Napoleone Bonaparte

GRANDI PERSONAGGI STORICI

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napoleone 1

Napoleone a 23 anni Tenente Colonnello della Guardia Nazionale

In questa sezione ho illustrato la vita di grandi personaggi del passato, allo scopo di tratteggiare le caratteristiche e i valori che hanno portato questi uomini al successo. Da ciascuna sfumatura dei comportamenti di questi uomini ciascuno di noi può trarre insegnamenti, stimoli, coraggio, intuizioni, entusiasmo per intraprendere un percorso che possa condurre al successo personale o della propria impresa. Con questo articolo illustro la vita di Napoleone Buonaparte. Di questo personaggio sono state scritte un gran numero di biografie; molte di esse tendevano a mettere in rilievo gli aspetti negativi del suo carattere e le sconfitte. Lentamente sta emergendo una rivalutazione dell'uomo sia per il suo carattere molto orientato alla cultura e al superamento degli stereotipi settecenteschi, sia per le sue doti strategiche come condottiero. Napoleone se, da un lato, incarnò il revival dell'imperatore eletto dal suo esercito, che affondava le radici nella Roma di Cesare, fu decisamente l'unico imperatore democratico, interprete di quei valori illuministici che alimentarono il processo che porrtò alla cancellazione dell'Ancien Régime. Nella trattazione storica mostro i generali di divisione napoleonici.

Napoleone di Buonaparte nacque ad Ajaccio, martedì 15 agosto 1769 poco prima di mezzogiorno. «Stava tornando a casa dalla chiesa quando avvertì le prime contrazioni», raccontò lui in seguito, riferendosi a sua madre Letizia, «ed ebbe appena il tempo di arrivare a casa che nacqui io, non a letto, ma su un mucchio di tappeti.» Il nome scelto dai suoi genitori era insolito ma non inaudito, poiché compariva nelle Istorie fiorentine di Machiavelli e, più semplicemente, era il nome di un suo prozio. In origine i Buona Parte erano proprietari terrieri che vivevano tra Firenze e Livorno: il primo a prendere il cognome fu un fiorentino nel 1261. Il ramo principale rimase in Italia, invece Francesco Buonaparte nel 1529 emigrò in Corsica, dove per i duecentocinquant’anni successivi i suoi discendenti seguirono in linea di massima le vocazioni della carriera legale, accademica ed ecclesiastica. All’epoca della nascita di Napoleone si può affermare che la sua famiglia era tra l’alta borghesia e la piccola nobiltà. Nelle rare occasioni in cui parlava dei suoi antenati italiani, diceva di essere erede degli antichi romani.
L’istruzione ricevuta da Napoleone in Francia fece di lui un francese; qualsiasi altro esito sarebbe stato sconcertante data la sua giovane età e la lunghezza del periodo che vi trascorse. Il documento di concessione della sua borsa di studio era datato 31 dicembe 1778, e il giorno dopo lui entrò nel seminario ecclesiastico diretto dal vescovo di Autun. Non avrebbe rivisto la Corsica per quasi otto anni. Il suo nome appariva nel registro scolastico come «M. Neapoleonne de Bonnaparte». Il suo preside, l’abate Chardon, lo rammentava come «un carattere riflessivo e cupo. Non aveva amici e se ne andava in giro da solo […] Era capace e imparava in fretta […] Se lo sgridavo rispondeva con un tono freddo, quasi imperioso: “Lo so, signore”». Il ragazzo era intelligente e deciso, determinato ad apprendere: Chardon ci mise soltanto tre mesi a insegnargli a parlare e leggere in francese, e persino a scrivere brevi brani. Avendo acquisito la conoscenza del francese ad Autun, nell’aprile 1779, a quattro mesi dal suo decimo compleanno, Napoleone fu ammesso alla scuola militare reale di Brienne-le-Château. Suo padre partì il giorno dopo e, non essendovi vacanze scolastiche, per tre anni non si videro più. Gli insegnanti di Napoleone erano francescani dell’ordine dei minimi, e lui era uno dei 50 borsisti della corona su 110 allievi. Pur essendo un’accademia militare, Brienne era amministrata dai monaci, ma la parte marziale degli studi era diretta da istruttori esterni. Gli studenti non subivano punizioni corporali, ma le condizioni erano spartane: un materasso di paglia e una coperta per ciascuno.
Napoleone primeggiava in matematica. «Per essere un buon generale si deve conoscere la matematica», osservò in seguito, «serve a orientare il pensiero in mille circostanze.» Era favorito dalla sua memoria prodigiosa. «La memoria è una mia peculiarità», si vantò una volta. Napoleone fu autorizzato a frequentare le lezioni di matematica prima dell’età prescritta, 12 anni, e ben presto conosceva bene geometria, algebra e trigonometria.
Nel 1781, Napoleone ricevette un’eccellente valutazione scolastica dal cavaliere di Kéralio, il sottintendente delle scuole militari che, due anni dopo, lo raccomandò per la prestigiosa École Militaire di Parigi con le parole: «Salute eccellente, espressione docile, gentile, diretto, riflessivo. Condotta oltremodo soddisfacente; si è sempre distinto per l’applicazione in matematica […] La sua palese superiorità intellettuale di certo non favorì la sua popolarità tra i compagni di scuola, che lo soprannominarono La paille-au-nez (paglia al naso), che faceva rima con la versione còrsa del suo nome, “Napoleoné”.
"Per un giovane la storia potrebbe diventare una scuola di moralità e virtù", diceva il prospetto scolastico di Brienne; Napoleone prese in prestito molte biografie e libri di storia alla biblioteca scolastica, divorò le storie di Plutarco, intrise di eroismo, patriottismo e virtù repubblicane. Lesse anche Cesare, Cicerone, Voltaire, Diderot, come pure Erasmo da Rotterdam, Eutropio, Livio, Fedro, Sallustio, Virgilio e le Vite dei massimi condottieri scritte da Cornelio Nepote nel I secolo a.C., che comprendevano capitoli su Temistocle, Lisandro, Alcibiade e Annibale. Uno dei suoi soprannomi scolastici, lo “spartano”, forse gli fu appioppato non tanto per l’ascetismo del carattere, quanto per la sua spiccata simpatia per Sparta. Sapeva recitare in francese interi passi di Virgilio, e in classe naturalmente prendeva le parti del suo eroe Cesare contro Pompeo. Anche i drammi che gli piacevano da adulto tendevano a essere incentrati sugli eroi dell’antichità, per esempio Alessandro Magno, Mitridate e Andromaca di Racine, Cinna, Orazio e Attila di Corneille.
Un contemporaneo ricordava Napoleone che si ritirava nella biblioteca scolastica per leggere Polibio, Plutarco, Arriano e Quinto Curzio Rufo. Le Storie di Polibio narravano la nascita della repubblica di Roma e offrivano una testimonianza di prima mano della sconfitta di Annibale e del sacco di Cartagine; le Vite Parallele di Plutarco riportavano brevi descrizioni dei due grandi eroi di Napoleone, Alessandro il Grande e Giulio Cesare. Così emerge un tema potente delle letture adolescenziali di Napoleone. Mentre i suoi contemporanei fuori facevano sport, lui leggeva tutto quello che poteva riguardo ai condottieri più ambiziosi del mondo antico. Per Napoleone, il desiderio di emulare Alessandro e Giulio Cesare non era strano. L’istruzione scolastica gli fece intravedere la possibilità, un giorno o l’altro, di porsi a fianco dei giganti del passato.
Gli insegnarono ad apprezzare i momenti più grandiosi della Francia sotto Carlomagno e Luigi XIV, ma seppe anche delle sue recenti sconfitte nella guerra dei sette anni alle battaglie di Quebec, Plassey, Minden e della baia di Quiberon, e delle «prodigiose conquiste degli inglesi in India». Si voleva creare una generazione di giovani ufficiali intimamente convinti della grandezza della Francia, ma anche intenzionati a umiliare la Gran Bretagna, che per la maggior parte del tempo trascorso da Napoleone a Brienne fu in guerra con la Francia in America. La virulenta opposizione di Napoleone al governo britannico è stata troppo spesso ascritta a un odio cieco, o allo spirito vendicativo di un còrso; sarebbe più rispondente al vero considerarla una reazione del tutto razionale al fatto che nel decennio della sua nascita il trattato di Parigi del 1763 aveva escluso la Francia dall’accesso ai grandi territori continentali (e ai mercati) dell’India e dell’America settentrionale, e che quando giunse all’adolescenza la Gran Bretagna stava colonizzando a grande velocità anche l’Australia. Alla fine dei suoi giorni Napoleone chiese due volte di vivere in Gran Bretagna, ed espresse ammirazione per il duca di Marlborough e Oliver Cromwell, ma era stato educato a pensare alla Gran Bretagna come a un nemico implacabile. Quando studiava a Brienne, il suo unico eroe vivente a quanto pare era l'irredentista corso Paoli, che si trovava in esilio.
Napoleone era anche grande amante della letteratura. Idolatrava Rousseau e a 17 anni scrisse un’apologia del Contratto sociale, abbracciando la convinzione di Rousseau che lo stato dovesse avere il potere di vita e di morte sui cittadini, il diritto di proibire lussi frivoli e il dovere di censurare il teatro e l’opera. La nuova Eloisa di Rousseau, uno dei più grandi bestseller del Settecento, che lo aveva influenzato così tanto quando era bambino, sosteneva che si dovrebbero seguire i propri sentimenti autentici e non le norme sociali, concetto attraente per qualsiasi adolescente, soprattutto un sognatore con ambizioni selvagge. L’abbozzo di costituzione liberale lasciato da Rousseau per la Corsica nel 1765 rifletteva la sua ammirazione per Paoli, che era pienamente ricambiata.
Napoleone lesse con evidente piacere Corneille, Racine e Voltaire. Il suo poeta favorito era il bardo Ossian, le cui storie sulle antiche conquiste gaeliche, infarcite di racconti di eroismo tra paludi nebbiose e battaglie epiche in mari tempestosi, lo appassionavano. Portò con sé il poema di Ossian Fingal nelle sue campagne, commissionò diversi dipinti di tema ossianico, e fu così colpito dall’opera Ossian di Jean-François Le Sueur, con le sue 12 arpe nell’orchestra, che alla prima, nel 1804, fregiò il compositore con il titolo di cavaliere della Legion d’onore.
Napoleone diede gli esami finali a Brienne il 15 settembre 1784. Passò senza difficoltà, e verso la fine del mese successivo entrò alla École royale militaire di Parigi. Si trattava di un istituto assai più esclusivo di Brienne. Anche se stranamente non si insegnavano storia della guerra e strategia, il programma copriva in larga parte gli stessi argomenti di Brienne, oltre che esercitazioni di tiro, esercitazioni militari ed equitazione. In realtà era una delle migliori scuole di equitazione di Europa.
Sul piano intellettuale, Napoleone continuava a eccellere. Nel 1784, su 202 candidati di tutte le scuole militari di Francia, solo 136 superarono gli esami finali, e 14 appena vennero invitati a entrare in artiglieria, quindi Napoleone era stato selezionato per un gruppo d’élite. Era il primo còrso iscritto a frequentare la École royale militaire. Dopo i cinque anni trascorsi a Brienne e un altro alla École militaire, Napoleone aveva assimilato a fondo l’etica militare che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita e avrebbe influenzato profondamente le sue convinzioni e la sua visione. I princìpi rivoluzionari da lui accettati, l’eguaglianza di fronte alla legge, il governo razionale, la meritocrazia, l’efficienza e un nazionalismo aggressivo si accordavano bene con quest’etica, ma gli interessavano poco l’equità di giudizio, i diritti umani, la libertà di stampa o il parlamentarismo, tutte cose che a suo parere non corrispondevano alla sua morale. La formazione che Napoleone ricevette lo riempì di riverenza per la gerarchia sociale, la legge e l’ordine, e gli lasciò la salda convinzione che merito e coraggio andassero premiati, ma anche una repulsione per i politici, gli avvocati, i giornalisti e la Gran Bretagna.
Il 1° settembre 1785, Napoleone fu assegnato alla compagnia d’Autume di bombardieri della 5a brigata del 1° battaglione del reggimento della Fère, di stanza a Valence, sulla riva sinistra del Rodano. Era tra i cinque più antichi reggimenti di artiglieria, e godeva di grande prestigio. Con i suoi 16 anni, era uno degli ufficiali più giovani. Napoleone ricordò sempre quegli anni a Valence per la mancanza di denaro: nella sua stanza c’erano solo un letto, un tavolo e una poltrona, e talvolta doveva saltare i pasti per comprarsi i libri, che continuava a leggere con la stessa voracità di prima.
L’elenco dei libri da cui Napoleone aveva preso appunti dettagliati tra il 1786 e il 1791 è lungo, e comprende testi di storia degli arabi, di Venezia, delle Indie, dell’Inghilterra, della Turchia, della Svizzera e della Sorbona; i Saggi sui costumi di Voltaire, le Istorie fiorentine di Machiavelli, le Lettere segrete della Mirabeau e la Storia antica di Charles Rollin; c’erano libri di geografia moderna, opere politiche come la Histoire critique de la noblesse di Jacques Dulaure, contraria all’aristocrazia, e le pettegole Memoires secrets sur le règne del Louis XIV, la régence et le règne de Louis XV di Charles Duclos. Allo stesso tempo, imparava a memoria versi di Corneille, Racine e Voltaire.
Nel settembre 1786, dopo un’assenza di quasi otto anni, Napoleone tornò in Corsica, e incontrò per la prima volta i suoi tre fratelli più piccoli. Fu il primo di cinque viaggi a casa tra il 1786 e il 1793, alcuni durati molti mesi, soprattutto per risolvere molti problemi lasciati dalla tenuta di suo padre. Il 21 aprile 1787 scrisse al ministro della guerra chiedendo un congedo pagato di cinque mesi e mezzo per «recuperare la salute». O era un buon attore o aveva un medico condiscendente, perché anche se non era davvero malato allegava i necessari certificati medici. Non tornò per quasi un anno intero. Questa lunga assenza dal suo reggimento andrebbe vista nel contesto della vita militare in tempo di pace, in cui due terzi degli ufficiali di fanteria e tre quarti di quelli di cavalleria in inverno lasciavano i loro reggimenti. Nel frattempo Giuseppe, dovendo aiutare sua madre a occuparsi della famiglia, era stato costretto a rinunciare a qualsiasi speranza di entrare nell’esercito, ma nel 1788 prese la laurea in legge all’Università di Pisa. Tutti i fratelli più giovani erano ancora a scuola, e Luciano mostrava segni di intelligenza e ambizione.
Verso la fine di maggio del 1788 Napoleone fu assegnato alla scuola di artiglieria di Auxonne, nella Francia orientale, non lontano da Digione. Lì, come quando era acquartierato a Valence, mangiava soltanto una volta al giorno, risparmiando così abbastanza del suo salario di ufficiale da mandare qualcosa a casa per sua madre; il resto lo spendeva in libri. Era determinato a proseguire un ampio programma di letture, e i suoi voluminosi taccuini di Auxonne sono pieni di appunti sulla storia, la geografia, la religione e le tradizioni di tutti popoli del mondo antico, tra cui ateniesi, spartani, persiani, egiziani e cartaginesi.
La scuola di artiglieria era comandata da un generale, il barone Jean-Pierre du Teil, uomo all’avanguardia nelle più recenti tecniche di artiglieria. Napoleone seguiva corsi di teoria militare anche per nove ore alla settimana, e ogni martedì faceva matematica avanzata. L’artiglieria era considerata sempre più importante da quando i progressi in ambito metallurgico consentivano la creazione di cannoni pesanti la metà, ma con la stessa efficienza; le nuove armi pesanti, che era possibile spostare su un campo di battaglia senza perdere potenza di fuoco o precisione, potevano determinare la vittoria di una battaglia.

