore che potesse succedere. Ci ha riportato con i piedi per terra. Ora riemerge il vecchio spirito irlandese, di rimboccarsi le maniche e lavorare sodo, non credere che tutto sia dovuto. Per questo è lecito scommettere che l'esodo sarà temporaneo: le migliaia di irlandesi che stanno lasciando il paese non resteranno residenti del Canada o dell'Australia a lungo. Superato questo difficile periodo di transizione, gli emigranti di oggi torneranno a casa. L'Irlanda ha imparato dalla storia, e quindi la storia non si ripeterà».
Dubai e il suo grattacielo (31 dicembre 2009).
Il bagliore sarà visibile a più di cento chilometri di distanza quando una imponente colonna di fuoco, alta più di 800 metri, illuminerà a giorno il cielo di Dubai. In quel preciso istante il Burj Dubai, il grattacielo più alto del mondo e nuovo simbolo dell'emirato, comincerà ufficialmente la sua avventura. E così lunedì 4 gennaio Dubai inanellerà il suo nuovo record dopo quello dell'isola artificiale più grande del mondo, della città con il tasso di crescita più veloce, del mall più gigantesco che si sia mai visto e dei progetti più faraonici della storia contemporanea. L'evento sarà ripreso in diretta tv e sarà visibile a una platea di due miliardi di telespettatori in tutto il mondo. Quattrocento i giornalisti accreditati, mille gli uomini della sicurezza coinvolti e seimila gli invitati ai festeggiamenti, con la solita presenza di autorità, vip e star del cinema e della musica. Tutto il meglio dello spettacolo pur di far dimenticare la massa di 100 miliardi di dollari di debiti sui quali Dubai ha costruito la sua skyline. La società che lo ha costruito, la Emaar, il più grande developer del mondo controllato dall'emiro, ha chiuso nel più stretto segreto il dato sulla vera altezza del grattacielo. Il numero sarà svelato solo durante la cerimonia, ma ufficiosamente si parla di 818 metri di altezza, oltre 300 in più rispetto alla Taipei 101 Tower costruita a Taiwan. Ma quella di lunedì non sarà soltanto una semplice cerimonia. Il grattacielo che sfida la legge di gravità è il simbolo al quale lo sceicco Al Maktoum si aggrappa per rilanciare l'emirato dopo il terremoto innescato alla fine di novembre dalla confessione shock dell'insolvenza di uno dei suoi gioielli migliori, la holding Dubai World. E dai primi segnali, il Burj Dubai sembra cominciare a diffondere un effetto taumaturgico. Tanto che domenica la Borsa di Dubai, nella prima seduta del nuovo anno, ha guadagnato il 2,2%. Un rialzo così consistente non lo vedeva dallo scorso 17 dicembre. Il titolo della Emaar è addirittura schizzato del 4,7%, il risultato migliore dalla fine di novembre. Emaar ha costruito il Burj Dubai, e il Burj Dubai ringrazia la sua creatrice facendola salire in Borsa. Nell'emirato si spera che questa spirale positiva possa continuare anche nei prossimi giorni, invertendo l'umore negativo che da più di un mese avvolge l'emirato. I colloqui tra Dubai World e i suoi creditori continuano. Sono lunghi, faticosi ed estenuanti, ma alla fine un accordo verrà trovato per il bene di tutti. E ora Al Maktoum spera che la nuova attrazione di Dubai muti definitivamente questo clima. L'investimento per la costruzione dell'area dove sorge il Burj Dubai è colossale: 20 miliardi di dollari. Circa 4,1 miliardi sono stati impiegati solo per realizzare il grattacielo più alto del mondo, la cui costruzione ha richiesto cinque anni, tre mesi e quindici giorni, e l'impiego di 12mila operai al giorno: una massa di persone pari a quella di un paese utilizzato per una sola torre. Il grattacielo delle meraviglie servirà anche da attrazione per attirare i turisti che non hanno mai smesso di arrivare a Dubai sempre a caccia di nuove emozioni. Certamente Al Maktoum vuole che lo spettacolo faccia parlare. Nonostante la marea di debiti e i 25 miliardi di dollari di aiuti ricevuti dai cugini-rivali di Abu Dhabi, l'emiro non ha badato a spese per la cerimonia inaugurale. E così, quando i diecimila fuochi d'artificio si accenderanno lungo tutta l'altezza del Burj Dubai, avrà ottenuto ciò che più desidera: dimostrare al mondo che Dubai è più viva che mai.
