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Napoleone Bonaparte


Campagna d'Egitto.

Nel 1798 il Direttorio, preoccupato per l'eccessiva popolarità e per il notevole prestigio di Bonaparte, gli affidò, dunque, l'incarico di occupare l'Egitto per contrastare l'accesso inglese all'India e quindi per danneggiarla economicamente.
Un indizio della devozione di Napoleone ai principi dell'Illuminismo fu la sua decisione di affiancare gli studiosi alla sua spedizione: la spedizione d'Egitto ebbe il merito di far riscoprire, dopo centinaia di anni, la grandezza di quella terra, e fu proprio l'opera di Napoleone a far nascere la moderna egittologia, soprattutto grazie alla scoperta della Stele di Rosetta da parte dei soldati al seguito della spedizione. Napoleone aveva da anni accarezzato l'idea di una campagna in oriente, sognando di seguire le orme di Alessandro Magno ed essendo dell'idea che «L'Europa è una tana di talpe.

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Generale Jean Toussaint Arrighi de Casanova. Partecipò alla spedizione d'Egitto

Tutte le grandi personalità vengono dall'Oriente». Napoleone portò con sè 125 libri di storia, geografia, filosofia e mitologia greca, tra cui i Viaggi del capitano Cook in tre volumi, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, I dolori del giovane Werther di Goethe, i libri di Livio, Tucidide, Plutarco, Tacito e, naturalmente, Giulio Cesare. Portò anche le biografie di Turenne, Condé, Saxe, Marlborough, Eugenio di Savoia, Carlo XII di Svezia e Bertrand du Guesclin, l’eminente comandante francese della guerra dei Cent’anni. Anche la poesia e il teatro avevano il loro posto, con opere di Ossian, Tasso, Ariosto, Omero, Virgilio, Racine e Molière. Con la Bibbia a guidarlo riguardo alla fede di drusi e armeni, il Corano dei musulmani e i Veda degli indù, sarebbe stato ben fornito di citazioni adeguate per i suoi proclami alle popolazioni locali, in pratica ovunque quella campagna lo avesse condotto. Incluse anche Erodoto per la sua descrizione, in larga parte di fantasia, dell’Egitto. Portò anche un gran numero di savants specialisti di alto livello in varie branche del sapere.


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Generale Louis Baraguey d'Hilliers; partecipò alla spedizione d'Egitto


La spedizione cominciò il 19 maggio, quando Napoleone salpò da Tolone a capo dell'Armata d'Oriente, composta da oltre 60 navi da guerra, 280 navi da trasporto, 16.000 marinai e 38.000 soldati.
Il 10 giugno la flotta giunse a Malta, che dominava l’accesso al Mediterraneo orientale. Napoleone mandò Junot a ordinare al gran maestro dei cavalieri di san Giovanni, Ferdinand von Hompesch zu Bolheim, di aprire il porto della Valletta e arrendersi. Due giorni dopo, quando lo fece, Caffarelli spiegò a Napoleone quanto erano stati fortunati, perché altrimenti «l’esercito non ci sarebbe mai entrato». Malta aveva resistito già altre volte a duri assedi, soprattutto nel 1565, quando in quattro mesi i turchi avevano sparato 130.000 palle di cannone alla Valletta; lo avrebbero fatto di nuovo per 30 mesi durante la seconda guerra mondiale. Nel 1798, tuttavia, i cavalieri stavano scindendosi: quelli filofrancesi rifiutavano di combattere e i loro sudditi maltesi erano in rivolta. Nei suoi sei giorni a Malta Napoleone espulse tutti gli uomini della cavalleria eccetto 14 e sostituì l’amministrazione medievale dell’isola con un consiglio di governo; smantellò i monasteri; introdusse la pavimentazione e l’illuminazione stradale; liberò tutti i prigionieri politici; installò fontane e riformò gli ospedali, il servizio postale e l’università, che da allora avrebbe insegnato scienze accanto alle materie umanistiche. Mandò Monge e Berthollet a saccheggiare il Tesoro, la zecca, le chiese e gli studi d’arte.


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Generale Felice Baciocchi. Fu principe di Lucca e Piombino, duca consorte di Massa e principe consorte di Carrara e granduca consorte di Toscana, in quanto marito di Elisa Bonaparte.

Il 18 giugno scrisse 14 dispacci, in cui parlava dell’assetto militare, navale, amministrativo, giudiziario, fiscale, degli affitti e della polizia dell’isola per il futuro. Con essi aboliva la schiavitù, le livree, il feudalesimo, i titoli nobiliari e i blasoni dell’ordine dei cavalieri. Diede agli ebrei l’autorizzazione, sino a quel momento negata, di edificare una sinagoga, e indicò persino quanto avrebbe dovuto essere pagato ogni professore all’università. «Ora possediamo il posto più fortificato d’Europa», scrisse al direttorio, «e sarà dura sloggiarci.»
Dopo un'importante vittoria nella battaglia delle piramidi, Napoleone schiacciò i mamelucchi di Murad Bey ed entrando a Il Cairo divenne padrone dell'Egitto.

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Generale Claude Henri de Belgrand de Vaubois, partecipò alla spedizione d'Egitto

La battaglia delle piramidi è stata combattuta il 21 luglio 1798 contro le forze dei neo-Mamelucchi condotte da Murad Bey e Ibrahim Bey, in cui Bonaparte utilizzò una delle sue tecniche militari più significative: il grande quadrato divisionale. L'esercito mamelucco, sebbene numeroso, era equipaggiato in maniera "antiquata" con sciabole, archi, cotte di maglia e vecchi moschetti, armi quindi, molto più primitive e inefficienti di quelle in dotazione all'esercito francese. In più l'esercito era diviso in due, una parte (la cavalleria) al di qua del Nilo e l'altra (una milizia, prevalentemente di fanteria, che praticamente non partecipò allo scontro) al di là. Napoleone capì che la cavalleria era, tra le forze egiziane, la sola in grado di essere pericolosa sul campo di battaglia. Egli, al contrario, aveva una cavalleria molto meno numerosa e il suo esercito era numericamente inferiore di due o tre volte: 25.000 Francesi contro 50.000-75.000 egiziani.
Fu dunque costretto alla difensiva e organizzò il suo esercito in modo da formare "quadrati" con al centro l'artiglieria e la cavalleria, riuscendo in questo modo a disperdere le cariche della cavalleria mamelucca. Attaccò poi di sorpresa il campo nel villaggio di Embebeh (?Ayn Baba), e l'esercito egiziano, incapace di organizzarsi, fu facilmente disperso. La battaglia fece guadagnare alla Francia Il Cairo e il Basso Egitto. Essa segnò anche la fine, dopo 700 anni, del dominio mamelucco in Egitto, anche se dai primi del XVI secolo esso guidava l'Egitto in veste di feudatario degli Ottomani. I neo-Mamelucchi erano, assieme all'ordine di Malta, distrutto da Napoleone poco prima, le ultime vestigia dell'organizzazione politica e militare rimasta dalle crociate.
Pochi giorni dopo, il 1º agosto 1798, la flotta di Napoleone in Egitto fu completamente distrutta dall'ammiraglio Horatio Nelson, nella baia di Abukir, cosicché Napoleone rimase bloccato a terra; ancora una volta l'esercito francese mostrava il suo punto debole: la battagia navale.

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Horatio Nelson che riuscì a imporre il blocco navale alla Francia; ritratto da Lemuel Abbott

Napoleone, dopo una ricognizione sul mar Rosso, decise di recarsi in Siria, col pretesto di inseguire il governatore di Acri A?mad al-Jazzar Pascià che aveva tentato di attaccarlo. Giunto però il 19 marzo 1799 dinanzi a San Giovanni d'Acri, l'antica fortezza dei crociati in Terra Santa, Napoleone perse più di due mesi in un inutile assedio e la campagna di Siria si concluse con un fallimento.
Ritornato a Il Cairo, Napoleone sconfisse il 25 luglio 1799 un esercito di oltre diecimila ottomani guidati da Mustafa Pascià ad Aboukir, proprio dove l'anno prima era stato privato di tutta la sua flotta. Preoccupato tuttavia per le notizie che giungevano dalla Francia (l'esercito in ripiegamento su tutti i fronti, il Direttorio ormai privo di potere) e consapevole che la campagna d'Egitto non aveva conseguito i fini sperati, Napoleone, lasciato il comando al generale Kléber, s'imbarcò in gran segreto il 22 agosto sulla fregata Muiron (preda bellica ex veneziana) alla volta della Francia.


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Generale Augustin Daniel Belliard; combattè in quasi tutte le guerre napoleoniche

Per Napoleone, dopo quasi un anno e cinque mesi, l’avventura egiziana era finita, ma non per l’esercito francese che si era lasciato dietro. Rimasero fino a quando i francesi non furono costretti a capitolare ai britannici due anni dopo. Nel 1802 al suo esercito e ai savants ancora presenti fu concesso di ritornare in Francia. Napoleone ammise la perdita di 5344 uomini nella sua spedizione, una sottovalutazione notevole poiché al tempo della resa, nell’agosto 1801, erano morti circa 9000 soldati e 4500 marinai, e dopo la sua partenza erano stati ingaggiati relativamente pochi combattimenti, persino nell’assedio finale di Alessandria. Ciò nonostante, aveva conquistato il paese come ordinato, sventato due invasioni turche ed era tornato ad aiutare la Francia nell’ora del pericolo. Kléber scrisse un rapporto alquanto negativo al Direttorio, denunciando sin dall’inizio la conduzione della campagna da parte di Napoleone, descrivendo le malattie, la penuria di armi, polvere, munizioni e indumenti dell’esercito.


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Generale Henri Gatien Bertrand; dalla camnpagna d'Italia fu sempre accanto a Napoleone che lo fece conte


Le più grandi realizzazioni di lungo periodo della campagna egiziana di Napoleone non furono militari o strategiche, ma intellettuali, culturali e artistiche. Il primo volume del vasto e magistrale Viaggio in Egitto di Vivant Denon uscì nel 1809: sul frontespizio proclamava di essere «pubblicato per ordine di Sua Maestà, l’imperatore Napoleone il Grande». La prefazione ricordava che l’Egitto era stato invaso da Alessandro e dai Cesari, le cui missioni erano state modelli per quella di Napoleone. Per il resto della vita di Napoleone, e anche in seguito, continuarono a uscire volumi di questa opera davvero straordinaria, fino ad arrivare a ventuno, costituendo così un monumento nella storia del sapere e dell’editoria. I savants non si erano fatti scappare niente. C’erano disegni in scala oltremodo dettagliati (di 50 x 55 centimetri), sia in bianco e nero sia a colori, di obelischi, sfingi, geroglifici, cartigli, piramidi e faraoni, come pure di uccelli, gatti, serpenti e cani imbalsamati provenienti dal Cairo, da Tebe, Luxor, Karnak, Aswan e tutti gli altri siti templari dell’antico Egitto.