La rivoluzione
La rivoluzione francese, scoppiata il 14 luglio 1789 quando una folla parigina invase il carcere statale, la Bastiglia, fu preceduta da anni di crisi finanziarie e tumulti come un’insurrezione di poca importanza che Napoleone era stato inviato a sedare. I primi cenni di instabilità possono essere ravvisati nel 1783, ultimo anno della guerra di indipendenza americana, in cui la Francia aveva sostenuto i coloni ribelli contro la Gran Bretagna. Altre proteste per i salari bassi e la penuria alimentare vennero poste violentemente in atto nell’aprile 1789 e costarono 25 morti. «Napoleone diceva spesso che le nazioni avevano le loro malattie proprio come le persone, e che la loro storia non sarebbe meno interessante da descrivere delle malattie del corpo umano», avrebbe ricordato anni dopo uno dei suoi ministri. «La popolazione francese era stata ferita nei suoi interessi più cari. La nobiltà e il clero la umiliavano con il loro orgoglio e i loro privilegi. Il popolo soffrì a lungo sotto questo peso, ma alla fine volle scuotersi di dosso il giogo, e scoppiò la rivoluzione.»
Il 5 maggio, quando furono convocati gli stati generali di Francia per la prima volta dal 1614, ormai sembrava che il re potesse essere costretto a condividere almeno un po’ del suo potere con i rappresentanti del terzo stato. Ma in seguito gli eventi si mossero in fretta e in modo imprevedibile. Il 20 giugno i deputati del terzo stato, che si erano autonominati assemblea nazionale, fecero il giuramento di non decretare lo scioglimento del loro organo assembleare fino a quando non fosse stata ratificata una nuova costituzione. Tre giorni dopo due compagnie della guardia reale si ammutinarono pur di non sedare un disordine popolare. La notizia che Luigi XVI stava reclutando mercenari stranieri per soffocare quella che ormai era diventata un’insurrezione indusse il giornalista radicale Camille Desmoulins a chiedere l’invasione della Bastiglia, che provocò la morte del governatore di Parigi, del suo sindaco e del segretario di stato. Il 26 agosto l’assemblea nazionale approvò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e il 6 ottobre il palazzo di Versailles venne invaso dalla folla.
Pur detestando le folle ed essendo tecnicamente un aristocratico, Napoleone accolse con favore la rivoluzione. Almeno nelle prime fasi, essa si combinava bene con gli ideali dell’Illuminismo che aveva assimilato leggendo Rousseau e Voltaire. Abbracciò l’anticlericalismo e non si curò dell’indebolimento di una monarchia per cui non aveva particolare rispetto. A parte questo, la rivoluzione sembrava offrire alla Corsica prospettive di maggior indipendenza, e opportunità di carriera assai migliori per un giovane ambizioso senza denaro né rapporti. Napoleone credeva che il nuovo ordine sociale promesso dalla rivoluzione avrebbe distrutto entrambi questi svantaggi e sarebbe stato fondato sulla logica e la ragione che i philosophes dell’Illuminismo consideravano le uniche autentiche basi per l’autorità.
L’8 agosto 1789, quando Parigi era in rivolta e una gran parte del corpo ufficiale francese nella confusione, Napoleone ottenne di nuovo un congedo per malattia per tornare in Corsica, dove rimase i 18 mesi successivi, gettandosi con energia nella politica isolana. Anche in questo caso non ci sono indicazioni che fosse davvero malato. Nella sua Relazione sulla Corsica Boswell descrisse come l’isola fosse politicamente divisa tra le sue città, le sue nove province e le sue molte pievi ecclesiastiche. Il potere del governatore, con base nella capitale, Corte, era limitato. C’erano tradizionali rivalità tra cittadine, paesi e clan, e forti attaccamenti alla chiesa cattolica e all’esiliato Paoli. Napoleone entrò in questo turbine con piacere, e nei quattro anni successivi si preoccupò assai più per la politica della Corsica che per la sua carriera come ufficiale francese.
Appena arrivato ad Ajaccio, Napoleone, sostenuto dai fratelli Giuseppe e Luciano, esortò i còrsi ad aderire alla causa rivoluzionaria, sventolare la nuova bandiera tricolore e portarla in forma di coccarda sul cappello, formare un circolo rivoluzionario di “patrioti” e organizzare un reggimento di volontari còrsi, una milizia della guardia nazionale che si sperava un giorno avrebbe battuto le forze del governatore. Quando il governatore chiuse il circolo e bandì i volontari, il nome di Napoleone era in cima alla petizione inviata per protestare all’assemblea nazionale a Parigi. In ottobre scrisse un libello denunciando il comandante francese in Corsica e criticando il governo dell’isola in quanto non abbastanza rivoluzionario. Mentre Napoleone guidava il partito rivoluzionario ad Ajaccio, Antoine-Christophe Saliceti, un deputato corso all’assemblea nazionale, si adoperava per radicalizzare la città più grande, Bastia.
Nel gennaio 1790, quando l’assemblea nazionale, per insistenza di Saliceti, approvò un decreto, facendo della Corsica un dipartimento della Francia, Napoleone sostenne la mozione. Da Londra, Paoli denunciò il fatto come un provvedimento concepito per imporre la volontà di Parigi. Dato che Napoleone e Saliceti ormai consideravano Parigi loro alleata nel compito di rendere la Corsica rivoluzionaria, se Paoli fosse tornato sull’isola probabilmente ci sarebbe stata una grave frattura. Nel mezzo di tutti questi intrighi politici, in marzo Giuseppe fu eletto sindaco di Ajaccio: Napoleone trascorreva le nottate a scrivere la sua storia della Corsica e a rileggere il De bello gallico di Giulio Cesare, imparandone a memoria pagine intere. Dato che il suo congedo per malattia stava terminando, chiese un prolungamento. Con così pochi ufficiali rimasti nel reggimento, il suo ufficiale in comando non poteva permettersi di rifiutarglielo.
Il 12 luglio 1790, l’assemblea nazionale approvò la costituzione civile del clero, consegnando al governo il controllo sulla chiesa e abolendo gli ordini monastici. La richiesta ai religiosi di giurare fedeltà costituzionale allo stato divise il primo stato tra preti giuranti (quelli che accettavano di giurare) e non giuranti, e fu denunciata da papa Pio VI nel marzo successivo. Molti rivoluzionari nutrivano ostilità per il cristianesimo in generale e la chiesa cattolica romana in particolare. Nel novembre 1793 la cattedrale di Notre-Dame fu riconsacrata al culto della ragione, e sei mesi dopo il dirigente giacobino Maximilien Robespierre fece approvare un decreto che istituiva il culto panteista dell’Essere supremo. Come decine di migliaia di aristocratici, che erano stati privati dei loro beni e furono costretti all’esilio all’estero, anche molte migliaia di preti lasciarono il paese.
Nel luglio 1790 il sessantacinquenne Paoli tornò in Corsica dopo 22 anni di esilio. Napoleone e Giuseppe facevano parte del comitato di accoglienza di Ajaccio che gli diede il benvenuto. Fu nominato subito e all’unanimità vicegovernatore della Corsica nonché presidente dell’assemblea della Corsica e della guardia nazionale appena fondata.
Anche se il suo congedo ufficialmente era terminato il 15 ottobre 1790, Napoleone partì dalla Corsica alla volta del suo reggimento solo il 1° febbraio del 1791, portando con sé il fratello dodicenne Luigi, cui intendeva pagare la scuola ad Auxonne. Luigi doveva dormire sul pavimento in uno sgabuzzino accanto al letto di Napoleone, la cui stanza era arredata soltanto con un tavolo e due sedie. «Sapete come ce l’ho fatta?» chiedeva in seguito Napoleone rammentando quel periodo della sua vita. «Non entrando mai in un caffè, né andando in società; mangiando pane senza companatico e spazzolandomi da solo gli abiti in modo che durassero di più. Vivevo come un orso, in una stanzetta, con i libri come unici amici. Erano queste le gioie e dissolutezze della mia gioventù.» Forse esagerava un po’, ma non molto. Non c’era nulla che apprezzasse quanto i libri e una buona istruzione.
Nel frattempo venne a sapere che in Corsica stavano per essere formati quattro battaglioni della guardia nazionale, e chiese una licenza per andarci. Il suo nuovo ufficiale in comando, il colonnello Compagnon, comprensibilmente rifiutò il permesso poiché Napoleone era stato assegnato al reggimento da due mesi appena.
Gli ultimi di giugno del 1791, i reali tentarono di fuggire dalla Francia ma la loro carrozza venne catturata a Varennes. Furono costretti a tornare alla loro semiprigionia nel palazzo delle Tuileries. Il 10 luglio, l’imperatore Leopoldo II d’Austria diffuse a tutte le altre case reali d’Europa la richiesta di andare in aiuto di suo cognato Luigi XVI.
Intanto Napoleone era diventato segretario della sezione di Valence della società degli amici della costituzione, e in un banchetto di festeggiamento in occasione del secondo anniversario della caduta della Bastiglia propose un brindisi «ai patrioti di Auxonne» che stavano presentando una petizione perché il re venisse sottoposto a processo.
Rifiutandosi di accettare il diniego del suo ufficiale in comando come risposta, il 30 agosto Napoleone si rivolse al generale du Teil. Gli fu concesso un congedo di quattro mesi per andare in Corsica, con l’intesa che se non fosse tornato sotto la sua bandiera entro il momento della parata di reggimento, il 10 gennaio 1792, sarebbe stato considerato un disertore. Napoleone trovò la Corsica in agitazione. Dall’inizio della rivoluzione c’erano stati 130 omicidi, e le imposte non venivano più versate. Le preoccupazioni economiche della sua famiglia, che negli ultimi sei anni, dopo la morte di suo padre, gli avevano richiesto tanto tempo e tanti sforzi, in un certo senso cessarono il 15 ottobre 1791 grazie alla morte del prozio, l’arcidiacono Luciano Bonaparte, che lasciò il suo patrimonio alla famiglia. Quel denaro senza dubbio tornò utile il 22 febbraio 1792, quando Napoleone si candidò per essere scelto come aiutante di campo con il rango di tenente colonnello, nel 2° battaglione della guardia nazionale còrsa. La corruzione ebbe un ruolo importante nella vicenda, e uno dei tre osservatori dell’elezione fu addirittura sequestrato il giorno dello spoglio, e trattenuto in casa Bonaparte fino a quando la vittoria non fu certa. Il principale avversario di Napoleone, Matteo Pozzo di Borgo, influente uomo politico còrso, fu cacciato dalla tribuna davanti alla chiesa di San Francesco dai sostenitori armati di Napoleone. La politica in Corsica non era mai stata condotta con i guanti bianchi, ma la tattica impiegata in quell’occasione rappresentava una grave infrazione alle pratiche generalmente accettate; Paoli, che sosteneva Matteo Pozzo di Borgo, reclamò un’inchiesta ufficiale per quello che definiva «corruzione e intrigo». Fu bloccato da Saliceti, rappresentante della convenzione di Parigi sull’isola, quindi l’esito non venne invalidato. Nel frattempo la scadenza di gennaio per il ritorno di Napoleone al suo reggimento era arrivata e trascorsa. Una nota nel suo fascicolo al ministero della guerra diceva semplicemente: «Ha rinunciato alla professione ed è stato sostituito il 6 febbraio 1792».
Tra gennaio e marzo la crisi politica a Parigi fu acuita da gravi insurrezioni per il cibo. Poi, all’inizio di febbraio, fu annunciata un’alleanza tra l’Austria e la Prussia la cui inconfessata ma per nulla segreta intenzione era di rovesciare il governo rivoluzionario in Francia e restaurare la monarchia. Anche se la Gran Bretagna non faceva parte di quella prima coalizione, appariva evidente che anch’essa era contraria alla rivoluzione. Con la guerra nell’aria, la rivoluzione in Corsica ebbe una brusca svolta. Il 28 febbraio Saliceti ordinò la soppressione degli antichi conventi e monasteri di Ajaccio, Bastia, Bonifacio e Corte, e ne destinò i proventi ai forzieri del governo centrale. Paoli e la grande maggioranza dei còrsi si opposero, e la domenica di Pasqua scoppiarono tafferugli tra la guardia nazionale di Napoleone e i cittadini locali cattolici che volevano proteggere il monastero. A un certo punto, durante quattro giorni e quattro notti di zuffe urbane e momenti di stallo tra la popolazione locale e la guardia nazionale, Napoleone tentò senza successo di strappare la roccaforte ben fortificata della cittadina alle truppe regolari francesi comandate dal colonnello Maillard, che scrisse un rapporto incriminante al ministro della guerra accusandolo nei fatti di tradimento.
Paoli si schierò dalla parte di Maillard, ordinò a Napoleone di lasciare Ajaccio e andare a rapporto da lui a Corte; Napoleone obbedì. Per sua fortuna, il rapporto di Maillard sulla spinosa faccenda rimase insabbiato sotto una montagna di documenti assai più urgenti al ministero della guerra. La Francia aveva preventivamente dichiarato guerra all’Austria e alla Prussia il 20 aprile, e otto giorni dopo invase i Paesi Bassi austriaci (l’attuale Belgio) per impedire la prevista invasione della Francia da nord-est, poiché gli eserciti austriaco e prussiano avevano il quartier generale a Coblenza. Dopo il pasticcio di Ajaccio Napoleone non poteva rimanere in Corsica, ma non poteva nemmeno tornare a Valence, dove ufficialmente era un disertore. Quindi partì per Parigi.
Quando arrivò al ministero della guerra in place Vendôme a Parigi, lo trovò nel caos: tra maggio e ottobre 1792 il nuovo governo rivoluzionario avrebbe cambiato sei ministri della guerra. Era chiaro che nessuno aveva avuto l’opportunità di leggere il rapporto di Maillard, o si preoccupava di quanto era accaduto in una lontana periferia come Ajaccio, e nessuno sembrava badare che il congedo di Napoleone fosse ufficialmente spirato in gennaio, prima della sua elezione alla guardia nazionale còrsa. Nel luglio 1792 Napoleone fu promosso capitano, con retrodatazione di un anno della nomina e della paga, ma senza che gli venisse assegnato un nuovo incarico. Sulla sua sfacciata richiesta di essere promosso tenente colonnello nell’esercito regolare con la motivazione di appartenere alla guardia, al ministero annotarono «SR» (sans réponse).
