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Napoleone Bonaparte


Considerazioni sull'uomo
Nel Memoriale di Sant'Elena Napoleone esprime le sue considerazioni sulla battaglia di Waterloo, confermando di aver ritenuto la situazione molto favorevole e di aver creduto in una facile vittoria. L'Imperatore critica aspramente i suoi avversari; Blücher e Wellington, sorpresi dalla sua strategia, avrebbero commesso gravi errori strategici e in particolare il generale britannico avrebbe, secondo Napoleone, disposto le sue truppe in una posizione pericolosa e non avrebbe mostrato alcuna abilità tattica; la sua sconfitta nella battaglia, senza l'arrivo dei prussiani sarebbe stata certa. Wellington «dovrebbe accendere un bel cero a Blücher», i suoi errori «furono enormi» e i suoi ordini «penosi», mentre «ammirevoli» furono le truppe britanniche. In conclusione, Napoleone nel memoriale loda le truppe francesi «che non si batterono mai meglio» e non ammette di aver commesso gravi errori tattici o strategici; in pratica la sconfitta sarebbe stata dovuta soprattutto all'incomprensibile comportamento dei suoi luogotenenti, in particolare i marescialli Ney e Grouchy.
Gli storici moderni non hanno accolto l'interpretazione napoleonica dell'esito della campagna di Waterloo e anche gli autori francesi non negano alcuni evidenti errori dell'imperatore; Jean Tulard afferma che gli errori di Napoleone sono innegabili, mentre Henri Lachouque, uno dei maggiori storici militari dell'epopea napoleonica, afferma che la responsabilità ultima della sconfitta non può che spettare al comandante supremo malgrado le deficienze esecutive dei suoi luogotenenti. Lo storico francese in particolare evidenzia come il comportamento di Napoleone nella sua ultima campagna fu spesso in contrasto con i suoi stessi principi strategici; egli perse tempo in alcune occasioni decisive, accettò di combattere sul campo di battaglia scelto dall'avversario, non concentrò tutte le forze disponibili. Secondo Lachouque, in realtà Napoleone mostrò esitazioni e compì errori soprattutto perché egli aveva ormai perso fiducia nella sua fortuna e nel suo destino; anche Georges Lefebvre rimarca, oltre al declino della salute fisica dell'imperatore, i suoi dubbi sul successo della sua ultima impresa. Jacques Bainville descrive il carattere disperato per i francesi della fase finale della battaglia, la loro «sepolcrale» disfatta nella «cupa pianura» di Waterloo, i loro drammatici eroismi e i cedimenti di fronte all'incolmabile superiorità del nemico; elenca «dimenticanze e distrazioni incredibili» che pregiudicarono l'esito della campagna che egli peraltro ritiene «persa in partenza»; lo storico francese descrive il comportamento di Napoleone oscillante tra temeraria sicurezza ed eccessiva prudenza. In conclusione Bainville ritiene che «niente riuscì perché niente doveva riuscire» a causa soprattutto della mutevolezza dello spirito dell'imperatore e per la sua «segreta disperazione».
Anche lo storico britannico David G. Chandler, che pure non esenta da colpe Grouchy, Ney e Soult, ritiene in ultima analisi che «fu Napoleone in persona a scegliere questi tre comandanti, nonché i componenti del suo stato maggiore, quindi la responsabilità globale va attribuita a lui» e, in relazione all'attacco a Hougoumont, all'avanzata del I Corpo d'armata in formazione tattica superata, alle deleterie cariche della cavalleria e al ritardato contrasto dell'attacco prussiano a Plancenoit, «lo si può criticare perché non intervenne subito al momento giusto per dare una svolta diversa alla battaglia».
Henry Houssaye, massimo storico francese della battaglia di Waterloo, fornisce un'interpretazione diversa del comportamento di Napoleone sul campo di battaglia: egli afferma che il piano dell'imperatore di massiccio attacco frontale al centro delle linee nemiche era in pratica il solo che garantisse, in caso di successo, una vittoria schiacciante e decisiva. Inoltre l'autore francese confuta la classica immagine di Napoleone a Waterloo, descritto come abulico, sofferente, confuso; al contrario, basando la sua analisi su un preciso riscontro cronologico delle disposizioni e dei movimenti dell'imperatore, Houssaye conclude affermando che in realtà Napoleone cercò disperatamente fino all'ultimo di raggiungere la vittoria, intervenendo costantemente nell'azione tattica per rimediare agli errori dei generali e controllando tutte le fasi della battaglia più strettamente che nelle precedenti campagne; egli lottò contro le crescenti difficoltà e tentò di fare fronte al progressivo fallimento di tutti i suoi piani, causato soprattutto dalla deplorevole azione esecutiva dei suoi subordinati.