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Generale Jean-Baptiste Kléber; perì nella campagna dì'Egitto

Oltre all’antica egittologia, i volumi contenevano cartine straordinariamente dettagliate del Nilo, di città e cittadine moderne, stampe di minareti e paesaggi, schizzi di canali di irrigazione, disegni di monasteri e templi, diversi tipi di colonne, viste di traffici marittimi, suk, tombe, moschee, canali, fortezze palazzi e cittadelle. C’erano progetti architettonici enciclopedici con piani di elevazione longitudinali e laterali, precisi fino all’ultimo centimetro. Senza essere politicamente trionfalistici, i molti tomi della Description de l’Égypte rappresentano un apogeo della cultura francese, anzi napoleonica, ed ebbero un profondo effetto sulla sensibilità artistica, architettonica, estetica e grafica dell’Europa. Inoltre il cittadino Ripaud, bibliotecario dell’Institut de l’Égypte, scrisse un rapporto di 104 pagine per la Commissione delle Arti sullo stato esistente delle antichità presenti al Cairo e provenienti dalle cataratte del Nilo. La scoperta più importante dei savants fu la stele di Rosetta, una pietra con incisioni in tre lingue rinvenuta a El-Rashid sul delta del Nilo. Fecero delle copie e tradussero la parte greca per poi cominciare a lavorare sui geroglifici. In base all’accordo di pace relativo alla ritirata francese nel 1801, la stele fu consegnata ai britannici e inviata al British Museum, dove si trova ancora al sicuro. Purtroppo l’istituto vicino a piazza Tahrir al Cairo è stato distrutto da un incendio durante l’insurrezione della primavera araba il 17 dicembre 2011: quasi tutti i suoi 192.000 libri, i giornali e i manoscritti, compreso l’unico originale di Denon della Description de l’Égypte, sono andati perduti.

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La campagna d'Egitto

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La più importante vittoria di Napoleone in Egitto: la scoperta della stele di Rosetta.

Il 18 brumaio e il Consolato
Il 9 ottobre 1799 Bonaparte sbarcò a Fréjus e la sua corsa verso Parigi fu accompagnata dall'entusiasmo dell'intera Francia, certa che il generale fosse tornato in patria per assumere il controllo della situazione ormai ingestibile e, in effetti, era questa la sua intenzione; ci riuscì potendo mascherare il fallimento in Egitto proprio con i disordini in patria così come in Italia provocati dalla sua assenza. Giunto a Parigi, egli riunì i cospiratori decisi a rovesciare il Direttorio. Dalla sua si schierarono il fratello maggiore Giuseppe e soprattutto il fratello Luciano, allora presidente del Consiglio dei Cinquecento, che con il Consiglio degli Anziani costituiva il potere legislativo della repubblica. Dalla sua Napoleone riuscì ad avere il membro del Direttorio Roger Ducos e soprattutto Emmanuel Joseph Sieyès, il celebre autore dell'opuscolo Che cosa è il Terzo Stato? e ideologo di punta della borghesia rivoluzionaria. Inoltre, dalla sua si schierò l'astutissimo ministro degli esteri Talleyrand e il ministro della polizia Joseph Fouché. Paul Barras, il membro più influente del Direttorio dopo Sieyès, conscio delle capacità di Napoleone, accettò di farsi da parte. Giova dire subito che Fouché in combutta con Talleyrand passarono al nemico della sesta coalizione informazioni preziose riguardanti la strategia di Napoleone per le sue ultime battaglie.
Fatta trapelare la falsa notizia di un complotto realista per rovesciare la repubblica, Napoleone riuscì a far votare al Consiglio degli Anziani e al Consiglio dei Cinquecento una risoluzione che trasferisse le due Camere il 18 brumaio (9 novembre) fuori Parigi, a Saint-Cloud; Napoleone fu nominato comandante in capo di tutte le forze armate. Ciò fu fatto per evitare che durante il colpo di Stato qualche deputato potesse sollevare i cittadini parigini per difendere la Repubblica dal tentativo di Napoleone. L'intenzione di Napoleone era quella di portare le due Camere a votare autonomamente il loro scioglimento e la cessione dei poteri nelle sue mani. Non fu così: il Consiglio degli Anziani rimase freddo al discorso pasticciato di Napoleone per far pressione su di esso, mentre quando Napoleone entrò nella sala del Consiglio dei Cinquecento i deputati gli si lanciarono contro chiedendo di votare per rendere Bonaparte fuorilegge.
Nel momento in cui sembrava che il colpo di Stato fosse prossimo alla catastrofe, a soccorrere Napoleone, che ebbe molte incertezze sul cosa fare, giunse il fratello Luciano, che nelle vesti di presidente dei Cinquecento, uscì dalla sala e arringò le truppe schierate all'esterno, affermando che Napoleone era stato accoltellato e ordinando che disperdessero i deputati contrari al fratello. Memorabile il momento in cui puntò la sua spada al collo di Napoleone e dichiarò: «Non esiterei un attimo a uccidere mio fratello se sapessi che costui stesse attentando alla libertà della Francia». Le truppe, in gran parte veterani delle campagne di Napoleone, al comando del cognato di quest'ultimo, il generale Charles Victoire Emmanuel Leclerc e del futuro cognato Gioacchino Murat, entrarono con le baionette innestate e dispersero i deputati. In serata, le Camere venivano sciolte e fu votato il decreto che assegnava i pieni poteri a tre consoli: Roger Ducos, Sieyès e Napoleone. Tuttavia il punto chiave del colpo di stato di brumaio non fu l’abolizione del Direttorio, il quale palesemente stava fallendo e sarebbe caduto, ma lo scioglimento di entrambe le camere del parlamento, insieme alla fine della costituzione dell’anno terzo. Il parlamento non era stato contaminato a fondo dall’impopolarità del Direttorio; i neogiacobini non rappresentavano una grande minaccia, e la nazione non si trovava in pericolo immediato. Eppure Sieyès e Napoleone riuscirono a sciogliere sia il Consiglio degli anziani sia il Consiglio dei cinquecento senza alcuna significativa reazione popolare. Dopo dieci anni di rivoluzione, molti francesi sentivano il desiderio di un’autorità, e riconoscevano che il processo parlamentare e una costituzione quasi impossibile da correggere impedivano la sua realizzazione. Quindi desideravano veder temporaneamente sospendere il governo rappresentativo affinché Napoleone e i suoi seguaci tagliassero il nodo gordiano.

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Generale Jean Étienne Championnet. Nel 1800 era comandante in capo dell'Armata delle Alpi, un'armata esistente solo sulla carta, che riuscì a creare dal nulla e a portare in battaglia in soli tre mesi. Tuttavia le sue truppe furono decimate da un'epidemia di tifo e Championnet seguì la sorte dei suoi soldati.

Di certo la pubblica opinione a Parigi era indifferente al problema se Napoleone avesse usato o no la forza per prendere il potere. Gli ufficiali dell’esercito apprezzavano l’ordine, la disciplina e l’efficienza, tutte cose che ormai Napoleone considerava più importanti della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità; in quel momento il popolo francese era d’accordo con lui. Inoltre riuscì a offrire alla Francia la storia di un successo nazionale, mentre, per usare la sua stessa espressione, «i membri del Direttorio sanno come non fare nulla per l’immaginario della nazione». Anche se le vittorie facevano parte del fascino di Napoleone, lo stesso poteva dirsi dei trattati di pace che aveva dato a un paese ormai esausto di guerra.
All’epoca, il golpe di brumaio non fu considerato un colpo di stato, anche se naturalmente lo fu; per i francesi quelle erano soltanto les journées. Nonostante l’aspetto melodrammatico degli avvenimenti, i neogiacobini si erano dimostrati un osso più duro del previsto: se la guardia del corpo legislativo avesse dimostrato un minimo di fedeltà ai cinquecento, i cospiratori avrebbero corso un grave pericolo.
Nominati consoli provvisori, i tre nuovi padroni della Francia redassero insieme a due commissioni apposite una nuova costituzione, la costituzione dell'anno VIII che, ratificata con un plebiscito popolare, legittimava il colpo di Stato. L'evoluzione della rivoluzione si stava ormai riportando verso forme di governo più aristocratico, dimostrandosi non praticabili molte delle teorie rivoluzionarie emerse nella rivoluzione. Nel pensiero politico di Sieyès, il Consolato avrebbe dovuto essere un governo dei notabili, che assicurasse la democrazia attraverso un complesso equilibrio di poteri.

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Generale Jean-Baptiste Cervoni. Partecipò alla battaglia di Eckmühl, nel corso della quale venne ucciso da una palla di cannone il 23 aprile 1809.