Napoleone non rimase impressionato da quanto trovò a Parigi. «Gli uomini alla guida della rivoluzione sono una banda di nullità», scrisse a Giuseppe. "Ciascuno fa i suoi interessi". Il 20 giugno 1792, quando la folla inferocita invase le Tuileries, catturò Luigi XVI e Maria Antonietta e costrinse il re a indossare il berretto rosso della libertà sul balcone del palazzo, Napoleone era a Parigi.
Dieci giorni dopo Austria e Prussia invasero la Francia, suscitando il giustificato sospetto che Luigi XVI e sua moglie, austriaca di nascita, fossero favorevoli all’invasione e collaborassero con i nemici della Francia, i quali ora affermavano pubblicamente la propria intenzione di restaurare in tutto e per tutto l’autorità del re. Il disprezzo di Napoleone per la pusillanimità dei Borboni fu esplicitato di nuovo il 10 agosto, quando la folla tornò per arrestare il re e la regina e massacrò le loro guardie svizzere.
Il 21 settembre 1792 la Francia si proclamò ufficialmente repubblicana, e l’assemblea annunciò che Luigi XVI sarebbe stato processato per collaborazionismo con il nemico e crimini contro il popolo francese. Il giorno prima i generali François Kellermann e Charles Dumouriez avevano salvato la rivoluzione sconfiggendo l'esercito prussiano a Valmy, nella regione Sciampagna-Ardenne, dimostrando così che la milizia civile francese poteva sconfiggere gli eserciti regolari delle potenze controrivoluzionarie.
A metà ottobre Napoleone era di nuovo ad Ajaccio per promuovere la causa giacobina, tornando al suo grado di tenente colonnello della guardia nazionale còrsa invece che capitano nel 4° reggimento di artiglieria nell’esercito regolare francese. Trovò l’isola assai più antifrancese di quanto l’aveva lasciata, soprattutto dopo i massacri di settembre e la proclamazione della repubblica. Ma, come disse lui, rimase «persuaso che la cosa migliore che potesse fare la Corsica era diventare una provincia della Francia». Paoli, il quale a un’alleanza con i Bonaparte preferiva l’amicizia di clan più grandi e più influenti, i Buttafuoco e i Pozzo di Borgo, si oppose alla repubblica, alla soppressione dei monasteri e a buona parte degli altri programmi rivoluzionari sostenuti dai Bonaparte. Non volle prendere Luciano nel suo stato maggiore, e cercò persino di impedire a Napoleone di riassumere servizio nella guardia nazionale. Era impossibile per Napoleone restare un patriota còrso quando l’uomo che rappresentava il nazionalismo isolano respingeva in modo così assoluto lui e la sua famiglia.
Il 1° febbraio la Francia dichiarò guerra alla Gran Bretagna e all’Olanda, poco dopo che Spagna, Portogallo e Regno di Piemonte avevano dichiarato guerra alla Francia. Le monarchie europee, ignorando il verdetto di Valmy, stavano unendosi per punire la repubblica regicida. Nel marzo 1793 la convenzione istituì il Comitato di salute pubblica, che in luglio era ormai diventato di fatto il governo esecutivo della Francia. Tra i suoi membri erano in primo piano i dirigenti giacobini Robespierre e Louis Saint-Just. Il 23 agosto la repubblica francese dichiarò la coscrizione di massa, in cui tutti gli uomini fisicamente abili tra i 18 e i 25 anni di età erano chiamati a difendere la rivoluzione e la patria, portando a oltre il doppio le dimensioni dell’esercito francese, che passò dai 645.000 effettivi a un milione e mezzo, e facendo stringere tutta la nazione intorno alla sua sorte.
Nell’aprile 1793, quando apparve chiaro che nella convenzione i giacobini di Robespierre avevano trionfato politicamente, il generale girondino Dumouriez, figura di primissimo piano nella vittoria di Valmy, defezionò passando alla coalizione austro-prussiana. Il tradimento di Dumouriez e altre crisi indussero Robespierre a ordinare l’arresto in massa dei girondini, a 22 dei quali, il 31 ottobre, nell’arco di 36 minuti, fu tagliata la testa. Era cominciato il regno del Terrore.
Il 23 maggio Casa Bonaparte ad Ajaccio fu saccheggiata da una folla paolista. A quel punto il parlamento còrso, dominato da Paoli, bandì ufficialmente la famiglia dei Bonaparte dall'isola. Il 31 maggio Napoleone e Saliceti, che come commissario per la Corsica rappresentava il governo giacobino a Parigi, parteciparono a un assalto fallito per riprendere Ajaccio. Il giorno dopo Napoleone scrisse un documento intitolato Memoriale sulla posizione politica e militare del Dipartimento della Corsica, in cui accusava Paoli di nutrire «odio e vendetta nel suo cuore». Fu un messaggio di addio alla sua patria. L’11 giugno 1793 i Bonaparte lasciarono Calvi a bordo del Prosélyte, e due giorni dopo sbarcarono a Tolone, concludendo così quasi due secoli e tre quarti di residenza sull’isola. Con il crollo del potere giacobino in Corsica, anche Saliceti fu costretto a fuggire in Provenza, e alla fine del mese Paoli riconobbe il sovrano britannico Giorgio III come re della Corsica.
I Bonaparte arrivarono a Tolone come rifugiati politici; Napoleone sistemò i suoi a La Valette, un paese nei dintorni di Tolone, e raggiunse il suo reggimento a Nizza, armato di un ennesimo certificato per spiegare la sua assenza, questa volta firmato da Saliceti. Per fortuna, dopo l’esecuzione capitale del re e l’esodo in massa degli aristocratici, il colonnello Compagnon aveva bisogno di qualsiasi ufficiale potesse scovare; nella sua unità, su 80 ufficiali solo 16 prestavano ancora servizio per la repubblica. Napoleone ricevette dal generale Jean du Teil, fratello minore del suo comandante di Auxonne, l’incarico di organizzare convogli di polvere da sparo per uno degli eserciti rivoluzionari della Francia, l’Armata d’Italia. A metà luglio fu trasferito all’Armata del Sud al comando del generale Jean-François Carteaux, che si accingeva ad assediare i federati (ribelli antigiacobini) ad Avignone, dove si trovava un importante deposito di munizioni. Anche se il 25 luglio Napoleone non era presente alla cattura di Avignone, il successo ottenuto in quell’occasione fece da sfondo per quello che probabilmente è il suo scritto più importante sino a quel momento, il libello politico La cena di Beaucaire.
Il 24 agosto Carteaux riconquistò Marsiglia praticando esecuzioni di massa. Quattro giorni dopo l’ammiraglio Alexander Hood, con 15.000 soldati britannici, spagnoli e napoletani, entrò nel porto di Tolone, importante base navale francese nel Mediterraneo, su invito dei federati che erano insorti il mese prima. Anche Lione era insorta in favore dei realisti, la Vandea si trovava in tumulto, gli eserciti spagnolo e piemontese operavano nella Francia meridionale mentre l’esercito prussiano e quello austriaco erano alle sue frontiere orientali, quindi riconquistare Tolone aveva un’importanza strategica fondamentale. Il 7 settembre Napoleone fu nominato chef de bataillon (maggiore) nel 2° reggimento di artiglieria, e la settimana dopo, forse per ordine del colonnello di origini còrse Jean-Baptiste Cervoni, si presentò al quartier generale di Carteaux a Ollioules, proprio a nord-ovest di Tolone.
Uno dei commissari politici di Carteaux non era altri che Saliceti. Carteaux sapeva poco di artiglieria, e cercava qualcuno che assumesse la responsabilità in quel settore sul fianco destro dell’esercito poiché il suo comandante, il colonnello Dommartin, e il suo secondo in comando, il maggiore Perrier, erano stati feriti. Saliceti e il suo collega, Thomas de Gasparin, convinsero Carteaux a nominare Napoleone alla carica, nonostante avesse 24 anni appena. Napoleone sospettava che la sua formazione alla École militaire fosse stata un fattore decisivo nel procurargli questa prima importante opportunità. In seguito disse che l’artiglieria aveva carenza di «uomini di scienza»: «il dipartimento era interamente diretto da sergenti e caporali. Io capivo il servizio». In un esercito così depauperato dall’emigrazione di massa e dalla decapitazione dell’aristocrazia, che in precedenza forniva la stragrande maggioranza degli ufficiali, si chiuse un occhio riguardo alla sua giovinezza. Ovviamente anche il fatto che a supervisionare le nomine di Carteaux fosse il suo alleato Saliceti ebbe un ruolo nella vicenda.
Carteaux, che secondo l’opinione espressa in privato da Saliceti e Gasparin a Parigi era «un incapace», disponeva di 8000 uomini sulle colline tra Tolone e Ollioules, e altri 3000 al comando del generale Jean Lapoype sul lato della città di La Valette. Ma non aveva un piano di attacco. Il 9 ottobre Saliceti e Gasparin avevano ormai ottenuto per Napoleone il comando di tutta l’artiglieria fuori Tolone. Poiché appariva chiaro che si sarebbe trattato di un’operazione guidata dall’artiglieria, quella carica gli conferiva un ruolo fondamentale. Nel corso del successivo assedio di tre mesi fu supportato da due aiutanti di campo, Auguste de Marmont e Andoche Junot.
Se si visita oggi il luogo delle batterie di Napoleone sopra Tolone, appare subito evidente che cosa si doveva fare. Ci sono un’insenatura esterna, un’insenatura interna e un alto promontorio a est chiamato L’Eguillette che domina entrambe. «Per impadronirsi della baia bisogna impadronirsi dell’Eguillette», riferì Napoleone al ministro della guerra, Jean-Baptiste Bouchotte. Per riversare palle da cannone arroventate sui vascelli della marina britannica all’ancora nell’insenatura interna era perciò necessario conquistare il forte prospiciente il promontorio, forte Mulgrave, che era stato costruito dal suo comandante, il primo conte di Mulgrave, e soprannominato “la piccola Gibilterra” per le sue massicce fortificazioni. Anche se l’importanza del porto appariva evidente a tutti, fu Napoleone che mise a punto il piano per conquistarlo. Il successo avrebbe sbloccato quasi istantaneamente la situazione strategica, poiché quando la Royal Navy fosse stata cacciata dal porto, i federati da soli non sarebbero riusciti a difendere la città con i suoi 28.000 abitanti.
Napoleone si buttò nel progetto di catturare il forte Mulgrave. Convincendo le cittadine limitrofe mise insieme 14 cannoni e quattro mortai, oltre a depositi, attrezzi e munizioni. Mandò ufficiali più lontano, a Lione, Briançon e Grenoble, e chiese che l’Armata d’Italia gli fornisse i cannoni che in quel momento non venivano utilizzati per difendere Antibes e Monaco. Istituì a Ollioules un arsenale di 80 uomini che costruivano cannoni e palle da cannone, requisì cavalli a Nizza, Valence e Montpellier, e instillò nei suoi uomini un’idea di attività incessante. Mandava dozzine di lettere non smettendo mai di implorare, lamentarsi e imperversare (non c’era abbastanza polvere da sparo, le cartucce erano della misura sbagliata, stavano requisendo per altri usi i cavalli addestrati per l’artiglieria eccetera) con richieste a Bouchotte, una volta persino allo stesso comitato di salute pubblica, scavalcando Carteaux e i suoi immediati superiori.
Lamentandosi con il suo amico Chauvet, l’ordinatore principale (quartiermastro), per «la confusione e lo spreco» oltre all’«evidente assurdità» delle disposizioni in corso, Napoleone affermava disperato: «L’approvvigionamento dell’esercito dipende solo dalla fortuna». In una tipica lettera a Saliceti e Gasparin scriveva: «Si può restare per 24 o se è necessario 36 ore senza mangiare, ma non si può rimanere nemmeno tre minuti senza polvere da sparo». Insieme alla sua energia e al suo dinamismo, le lettere evocano una meticolosa attenzione per i particolari in qualsiasi cosa, dal prezzo delle razioni a edifici e palizzate. Ma in fin dei conti il succo del suo messaggio era sempre lo stesso: avevano solo 600 libbre grosse di polvere da sparo, e se non riuscivano a procurargliene altra sarebbe stato impossibile avviare operazioni serie.
Il risultato di tutti i suoi maneggi fu che Napoleone riuscì a organizzare un potente treno di artiglieria in brevissimo tempo. Si impossessò di una fonderia dove venivano prodotti pallini e mortai e di un’officina dove si riparavano i moschetti. Ottenne dalle autorità di Marsiglia che fornissero migliaia di sacchi di sabbia. Per farlo ci voleva una notevole autorevolezza, unita al genere di minacce implicite che poteva fare un ufficiale dell’esercito giacobino durante il Terrore di Robespierre. Alla fine dell’assedio Napoleone comandava ormai 11 batterie con un totale di quasi 100 tra cannoni e mortai.
In tutto questo Napoleone ricevette poco sostegno da Carteaux, giungendo a disprezzarlo, mentre Saliceti e Gasparin cospirarono finché non riuscirono a farlo rimpiazzare, l’11 novembre, con il generale François Doppet. Doppet ebbe un’ottima impressione del suo comandante dell’artiglieria, e riferì a Parigi: «Lo trovavo sempre al suo posto; quando aveva bisogno di riposare si sdraiava per terra avvolto nel mantello; non lasciava mai le batterie». Tuttavia l’ammirazione non era ricambiata, e dopo un attacco a forte Mulgrave il 15 novembre, durante il quale Doppet suonò la ritirata troppo presto, Napoleone tornò alla ridotta e imprecò: «Il nostro colpo a Tolone è mancato perché un incapace ha suonato la ritirata!».
Il 17 novembre il competentissimo generale Jacques Dugommier prese il posto di Doppet, presto seguito da rinforzi che portarono il numero degli assedianti a 37.000 unità. Napoleone andava d’accordo con Dugommier. A metà novembre aveva circondato forte Mulgrave di batterie.