Lo storico britannico Chandler afferma, ancora, che l'azione di comando di Wellington «nelle fasi decisive fu superiore a quello del suo avversario»; «il duca era inferiore a Bonaparte nelle scelte strategiche di fondo, ma superiore in alcuni accorgimenti tattici», inoltre «fu per tutto il giorno totalmente concentrato su quanto accadeva intorno a lui, senza mostrare un attimo di stanchezza, sempre straordinariamente attivo ed energico». L'autore britannico non trascura alcuni errori del comandante in capo alleato: la decisione di inviare una parte delle sue forze lontano dal campo di battaglia lo privò di parecchi uomini che avrebbero potuto rivelarsi utili in assenza dei prussiani. La cavalleria pesante britannica, impiegata incautamente, subì ingenti perdite, così come venne decimata la brigata di Bylandt, schierata in una posizione troppo esposta all'artiglieria francese; non rifornire di munizioni il maggiore Baring fu la causa principale della caduta di La Haye Sainte. Tuttavia, secondo Chandler, «il coraggio e la tenacia di Wellington – e delle truppe alleate di diverse nazionalità al suo comando […] – contribuirono in misura determinante alla vittoria».
Chandler, pur esaltando come la gran parte degli storici britannici, l'azione dei comandanti e delle truppe britanniche, ammette peraltro che la battaglia di Waterloo non sarebbe stata vinta dai coalizzati senza l'intervento dei prussiani. Per molti studiosi tedeschi l'esercito di Blücher sarebbe stato l'elemento decisivo della vittoria; alcuni storici britannici invece ne sminuiscono l'apporto dato alla battaglia; in realtà nessuno dei due comandanti avrebbe potuto prevalere da solo contro Napoleone. Secondo Chandler, Blücher «non valeva quanto Napoleone o Wellington, né per doti intellettuali né per competenza professionale», ma mantenne a ogni costo la promessa fatta a Wellington di inviare aiuti, inoltre fu di grande stimolo per i suoi uomini durante la marcia di avvicinamento. Il generale von Gneisenau, capo di stato maggiore, non nutriva invece altrettanta fiducia nei britannici; durante la marcia verso Mont-Saint-Jean, Gneisenau «impartì ordini vaghi, lasciando ai suoi generali ampi margini di discrezionalità». Chandler considera molto importante il ruolo del barone von Müffling.
Lo storico russo Evgenij Viktorovic Tàrle invece ha enfatizzato il ruolo dei prussiani che egli considera decisivo; l'autore afferma che le capacità militari di Napoleone si dimostrarono ancora superiori anche nel 1815 e ritiene che la sconfitta dell'esercito britannico sarebbe stata certa senza la «perseveranza di Blücher», che «salvò Wellington dall'imminente, terribile, disfatta». Il suo piano prevedeva una manovra su due ali che avrebbero diviso e sconfitto separatamente i prussiani e i britannici prima che, superiori di numero, potessero congiungersi. L'ala destra da lui comandata impegnò e sconfisse i prussiani del generale Blücher nella battaglia di Ligny, mentre il maresciallo Ney attaccò i britannici del duca di Wellington a Quatre-Bras, ma nessuno dei due combattimenti ebbe esito determinante. Così si giunse al 18 giugno 1815, la giornata della battaglia di Waterloo, descritta anche da Victor Hugo. Il piano strategico generale di Napoleone venne vanificato da alcuni errori dei suoi marescialli, principalmente Emmanuel de Grouchy, il quale, inviato a intercettare la colonna prussiana sfuggita a Ligny, in pratica si limitò solo a inseguire la retroguardia delle forze prussiane che si erano intanto riorganizzate e che, grazie alla loro determinazione, riuscirono a ricongiungersi con Wellington proprio nella fase decisiva della battaglia. Le forze britanniche del duca di Wellington e quelle prussiane di Blücher riuscirono a sconfiggere i francesi.