Prima che nelle pubbliche piazze di tutta Parigi venisse letta la costituzione dell’anno ottavo, ci furono intense discussioni in vari comitati e sottocomitati informali, costituiti dagli ex congiurati di brumaio, durante le quali la fazione di Napoleone, guidata da Luciano e Boulay, ebbe la meglio su quella di Daunou, secondo cui era necessario concentrare di più l’autorità. Napoleone fu molto aiutato dal tempestivo schieramento di Cambacérès in suo favore. Alla fine Boulay spiegò al comitato ad interim che la sua “missione” consisteva nel conferire a Napoleone poteri determinanti per dieci anni come primo console, senza alcun grande elettore a sorvegliarlo, ma con un consiglio di stato che lo affiancasse, dotato dell’unica autorità di avviare la legislatura. L’articolo 41 della nuova costituzione affermava: «Il primo console promulga le leggi; nomina e destituisce a suo piacere membri del consiglio di stato, ministri, ambasciatori e altri importanti inviati all’estero, ufficiali dell’esercito e della marina, membri delle amministrazioni locali e commissari governativi assegnati ai tribunali». Avrebbe avuto anche il potere di firmare trattati, avrebbe abitato alle Tuileries, e ricevuto 500.000 franchi all'anno; anche il secondo e il terzo console avrebbero abitato alle Tuileries, ma avrebbero percepito un onorario di 150.000 franchi annui per il loro ruolo di “foglie di fico costituzionali”.
Il consolato emanò una raffica di decreti concepiti per rendere popolare il nuovo regime e, per usare la sua stessa espressione, “completare la rivoluzione”. Versailles fu destinata ai soldati feriti; una durissima legge contro gli emigrati fu revocata, e Napoleone andò personalmente alla prigione del Tempio a liberare gli ostaggi. La polizia ricevette l’ordine di non tartassare gli emigrati rientrati; l’anniversario della presa della Bastiglia e il 1° vendemmiaio (il capodanno repubblicano) diventarono feste ufficiali. Ai feriti di guerra sarebbero state assegnate delle pensioni, come pure alle vedove e agli orfani dei soldati; i religiosi che rifiutavano di compiere il giuramento di fedeltà alla costituzione non dovevano essere più deportati. Il nuovo ministro dell'interno fu il marchese Laplace, matematico e astronomo, conosciuto in tutto il mondo scientifico.
La nomina di uno scienziato eminente come Laplace a una carica di così grande rilievo, rendeva evidente che non si trattava precipuamente di una dittatura militare solo perché Napoleone era un soldato e brumaio era stato un colpo di stato militare. Al ministero degli esteri tornò Talleyrand e solo un militare entrò nel governo, il nuovo ministro della guerra Alexandre Berthier. Fouché, come prevedibile, divenne ministro della polizia e Martin Gaudin, già alto funzionario del tesoro che aveva prestato servizio per ogni regime precedente dai tempi di Luigi XVI, fu nominato ministro delle finanze. Gaudin si mise subito all’opera per riformare il codice fiscale francese, diabolicamente complicato, e ridurre le imposte. La gestione finanziaria fu trasferita dalle autorità locali al ministero delle finanze e tutto il sistema di contabilità pubblica alla fine fu centralizzato. Napoleone istituì rapidamente un sistema centrale per il pagamento dell’esercito, fino ad allora effettuato per mezzo dei dipartimenti, classico esempio di come sapeva tagliare in due la burocrazia e realizzare senza indugio una riforma oltremodo necessaria. Napoleone avviò il processo del centralismo burocratico che attecchirà in tutta Europa, specie in Italia.
Il 13 dicembre 1799, alla riunione finale della commissione costituzionale, Napoleone invitò Sieyès a proporre i nomi dei tre consoli da presentare alla nazione nell’ambito della nuova costituzione dell’anno ottavo in un plebiscito a febbraio. Sieyès, che nel frattempo secondo le stime aveva accettato 350.000 franchi in contanti, una tenuta nei dintorni di Versailles e una casa a Parigi, propose debitamente Napoleone come primo console, Cambacérès come secondo e l’accondiscendente avvocato ed ex deputato Charles-François Lebrun, come terzo. A Sieyès venne assegnata la presidenza del senato, e a Ducos (che prese 100.000 franchi per rinunciare alla sua carica di console provvisorio) la vicepresidenza. Il secondo colpo di stato di Napoleone aveva richiesto un po’ più tempo del primo, ma, come l’altro, era avvenuto senza spargimento di sangue ed era riuscito. Anche se ci sarebbe voluto un plebiscito ufficiale, programmato per febbraio, al fine di conferire legittimità legale al consolato, Napoleone da parte sua non dubitò mai di avere il diritto morale di governare la Francia. Lo spiegò in seguito parlando di Giulio Cesare: «In tale stato di cose, simili assemblee deliberative non potevano più governare; perciò la persona di Cesare era la garanzia della supremazia di Roma nell’universo, e della sicurezza dei cittadini di tutti i partiti. Di conseguenza, la sua autorità era legittima». Nel 1799 il suo atteggiamento verso il governo della Francia era identico.
«Francesi!» proclamò Napoleone il 15 dicembre, «vi viene presentata una costituzione. Pone fine alle incertezze […] [nel]la situazione interna e militare della repubblica […] La costituzione si fonda sugli autentici principi del governo rappresentativo, sui sacri diritti di proprietà, eguaglianza e libertà […] Cittadini, la rivoluzione si fonda sui principi che le hanno dato inizio. È finita.» Porre il diritto di proprietà davanti a quelli di eguaglianza e libertà era indicativo di come Napoleone intendeva difendere gli interessi di commercianti, imprenditori. Erano la spina dorsale della Francia: lui ne comprendeva le preoccupazioni e le necessità. L’articolo 94, il penultimo della costituzione, affermava categoricamente che proprietà e terreni della monarchia, della chiesa e dell’aristocrazia requisiti e venduti durante la rivoluzione non sarebbero mai stati restituiti ai proprietari originali. Erano promesse che Napoleone avrebbe ribadito nel 1802 e nel 1804, ma senza garantire un’ulteriore redistribuzione. Quando parlava di eguaglianza, intendeva di fronte alla legge, non parità economica. Il suo sostenitore naturale più forte, l’esercito, uscì bene dal colpo di stato, con condizioni e salari migliori, pensioni e la promessa di terre. La legge che sospendeva i pagamenti ai fornitori fu revocata, e ben presto vennero ripagati del tutto.
Alla fine di dicembre furono fondate quelle che sarebbero diventate le istituzioni del dominio napoleonico. Il 22 fu inaugurato il Consiglio di stato nella sala del Lussemburgo a lui dedicata. Il Consiglio, costituito in larga parte da tecnocrati apolitici nominati dal primo console e in larga parte sotto il suo personale controllo, era il principale organo deliberativo del nuovo governo di Francia, consigliava il primo console e lo coadiuvava nella stesura delle leggi. Solo sei dei 50 membri erano militari. Purché fossero rispettosi, i membri del consiglio erano incoraggiati a usare tutta la necessaria franchezza, e Napoleone favoriva il dibattito tra di loro. In base alla nuova costituzione, il consiglio era l’ultimo tribunale d’appello per le cause amministrative e l’organo responsabile di esaminare la stesura dei bilanci prima che andassero in parlamento, funzioni che conserva ancora oggi. I ministri erano d’ufficio membri del consiglio; partecipavano alle sue riunioni quando in programma c’erano punti attinenti al loro ambito di competenza.
Il 25 dicembre 1799 (il giorno di Natale fu ufficialmente riconosciuto di nuovo soltanto nel 1802) entrò in vigore la costituzione dell’anno ottavo. Un discorso di Boulay servì da prefazione per la sua versione stampata, in cui si sosteneva che la stragrande maggioranza dei cittadini francesi voleva una repubblica che non fosse «né il despotismo dell’ancien régime, né la tirannia del 1793». La nuova costituzione, egli affermava, poteva essere riassunta nella frase: «La sicurezza viene dal basso, il potere dall’alto». In base al suo dettato, il primo console avrebbe detenuto per dieci anni il potere politico e amministrativo, e gli altri due consoli per lo stesso periodo lo avrebbero consigliato. Un Senatodi 60 uomini, i cui membri avrebbero servito “inviolabilmente e a vita” e il cui numero sarebbe aumentato di due ogni due anni fino a un massimo di 80, avrebbe scelto i consoli, i deputati del corpo legislativo di 300 persone e il Tribunato di 100 attingendo da elenchi nazionali derivati da quattro turni elettorali. Soprattutto, i proclami fatti dalla maggioranza del senato, i senatoconsulti, avevano piena forza legale, anche se all’inizio si riteneva andassero promulgati solo per modificare la costituzione.
Il Tribunato avrebbe discusso i progetti di legge formulati dal primo console e dal consiglio, ma senza potere di veto: il corpo legislativo poteva votare le leggi ma non discuterle. Il Tribunato poteva discutere le leggi che il consolato gli mandava e dire al corpo legislativo che cosa ne pensava; il corpo legislativo poteva restare in seduta non più di quattro mesi all’anno per valutarne le opinioni. Solo il Senatopoteva modificare la costituzione, ma nessuna delle tre camere aveva il potere di avviare o modificare una legislatura. Con questo sistema, Napoleone assicurava la separazione tra poteri abbastanza deboli, tenendo per sé la parte del leone. I cittadini potevano votare i deputati usciti da una selezione iniziale del corpo legislativo, anche se la scelta finale sarebbe stata fatta dal Senato. Tutti i votanti maschi adulti di una comunità avrebbero così scelto il dieci per cento del loro numero come “notabilità della comune”, che avrebbe poi scelto a sua volta il dieci per cento del loro numero come “notabilità dei dipartimenti”, che avrebbe poi scelto le 5000 o 6000 “notabilità della nazione”, tra cui sarebbero stati nominati i 400 membri del corpo legislativo e del Tribunato. Ne risultò una discreta continuità con le camere precedenti. Su 60 senatori, 38 avevano fatto parte in precedenza dell’assemblea nazionale, e su 100 tribuni, 69 erano già stati parlamentari, così come 240 deputati su 300. La loro esperienza era utile mentre Napoleone procedeva a consolidare, adeguare e, per usare un suo termine, “concludere” la rivoluzione. La mera complessità della costituzione, soprattutto il sistema della triplice votazione per eleggere la legislatura, andava perfettamente bene a Napoleone, perché gli dava ampia possibilità di frammentare l’opposizione.
La nuova costituzione abbondava di novità per placare la nazione: le autorità potevano entrare in casa di un francese senza invito solo nel caso di incendio o inondazione; il tempo massimo per cui i cittadini sarebbero stati trattenuti senza processo era di dieci giorni; la “rudezza usata negli arresti” sarebbe stata considerata reato. Il 1° gennaio 1800 (una data senza particolare significato nel calendario rivoluzionario, essendo l’11 nevoso dell’anno ottavo) il corpo legislativo e il Tribunato si riunirono per la prima volta.
Fattosi nominare Primo Console, Napoleone ricostruiva la Francia con una struttura amministrativa fortemente accentratrice ma così perfetta che è rimasta tale fino a oggi. La Francia veniva frazionata in dipartimenti, distretti e comuni, rispettivamente amministrati da prefetti, sottoprefetti e sindaci. Le casse dello Stato venivano risanate dalle conquiste di guerra e dalla fondazione della Banca di Francia, nonché dall'introduzione del franco d'argento che poneva fine all'era degli assegnati e dell'inflazione. La lunga lotta contro il Cattolicesimo si concludeva con il Concordato del 1801, ratificato da papa Pio VII, che stabiliva il Cattolicesimo «religione della maggioranza dei francesi» (benché non religione di Stato), ma non riconsegnava al clero i beni espropriati durante la rivoluzione. Nel campo dell'istruzione, Napoleone istituì i licei e i politecnici, per formare una classe dirigente preparata e indottrinata, ma tralasciò l'istruzione elementare, essendo dell'idea che il popolo dovesse rimanere in una certa ignoranza per garantire un governo stabile e un esercito ubbidiente. Il consolato di Napoleone divenne «a vita» con il plebiscito del 2 agosto 1802. Si apriva la strada all'istituzione dell'Impero napoleonico.
In meno di 15 settimane Napoleone aveva efficacemente posto fine alla rivoluzione francese, cacciato l’abate Sieyès, dato alla Francia una nuova costituzione, fondato le sue finanze su solide basi, messo la museruola alla stampa dell’opposizione, cominciato a far cessare il brigantaggio rurale e la lunga guerra in Vandea, istituito senato, Tribunato, corpo legislativo e consiglio di stato, nominato alle cariche di governo uomini di talento indipendentemente dalle affiliazioni politiche passate, respinto i Borboni, aveva avanzato a Gran Bretagna e Austria offerte di pace subito respinte, vinto un plebiscito con una maggioranza schiacciante (anche tenendo conto dei brogli), riorganizzato il governo locale francese e istituito la banca di Francia.
Il Codice napoleonico
Durante l'esilio a Sant'Elena, Napoleone sottolineò più volte che la sua opera più importante, quella che sarebbe passata alla storia più delle tante battaglie vinte, sarebbe stata il suo codice civile. Il Codice napoleonico legittimò alcune delle idee illuministiche e giusnaturalistiche, fu esportato in tutti i paesi dove giunsero le armate di Napoleone, fu preso a modello da tutti gli Stati dell'Europa continentale e ancora oggi è la base del diritto. Istituita l'11 agosto 1799, la commissione incaricata di redigere il codice civile (composta dal Secondo Console Jean-Jacques Régis de Cambacérès e da quattro avvocati), fu presieduta molto spesso dallo stesso Napoleone, il quale ne leggeva le bozze durante le campagne militari e inviava a Parigi, dal fronte, le sue idee sul progetto. Il 21 marzo 1804 il Codice Civile, immediatamente ribattezzato Codice Napoleonico, entrava in vigore.
Il Codice eliminava definitivamente i retaggi dell'Ancien Régime, del feudalesimo, dell'assolutismo monarchico, e creava una società prevalentemente borghese e liberale, di ispirazione laica, nella quale venivano consacrati i diritti di eguaglianza, sicurezza e proprietà. Tra i principi della Rivoluzione, venivano salvaguardati quelli della libertà personale, dell'uguaglianza davanti alla legge, della laicità dello Stato (già sancita dal Concordato) e della libertà di coscienza, della libertà del lavoro. Il Codice era stato però pensato e redatto soprattutto per valorizzare gli ideali della borghesia; perciò andava soprattutto a regolamentare questioni riguardanti i contratti di proprietà e la stessa legislazione riguardante la famiglia era di natura contrattualistica. La struttura familiare che il Codice consacra è di tipo paternalistico: il padre può far imprigionare i figli per sei mesi senza controllo delle autorità e amministra i beni della moglie. Veniva tuttavia garantito il divorzio, benché reso più complesso rispetto all'epoca rivoluzionaria. Per l'Italia il valore del Codice napoleonico fu fondamentale, poiché esso fu portato negli stati creati da Napoleone e confluì poi nel codice civile italiano del 1865. Di eguale valore e importanza sono anche gli altri codici: quello di procedura civile, emanato nel 1806, quello del commercio (1807), quello di procedura penale (1808) e il codice penale del 1810.
Le opposizioni
La sera del 10 ottobre 1800 Napoleone, mentre assisteva a un'opera al Théatre de la République, sarebbe dovuto cadere sotto le pugnalate di quattro sicari, ma il complotto fu sventato all'ultimo momento grazie a una soffiata, che consentì alla polizia di intervenire arrestando i quattro attentatori proprio in teatro. L'evento passerà alla storia con il nome di congiura dei pugnali. Poco dopo, la notte di Natale del medesimo anno Napoleone, la moglie ed il suo seguito scamparono miracolosamente a un attentato dinamitardo scatenatosi in Rue Saint-Nicaise a Parigi, mentre si recavano all'Opera. Napoleone ne approfittò per mettere fuori legge i giacobini, molti dei quali vennero esiliati in Guyana, e disperdere i monarchici. L'opposizione non demordeva e, oltre a un'intensa attività libellistica, si ebbe notizia di attentati in preparazione contro di lui. Infatti egli era odiato sia dai giacobini, che dopo le misure di riconciliazione nazionale, come l'amnistia generale e il diritto al rientro per i nobili emigrati per scampare al terrore, temevano volesse restaurare la monarchia, sia dai realisti, che lo consideravano come l'usurpatore del legittimo sovrano Luigi XVIII. Nel marzo 1804, per dare un segnale forte ai Borbone, che ancora complottavano per ritornare sul trono francese, Napoleone fece catturare a Ettenheim, cittadina dello stato del Baden situata presso il confine francese, il duca di Enghien, legato alla famiglia reale esiliata, che fu ingiustamente accusato di cospirazione contro il Primo Console e fucilato subito dopo. L'evento destò l'indignazione di tutte le corti europee per l'arrogante violazione della sovranità di uno stato estero da parte della Francia e per la sorte riservata al povero duca, e conferì un'ombra negativa all'immagine europea del Bonaparte, alla quale invece l'allora Primo Console teneva moltissimo. Il generale Moreau, implicato nel complotto realista ma idolo dei giacobini, venne invece condannato a soli due anni di carcere, successivamente condonati con la possibilità di espatriare negli Stati Uniti, da dove però Moreau ritornerà nel 1813 per unirsi all'esercito russo e morire durante la battaglia di Dresda.
La vittoria di Marengo e la pacificazione dell'Europa