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Il generale Jacques François Dugommier, comandante dei francesi all'assedio di Tolone, capo di Napoleone.

All’una del mattino di martedì 17 dicembre 1793, Dugommier mise in atto il piano d’attacco approntato da Napoleone. Una colonna, comandata da Claude Victor-Perrin (in seguito maresciallo Victor), superò la prima linea di difesa al forte Mulgrave, ma esitò alla seconda. Verso le tre del mattino Dugommier sferrò l’assalto successivo di 2000 uomini nonostante una pioggia battente, venti forti e lampi. Quest’assalto, condotto da Napoleone e dal capitano Jean-Baptiste Muiron, alla fine consentì la presa del forte dopo pesanti corpo a corpo. Poi Napoleone passò a riversare in tutto il porto sottostante, sui vascelli della Royal Navy, palle da cannone roventi. Dugommier fece un rapporto eccellente su Napoleone, che definì "questo ufficiale raro".
Gli alleati evacuarono Tolone la mattina dopo, creando un'immane confusione dopo che il generale Lapoype conquistate le alture Faron cominciò a bombardare la città anche dalla parte orientale. Poco dopo Saliceti e Gasparin ordinarono l’esecuzione di circa 400 sospetti federati. La vittoria di Tolone fece piovere su Napoleone benefici grandi e meritati. Il 22 dicembre fu nominato brigadiere generale e ispettore delle difese costiere dal Rodano al Var. Saliceti lo indicò all’attenzione degli eminenti politici Paul Barras e Louis-Stanislas Fréron, ma soprattutto, come Napoleone affermò in seguito, Tolone gli «diede fiducia in se stesso». Aveva dimostrato che potevano affidargli un comando.

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Paul Barras, Presidente del Direttorio della Prima Repubblica Francese, che ebbe notevole influenza per la carriera di Napoleone

Di rado nella storia militare c’è stato un avvicendamento così alto di generali come in Francia nell’ultimo decennio del Settecento. Questo significava che giovani capaci potevano ascendere nei ranghi a incredibile velocità. Il Terrore, l’emigrazione, la guerra, le epurazioni politiche, la disgrazia dopo le sconfitte, il sospetto politico e l’impiego di capri espiatori, oltre ai normali casi di dimissioni e pensionamento, facevano sì che l’ascesa di Napoleone nella gerarchia quindi non era un caso unico, date le circostanze politiche e militari dell’epoca. Tuttavia i suoi progressi furono impressionanti: aveva trascorso cinque anni e mezzo come alfiere, un anno da tenente, 16 mesi da capitano, solo tre mesi da maggiore, e nemmeno un minuto da colonnello. Il 22 dicembre 1793, dopo essere stato in congedo per 58 mesi di servizio su 99, con o senza permesso, e dopo aver compiuto meno di quattro anni di servizio attivo, a 24 anni Napoleone era generale.
La decapitazione degli hébertisti, una fazione estremista, avvenuta il 5 maggio, e quella di Georges Danton e Camille Desmoulins il 5 aprile, entrambe ordinate dal comitato di salute pubblica di Robespierre, dimostravano che la rivoluzione divorava senza rimorsi i propri figli. Un contemporaneo osservò «migliaia di donne e bambini seduti sulle pietre davanti alle panetterie» e «più della metà di Parigi che viveva di patate. Il denaro di carta era senza valore». La città era matura per una reazione contro i giacobini, che non erano stati in grado di procurare né cibo né pace. Nel 1794, con la ritirata degli alleati in Spagna, Belgio e lungo il Reno, un gruppo di cospiratori girondini si sentiva abbastanza fiducioso di poter rovesciare i giacobini e porre fine una volta per tutte al regno del Terrore. A metà luglio Napoleone partecipò per sei giorni a una missione segreta a Genova affidatagli da Augustin Robespierre per riferire sulle sue fortificazioni, dirigere una riunione di cinque ore con l’incaricato d’affari francese Jean Tilly e persuadere il doge della necessità di migliorare i rapporti franco-genovesi. Questo lo avvicinava al circolo politico dei Robespierre proprio nel peggior momento possibile, poiché il 27 luglio la “reazione termidoriana” guidata da Barras e Fréron rovesciò Maximilien Robespierre.