Al di là delle valutazioni dei vari storici sul perchè della sconfitta di Waterloo, e sui meriti di questo o quello, io ritengo che Napoleone fu sconfitto e come capo la responsabilità fu sua, se isuoi generali sbagliarono era stato lui a sceglierli, se Talleyrand, Fouchè e Bernadotte lo tradirono avrebbe dovuto prevederlo in tempo, che la Gran Bretagna fosse un pericolo serio avrebbe dovuto saperlo.
Ma giova ricordare che le sconfitte di Lipsia e Waterloo erano figlie di precedenti errori. La campagna del Portogallo e della Spagna furono i primi errori; la Francia era molto carente sul mare, mentre la Spagna era l'unica potenza che avrebbe potuto contrastare l'Inghilterra; pertanto un patto di alleanza e non di vassallaggio con la Spagna avrebbe potuto consentire alla Francia di non lasciare alla Gran Bretagna il predominio dei mari. E questo fu un altro errore esiziale. La guerra contro la Russia avrebbe dovuta essere condotta con veloci manovre ai suoi confini e non con l'attraversamento di un territorio enorme e pieno di insidie. Nella decisiva battaglia di Lipsia avrebbe dovuto chiamare una buona parte delle truppe dislocate in Spagna, Italia e Germania.

Ma occorre analizzare Napoleone in base a quello che ha fatto e per il retaggio che ha lasciato.
Quando si proclamò imperatore, Napoleone comprese che bisognava andare oltre la mera virtù repubblicana per creare lo spirito di corpo necessario a infiammare le sue truppe; perciò, con i suoi proclami e i suoi discorsi, gli ordini del giorno e soprattutto la Legion d’onore, fece appello al principio dell’onore militare per accendere ciò che lui stesso definiva il “sacro fuoco” del valore marziale. Napoleone riuscì a fondere insieme elementi dell’ancien régime e delle armate rivoluzionarie, e a creare una nuova cultura militare fondata sull’onore, il patriottismo e un’assoluta devozione personale a lui, che conduceva le truppe.
Comunque, anche se non fosse stato un grande conquistatore, Napoleone rimarrebbe uno dei giganti della storia moderna, perché i suoi risultati in ambito civile furono pari a quelli militari, ma ben più duraturi. Anche se il Terrore era terminato nel luglio 1794, i giacobini continuavano a essere potenti; ma quando, nell’ottobre del 1795, Napoleone li sbaragliò a colpi di cannone per le strade di Parigi insieme agli altri insorti di vendemmiaio, cessarono di esistere come forza politica. Dopo il Terrore e la decadenza e il caos del direttorio, la maggior parte dei francesi desiderava una repubblica di stampo conservatore, e la ottenne da un uomo il cui ideale di società era sostanzialmente una versione ingrandita dell’esercito, guidata sul piano politico e militare dal suo comandante in capo. «Abbiamo messo fine al romanzo della rivoluzione», proclamò Napoleone in una delle prime riunioni del consiglio di stato. Da molti punti di vista, fu l’ultimo e il più grande dei despoti illuminati dell’Europa del Settecento che avevano cominciato a introdurre il razionalismo nel sistema di governo e a impegnarsi per migliorare le condizioni di vita dei loro sudditi. Goethe disse che Napoleone era «sempre illuminato dalla ragione», «Viveva in uno stato costante di illuminazione. Napoleone era l’Illuminismo a cavallo».
Nel 1804 fu proclamato imperatore della repubblica francese: in apparenza è una contraddizione nei termini, ma in realtà una precisa definizione della natura del suo comando. Napoleone conservò e protesse gli aspetti migliori della rivoluzione francese (uguaglianza di fronte alla legge, razionalismo del governo, meritocrazia), sbarazzandosi dell’inutilizzabile calendario rivoluzionario con settimane di dieci giorni e del culto dell’Essere supremo, nonché della corruzione, della lottizzazione, e dell’iperinflazione che caratterizzarono gli ultimi giorni della repubblica. Nei 16 anni in cui rimase al potere, gran parte delle migliori idee su cui si fonda la moderna politica democratica (meritocrazia, uguaglianza di fronte alla legge, diritti di proprietà, tolleranza religiosa, educazione laica, finanze solide, amministrazione efficiente eccetera) vennero recuperate dal vortice rivoluzionario, protette, codificate e consolidate. Come quasi tutti i regimi europei dell’epoca, il regime di Napoleone esercitava la censura sulla stampa e manteneva una polizia segreta che applicava un sistema di sorveglianza abbastanza efficiente.