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Napoleone sulle Alpi di Jacques Louis David

Durante l'assenza di Napoleone impegnato in Egitto, i francesi erano stati ripetutamente battuti in Italia e in Germania dagli austriaci e dai russi a Cassano d'Adda, a Novi e sul Reno. La Seconda coalizione antifrancese aveva rovesciato la Repubblica Napoletana del 1799, fondata dai francesi, quella Romana e la Repubblica Cisalpina. Il 6 maggio 1800, sei mesi dopo il colpo di Stato del 18 brumaio, Napoleone assunse il comando della cosiddetta Armata di riserva, destinata a essere trasferita in Italia per rovesciare le sorti della guerra.
Napoleone doveva scegliere il valico alpino da attraversare per raggiungere l’Italia settentrionale. Avrebbe preferito quelli più orientali, lo Splügen o il San Gottardo, in modo da poter eseguire la sua manovra favorita, la sur le derrière, ma la velocità dell’avanzata austriaca verso ovest attraverso l’Italia settentrionale lo costrinse a scegliere tra i 2700 metri del Gran San Bernardo e i 2350 del Piccolo San Bernardo. Il Piccolo San Bernardo era troppo a ovest, quindi Napoleone vi mandò soltanto una divisione e decise che il grosso dell’esercito sarebbe passato dal Gran San Bernardo. Mandò anche una divisione al comando del generale Adrien Moncey al passo del San Gottardo. Contava sull’elemento della sorpresa: nessuno aveva mai fatto attraversare le Alpi a un esercito dai tempi di Carlomagno, e di Annibale prima di lui. Anche se Napoleone non avrebbe viaggiato con gli elefanti, doveva far superare una catena montuosa a cannoni i cui fusti pesavano oltre 25 quintali. I primi di maggio, quando iniziò l’avanzata, la neve era ancora alta sul terreno, quindi Marmont inventò delle slitte per i fusti fatte di tronchi d’albero cavi, trascinati su per le Alpi e poi giù dall’altra parte, al rullo dei tamburi, da 100 uomini alla volta. Furono mandati avanti soldi e rifornimenti a monasteri e locande lungo il percorso, e vennero assunte guide locali che dovettero giurare la segretezza. Napoleone, Berthier e dopo il 2 aprile Carnot, che era stato nominato ministro della guerra quando Napoleone aveva mandato Berthier all’Armata di riserva, organizzarono insieme, nei minimi dettagli, un’operazione che sarebbe diventata una delle meraviglie della storia militare. «Ovunque possano metter piede due uomini, un esercito può sempre passare, e in qualsiasi stagione», disse Napoleone al generale Dumas, che era scettico.
Il 17 marzo Napoleone convocò una riunione dei consoli, come faceva quasi tutti i giorni in quell’epoca, una seduta del consiglio di stato, come faceva ogni paio di giorni, e poi una seduta di strategia militare con il suo capocartografo, il generale Bacler de l’Albe; stava in ginocchio su enormi carte del Piemonte aperte sul pavimento e coperte di spilli con la capocchia di ceralacca rossa e bianca, a indicare la posizione degli eserciti. Durante la riunione di strategia, a quanto pare, chiese a Bourrienne dove riteneva che si dovesse combattere la battaglia decisiva. «Come diavolo faccio a saperlo?» rispose il suo segretario privato, che aveva frequentato l’accademia militare di Brienne. «Ma come, guardate qui, sciocco», disse Napoleone indicando il terreno pianeggiante dello Scrivia nei pressi di San Giuliano Vecchio, e spiegando come ipotizzava che avrebbe manovrato Melas quando i francesi avessero attraversato le Alpi. Fu proprio in quel punto che tre mesi dopo si combatté la battaglia di Marengo.
Il 19 aprile i 24.000 uomini al comando del generale austriaco Karl von Ott posero sotto assedio Genova, dove si trovavano Masséna e 12.000 uomini. In città c’era poco, perché era stata posta sotto blocco dalla Royal Navy. Il tenente Marbot ricordava che nelle settimane successive dovettero alimentarsi di un “pane” che era «un’orribile mistura di farina cattiva, segatura, amido, cipria per capelli, avena, semi di lino, noci rancide e altre orribili sostanze, a cui veniva data una qualche consistenza con un po’ di cacao». Il generale Thiébault lo paragonava a torba mista a olio. Erba, aghi di pino e foglie venivano bolliti con il sale, tutti i cani e i gatti furono mangiati, e «i topi venivano ceduti a caro prezzo». Migliaia di civili e militari cominciarono a morire di inedia e per le malattie associate alla malnutrizione. Ogniqualvolta quattro o più genovesi si riunivano insieme, i soldati francesi avevano ordine di sparare loro per timore che cedessero il porto.
Napoleone fremeva per il desiderio di agire, e il 25 aprile scrisse a Berthier: «Il giorno in cui, o a causa degli eventi in Italia o di quelli sul Reno riterrete che sia necessaria la mia presenza, partirò un’ora dopo aver ricevuto la vostra lettera». Per placare la speculazione e affrontare i problemi logistici più generali della campagna imminente, Napoleone risiedeva alla Malmaison e a Parigi, e passava in rassegna le sue truppe peggio equipaggiate in bella vista, a favore di popolino (e spie austriache); la sera di lunedì 5 maggio andò all’opera. Il bilancio complessivo della guerra sembrava spostato verso il teatro tedesco, dove Moreau aveva forze superiori e procedeva bene; infatti il 25 aprile aveva attraversato il Reno, e Napoleone in privato si era congratulato con lui, in tono caloroso e quasi deferente. Per quanti non erano addentro ai reali equilibri di forze, forse poteva sembrare che Napoleone fosse il grande elettore e Moreau il suo console per la guerra.
Poi Napoleone colpì. Lasciò Parigi alle due del mattino, appena poche ore dopo la fine dell’opera, arrivando la mattina seguente a Digione, e il 9 maggio alle tre di notte a Ginevra. Lì si fece notare in parate e riviste militari, e fece sapere che stava andando a Basilea, benché l’avanguardia, costituita dalla divisione del generale François Watrin, stesse già cominciando l’ascesa verso il passo del Gran San Bernardo, seguita dalle forze al comando di Lannes, Victor e del generale Philibert Duhesme. Napoleone trattenne con sé la guardia consolare di Bessières e la cavalleria di Murat. Era stato un inverno rigido, e la pista, poiché fino al 1905 non vi era strada per arrivare al San Bernardo, era ghiacciata e coperta di neve alta; Napoleone invece ebbe molta fortuna con il tempo, che prima del 14 maggio, quando l’esercito partì per valicare le Alpi, era assai peggiore, e peggiorò di nuovo quando le ebbe superate, 11 giorni dopo (metà del tempo impiegato da Annibale). Solo un cannone su quaranta andò perduto a causa di una valanga. «[Il passo] non ha mai visto un esercito così grande dai tempi di Carlomagno», scrisse Napoleone a Talleyrand il 18; «voleva soprattutto bloccare il passaggio del nostro armamento pesante da campagna, ma finalmente metà della nostra artiglieria si trova ad Aosta.» Napoleone non guidò il suo esercito sulle Alpi, ma lo seguì dopo che erano stati risolti i più importanti problemi logistici: viveri, munizioni e muli. Teneva sempre sotto pressione i commissari ordinatori, con avvertimenti tipo: «Rischiamo di morire nella valle d’Aosta, dove ci sono soltanto fieno e vino». Lui compì la tratta più difficoltosa, a Saint-Pierre, il 20 maggio, quando ormai Watrin e Lannes erano penetrati di 60 chilometri in Piemonte.