Brutte notizie da occupazione e dai conti pubblici (31 dicembre 2009).
Notizie sempre più drammatiche sul fronte disoccupazione, sia nei confini nazionali che in quelli europei: il tasso a novembre ha raggiunto l'8,3%, il dato più alto dall' aprile 2004. Lo comunica l'Istat, ricordando che a novembre 2008 il tasso di disoccupazione si era attestato al 7,1%. Le persone in cerca di occupazione nel mese erano 2.079.000, cioè 313.000 in più rispetto ad un anno prima e 30.000 in più rispetto a ottobre. Rispetto a ottobre i disoccupati nell'eurozona sono aumentati di 185 mila, nella Ue di 102 mila; rispetto a novembre sono aumentati di 3,041 mln e 4,978 mln rispettivamente. Tra novembre 2008 e novembre 2009 il tasso di disoccupazione maschile è passato dal 7,5% al 9,9% nell'eurozona e dal 7,2% al 9,7% nella Ue; disoccupazione femminile da 8,6% a 10% e da 7,8% a 9,2%. In novembre il tasso di disoccupazione giovanile (sotto I 25 anni) era del 21% nell'eurozona e del 21,4% nella Ue; era del 16,6% un anno prima nelle due zone. Il tasso di disoccupazione era del 10% negli Usa in novembre, del 5,2% in Giappone. Sempre l'Istat segnala l'impennata del deficit-Pil nei primi nove mesi del 2009, quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Nei primi tre trimestri del 2009, l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil è stato del 5,2%, contro il 2,8% di gennaio-settembre del 2008 (era 6,1% al termine del secondo trimestre del 2009). Solo nel terzo trimestre dell’anno scorso, aggiunge l’istituto di statistica, il disavanzo pubblico è stato pari al 3,3% (era 3,2% ad aprile-giugno), più che raddoppiato rispetto all’1,3% dello stesso periodo del 2008.
Ordini e fatturato in crescita in novembre (31 dicembre 2009).
Il fatturato dell’industria in Italia è aumentato a novembre dell’1,5% rispetto a ottobre e diminuito del 5,8% rispetto a novembre 2008. Lo rileva l’Istat, precisando che il calo tendenziale corretto per gli effetti di calendario è stato dell’8,9%. Nei primi 11 mesi dell’anno si è registrato un calo del fatturato rispetto allo stesso periodo del 2008 del 20,2% (dati grezzi). Nel trimestre settembre-novembre il fatturato dell’industria ha segnato un aumento dell’1,4% rispetto al trimestre giugno-agosto. L'aumento del fatturato rispetto a ottobre è stato dovuto prevalentemente alla componente estera (+2,7%) mentre le vendite nazionali hanno segnato un +0,9% Gli ordini dell’industria a novembre 2009 sono aumentati del 2,6% rispetto a ottobre, mentre sono rimasti invariati rispetto a un anno fa, tornando quindi sui livelli di novembre 2008. Nei primi 11 mesi dell’anno si è registrato un calo del 24,7% rispetto allo stesso periodo del 2008. L'Istat ha reso noto anche i dati sul settore auto. A novembre gli ordini di autoveicoli sono cresciuti del 14,9% rispetto a 12 mesi prima: è l'incremento più consistente dal gennaio 2008. L'Istat precisa che gli ordini esteri sono aumentati del 16,9% mentre per gli ordini nazionali l’aumento tendenziale è del 13,8%. Il dato del solo di novembre 2009 invece è +0,7%.

Eugenio Caruso
Ottobre - Dicembre 2009

Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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