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Maximilien de Robespierre

La protezione di Augustin Robespierre naturalmente faceva di Napoleone un sospetto. Il 9 agosto fu arrestato ai suoi alloggi di Nizza e condotto per un giorno alla fortezza della città, prima di essere incarcerato al Fort-Carré di Antibes, dove avrebbe trascorso i dieci giorni successivi. Saliceti, per un istinto di conservazione del tutto comprensibile, non fece nulla per proteggerlo e anzi mise sottosopra i documenti di Napoleone alla ricerca di prove del tradimento. «Si è degnato a malapena di guardarmi dalle eccelse altezze della sua grandezza», commentò Napoleone, risentito per il comportamento del suo compatriota còrso e compagno politico da cinque anni.
Nel 1794, l’innocenza non era una difesa contro la ghigliottina, e nemmeno il comprovato eroismo nei combattimenti in nome della repubblica, quindi Napoleone era davvero in pericolo. La ragione vera, naturalmente, era politica: aveva usufruito della protezione di Augustin Robespierre e aveva scritto un trattato giacobino, La cena di Beaucaire, che Robespierre aveva contribuito a far pubblicare. «Gli uomini possono essere ingiusti nei miei confronti, mio caro Junot», scrisse al fedele aiutante di campo, «ma basta essere innocenti: la mia coscienza è il tribunale innanzi al quale chiamo a testimoniare la mia condotta.»
Napoleone ebbe la fortuna che i termidoriani non perseguitavano i loro nemici in modo altrettanto spietato dei giacobini, né indulgevano in omicidi extragiudiziali in carcere come nei massacri di settembre. Fu rilasciato il 20 agosto per mancanza di prove. La sua cattività non era stata pesante sul piano fisico, e quando andò al potere nominò il suo secondino aiutante di palazzo. Quando fu liberato tornò a progettare una spedizione contro la Corsica e a tormentare il povero maggiore Berlier. Tecnicamente Napoleone era disoccupato, e solo al 139° posto nella graduatoria dei generali per anzianità. Il nuovo comandante dell’Armata d’Italia, il generale Barthélemy Schérer, non volle prenderlo, perché pur essendo un esperto di chiara fama in ambito di artiglieria, era considerato «troppo dedito a manovrare per ottenere promozioni». Era senza dubbio vero: Napoleone non vedeva linea di demarcazione tra la sfera militare e quella politica, proprio come i suoi eroi Cesare o Alessandro. Finalmente, gli fu ordinato di assumere il comando dell’artiglieria dell’Armata occidentale del generale Hoche, di stanza a Brest, che stava soffocando l’insurrezione realista in Vandea.
Il governo, in quel momento costituito in larga parte da girondini sopravvissuti al Terrore, stava conducendo una terribile guerra sporca nella Francia occidentale, dove morirono più francesi che nel corso di tutto il periodo del Terrore a Parigi. Napoleone sapeva che in quella posizione avrebbe ottenuto poca gloria, anche se fosse riuscito a vincere. Hoche aveva solo un anno più di lui, quindi le possibilità di avanzamento di Napoleone erano limitate. Avendo combattuto contro britannici e piemontesi, non gli piaceva la prospettiva di combattere contro altri francesi, quindi l’8 maggio si recò a Parigi per cercare di ottenere un’assegnazione migliore, e portò con sé il fratello sedicenne Luigi, per cui sperava di trovare un posto alla scuola di artiglieria di Châlons-sur-Marne, e due aiutanti di campo, Marmont e Junot (ora ne aveva un terzo, Muiron).
Il 25 maggio, Napoleone si rivolse a colui che fungeva da ministro della guerra, il capitano Aubry, che in realtà ridusse l’offerta al comando della fanteria in Vandea. «Questo a Napoleone parve un insulto», registrò suo fratello Luigi. «Rifiutò e rimase a vivere a Parigi senza incarico, godendosi la paga di generale disoccupato.» Si diede di nuovo malato, tirando avanti con mezzo stipendio, ma ciò nonostante mandò Luigi a Châlons. Continuava a ignorare le intimazioni del ministero della guerra a recarsi in Vandea o fornire prove della sua malattia, oppure licenziarsi del tutto. In realtà Napoleone era ben deciso a godersi le attrattive di Parigi. Si preparava ad affrontare per la prima volta la vita di società, pur non sentendosi a proprio agio in compagnia delle donne. Forse dipendeva anche dal suo aspetto: una donna che lo incontrò diverse volte quella primavera lo definì «l’essere più magro e più bizzarro che io abbia mai conosciuto […] così magro che ispirava pietà». Un’altra lo soprannominò «il gatto con gli stivali». Laure d’Abrantès, donna di mondo che conobbe Napoleone in quel periodo, anche se probabilmente non così bene come affermò in seguito nelle sue malevole memorie, lo ricordava «con un logoro cappello tondo tirato sulla fronte, e i capelli mal incipriati che gli pendevano sul colletto del pastrano grigio, senza guanti perché li considerava un lusso inutile, stivali malfatti e maltinti, con la sua magrezza e il colorito olivastro».
La situazione si risolse a metà agosto del 1795, quando il ministero della guerra chiese che Napoleone si presentasse alla sua commissione medica per accertare se fosse davvero malato. Lui ricorse a Barras, Fréron e i suoi altri contatti politici, uno dei quali riuscì a procurargli un comando all’Agenzia storica e topografica del ministero della guerra. Nonostante il nome, in realtà si trattava dell’unità di pianificazione che coordinava la strategia militare francese. Così, mentre il 17 agosto Napoleone scriveva a Simon Sucy de Clisson, l’ufficiale pagatore dell’Armata d’Italia a Nizza «Sono stato comandato a un posto di generale nell’Armata della Vandea: non accetterò», comunicò esultante a Giuseppe tre giorni dopo: «In questo momento sono assegnato al dipartimento topografico del comitato di salute pubblica per la direzione delle armate». L’agenzia era diretta dal generale Henri Clarke, un protetto del grande amministratore militare Lazare Carnot, noto come “l’organizzatore della vittoria”.
L’agenzia topografica era un’organizzazione piccola e alquanto efficiente all’interno del ministero della guerra, ed è stata definita «l’organizzazione di pianificazione più sofisticata dell’epoca». Era stata istituita da Carnot e rispondeva direttamente al comitato, raccoglieva informazioni dai comandanti in capo, progettava i movimenti delle truppe, preparava direttive operative dettagliate e coordinava la logistica. Sotto Clarke, facevano parte dello stato maggiore i generali Jean-Girard Lacuée, César-Gabriel Beethier e Pierre-Victor Houdon, tutti strateghi di talento e coscienziosi. Napoleone non avrebbe potuto trovare una collocazione migliore per imparare tutti gli elementi relativi a rifornimenti, supporto e logistica che costituiscono la strategia. Fu in quel periodo, tra metà agosto e l’inizio di ottobre del 1795, breve ma intellettualmente intenso, che Napoleone imparò tutti i particolari pratici della guerra strategica, diversa dal combattimento tattico in cui aveva dato eccellente prova a Tolone. L’agenzia topografica era anche il posto migliore per fare le sue valutazioni su quali generali fossero preziosi e quali sacrificabili.
Il curioso orario di lavoro dell’agenzia topografica (dalle 13 alle 17 e dalle 23 alle 3) lasciava a Napoleone molto tempo per scrivere un racconto romantico intitolato Clisson ed Eugénie, un canto del cigno per la sua relazione amorosa non ricambiata con Désirée. Utilizzava le frasi brevi, limpide, della tradizione eroica e e il suo riferimento era il romanzo scritto da Goethe nel 1774, I dolori del giovane Werther. Il Werther, il più importante romanzo in Europa dello Sturm und Drang e libro più diffuso in assoluto ai suoi tempi, influenzò profondamente il movimento letterario romantico, e anche lo stile letterario di Napoleone. Anche se il nome “Clisson” era preso in prestito da un suo amico dell’epoca, Sucy de Clisson, il personaggio è Napoleone allo stato puro, ha persino la stessa età, 26 anni.
Nella seconda metà del 1795 i dirigenti girondini ammisero che la Francia aveva bisogno di una nuova costituzione se voleva buttarsi alle spalle il Terrore giacobino. Il 23 agosto fu approvata dalla convenzione la terza costituzione dalla presa della Bastiglia, nota come la costituzione dell’anno terzo, che istituiva una legislatura bicamerale e un governo esecutivo di cinque uomini chiamato direttorio. Entrò in vigore alla fine di ottobre. La convenzione sarebbe stata rimpiazzata da un’assemblea nazionale, costituita da un consiglio dei cinquecento e da un consiglio degli anziani, e il direttorio avrebbe sostituito il comitato di salute pubblica, che era diventato sinonimo del Terrore. Per gli avversari della rivoluzione e della repubblica, questo momento di riforma rappresentava un’occasione per colpire i nemici. Il 20 settembre, con un importante contrattacco, l’Austria raggiunse di nuovo il Reno; l’economia francese era ancora molto debole, e la corruzione diffusa: fu in questo contesto che, la prima settimana di ottobre, i nemici della repubblica si coalizzarono per rovesciare il nuovo governo, facendo entrare grandi quantità di armi e munizioni a Parigi.
Anche se il Terrore era finito e il comitato di salute pubblica sarebbe stato abolito quando fosse entrato in vigore il nuovo direttorio, il rancore ispirato da tali istituzioni convergeva ora contro gli organi che le sostituivano. L’insurrezione fu concentrata nelle “sezioni”, 48 distretti istituiti a Parigi nel 1790 che controllavano le assemblee locali e le unità locali della guardia nazionale. In realtà a ribellarsi furono soltanto sette sezioni, ma aderirono alla rivolta anche uomini della guardia nazionale provenienti dalle altre.
Gli uomini delle sezioni non erano tutti realisti, e nemmeno per la maggioranza. Il generale veterano Mathieu Dumas scrisse nelle sue memorie: «Il desiderio più diffuso tra la popolazione di Parigi era di tornare alla costituzione del 1791»; non c’era grande entusiasmo per una guerra civile che avrebbe comportato la restaurazione dei Borboni. L’uomo su cui in origine contava la convenzione per soffocare l’insurrezione imminente, il generale Jacques-François Menou, comandante dell’Armata dell’interno, aveva tentato di trattare con le sezioni per evitare spargimenti di sangue. I dirigenti delle convenzione considerarono il suo gesto un principio di tradimento e lo fecero arrestare. Mentre il tempo che li divideva dal previsto attacco era agli sgoccioli, i girondini designarono uno dei loro capi, il presidente dell’assemblea nazionale Paul Barras, a dirigere l’Armata dell’interno, nonostante non avesse più avuto alcuna esperienza militare dal 1783. Il suo compito era di salvare la rivoluzione.
Il 13 vendemmiaio, Barras nominò Napoleone suo secondo in comando dell’Armata dell’interno, e gli ordinò di utilizzare tutti i mezzi necessari per sedare la rivolta. Napoleone aveva fatto colpo sugli uomini al comando più importanti della sua vita, tra gli altri Kéralio, i fratelli du Teil, Saliceti, Doppet, Dugommier, Augustin Robespierre e ora Barras, che ne aveva sentito parlare da Saliceti dopo la vittoria di Tolone. Avendo prestato servizio all’agenzia topografica, era noto a personaggi governativi di primo piano, come Carnot e Jean-Lambert Tallien. È incredibile che a Parigi vi fossero così pochi alti ufficiali per svolgere quella missione, o almeno così pochi disposti a sparare sui civili per le strade. Dalla reazione di Napoleone ai due attacchi a cui aveva assistito nel 1792 alle Tuileries, non vi furono dubbi su quello che avrebbe fatto.
Era l’esordio di Napoleone nella politica nazionale di alto livello e di primo piano, e lo trovò inebriante. Ordinò al capitano Joachim Murat del 21° cacciatori a cavallo di andare al galoppo con un centinaio di uomini fino al campo militare di Sablons, a circa tre chilometri di distanza, prendere possesso dei cannoni e portarli al centro di Parigi, abbattendo a sciabolate chiunque tentasse di impedirlo.
Tra le sei e le nove del mattino, dopo essersi accertato della fedeltà dei suoi ufficiali e dei suoi uomini, Napoleone piazzò due cannoni all’entrata di rue Saint-Nicaise, un altro di fronte alla chiesa di San Rocco, in fondo a rue Dauphine, altri due in rue Saint-Honoré, vicino a place Vendôme, e due di fronte al pont Royal sul quai Voltaire. Schierò la fanteria dietro ai cannoni, e mandò le sue riserve a difendere le Tuileries a place du Carrousel, dove risiedevano la convenzione e il quartier generale del governo. Posizionò la cavalleria in place de la Révolution (oggi place de la Concorde), quindi trascorse tre ore ispezionando uno dopo l’altro ciascuno dei suoi cannoni.
L’uso della mitraglia su civili era stato impensabile fino a quel momento a Parigi, e il fatto che Napoleone fosse disposto a contemplarlo attesta quanto fosse spietato. Non intendeva farsi prendere per un rammollito. «Se si tratta il popolino con gentilezza», disse in seguito a Giuseppe, «quelli immaginano di essere invulnerabili; se impicchi qualcuno si stancano del gioco e diventano sottomessi e umili come devono essere.»
Le forze di Napoleone erano costituite da 4500 soldati e circa 1500 “patrioti”, gendarmi e veterani degli Invalides. Si trovava di fronte una forza composita di ben 30.000 uomini delle sezioni, in teoria comandate dal generale Dancian, che perse la maggior parte della giornata a cercare di condurre delle trattative. Solo alle quattro del pomeriggio le colonne ribelli cominciarono ad affluire dalle strade secondarie a nord delle Tuileries. Napoleone non aprì il fuoco immediatamente, ma non appena si sentirono i primi spari di moschetto delle sezioni, tra le quattro e un quarto e le quattro e tre quarti, scatenò una reazione di artiglieria devastante. Sparò anche la mitraglia sugli uomini delle sezioni mentre tentavano di attraversare i ponti sulla Senna; gli insorti subirono gravi perdite e ben presto fuggirono. Nella maggior parte delle zone di Parigi, alle sei di sera l’assalto era finito, ma alla chiesa di San Rocco in rue Saint-Honoré, che divenne di fatto il quartier generale dell’insurrezione e il luogo in cui venivano portati i feriti, i cecchini continuavano a sparare dai tetti e da dietro le barricate. Il combattimento proseguì per molte ore, fino a quando Napoleone portò i suoi cannoni a 50 metri di distanza dalla chiesa, e non vi fu altra scelta che la resa. Quel giorno furono uccisi circa 300 insorti, a fronte di una mezza dozzina di uomini di Napoleone. La convenzione, con quella che in base ai criteri dell’epoca va considerata magnanimità, in seguito giustiziò soltanto due dirigenti delle sezioni. La “raffica di mitraglia”, come venne chiamata, ebbe come conseguenza che nei tre decenni successivi i tumulti cittadini di Parigi non ebbero più alcun ruolo nella politica francese.
La notte del 13 vendemmiaio delle forti piogge lavarono in fretta il sangue dalle strade, ma il ricordo persistette. Persino il Registro annuale fondato da Edmund Burke, violentemente antigiacobino, sottolineava: «Fu in questo conflitto che Napoleone comparve per la prima volta sul teatro dei combattimenti e con il suo coraggio e il suo comportamento gettò le basi di quella sicurezza nei suoi poteri che così poco tempo dopo lo portò alle promozioni e alla gloria». Date le urgenti necessità politiche, al ministero della guerra non opponevano più cose assurde come graduatorie di anzianità, commissioni mediche, diserzioni eccetera. Prima della fine di vendemmiaio, Napoleone era stato promosso generale di divisione da Barras, e poco dopo comandante dell’Armata dell’interno in riconoscimento del suo servizio per il salvataggio della repubblica e per aver evitato una possibile guerra civile. Era paradossale che avesse rifiutato l’assegnazione in Vandea perché non voleva uccidere francesi, e poi avesse ottenuto la sua promozione più vertiginosa proprio facendolo. Ma nella sua mente c’era una differenza tra un combattimento legittimo e la plebaglia.
Subito dopo il vendemmiaio, Napoleone sovrintese alla chiusura del circolo dell’opposizione Pantheon e all’espulsione di criptorealisti dal ministero della guerra, come pure al pattugliamento delle produzioni teatrali. Un altro suo compito era di sovrintendere alla confisca di tutti gli armamenti appartenenti a civili, che secondo la leggenda familiare lo portò a conoscere una donna di cui forse aveva sentito parlare in società, ma che non aveva mai incontrato: la viscontessa Marie-Josèphe-Rose Tascher de la Pagerie, vedova de Beauharnais, che Napoleone avrebbe chiamato “Giuseppina”.
Il nonno di Giuseppina, un nobile di nome Gaspard Tascher, si era trasferito dalla Francia in Martinica nel 1726, nella speranza di fare fortuna con una piantagione di canna da zucchero, ma gli uragani, la sfortuna e la sua stessa indolenza glielo avevano impedito; a Santo Domingo (la moderna Haiti) la famiglia possedeva una tenuta chiamata La pagerie. Giuseppina era nata in Martinica il 23 giugno 1763, anche se anni dopo sosteneva che fosse il 1767. Arrivò a Parigi nel 1780, a 17 anni, così poco istruita che il suo primo marito, un cugino con cui si era fidanzata a 15 anni, il generale e visconte Alexandre de Beauharnais, non riusciva a nascondere il proprio disprezzo per l’ignoranza di lei. I denti di Giuseppina erano solo monconi anneriti, e si riteneva questo fosse dovuto alla sua consuetudine di masticare zucchero di canna della Martinica quando era bambina, ma imparò a sorridere senza farli vedere.
Anche se Beauharnais era stato un marito violento (una volta aveva rapito il figlioletto di tre anni Eugenio dal convento in cui Giuseppina si era rifugiata per salvarsi dalle sue percosse), tuttavia nel 1794, quando lo arrestarono, lei cercò coraggiosamente di salvarlo dalla ghigliottina. Suo marito fu giustiziato appena quattro giorni prima della caduta di Robespierre. Se questi fosse sopravvissuto più a lungo, probabilmente Giuseppina lo avrebbe seguito. C’era una simmetria paradossale nel modo in cui il colpo di mano di termidoro liberò Giuseppina da una prigione e contemporaneamente mise Napoleone in un’altra.
Giuseppina, dopo la prigionia, soffrì di una forma di quella che oggi viene chiamata sindrome da stress post traumatico. Se in seguito fu sessualmente indulgente con se stessa, se si lasciava coinvolgere in affari sordidi e amava il lusso e se si sposò per avere stabilità e sicurezza finanziaria più che per amore, è difficile fargliene una colpa dopo quanto aveva passato. Giuseppina è stata spesso considerata una sgualdrina seducente, superficiale, stravagante, ma di certo non era superficiale sul piano culturale, avendo buon gusto in ambito musicale e nelle arti figurative; si deve anche a lei la nascita del movimento che va sotto il nome di "stile impero". Era anche generosa, e uno dei diplomatici più abili dell’epoca, Clemens von Metternich, parlava del suo «tatto sociale unico». Inoltre era una brava arpista, anche se qualcuno diceva che suonava sempre sulla stessa tonalità, e a letto faceva una cosa nota come “zigzag”; quando Napoleone la conobbe era l'amante di Barras. Alla fine del 1795 questa femme fatale innegabilmente attraente sui 35 anni (con un impareggiabile sorriso a labbra chiuse) aveva bisogno di un uomo che la proteggesse e la mantenesse. La decisione di Giuseppina di prendersi amanti potenti dopo il Terrore, come tante altre cose nella sua vita, era à la mode. La sua educazione sessuale era assai più avanzata di quella del suo quasi vergine secondo marito. Giuseppina colse l’opportunità della confisca delle armi dopo il vendemmiaio per mandare il figlio quattordicenne, Eugène de Beauharnais, al quartier generale di Napoleone, a chiedere se la famiglia poteva conservare la spada di suo padre per motivi sentimentali. Napoleone la interpretò come l’apertura a relazioni sociali che di fatto era, Barras li fece conoscere, e nel giro di qualche settimana Napoleone si era innamorato sinceramente e profondamente di lei; la sua infatuazione non fece che crescere fino al loro matrimonio, avvenuto cinque mesi dopo. Come altri parvenu, immigrati, isolani ed ex prigionieri politici, avevano diverse cose in comune. Lei non era attratta dalla sua carnagione leggermente giallastra, dai capelli smorti e dall’aspetto trasandato, né presumibilmente dalla sua scabbia, e di sicuro non era innamorata di lui, ma in fondo anche lei cominciava ad avere le rughe, la sua bellezza sbiadiva, era indebitata e doveva mantenere due figli, Eugenio e Ortensia. Giuseppina passò, pertanto, dal letto di Barras a quello di Napoleone, ma questi l'amò profondamente, sempre.