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Ritratto di Charles Maurice de Talleyrand Périgord (Francois Gerard)

Nel complesso, attraversarono le Alpi 51.400 uomini, con 10.000 cavalli e 750 muli. In alcuni punti procedevano in fila indiana, e dovevano partire ogni giorno all’alba per limitare il rischio di valanghe dopo il sorgere del sole. Quando raggiunsero l’imponente Forte Bardo all’ingresso della valle d’Aosta, che domina una stretta gola in alto sulla Dora Baltea, 400 ungheresi al comando del capitano Joseph Bernkopf resistettero per 12 giorni, impedendo l’avanzata di quasi tutte le armi pesanti di Napoleone, cioè i cannoni, 36 cassoni e 100 altri veicoli, che perciò rimasero molto indietro, scombinando gravemente la campagna militare. Alcuni carri riuscirono a passare di notte, dopo aver seminato sulla la pista paglia e letame e coperto le ruote per attutire il rumore, ma gli altri proseguirono solo il 2 giugno, quando si fece breccia in diversi punti delle mura e il forte cadde, con un costo per Bernkopf di metà dei suoi uomini. A causa del ritardo accumulato a Forte Bardo, Napoleone dovette proseguire con una grave penuria di artiglieria e munizioni, e setacciare la Lombardia e la Toscana per requisire tutto quello che poteva.
Il 22 maggio Lannes aveva occupato Ivrea, e il Piemonte giaceva davanti all’esercito francese, ma secondo i rapporti ricevuti da von Melas (che nel frattempo aveva conquistato Nizza) nella valle d’Aosta c’erano 6000 francesi soltanto. Napoleone aveva consentito a Melas di occupare Nizza, per attirare gli austriaci sempre più a ovest prima di sferrare il suo colpo. Il 24 era ad Aosta con 33.000 uomini, e la divisione di Moncey, forte di 12.500, stava per arrivare. «Qui abbiamo colpito come il fulmine», scrisse Napoleone a Giuseppe che faceva parte del corpo legislativo a Parigi: «Il nemico non si aspettava niente del genere e quasi non riesce a crederci. Stanno per accadere grandi cose». Fu in questa fase della campagna a rivelarsi di nuovo la pura spietatezza che contribuiva a fare di Napoleone un comandante così formidabile. Invece di avanzare verso sud per liberare Genova affamata, come i suoi uomini, e anche i suoi generali in comando presumevano lo avrebbe fatto, svoltò a est verso Milano per impadronirsi dell’enorme scorta di provviste presente in città e tagliò la linea di ritirata di Melas verso il Mincio e Mantova. Ordinò a Masséna di resistere il più a lungo possibile, così da poter impegnare la forza d’assedio di Ott, e in questo modo ingannò Melas, il quale aveva dato per scontato che Napoleone avrebbe tentato di salvare Genova, e quindi, partendo da Nizza era tornato da Torino ad Alessandria per cercare di intercettare Napoleone.
Il 2 giugno Melas ordinò a Ott di levare l’assedio a Genova per concentrare il suo esercito. Ott ignorò i suoi ordini, perché Masséna aveva appena chiesto le condizioni di resa. Alle sei e mezzo di sera dello stesso giorno Napoleone entrò a Milano da porta Vercellina sotto una pioggia battente, e si insediò nel palazzo arciducale, restando alzato fino alle due del mattino per dettare lettere, ricevere l’ex reggente della Repubblica cisalpina, Francesco Melzi d’Eril, istituire un nuovo governo della città e liberare i prigionieri politici incarcerati dagli austriaci, che si servivano di Milano come del loro quartier generale in zona. Lesse anche i dispacci intercettati, provenienti da Vienna e indirizzati a Melas: ebbe dunque informazioni sulle forze nemiche, le loro posizioni e il morale delle truppe. Moncey raggiunse Napoleone a Milano con la sua divisione, ma con pochi cannoni e poche munizioni. Nel frattempo Lannes entrò a Pavia. Con gran divertimento di Napoleone fu intercettata una lettera di Melas alla sua amante che si trovava a Pavia, in cui le diceva di non preoccuparsi, perché non era possibile che un esercito francese comparisse in Lombardia.
Genova si arrese il 4 giugno; nel frattempo 30.000 dei suoi 160.000 abitanti erano morti di inedia o per le malattie associate alla denutrizione, così come 4000 soldati francesi. Altri 4000, abbastanza in forze per camminare, furono autorizzati a tornare in Francia con gli onori militari, e altri 4000 malati e feriti furono trasportati in Francia dalle navi della Royal Navy al comando dell’ammiraglio lord Keith, che aveva posto il blocco al porto, ma comprendeva il vantaggio di allontanare così tanti francesi dal teatro della guerra. La salute di Masséna era compromessa, anche perché aveva insistito per mangiare soltanto quello che mangiavano i suoi uomini. Non perdonò mai a Napoleone di non averlo soccorso. Da parte sua Napoleone, che non fu mai assediato in tutto il corso della sua carriera, criticò Masséna per non aver resistito altri dieci giorni, ricordando quando era in esilio a Sant’Elena: «Magari qualche vecchio e qualche donna sarebbero morti di fame, ma non doveva cedere Genova. Se si pensa all’umanità, sempre all’umanità, bisognerebbe smettere di andare in guerra. Io non so come va condotta una guerra all’acqua di rose».

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André Masséna, duca di Rivoli, principe d'Essling, maresciallo di Francia

Condannò Masséna persino nelle sue memorie, mettendo a confronto le sue azioni a quelle dei galli sotto Vercingetorige quando furono assediati da Cesare ad Alesia. Se in effetti Masséna fosse riuscito a resistere un’altra decina di giorni, forse Ott non sarebbe arrivato in tempo al campo di battaglia di Marengo.
Napoleone puntava a poste più alte di una singola città: voleva uccidere o catturare tutti gli austriaci a ovest di Milano. Fu la resistenza di Genova a consentirgli di arrivare alle spalle di Melas, il quale dovette perciò rinunciare al suo progetto di occupare Tolone insieme all’ammiraglio Keith e in qualche modo fu costretto a tornare a est per ripristinare le linee di comunicazione danneggiate. Piacenza e Valenza erano ora gli ultimi importanti punti per attraversare il Po che non si trovassero in mani francesi, quindi Melas inviò diverse colonne verso entrambe le città.
A Milano, Napoleone interrogò delle spie, che facevano il doppio (o forse triplo) gioco, come l’agente Francesco Toli, riguardo alle disposizioni degli austriaci. Il 4 giugno andò alla Scala, dove fu accolto da un’ovazione immensa, e quella notte dormì con la prima donna più famosa, la bella cantante ventisettenne Giuseppina Grassini; Berthier lo trovò a fare la prima colazione con lei la mattina dopo.
Melas aveva tre strade per la salvezza: attraverso Piacenza e lungo la riva meridionale del Po, verso Genova, con un’evacuazione via mare grazie alla Royal Navy, oppure attraversando il Ticino a Pavia. Il 9 giugno, tornato in campo, Napoleone tentò di bloccarle tutte e tre, ma per farlo dovette violare il suo primo principio bellico: la concentrazione delle forze. Quel giorno Lannes sconfisse Ott tra Montebello e Casteggio, costringendo gli austriaci a ritirarsi verso ovest oltre lo Scrivia, ad Alessandria, dove si unirono a Melas.
Nei tre giorni successivi, Napoleone rimase in attesa a Stradella per comprendere le intenzioni di Melas. La sera dell’11 giugno la trascorse a parlare con Desaix che era arrivato dall’Egitto proprio in tempo per lo scontro imminente, seppure senza i suoi uomini, poiché aveva approfittato di un breve armistizio con i britannici firmato da sir Sidney Smith ma non ratificato dal governo britannico. Il mese prima Napoleone aveva scritto a Desaix della loro amicizia: «Un’amicizia che il mio cuore, ormai molto vecchio e profondo conoscitore degli uomini, non nutre per nessun altro». Diede immediatamente a Desaix un corpo d’armata costituito dalle divisioni di Monnier e Boudet.