Pur avendo un potere eccezionale, non lo esercitava in modo spietato o vendicativo, trascinato dalla consuetudine còrsa delle faide. Se lo avesse fatto, uomini che continuavano a tradirlo, come Fouché, Murat e Talleyrand, non sarebbero stati tollerati così a lungo.
Anche se alla fine del 1815 la Francia fu costretta a tornare alle sue frontiere prenapoleoniche, la ristrutturazione del paese operata da Napoleone era ormai così radicata che i Borboni, quando ripresero il potere, non poterono annullarla. Di conseguenza, gran parte delle sue riforme civili rimasero in vigore per decenni, o persino per secoli. Il codice napoleonico sta alla base di gran parte dell’attuale legislazione europea, e diversi suoi elementi sono stati adottati da 40 paesi in tutti i continenti abitati. I ponti che fece costruire attraversano ancora la Senna, e i suoi bacini, i canali e le condotte fognarie sono ancora in uso. Il ministero degli esteri francesi si erge su parte dei 33 chilometri di banchine in pietra che fece costruire lungo il fiume, e la corte dei conti controlla ancora i rendiconti della spesa pubblica più di due secoli dopo la sua fondazione. I licei continuano a garantire un’ottima istruzione, e il consiglio di stato si riunisce ogni mercoledì per esaminare le nuove proposte di legge. Le “masse di granito” che Napoleone si vantava di gettare per ancorare la società francese resistono ancora oggi.
Nel 1792 la Francia divenne una nazione, decisa a esportare i valori e gli ideali della rivoluzione nel resto dell’Europa. Ma i sovrani d’Europa non ne volevano sapere, e formarono la prima di sette coalizioni per impedire quell’intromissione. Tali guerre furono ereditate da Napoleone che, grazie alla sua abilità militare, per un certo tempo riuscì a portarle a una trionfante conclusione. In Gran Bretagna, che aveva già avuto la propria rivoluzione politica 140 anni prima e quindi già godeva dei molti vantaggi che la rivoluzione aveva portato alla Francia, la minaccia napoleonica, prima di invasione e poi di sottomissione per strangolamento economico, spinse i diversi governi succedutisi al potere alla prevedibile determinazione di spodestarlo. Le dinastie regnanti di Austria, Prussia e Russia rifiutarono altrettanto prevedibilmente le sue offerte di pace a condizioni dettate dai francesi. Quindi gli giunsero ben più dichiarazioni di guerra di quante non ne inviò lui ad altri paesi; ma le ostilità del 1813, 1814 e 1815 non furono scatenate da Napoleone. Lui fece proposte di pace prima dello scoppio di ognuno di questi conflitti.
«Ci sono due modi per costruire un ordine internazionale», ha scritto Henry Kissinger a proposito dell’Europa postnapoleonica; «con la volontà o con la rinuncia; con la conquista o con la legittimazione.» Per Napoleone era percorribile soltanto la via della volontà e della conquista, e su quella si incamminò. Si vantava di appartenere «alla razza che fonda imperi», ma sapeva benissimo che la legittimità del suo regime dipendeva dal mantenimento della potenza francese in Europa, da ciò che lui stesso definiva il suo onore e l’onore della Francia. Per quanto nel 1810, o ancora nel 1812, avesse molto potere, sapeva che le sue conquiste non avevano avuto tempo sufficiente per legittimare il suo dominio.