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Giuseppina quando divenne imperatrice dei francesi. Ritratto di François Gérard (1808).

La prima campagna d'Italia, la felicità dei francesi e l'irritazione del Direttorio.

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Napoleone durante la prima campagna in Italia

(Mi dilungo su questo argomento per approfondire la tattica militare che Napoleone utilizzò in tutte le sue battaglie)
Il 9 marzo 1796 Napoleone sposò Giuseppina e dopo soli due giorni partì per Nizza per assumere il comando dei 38.000 uomini mal equipaggiati dell'Armata d'Italia. Il generale, giunto al quartier generale il 27 marzo, diede il via a un'operazione militare che, nei piani del Direttorio, doveva essere semplicemente di «diversione», poiché l'attacco all'Austria sarebbe dovuto avvenire lungo due direttrici sul Reno.
Piccolo di statura, magro, il viso scavato, lo sguardo freddo dei grandi occhi grigioazzurro, i capelli lunghi sulle spalle e il volto "sulfureo", il generale, cupo e spigoloso, impose la sua autorità, dimostrò la sua risolutezza, impressionò i suoi generali subordinati e predispose la rapida attuazione dei suoi ambiziosi piani di guerra.
Aveva sotto di sè cinque comandanti di divisione. Il più anziano, Jean Sérurier, vantava 34 anni di servizio nell’esercito francese. Aveva combattuto nella guerra dei sette anni, e stava pensando di lasciare l’esercito proprio quando era scoppiata la rivoluzione, ma negli anni successivi si era battuto bene e nel dicembre 1794 era stato nominato generale di divisione. Pierre Augereau era un ex mercenario di 38 anni, alto, sbruffone, un po’ volgare, venditore di orologi e maestro di danza, i cui soprannomi erano “figlio del popolo” e “orgoglioso brigante”. Aveva ucciso due uomini in duello e un ufficiale di cavalleria in combattimento, e aveva evitato di essere torturato dall’Inquisizione di Lisbona grazie ai buoni uffici della moglie greca. André Masséna, pure trentottenne, era partito in nave come mozzo a 13 anni, ma nel 1775 era passato nell’esercito ed era diventato sergente maggiore prima di essere congedato appena poco prima della rivoluzione. Era diventato contrabbandiere e commerciante di frutta ad Antibes, poi, nel 1791, era entrato nella guardia nazionale e aveva fatto carriera in fretta. I servigi resi durante l’assedio di Tolone gli procurarono la promozione a generale di divisione nell’Armata d’Italia, dove prestò servizio distinguendosi nel 1795. Amédée Laharpe era uno svizzero di 32 anni con folti baffi. Jean-Baptiste Meynier aveva combattuto nell’Armata di Germania, ma, a metà aprile, Napoleone riferì al che era un «incapace, inadatto a comandare anche solo un battaglione in una guerra di movimento come quella».