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Louis Charles Desaix, che Napoleone considerava amico fraterno, di Andrea Appiani


Alle dieci del mattino del 13 giugno Napoleone andò a cavallo a San Giuliano Vecchio. Aveva davanti i campi circostanti Marengo, circa quattro chilometri a est di Alessandra nei pressi della confluenza tra il Tanaro e la Bormida. A Marengo convergono tre strade, oltre le quali c’è un ponte sul Bormida che porta ad Alessandria: una doppia ansa del Bormida creava una posizione di testa di ponte naturale. I paesi di Castel Ceriolo, Marengo e Spinetta costeggiano il Bormida; sei chilometri più a est c’è San Giuliano. La zona tra il Bormida e Marengo era interrotta da vigne, case, fattorie e alcuni acquitrini, ma più in là il terreno pianeggiante era così vasto e piatto che uno storico militare, il colonnello Henri de Jomini, il quale anni dopo fu assegnato allo stato maggiore di Napoleone, lo definiva uno dei pochi posti in quella parte d’Italia dove le masse della cavalleria potessero attaccare a piena velocità. Nella pioggia battente di quel 13 giugno, i pochi uomini della cavalleria francese (di solito stimati in 3600) non riuscirono a esplorare per bene lo spiazzo di 365 chilometri quadrati e si limitarono ad accompagnare la fanteria che marciava verso Tortona. Fu un errore che pagarono caro.
Un’ora dopo essere arrivato a San Giuliano, Napoleone fu informato che Melas si accingeva ad andare a Genova. Sembrava che avesse del tutto abbandonato la pianura e tenesse Marengo solo per coprire la ritirata. Napoleone lasciò la divisione di Lapoype a nord del Po con il compito di impadronirsi dell’attraversamento di Valenza, e consentì a Desaix di prendere la divisione di Boudet e di dirigersi a Novi per intercettare Melas. Victor, al comando di un corpo d’armata di avanguardia, ricevette l’ordine di prendere Marengo; alle cinque di sera il generale Gaspard Gardanne attaccò circa 3000 austriaci che vi si trovavano. Mentre il generale Achille de Dampierre si avvicinava da sud, Gardanne caricò il paese. La pioggia scrosciante per un po’ rallentò l’azione, riempiendo ruscelli e fiumi prima che i francesi occupassero il paese, prendendo due cannoni e un centinaio di prigionieri. Anche se gli austriaci alle sette di sera riuscirono a fermare l’inseguimento francese con un energico cannoneggiamento dall’altra parte del Bormida, che proseguì sino alle dieci, i francesi presunsero che non avessero intenzione di combattere il giorno dopo. Non si vedevano fuochi di bivacco e le pattuglie francesi con i loro picchetti (fanteria) e le vedette (cavalleria) non riferirono di alcuna attività inconsueta, quindi il giorno dopo Napoleone non si aspettava l’importante contrattacco di Melas sul fiume. Spesso l’attività informativa era frammentaria. Le pattuglie della cavalleria, che contavano i soldati in lontananza con i telescopi, spesso in situazioni rischiose, non potevano dare informazioni esatte; in questo caso in mezzo c’era anche un fiume.
Napoleone interrogò i disertori, tra cui un ufficiale emigrato che, «con notevole onestà», portava la croce borbonica di san Luigi; Petit ricordava: «Tutti i prigionieri erano sbalorditi quando venivano a sapere che la persona con cui avevano appena parlato era Bonaparte». Ma nulla di quanto gli fu detto lo indusse a sospettare che la retroguardia austriaca avesse invertito in segreto la marcia e fosse stata raggiunta dal resto dell’esercito, o che Melas avesse deciso di sfruttare il suo vantaggio numerico di cavalleria e fanteria su Napoleone per attaccare in forze. Quindi la mattina di sabato 14 giugno 1800 Napoleone aveva sul campo di battaglia di Marengo solo 15.000 uomini circa, ripartiti in tre divisioni di fanteria e due brigate di cavalleria. Monnier e la guardia consolare erano a 12 chilometri buoni di distanza, intorno alla fattoria di Torre Garofoli, circa sei chilometri a est lungo la strada principale proveniente da San Giuliano; Napoleone vi aveva trascorso la notte e dal campanile della chiesa cinquecentesca di Sant’Agnese aveva esaminato il terreno.
Victor era a Marengo, ma Desaix, poco convinto che von Melas stesse andando verso Genova, si trovava più indietro diretto, molto lentamente, a Novi, e Lapoype stava marciando verso la riva settentrionale del Po.
Il Bormida ha sponde molto scoscese, ma la notte del 13 gli austriaci costruirono dei ponti galleggianti e li fissarono nei punti stabiliti, istituirono teste di ponte e poi dormirono senza accendere fuochi per non dare indizi ai francesi sulla loro posizione e sul numero dei loro effettivi. Alle quattro e mezzo del mattino, quando sorse il sole di una giornata che sarebbe stata torrida, 15.000 soldati francesi con 15 cannoni soltanto affrontarono le forze austriache: 23.900 uomini di fanteria, 5200 di cavalleria e 92 cannoni.31 Ma nemmeno all’alba Victor diede un quadro preciso a Napoleone, il quale si rese conto della gravità della situazione alle nove del mattino, quando l’artiglieria austriaca aprì il fuoco, e i picchetti di Gardanne vennero ricacciati indietro. Forse un precoce ed energico attacco francese alla testa di ponte avrebbe potuto evitare che gli austriaci effettuassero lo spiegamento, ma alle nove era ormai impossibile. Se gli austriaci si fossero semplicemente lanciati avanti a mano a mano che le unità attraversavano il ponte, invece di perdere un’ora per mettersi in formazione e avanzare insieme, avrebbero potuto sopraffare Victor. Un'importante sconfitta a Marengo avrebbe potuto rovesciare il consolato, perché a Parigi Sieyès e altri stavano già tramando.
Murat ordinò alla brigata di cavalleria di François-Étienne Kellermann (figlio del vincitore di Valmy) di avanzare da San Giuliano, mentre Berthier, che aveva un’ottima visuale da una collinetta a Cascina Buzana, ordinò a Victor di opporre una strenua resistenza, e mandò a dire a Napoleone di portare le truppe di Torre Garofoli il più in fretta possibile. Alle nove e mezzo Gardanne si trovava sotto un pesante fuoco di artiglieria, ma, dato che i francesi combatterono la battaglia in linea, le loro perdite furono ridotte al minimo. Lo scontro a fuoco infuriò per due ore, con i francesi che sparavano assiduamente a raffiche di plotone; i sei battaglioni di Gardanne però erano bombardati dai cannoni austriaci e dovettero arretrare lentamente al torrente Fontanone. La piccola forza di Dampierre, ben protetta in fossi e burroni alla destra degli austriaci, fu sopraffatta solo alle sette di sera, quando si arrese perché aveva finito le munizioni ed era circondata dagli ussari.
Il 14 giugno alle dieci Napoleone aveva già ordinato a Lannes di dirigersi verso Cascina La Barbotta per puntellare il fianco destro di Victor. Cantando la Marsigliese, la 6a semibrigata leggera e la 22a di linea sferrarono diversi attacchi respingendo gli austriaci oltre il Fontanone, gonfio per la pioggia della notte precedente. «Gli austriaci si batterono come leoni», ammise in seguito Victor. I francesi non vollero lasciare la linea del Fontanone quando gli austriaci contrattaccarono. A mezzogiorno la linea francese, bombardata da 40 cannoni e sotto l’incessante fuoco dei moschetti, stava restando a corto di munizioni. «Bonaparte avanzava ed esortava al coraggio e alla fermezza tutti i corpi d’armata che incontrava», ricordava Petit. «Era evidente che la sua presenza li rianimava.»

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Generale François Étienne Kellermann. Considerato il miglior generale di cavalleria dell'esercito di Napoleone.