Infine, c’è il fascino dell’uomo. Le 33.000 lettere presentate in splendida edizione dalla Fondation Napoléon, sono una straordinaria testimonianza della sua mente prodigiosa. La sua corrispondenza con astronomi, chimici, matematici e biologi rivela un profondo rispetto per il loro lavoro e una capacità di comprensione che si riscontra molto raramente negli uomini di stato. «Sono sempre al lavoro, e rifletto molto», disse l’imperatore a Roederer nel marzo del 1809; «se sono sempre pronto a rispondere su qualsiasi cosa, e capace di affrontare qualsiasi problema, è perché, prima di impegnarmi in qualcosa, rifletto a lungo e prevedo tutto quanto può accadere. Non è il genio a rivelarmi d’un tratto in modo misterioso che cosa devo dire in una circostanza imprevista da altri; è la riflessione, la meditazione, lo studio.» Quanto a pura capacità intellettuale e a costante applicazione nel governo, probabilmente non c’è mai stato in tutta la storia un governante che possa stargli alla pari.
Era mosso dall’ambizione, naturalmente; ma questa caratteristica, unita a una straordinaria energia, a una prodigiosa capacità amministrativa, a una memoria quasi fotografica delle cose e delle persone, a una mente acuta e disciplinata, nonché a una precisa idea di ciò che la Francia poteva ottenere e di come l’Europa poteva essere organizzata, non dovrebbe sorprenderci. Persino suo fratello Luigi, che Napoleone depose dal trono d’Olanda, alla fine giunse a dire: «Proviamo soltanto a pensare alle difficoltà affrontate da Napoleone, agli innumerevoli nemici, interni ed esterni, contro i quali dovette combattere, a tutte le trappole che gli furono tese, alla continua tensione a cui era sottoposta la sua mente, alla sua incessante attività o agli incredibili sforzi che dovette compiere, e le critiche verranno subito spente dall’ammirazione».
I familiari
Dopo Waterloo, gran parte della famiglia di Napoleone visse a Roma sotto protezione papale, compresa la madre, che vi si ritirò insieme al fratellastro, il cardinale Fesch. Madame Mère, ormai ottantacinquenne, cieca e relegata su una poltrona, dettava le sue memorie alla dama di compagnia Rosa Mellini: «Tutti mi definivano la madre più felice del mondo, ma la mia vita è stata una successione di dispiaceri e tormenti». Morì nel febbraio 1836. Anche Fesch morì a Roma tre anni dopo, circondato dalla sua favolosa collezione d’arte, che lasciò in larga parte alle città di Ajaccio e Lione. Luigi proseguì le sue ricerche letterarie a Roma, ma nel 1840 si recò in incognito in Olanda, dove tuttavia fu riconosciuto e acclamato dai suoi ex sudditi. Morì a Livorno nel luglio 1846. Sua moglie Ortensia, da tempo separata, acquistò nel 1817 il castello di Arenenberg, in Svizzera, dove visse fino alla morte, avvenuta nell’ottobre 1837, quando aveva 54 anni. Il figlio illegittimo che aveva avuto dal generale Flahaut in seguito fu nominato duca di Morny da Napoleone III. Eugenio di Beauharnais, duca di Leuchtenberg, visse senza clamore a Monaco con la moglie e i loro sette figli una delle sue figlie divenne imperatrice del Brasile. Morì nel febbraio 1824. Un’altra figlia, la principessa Josephine, sposò nel 1823 il principe Oscar, erede al trono svedese e figlio di Bernadotte: il loro figlio Massimiliano sposò la figlia dello zar Nicola I. Luciano venne arrestato dopo la sconfitta di Waterloo, ma gli fu permesso di ritirarsi negli Stati pontifici, dove morì nel giugno 1840, lasciando sette figli avuti da due matrimoni. Giuseppe rimase a Bordentown, nel New Jersey, si fregiò del titolo di conte di Survilliers per 16 anni, e nel 1820 ebbe il buon senso di rifiutare la corona del Messico. Per un breve periodo visse nella contea del Surrey, in Inghilterra. Difese con abilità la reputazione del fratello, e morì a Firenze nel luglio 1844. Nel 1816 Girolamo andò a vivere in esilio a Trieste e assunse il titolo di conte di Montfort, ma si considerò sempre un re. Ritornò in Francia nel 1847 e divenne governatore di Les Invalides nel 1850 e poi presidente del senato. Morì nel 1860. Carolina Murat si