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Generale di divisione Amédée Emmanuel François Laharpe; morì nella campagna d'Italia

Tutti e cinque gli uomini erano veterani esperti, mentre Napoleone non aveva comandato nemmeno un battaglione di fanteria in vita sua. Sarebbero stati un gruppo difficile da impressionare, figuriamoci da ispirare. Masséna in seguito ricordava: "All’inizio non ne ebbero una grande opinione. La sua bassa statura e la faccia meschina non gli attrassero il loro favore. Il ritratto della moglie che teneva in mano e mostrava a tutti, la sua estrema giovinezza, facevano ritenere che quell’assegnazione fosse frutto di un ennesimo intrigo politico, ma un attimo dopo indossava il suo berretto da generale e sembrava crescere di 60 centimetri. Ci interrogò sulla posizione delle nostre divisioni, sul loro equipaggiamento, il morale e il numero di effettivi di ogni corpo d’armata, ci diede la direzione che dovevamo seguire, annunciò che il giorno dopo avrebbe ispezionato tutti i corpi e che quello successivo si sarebbero messi in marcia verso il nemico per dare battaglia".
In quel primo incontro Napoleone mostrò ai suoi comandanti che la strada Savona-Carcare sfociava in tre vallate, ciascuna delle quali poteva alla fine portarli nelle ricche pianure della Lombardia. Il Piemonte si era opposto alla rivoluzione francese ed era in guerra con la Francia dal 1793. Napoleone era convinto che se il suo esercito fosse riuscito a respingere gli austriaci verso est e a prendere la roccaforte di Ceva, avrebbe potuto estromettere i piemontesi dalla guerra minacciando Torino, la loro capitale. Questo avrebbe significato far scendere in campo 40.000 soldati francesi contro 60.000 austriaci e piemontesi, ma Napoleone disse ai suoi comandanti che avrebbe utilizzato la velocità e l’inganno per mantenere l’iniziativa. Il suo piano era basato sia sui Principes de la guerre de montagnes di Pierre de Bourcet (1775), sia su una strategia precedente che, concepita per essere usata in una campagna contro il Piemonte del 1745, era stata respinta da Luigi XV, ma era incentrata proprio sulla presa di Ceva. Bourcet parlava dell’importanza di una pianificazione chiara, della concentrazione degli sforzi e di mantenere le forze nemiche squilibrate. La campagna in Italia di Napoleone sarebbe diventata un’operazione da manuale in entrambi i sensi del termine. Gli austriaci, che dominavano l’Italia settentrionale dal 1714, stavano mandando un grande esercito verso ovest, in Piemonte, per scontrarsi con i francesi, e i piemontesi venivano riforniti dalla base della Royal Navy in Corsica. Questo costrinse Napoleone ad ammassare tutto quello di cui aveva bisogno sopra gli alti passi montani della Liguria. Il 5 aprile, quando arrivò ad Albenga, spiegò a Masséna e a Laharpe il suo piano di isolare il nemico tra Carcare, Altare e Montenotte.

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Generale Jean Mathieu Philibert Sérurier; fu uno dei 4 più fidati consiglieri e subordinati di Napoleone durante la prima campagna d'Italia.

Il comandante austriaco, Johann Beaulieu, era dotato di molta esperienza e un po’ di talento, ma aveva 71 anni, e in precedenza era già stato battuto da eserciti francesi. Napoleone, accanito studioso delle campagne del passato, sapeva che Beaulieu era prudente, e progettava di sfruttare questa debolezza. L’alleanza con i piemontesi era fragile e Beaulieu era stato avvertito di non farci troppo affidamento. Persino all’interno dell’esercito austriaco, dato il carattere eterogeneo dell’esteso impero asburgico, nelle sue unità spesso non si parlava la stessa lingua; la lingua comune impiegata dal corpo ufficiali era il francese. Andava aggiunto ai problemi di Beaulieu che doveva rispondere a Vienna, a un consiglio tardo e farraginoso, i cui ordini venivano emanati con estrema lentezza e quando arrivavano erano ormai superati dagli eventi. Invece Napoleone progettava di adottare la “strategia della posizione centrale”: sarebbe rimasto tra le due forze che gli si contrapponevano e avrebbe colpito prima una e poi l’altra prima che potessero congiungersi. Era una strategia cui si sarebbe attenuto per tutta la sua carriera. Una delle sue massime in guerra era: "È contrario a ogni principio far agire separatamente corpi che non comunicano tra loro contro una forza centrale le cui comunicazioni sono fluenti"
Quando Napoleone arrivò a Nizza aveva trovato il suo esercito in tale stato da non poter andare da nessuna parte. Si gelava, e i suoi soldati non avevano pastrano. Non veniva distribuita carne da tre mesi, e il pane arrivava irregolarmente. L’artiglieria era trainata dai muli, perché tutti i cavalli da tiro erano morti di malnutrizione, interi battaglioni erano scalzi o calzavano zoccoli, e indossavano uniformi improvvisate. Alcuni uomini erano identificabili come militari solo perché portavano cartuccere dell’esercito, e molti dei loro moschetti erano privi di baionette. Non venivano pagati da mesi, e questo fomentava i brontolii di ammutinamento. Imperversava la febbre, che in 20 giorni uccise almeno 600 uomini della 21° semibrigata.
Vedendo lo stato miserevole del suo esercito Napoleone reagì destituendo Meynier e dando istruzioni al suo quartiermastro Chauvet per una totale riorganizzazione del commissariato, che tra le altre cose, come disse al Direttorioil 28 marzo, doveva «minacciare i fornitori, che hanno rubato molto e godono di buon credito». Ordinò anche al cittadino Faipoult, plenipotenziario della Francia a Genova, di sollecitare «senza baccano» un prestito di tre milioni di franchi ai finanzieri ebrei locali, e richiamò la cavalleria dai pascoli invernali nella valle del Rodano. Nel giro di due giorni dopo il suo arrivo a Nizza, Napoleone smantellò il 3° battaglione della 209a semibrigata che si era ammutinato, destituì i suoi ufficiali e sottoufficiali e distribuì gli altri uomini in gruppi di cinque ad altri battaglioni.
Il 12 aprile 1796 cominciava la prima campagna d'Italia che avrebbe portato alla luce il genio militare e politico di Bonaparte il quale, nonostante l'inferiorità numerica e logistica, riuscì a sconfiggere ripetutamente le forze austriache e piemontesi. Napoleone aveva pianificato di lanciare la sua offensiva il 15 aprile, ma le forze austro-piemontesi avviarono la loro cinque giorni prima, salendo per la stessa strada per cui Napoleone intendeva discendere. Nonostante questa mossa imprevista, nel giro di quarantott’ore Napoleone aveva modificato la situazione. Dopo aver riportate indietro le sue truppe in larga parte illese dalla città di Savona, poté organizzare un contrattacco. La sera dell’11 aprile, rendendosi conto che la linea austriaca era troppo estesa, bloccò il nemico in posizione, sferrando un attacco a Montenotte, un paese di montagna a una ventina di chilometri a nord-ovest di Savona, nella valle dell’Erro, quindi all’una di notte, sotto una pioggia battente, inviò Masséna ad aggirarne il fianco destro per circondarli. Era un brutto accerchiamento in cui combattere: da Montenotte Superiore parte una catena montuosa con picchi alti tra i 700 e i 1000 metri e c’era una fitta vegetazione tutto intorno, che si inerpica su erte ripidissime. L’esercito austriaco aveva costruito molte ridotte, che ora erano state conquistate dalle rapide colonne della fanteria francese. Quando la battaglia fu conclusa, gli austriaci avevano perduto 2500 uomini, molti dei quali catturati. Napoleone ne aveva persi 800. Anche se si era trattato di uno scontro abbastanza modesto, la vittoria di Montenotte fu la prima in campo per Napoleone come comandante in capo, e fu positiva per il suo morale e quello dei suoi uomini. Molte delle sue battaglie successive avrebbero seguito gli stessi parametri: un comandante-avversario anziano privo di energia, un nemico con diverse nazionalità e lingue, che doveva affrontare un esercito omogeneo come quello francese. I francesi si erano mossi assai più in fretta del nemico, e lui aveva impiegato una concentrazione di forze che invertiva le probabilità numeriche per il tempo appena sufficiente da essere decisivo.
Un altro tratto ricorrente era il rapido seguito dopo la vittoria: il giorno dopo Montenotte, Napoleone ingaggiò un altro scontro a Millesimo, un borgo sul Bormida, dove riuscì a scacciare le forze austriache e piemontesi in ritirata. Gli austriaci volevano ritirarsi a est per proteggere Milano, i piemontesi a ovest per proteggere Torino. Napoleone riuscì a sfruttare questi imperativi strategici divergenti. Per uscire dalla valle fluviale entrambi dovevano tornare a un paese fortificato, Dego, dove il 14 aprile Napoleone ottenne la sua terza vittoria in tre giorni. Le perdite austro-piemontesi ammontavano a circa 5700 unità, mentre i francesi avevano perso 1500 uomini. Una settimana dopo, alla battaglia di Mondovì, una cittadina sul fiume Ellero, Napoleone bloccò vigorosamente il fronte piemontese con una manovra ambiziosa e difficile da compiere, ma quando riuscì fu devastante per il morale del nemico. Il giorno dopo i piemontesi chiesero la pace. Fu una fortuna, perché Napoleone non aveva armi da assedio pesanti per cingere Torino. Uno dei motivi per cui mantenne la campagna così fluida era che non aveva risorse per niente altro. Si lamentò con Carnot perché non era stato aiutato «né dall’artiglieria né dal genio»: «nonostante i vostri ordini, non ho nemmeno uno degli ufficiali ufficiali che ho chiesto». Effettuare (o sopportare) un assedio sarebbe stato impossibile.
Il 26 aprile Napoleone emanò un'emozionante proclama al suo esercito da Cherasco: «Oggi con i vostri servigi avete eguagliato le Armate di Olanda e del Reno. Privi di tutto, avete dato tutto. Avete vinto battaglie senza cannoni, superato fiumi senza ponti, compiuto marce forzate senza scarpe, bivaccato senza brandy e spesso senza pane. ... Vi prometto la conquista dell’Italia, ma a una condizione: dovete giurare di rispettare la gente che liberate, e di reprimere l’orribile saccheggio in cui hanno indulto canaglie eccitate dal nemico».
Napoleone distingueva sempre tra «vivere delle risorse di un paese», come doveva fare il suo esercito per il vettovagliamento insufficiente, e «uno spaventoso saccheggio». Ci voleva una certa disposizione ai sofismi, ma la sua mente elastica era atta allo scopo. Spesso in futuro avrebbe accusato gli eserciti austriaco, britannico e russo di saccheggio per atti analoghi a quelli che, come certo sapeva, il suo esercito aveva compiuto in molte occasioni. «Vivevamo di quello che trovavano i soldati», ricordava un ufficiale dell’epoca. «Un soldato non ruba mai niente, trova e basta.» Uno dei comandanti più competenti di Napoleone, il generale Maximilien Foy, in seguito sottolineò che se i soldati di Napoleone avessero «aspettato di mangiare fino a quando l’amministrazione dell’esercito non avesse fatto distribuire le razioni di pane e di carne, avrebbero patito la fame».
I negoziati per un armistizio con i piemontesi cominciarono immediatamente a Cherasco. Durante un colloquio Napoleone disse sarcastico a un plenipotenziario che aveva suggerito delle condizioni per cui restava con meno fortezze di quanto avrebbe desiderato: «La repubblica, affidandomi il comando di un esercito, mi ha dato credito di possedere abbastanza discernimento su quello di cui ha bisogno l’esercito da non dover ricorrere al consiglio del mio nemico». Uno dei due negoziatori, un colonnello savoiardo, il marcheseHenry Costa de Beauregard, in seguito scrisse un memoriale in cui descriveva l’incontro: «[Era] sempre freddo, educato e laconico». All’una del mattino del 28 aprile tirò fuori l’orologio e disse: «Signori, vi annuncio che per le due è ordinato un attacco generale, e se non ho assicurazioni che [la fortezza di] Coni mi sarà consegnata entro la fine della giornata, questo attacco non verrà ritardato di un secondo».