A quel punto l’arciduca austriaco Giuseppe, fratello minore dell’arciduca Carlo, attraversò il Fontanone con la sua fanteria poichè le sponde erano troppo ripide per la cavalleria o l’artiglieria. I francesi non riuscirono a respingerlo e i suoi uomini cominciarono a costruire un ponte a traliccio, coperti dalla mitraglia dell’artiglieria che flagellava la brigata francese mandata a fermarli. Alle due del pomeriggio ormai Marengo era caduta: gli austriaci avevano messo in campo 80 cannoni, stavano attraversando il Fontanone in diversi punti e la divisione di Gardanne era distrutta, messa in fuga dal campo di battaglia, ma solo dopo avere dato tre ore e mezzo di respiro a Napoleone per organizzare il suo contrattacco. Solo la brigata di cavalleria di Kellermann, ritirandosi con cura squadrone dopo squadrone, dissuase gli austriaci dallo scatenare la loro, di cavalleria, che aveva la superiorità numerica. Mentre gli austriaci si disponevano in linea di battaglia oltre Marengo, Victor fu costretto a ritirarsi fino quasi a San Giuliano prima di poter riformare i ranghi; lo fece una volta arrivato in pianura, disponendo gli uomini a quadrato e subendo gravi perdite a causa di una batteria di 15 cannoni che gli austriaci avevano portato molto avanti.
Nel frattempo Lannes, con il fianco destro ripiegato e a corto di munizioni, fu costretto a porsi sulla difensiva di fronte all’avanzata della fanteria di Ott. Senza artiglieria, quasi circondato e bombardato dai cannoni nemici, ordinò una ritirata in pianura a poco più di un chilometro l’ora, arretrando a scaglioni con un movimento disciplinato ma costoso in termini di vite umane davanti ai cannoni austriaci. Napoleone, che ormai disponeva soltanto della divisione di Monnier e della guardia consolare come riserva, alle undici del mattino aveva mandato un messaggio disperato a Desaix dicendogli di tornare il più presto possibile con la divisione di Boudet. «Avevo pensato di attaccare il nemico, invece è stato lui ad attaccare me», diceva il suo messaggio. «In nome di Dio, tornate se ancora potete.» Per fortuna del consolato di Napoleone, Desaix non era molto lontano, come Napoleone immagginava. All’una mandò indietro un messaggero per dire a Napoleone di aspettarlo intorno alle cinque del pomeriggio. Lui e Boudet dovettero fermare la divisione, farle fare dietrofront e riportarla indietro di otto chilometri nell’intensa calura, nel frastuono dei cannoni, e ci riuscirono appena in tempo. Un messaggio analogo di Napoleone per richiamare Lapoype da molto più lontano gli arrivò soltanto alle sei di sera, quando ormai era troppo tardi.
Alle due del pomeriggio, quando Napoleone e Monnier giunsero sul campo di battaglia, la situazione non avrebbe potuto essere più grave: i francesi stavano ritirandosi lentamente al centro ed erano in rotta sulla sinistra e seriamente minacciati sulla destra. Napoleone sapeva di dover difendere la strada di Tortona, ma non poteva farlo frontalmente, quindi schierò le sue riserve sulla destra. Si poteva fare affidamento su Lannes, avrebbe difeso quella linea, che in caso di necessità poteva essere usata come via di ritirata alternativa. Il problema principale era Ott: veniva trattenuto da 600 uomini appena. Per aiutare a disimpegnare Lannes, Monnier inviò il generale Claude Carra Saint-Cyr e 700 uomini della 19a semibrigata leggera a Castel Ceriolo, difesa a malapena, mentre la 70a semibrigata di linea si mosse per sorprendere Ott alle spalle, mentre la 72a di linea veniva tenuta di riserva. In un primo momento Ott venne respinto nelle paludi della Bormida, ma dopo uno scontro a fuoco di un’ora con Saint-Cyr riconquistò il paese.
Perciò per Melas non era proprio il momento di abbandonare il campo di battaglia, tornare ad Alessandria, annunciare a Vienna una vittoria e ordinare al suo vice di prendere il suo posto, conquistare San Giuliano e mandare la cavalleria all’inseguimento dei francesi in rotta. Ma, per quanto possa stupire, fece proprio così.
Alle tre del pomeriggio, mentre un altro contingente austriaco di cavalleria scendeva in piano per minacciare il fianco di Lannes, Napoleone decise di impegnare 900 fanti della guardia consolare, che vennero schierati in colonna tra La Poggi e Villanova e cantavano “On va leur percer le flanc” (Bucheremo loro il fianco). In seguito la 96a semibrigata di linea disse di aver salvato la situazione perché aveva condiviso le sue munizioni mentre avanzava. Quando un reggimento di dragoni di Ott caricò i francesi, essi formarono un quadrato, e lo respinsero aiutati dai loro scaramucciatori e da quatto cannoni reggimentali. Poi la guardia fu attaccata dalla fanteria, con cui per 40 minuti scambiò raffiche a una portata di 50-100 metri; quel giorno vennero uccisi 260 uomini della guardia, e più o meno altrettanti rimasero feriti. Sventò tre cariche di cavalleria ma, quando la fanteria austriaca sistemò le baionette e attaccò a testa bassa, fu costretta a ritirarsi combattendo in quadrato verso La Poggi. Questo sacrificio della guardia tuttavia procurò il tempo di cui aveva bisogno Monnier per completare le sue manovre, che a loro volta diedero all’esercito in generale il tempo per riorganizzarsi. In seguito Napoleone parlò della “fortezza di granito” che era stata la guardia consolare quel giorno, conferì 24 decorazioni alla sua fanteria, 18 alla sua cavalleria e otto alla sua artiglieria.
Alle quattro del pomeriggio ormai sia la guardia consolare sia la divisione di Monnier stavano ritirandosi con disciplina mentre gli austriaci si avvicinavano a San Giuliano. I francesi arretrarono in buon ordine, un battaglione alla volta, continuando a combattere mentre si muovevano. Fu una vera e propria prova di controllo non cedere alla tentazione di rompere i ranghi in quelle circostanze, e diede i suoi risultati. La giornata continuò molto calda, senza acqua, con scarso supporto dell’artiglieria e i prolungati attacchi della cavalleria austriaca, ma le unità si ritirarono regolarmente dalle nove e mezzo alle quattro per oltre otto chilometri, senza mai rompere i ranghi.
Napoleone dispensava incoraggiamenti senza perdere la calma, e trasudava autorevolezza «con il suo consueto sangue freddo», come disse una delle sue guardie; riuscì a fare in modo che la fanteria, la cavalleria e la sua misera artiglieria si sostenessero a vicenda. «Il console sembrava sfidare la morte da vicino, poiché più di una volta si videro pallottole conficcarsi nel terreno tra le zampe del suo cavallo», ricordava Petit. Ormai aveva completamente utilizzato le sue riserve, gli restavano soltanto 6000 uomini della fanteria su un fronte di otto chilometri, con 1000 effettivi di cavalleria e solo sei cannoni utilizzabili; inoltre il suo esercito era esausto, disperatamente assetato, a corto di munizioni e con un terzo degli uomini fuori combattimento; e tuttavia si comportava come se la vittoria fosse certa. Riusciva persino a essere allegro.
Mentre una fitta massa di fanteria austriaca si accingeva ad avanzare, Napoleone ordinò a Berthier di organizzare una ritirata sicura mentre lui andava a villa Ghilina a cercare di individuare Desaix dal tetto. Vedendo la polvere sollevata dalla colonna di Desaix, le andò incontro a cavallo per farla affrettare, e poi subito revocò l’ordine di ritirata a Berthier. Vedendo arrivare Desaix a cavallo un po’ davanti ai suoi uomini che erano a piedi, l’esercito si rincuorò. Quando Boudet giunse a San Giuliano, e Lannes, Monnier e Watrin fecero disporre i loro uomini su una specie di linea di battaglia, gli austriaci fermarono le loro colonne e cominciarono a schierarsi il linea per quello che pensavano sarebbe stato l’ultimo assalto trionfante. «Per oggi siamo arretrati abbastanza», dichiarò Napoleone nella sua arringa agli uomini. «Soldati, ricordate che ho l’abitudine di bivaccare sul capo di battaglia!»
Mettendo in campo i sei cannoni ancora utilizzabili, integrati dai cinque della riserva e dagli otto di Boudet, ora Marmont aveva una batteria rispettabile da collocare in posizione lievemente elevata. Boudet schierò sulla strada principale i suoi 4850 effettivi di fanteria in ordine misto, in parte nascosti da siepi e vigne. Napoleone cavalcava lungo la linea incoraggiando gli uomini; ora aveva 11.000 uomini di fanteria e 1200 di cavalleria per il suo tanto atteso contrattacco.
Alle cinque di sera, quando gli austriaci avanzarono, il fronte dei loro reggimenti centrali fu dilaniato dal fuoco di mitraglia della batteria di Marmont. Come a Rivoli, una palla fortunata colpì un carro di munizioni che esplose e provocò il caos. Gli austriaci indietreggiarono bruscamente e l’effetto traumatico fu grave, soprattutto quando la divisione di Boudet avanzò contro di loro. Poco dopo, gli austriaci presero a caricare con forza, costringendo Boudet sulla difensiva; ma proprio mentre poco meno di 6000 fanti austriaci sparavano una raffica di moschetto e poi caricavano alla baionetta, Kellermann lanciò la sua cavalleria, che si era avvicinata tra gli alberi nascosta tra le vigne. Gli austriaci avevano i moschetti scarichi quando 400 uomini del 2° e del 20° reggimento di cavalleria si schiantarono sul fianco sinistro della colonna centrale di granatieri ungheresi. Il 2° cavalleria sciabolò tre battaglioni, prendendo 2000 prigionieri e mettendo in fuga 4000 uomini. Immediatamente dopo, Kellerman fece voltare i 200 uomini che erano stati nelle retroguardia dell’ultima carica e attaccò circa 2000 uomini della cavalleria austriaca, che erano rimasti inattivi, mettendo in rotta anche loro.
Quindi l’esercito francese avanzò su tutto il fronte. Fu in quel momento di trionfo che Desaix fu colpito al petto e ucciso. «Perché non mi è consentito piangere?» disse Napoleone affranto apprendendo la notizia, ma doveva concentrarsi sulla direzione dell’assalto successivo. I seguenti attacchi di Kellerman fecero sì che la cavalleria austriaca finisse per caricare la sua stessa fanteria, gettarono nel caos le forze nemiche e consentirono a Lannes, Monnier e alla guardia consolare di completare la vittoria avanzando su tutti i fronti. «Il destino di una battaglia è il risultato di un solo istante; un pensiero», avrebbe detto in seguito Napoleone parlando di Marengo. «Viene il momento decisivo, una scintilla morale si accende e la più piccola riserva consegue una vittoria.» Le truppe austriache, che si erano battute con coraggio tutto il giorno, crollarono semplicemente per il trauma e la tensione di vedersi soffiare la vittoria, e fuggirono in disordine ad Alessandria.
Quando la notizia di Marengo giunse a Parigi, i titoli di stato che sei mesi prima valevano 11 franchi, e subito prima della battaglia 29, balzarono a 35 franchi. Dopo la battaglia, il 22 giugno, Napoleone ordinò a Masséna di «saccheggiare e bruciare il primo paese che si rivolti in Piemonte» e il 4 novembre disse a Brune: «Tutti gli stranieri, ma soprattutto gli italiani, di tanto in tanto vanno trattati con severità». Ma ora che gli austriaci erano stati espulsi per la seconda volta, l’Italia settentrionale fu pacificata in fretta con pochissimi atti di repressione, e sarebbe rimasta calma per i 14 anni successivi. Marengo confermò Napoleone nella sua posizione di primo console, e incrementò il mito della sua invincibilità.
A Marengo Napoleone aveva fatto lavorare in perfetto concerto fanteria, artiglieria e cavalleria; comunque la fortuna aveva giocato un ruolo essenziale nella vittoria, ottenuta in larga parte per lo sconcerto provocato dall’arrivo di Desaix sul campo proprio nel momento psicologicamente giusto, e lo straordinario tempismo delle cariche di cavalleria di Kellermann. I francesi riconquistarono in un’ora il terreno pianeggiante che gli austriaci avevano impiegato otto ore a occupare. I coscritti francesi, guidati dai veterani, si erano comportati molto bene.