risposò dopo l’esecuzione del marito e visse a Firenze fino alla morte, nel maggio 1839, con il titolo da lei stessa inventato di contessa di Lipona (anagramma di Napoli). Paolina affermò che, quando le giunse la notizia della morte del fratello, stava per recarsi a Sant’Elena. Camillo Borghese, pur avendo un’amante da dieci anni, le consentì di tornare nella sua residenza fiorentina tre mesi prima che morisse, nel giugno del 1825. (Lui invece continuò a partecipare a complotti bonapartisti fino alla morte nel 1832.) Charles-Louis-Napoléon, il più giovane dei tre figli del re Luigi d’Olanda, partecipò alla rivoluzione italiana del 1831, cercò di invadere la Francia a Strasburgo nel 1836 e visitò gli Stati Uniti nel 1837. Nel 1840 cercò di nuovo di invadere la Francia e venne incarcerato, ma nel 1845 riuscì a evadere. Nel 1848 venne eletto presidente con 9,9 milioni di voti, e nel 1851 fece un colpo di stato, diventando l’anno seguente l’imperatore Napoleone III. Fu rovesciato dal trono dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871 e morì in esilio nel 1873. Così, l’epica imperiale iniziata ad Ajaccio nel 1769 si spegneva a Chislehurst, nel Kent, 104 anni dopo. Fino al termine della sua vita portò al dito l’anello nuziale dato da suo zio a sua nonna Giuseppina. Maria Luisa contrasse un matrimonio morganatico con Neipperg quattro mesi dopo la morte di Napoleone. Ebbero un figlio legittimo, dopo i primi due illegittimi. Neipperg morì nel 1829, e Maria Luisa si risposò con il conte di Bombelles e morì nel dicembre 1847; dal 1814 regnava su Parma, Piacenza e Guastalla.
I figli di Napoleone ebbero destini alquanto diversi. Napoleone II, Re di Roma e duca di Reichstadt, ebbe per breve tempo come tutore Marmont, che cercò invano di metterlo contro il padre. Entrò nell’esercito austriaco, ma morì di tubercolosi a Schönbrunn il 22 luglio 1832, a soli 21 anni; la sua maschera mortuaria è esposta nel museo napoleonico di Roma. I suoi resti vennero mandati a Les Invalides da Adolf Hitler nel 1940 per favorire l’amicizia tra l’Austria e il governo di Vichy in Francia. Il conte Alexandre Walewski aveva appena sette anni quando sua madre Maria Walewska morì, ma ricevette una buona educazione da suo zio, un ufficiale dell’esercito francese. Entrò nella legione straniera e combatté in Nord Africa; in seguito divenne ambasciatore a Londra, dove organizzò la visita di suo cugino Napoleone III in Inghilterra e anche quella della regina Vittoria in Francia. Fu eletto presidente del corpo legislativo e morì di infarto a Strasburgo nel 1868, a 58 anni. Charles Denuelle, conte Léon, figlio naturale di Napoleone ed Eléonore Denuelle de la Plaigne, somigliava così tanto al padre che per la strada la gente lo fissava. Nel 1832 sfidò duello un attendente di Wellington, e sostenne di essere stato salvato da un bottone della giacca che gli era stato regalato da Ortensia. Divenne un perdigiorno alcolizzato e litigioso che, sebbene Napoleone III pagasse i suoi debiti e gli versasse una pensione, morì in povertà di cancro allo stomaco nell’aprile 1881 a Pontoise. Sua madre era rimasta vedova nella campagna del 1812. Si risposò nel 1814 con il conte Charles-Émile-Auguste-Louis de Luxbourg, con cui rimase fino alla morte di lui, 35 anni dopo. Morì nel 1868.



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La tomba di Napoleone nella chiesa di Saint-Louis des Invalides

Bibliografia

Guido Gerosa, Napoleone, un rivoluzionario alla conquista di un impero, Milano, Mondadori, 1995
Sergio Valzania, Austerlitz, la più grande vittoria di Napoleone, Milano, Mondadori, 2005
Emil Ludwig, Napoleone. Voleva dominare il mondo ma fu sconfitto... Ma oggi tutti lo ricordano, mentre il nome dei vincitori è caduto nell'oblio, Milano, ed. BUR, 2000,
Emil Ludwig, Napoleone, il mondo era troppo piccolo per lui, Rizzoli, 1999
David G. Chandler, Le Campagne di Napoleone, Milano, RCS Libri - Superbur Saggi, 2002
Andrew Roberts, Napoleone il Grande,Utet, 2014

Eugenio Caruso 7 febbraio 2017

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