marengo

La battaglia di Marengo

Il giorno dopo la battaglia, Napoleone scrisse agli altri consoli: «Provo il più profondo dolore per la morte di un uomo che amavo e rispettavo moltissimo». Trasferì Savary e l’altro aiutante di campo di Desaix, Jean Rapp, nel suo stato maggiore in segno di rispetto.
Giova rimarcare che il destino di Napoleone sembrava concluso quel 14 giugno 1800 nel villaggio piemontese di Marengo. Il giovane Primo Console aveva attraversato le Alpi con l’esercito, come Annibale, era entrato a Milano, aveva vinto a Montebello contro il generale Ott von Bátorkéz e sperava che l’avversario austriaco, barone Melas, fosse facile preda. Davanti alla fattoria di Marengo Bonaparte non ha dubbi, fiducioso nella dottrina militare di mobilità, sorpresa, manovra indiretta, cariche alla baionetta, opposta alla rigida sintassi della guerra classica, quadrati e le linee di fanteria, cariche di cavalleria prevedibili come un palio. Michael Friedrich Benedikt Baron von Melas ha 71 anni, combatte da quando ne aveva 17 e detesta Napoleone. Vuol batterlo a Marengo e restaurare l’ordine di Dio e Corona sradicato nel 1789. Il futuro imperatore non crede invece che l’anziano barone osi attaccarlo, e si persuade che le prime cariche austriache siano astuti diversivi per coprire la ritirata. Ordina quindi al generale Louis Charles Antoine Desaix, 31 anni, di allontanarsi all’inseguimento di Melas. Napoleone sbaglia. L’attacco di Melas è autentico. Il generale francese Berthier respinge per due volte gli austriaci sul torrente Fontanone e chiama il generale Lannes a sostegno. Non basta. La pressione aumenta tra artiglieria e fucilate. Alle 2 e 30 i francesi sono esausti, gli austriaci sfondano. Von Bátorkéz, che vuole vendicare Montebello in quella che sarà la sua ultima battaglia, occupa Castel Ceriolo, i dragoni si ritirano e la fattoria di Marengo cade, attaccata da Melas. Va avanti la Guardia consolare, si ritirano i fanti di Berthier verso San Giuliano Vecchio. Napoleone ordina avanti il poco che ha di riserva, guarda con ansia le posizioni di Kellerman. Richiama al galoppo il generale Desaix, carta disperata, dovrebbe essere già lontano dietro il fantasma di Melas. Ma il generale Desaix è uomo straordinario, Napoleone lo stima «migliore tra i miei generali». Aristocratico arruolato dalla Rivoluzione, durante il Terrore rischia la ghigliottina, combatte in Baviera e in Egitto, alla Battaglia delle Piramidi, tiene testa ai Mamelucchi. Coraggioso, saggio e sereno ha scritto un bel libro di memorie. Desaix non crede alla finta di Melas. Disobbedendo agli ordini non s’è allontanato a marce forzate, ma molto lentamente, e quando arriva il retrofront è pronto. Piomba a Marengo, la luce ancora chiara. Napoleone lo informa della débâcle. Desaix chiede «Che ora sono? Le 17?» e conclude «Questa battaglia è perduta. Ma c’è tempo per vincerne un’altra». Sostenuto da Kellerman, Desaix attacca gli austriaci, persuasi di avere già vinto. Il barone Melas s’è ritirato ad Alessandria, i soldati increduli davanti alla rinnovata furia francese. La carica di Desaix è vincente, le casacche austriache, nel gran fumo dei moschetti, nel turbinare delle sciabole dei dragoni, arretrano, si ritirano, sconfitte alle prime ombre della sera. Il giorno dopo uno sconfortato Melas firma la Convenzione di Alessandria e si ritira ad est del Mincio. Napoleone è padrone del teatro di guerra. Combattono a Marengo 28 mila francesi con 25 cannoni, subendo 1100 morti, 3600 feriti, un migliaio tra prigionieri e dispersi. Gli austriaci sono 30 mila con 100 cannoni, soffrono mille caduti, 5500 feriti, 2900 prigionieri e perdono 15 cannoni e 40 bandiere. Tra i morti, nei primissimi minuti della carica conclusiva, il generale Desaix. Con i se non si fa la storia ma giova dire che la morte di Desaix fu una grave perdita per Napoleone; Desaix, infatti, era l'unico che Napoleone ascoltava seriamente e forse se lui ci fosse ancora stato avrebbe evitato a Napoeone i due grandi errori strategici: concedere all'Inghilterra il dominio assoluto sui mari e la campagna di Russia.
La pace in Italia venne sancita con il trattato di Lunéville, che in pratica riconfermava il precedente trattato di Campoformio violato dagli austriaci. Nel 1802 Napoleone venne proclamato Presidente della Repubblica Italiana, titolo che conserverà sino al 17 marzo 1805 quando assumerà quello di Re d'Italia, mentre il patrizio milanese Francesco Melzi d'Eril ne fu nominato vice Presidente. Con la pace di Amiens del 1802 anche l'Inghilterra firma la pace con la Francia. Napoleone aveva distrutto la nuova coalizione antifrancese, assicurandosi anche l'appoggio dello zar di Russia Alessandro I. Per due anni l'Europa fu finalmente in pace.
Nel 1802 Napoleone vendette una parte del Nord America agli Stati Uniti come parte dell'Accordo sulla Louisiana: egli aveva appena fronteggiato un grosso problema militare quando l'esercito, mandato a riconquistare Santo Domingo, dopo aver affrontato la rivolta capeggiata da Toussaint Louverture, fu colpito dalla febbre gialla. La rivolta fu comunque stroncata. Con le forze dell'Ovest in condizioni tali da non poter agire, Napoleone capì che non avrebbe potuto difendere la Louisiana e decise di venderla (8 aprile 1803).
Rapporti con il papato.
Durante la rivoluzione francese l’anticlericalismo era stato una forza trainante, che aveva sottratto alla chiesa cattolica la sua ricchezza, espulso e in molti casi trucidato i suoi sacerdoti e dissacrato i suoi altari. Ma Napoleone intuiva che molti dei suoi naturali sostenitori (operai specializzati, artigiani e piccoli proprietari, tutta gente di campagna, conservatrice e industriosa) non avevano abiurato la fede dei loro padri e desideravano ardentemente un accordo tra la chiesa cattolica romana e il consolato. Tuttavia qualsiasi accordo avrebbe dovuto garantire a quanti avevano acquisito le proprietà nazionali possedute in precedenza dalla chiesa (gli acquéreurs) di conservarle, e la certezza di non tornare ai vecchi tempi, in cui la popolazione rurale era costretta a pagare la decima ai preti.
Per qualche tempo Napoleone aveva rispettato il papa, perché era in condizione di organizzare insurrezioni in Italia, e nell’ottobre 1796 aveva detto al Direttorio: «È stato un grave errore litigare con quella potenza». Nel suo incontro con il clero milanese del 5 giugno 1800 aveva promesso di «rimuovere tutti gli ostacoli sul cammino di una completa riconciliazione tra la Francia e il capo della chiesa». Pio VI era morto l’agosto precedente a 81 anni. Il nuovo papa, Pio VII, in fondo era un semplice e santo monaco, con opinioni sulle questioni sociali in linea di principio non apertamente ostili alla rivoluzione francese. Napoleone sapeva che qualsiasi negoziato sarebbe stato delicato, ma il premio in palio era grande: l’adesione della Francia cattolica alla causa napoleonica. Un accordo con il papato avrebbe eliminato una delle rivendicazioni fondamentale dei ribelli ancora rimasti in Vandea, e forse avrebbe potuto migliorare i rapporti con i cattolici in Belgio, Svizzera, Italia e anche nella Renania.
La Francia aveva una popolazione di circa 28 milioni di persone, un quinto delle quali risiedevano in zone urbane con oltre 2000 abitanti; la maggior parte degli altri vivevano in 36.000 comuni rurali con poche centinaia di residenti. Napoleone si rendeva conto che sarebbe stato un inestimabile vantaggio se colui che in tali comunità svolgeva l’importante ruolo sociale di diffondere le informazioni, spesso la persona più istruita con il compito di leggere a voce alta i decreti governativi, fosse stata sul libro paga nazionale. «Il clero è una potenza che non è mai tranquilla», disse una volta Napoleone. «Non puoi essere in obbligo nei suoi confronti, piuttosto devi essere il suo padrone.» Il suo trattato con il papato è stato descritto come un tentativo «di assumere i preti delle parrocchie come “prefetti morali”».
Nonostante i suoi atteggiamenti verso la sostanza della fede cristiana, non aveva dubbi riguardo alla sua utilità sociale: «Nella religione non vedo il mistero dell’Incarnazione, ma il mistero dell’ordine sociale», disse a Roederer, uno dei pochi consiglieri di stato ammessi ai negoziati segreti. «Associa il paradiso a un’idea di eguaglianza grazie alla quale si evita il massacro dei ricchi da parte dei poveri […] La società non è possibile senza ineguaglianza, l’ineguaglianza intollerabile senza un codice di moralità, e un codice di moralità inaccettabile senza la religione.» Aveva già mostrato in Egitto quanto fosse flessibile nell’usare la religione per finalità politiche; una volta spiegò a Roederer: «Se governassi un popolo di ebrei, ricostruirei il tempio di Salomone!». Questa visione sostanzialmente pragmatica della religione era comune tra i pensatori e gli scrittori dell’Illuminismo. In Declino e caduta dell’Impero romano, Edward Gibbon, come è noto, scrisse: «I diversi culti religiosi praticati nel mondo romano erano considerati dal popolo tutti ugualmente veri, dal filosofo tutti ugualmente falsi, dal magistrato tutti ugualmente utili». «L’idea di Dio è molto utile per mantenere il buon ordine, tenere gli uomini sul sentiero della virtù e lontani dal crimine».
Nel giugno 1800, non appena tornato a Parigi da Milano, Napoleone aprì le trattative con il segretario di stato del Vaticano, il cardinale Ercole Consalvi, offrendo di restaurare appieno il culto pubblico in Francia se tutti i vescovi francesi rinunciavano alle loro sedi vescovili e consentivano a Napoleone di sceglierne di nuovi che sarebbero poi stati “nominati” dal papa. (Dal 1790 i vescovi francesi si erano divisi tra ortodossi, che riconoscevano soltanto l’autorità del papa, e costituzionalisti, che avevano prestato giuramento di obbedienza al governo.). I negoziati, condotti per parte francese da Giuseppe Bonaparte e dall’ex capo della Vandea Étienne-Alexandre Bernier, e per il Vaticano da Consalvi, dal legato papale, il cardinale Giovanni Caprara, e dal consigliere teologico del papa, Charles Caselli, si svolsero in segreto, senza obbligo di renderne conto nemmeno al consiglio di stato. Nel corso di un anno furono scambiati 1279 documenti, e vennero stilate almeno dieci bozze d’accordo. «Si dovrebbe rendere a Dio quello che è di Dio, ma il papa non è Dio», disse in seguito Napoleone.
Anche se il concordato fu firmato ufficialmente in luglio, venne ratificato e pubblicato solo nove mesi dopo; nel frattempo Napoleone aveva cercato di placare l’intensa opposizione che incontrava nell’esercito e in parlamento. «Il governo della repubblica riconosce che la religione cattolica apostolica romana è la religione della grande maggioranza dei cittadini francesi», esordiva il concordato. «Parimenti, sua Santità riconosce che questa stessa religione ha derivato e probabilmente deriverà il massimo splendore dall’istituzione del culto cattolico in Francia, e dal fatto che venga apertamente professato dai consoli della repubblica.» Nei 17 articoli successivi affermava che la fede cattolica sarebbe stata «liberamente professata in Francia […] in conformità ai regolamenti […] che il governo riterrà necessari per la quiete pubblica».
Ci sarebbero state nuove diocesi e parrocchie. Napoleone e il papa insieme avrebbero nominato dieci arcivescovi (con uno stipendio annuo di 15.000 franchi ciascuno) e 50 vescovi (10.000 franchi ciascuno); i vescovi avrebbero giurato di non fare nulla per “turbare la quiete pubblica” e avrebbero comunicato al governo tutte le informazioni riguardo a quanti lo facevano; in tutte le funzioni religiose sarebbe stata inserita una preghiera per la repubblica e i consoli; i vescovi avrebbero nominato i preti delle parrocchie, purché fossero accettabili per il governo. Il concordato consolidava il trasferimento di terre avvenuto durante la rivoluzione: tutte le proprietà un tempo della chiesa appartenevano “per sempre” agli acquéreurs.
Con la fine dello scisma, almeno 10.000 preti “costituzionalisti” tornarono in seno alla chiesa romana, e una delle principali ferite della rivoluzione fu guarita. Napoleone, l’8 aprile 1802 inserì nel concordato una nuova montagna di restrizioni e regole, note come “articoli organici”, che proteggevano i diritti dei 700.000 protestanti e dei 55.000 ebrei francesi.
Anche se in generale il concordato fu accolto bene in Francia, soprattutto nelle aree rurali più conservatrici, suscitò profonda ostilità nell’esercito, nel consiglio e nel Tribunato, dove brulicavano ancora gli ex rivoluzionari ed ex giacobini. Venne ufficialmente proclamato in pompa magna durante una messa del Te Deum a Notre-Dame la domenica di Pasqua, il 18 aprile 1802: le campane tenore suonarono per la prima volta dopo dieci anni, e Napoleone fu ricevuto dall’arcivescovo di Parigi di recente nomina, Jean-Baptiste de Belloy-Morangle. Di lì a un mese il Tribunato lo approvò per settantotto voti a sette. Il concordato rimase alla base dei rapporti tra la Francia e il papato per un secolo.

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