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Generale Jean Antoine Verdier; partecipò a molte campagne napoleoniche.

Avrebbe potuto essere un bluff, ma i piemontesi non potevano correre il rischio. L’armistizio fu firmato immediatamente. Tortona, Alessandria, Coni e Ceva vennero consegnate ai francesi, insieme alla via per Valenza e a tutto il territorio tra Coni e tre fiumi, lo Stura, il Tanaro e il Po. Con un abile stratagemma, Napoleone insistette per una clausola segreta che gli dava il diritto di usare il ponte sul Po di Valenza, sapendo che la notizia sarebbe trapelata arrivando agli austriaci, e che Beaulieu avrebbe mandato delle truppe a proteggere il ponte. In realtà progettava di attraversare il fiume nei pressi di Piacenza, un centinaio di chilometri più a est.
Con l'armistizio di Cherasco, Napoleone costrinse Vittorio Amedeo III di Savoia a pesanti concessioni, ratificate con la Pace di Parigi (15 maggio), che assegnava alla Francia sia la Savoia sia la contea di Nizza.
Il giorno dopo la firma del trattato di armistizio, Napoleone scrisse a Parigi, consapevole che concludendo un accordo diplomatico con una potenza straniera aveva superato i limiti della sua competenza, per non parlare del fatto che, per quanto repubblicano, aveva consentito a re Vittorio Amedeo III di Piemonte e Sardegna di restare sul trono. «È un armistizio accordato a una sola ala dell’esercito, che non mi ha dato il tempo di battere l’altra.» Sperava di placare qualsiasi lagnanza sollevata da Parigi con il denaro, promettendo, infatti, di riscuotere quello che definiva “un contributo” di diversi milioni di franchi dal duca di Parma, e proponendone uno di 15 milioni per Genova. Tali “contributi”, una volta riscossi in tutta l’Italia settentrionale, gli avrebbero consentito di pagare agli organici metà del loro salario in argento, anziché con i disprezzati mandati territoriali, cartamoneta che si svalutava di continuo. Niente, a parte una sconfitta militare, demoralizza un paese in modo così assoluto come l’iperinflazione e il Direttorio, che dal vendemmiaio era guidato da Barras, aveva disperato bisogno dell’oro che Napoleone avrebbe inviato. Questo spiega in larga parte perché i suoi membri, anche se giunsero a risentirsi per i suoi successi in Italia e in Austria, e persino a temerli, fecero solo un debole tentativo di sostituirlo.
«Non lasciate nulla in Italia che la nostra situazione politica vi consenta di portar via e che possa tornarci utile», fu l’ordine ricevuto da Napoleone, il quale abbracciò con entusiasmo questa parte del suo incarico. Aveva deciso che all’Italia, o almeno alle parti che gli si contrapponevano, non sarebbe stato sottratto solo il denaro, ma anche la sua grande arte. Il 1° maggio scrisse al cittadino Faipoult: «Mandatemi un elenco di dipinti, statue e curiosità di Milano, Parma, Piacenza, Modena e Bologna». I governanti di quelle località avevano tutti i motivi di tremare, perché molti dei loro tesori più belli sarebbero stati destinati alla galleria d’arte di Parigi nota come Musée Central des Arts dall’inaugurazione nel 1793 al 1803, quindi Musée Napoléon fino al 1815, e dopo Musée du Louvre.
Gli esperti d’arte e i curatori francesi nominati da Napoleone per scegliere quali oggetti portare via sostenevano che trasferire e riunire gli esempi migliori dell’arte occidentale a Parigi li rendeva in realtà assai più accessibili. «Prima era necessario scalare le Alpi e percorrere intere province per soddisfare questa colta e degna curiosità», scrisse il reverendo britannico William Shephard nel 1814; invece «ora le spoglie d’Italia sono riunite quasi sotto lo stesso tetto e aperte a tutto il mondo». Come sottolineò all’epoca la scrittrice e traduttrice inglese bonapartista Anne Plumptre, molti degli oggetti portati via dai francesi erano stati pure sottratti da romani a luoghi come Corinto e Atene.

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Generale Jean-Baptiste Dumonceau de Bergendal; comamndò regolarmente le truppe olandesi nell'esercito di Napoleone.

Napoleone ammobiliò, decorò, riempì di sculture e trasformò in un “palazzo di rappresentanza” quello destinato a diventare il suo museo, perché desiderava poter vantarsi non solo della collezione d’arte più grande del mondo, ma anche della più grande raccolta di manoscritti storici. Essendo un appassionato bibliofilo, dichiarò che voleva «riunire a Parigi in un unico organismo gli archivi dell’impero tedesco, quelli del Vaticano, della Francia e della province unite». In seguito ordinò a Berthier di chiedere a uno dei suoi generali in Spagna di scoprire dove venivano conservati gli archivi di Carlo V e Filippo II, poiché «avrebbero completato così bene questa vasta collezione europea».

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Louis Alexandre Berthier, uno dei generali che seguì sempre Napoleone. Era un grande organizzatore e il suo contributo fu fondamentale per le vittorie di Napoleone

All’inizio di maggio Napoleone disse al Direttorio che intendeva attraversare il Po, e sarebbe stata un’operazione difficile. Li avvertì di non ascoltare «i militari dei circoli, convinti che possiamo attraversare a nuoto larghi fiumi». Beaulieu, il comandante delle forze austriache, si era ritirato alla confluenza del Po e del Ticino, coprendo Pavia e Milano con le sue linee di comunicazione che correvano a nord del Po. Aveva abboccato all’esca di Napoleone e teneva sotto stretta sorveglianza Valenza. Napoleone fece una puntata a Piacenza nel ducato di Parma, superando diverse linee di difesa fluviale e minacciando Milano. Era il primo esempio di quella che sarebbe diventata un’altra delle sue strategie preferite, la “manovra sul retro”, intesa per prendere il nemico alle spalle. Entrambe le “puntate” a Vienna nel 1805 e nel 1809 e i suoi movimenti strategici in Polonia nel 1806 e nel 1807 sarebbero state repliche di quella prima operazione per attraversare il Po.

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Charles Pierre François Augereau, uno dei più validi generali di Napoleone

Beaulieu si trovava a un giorno di marcia più avanti verso Piacenza, quindi Napoleone avrebbe avuto bisogno di un paio di giorni, o preferibilmente tre, di vantaggio per attraversare il Po in sicurezza. Chiese all’esercito di marciare ancora più veloce, fiducioso di aver calcolato nei dettagli tutti i rifornimenti. Mentre Sérurier e Masséna avanzavano su Valenza per ingannare Beaulieu, e Augereau aumentava la confusione conquistando una postazione a metà strada tra Valenza e Piacenza, tagliando tutte le comunicazioni con l’altra sponda del fiume, Napoleone si precipitava avanti insieme a Laharpe, il generale Claude Dallemagne e la cavalleria del generale Charles Kilmaine. Tecnicamente avrebbero attraversato lo stato neutrale di Parma, ma Napoleone conosceva l’ostilità del suo duca, e non intendeva consentire alle amenità della legge internazionale, per come era fatta all’epoca, di trattenerlo. All’alba del 7 maggio, l’esercito francese era pronto a guadare il Po alla confluenza con il Trebbia. L’intrepido generale Jean Lannes perlustrò le sponde per chilometri, raccogliendo tutte le imbarcazioni e i materiali per costruire i ponti. Trovò un traghetto che poteva trasportare 500 uomini alla volta sul fiume largo 500 metri, mentre Augereau (che si trovava a 30 chilometri di distanza), Masséna (a 48 chilometri) e Sérurier (a 105 chilometri) ricevettero tutti l’ordine di ricongiungersi a Napoleone il prima possibile. Lui partì l’8 maggio per Piacenza, dove il governatore gli aprì le porte della città dopo una breve ma franca spiegazione su che cosa sarebbe successo altrimenti. «Un’altra vittoria», predisse Napoleone quel giorno a Carnot, «e saremo padroni d’Italia.» Furono requisiti dei cavalli, quindi i muli non dovevano più trainare l’artiglieria, anzi molti dei cannoni usati nella battaglia successiva vennero trainati dai cavalli delle carrozze della nobiltà piacentina.

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Generale François de Chasseloup-Laubat; esperto nella realizzazione di fortificazioni e consigliere di stato.

Dopo aver concluso un armistizio con il duca di Parma, di cui aveva invaso i possedimenti con tanta noncuranza, Napoleone inviò a Parigi 20 dipinti, tra cui opere di Michelangelo e Correggio, come pure un manoscritto di Francesco Petrarca sulle opere di Virgilio.
Il 10 maggio l’esercito austriaco stava ritirandosi verso Milano passando per Lodi, 33 chilometri a sud-est di Milano sulla riva destra dell’Adda. Fu allora che Napoleone decise di intercettarlo. Marmont comandava un reggimento di ussari e Lannes un battaglione di granatieri: inseguirono la retroguardia austriaca attraverso la città. Furono fermati bruscamente dal fuoco di mitraglia proveniente dall’altra testa di un ponte di legno lungo 200 metri e largo 10. Napoleone si impossessò dei primi due cannoni che riuscì a trovare, li portò al ponte e diresse il fuoco in modo da evitare che il nemico lo distruggesse, mentre mandava a prendere altri cannoni e appostava dei franchi tiratori, incaricati di sparare dalla riva del fiume e dalle case nelle vicinanze. Poi continuò a dirigere la battaglia dal campanile della chiesa proprio di fronte al ponte.
Il comandante delle retrovie austriache, il generale Sebottendorf, aveva tre battaglioni e quattordici cannoni per proteggere il ponte, con otto battaglioni e quattordici squadroni di cavalleria di riserva, circa 9500 uomini in tutto. Far invertire la posizione poteva richiedere dei giorni, e questo avrebbe annullato tutte le possibilità di raggiungere l’esercito in ritirata di Beaulieu. Napoleone decise che il ponte andava caricato immediatamente. Alle cinque del pomeriggio aveva ormai trenta cannoni in postazione, e mandò 2000 uomini della cavalleria a nord e a sud a cercare di trovare un guado. Poi, nelle stradine di Lodi, formò la colonna di Dallemagne costituita da 3500 uomini, cui fece un discorso per ispirarli. Ordinò a Berthier di raddoppiare il ritmo del fuoco di artiglieria, e alle sei inviò sul ponte due semibrigate leggere, la 27a e la 29a, nonostante la mitraglia austriaca. In realtà le compagnie composite di carabinieri del colonnello Pierre-Louis Dupas si erano offerte volontarie per condurre l’attacco, una missione quasi suicida e di certo esente da qualsiasi naturale istinto di conservazione. Ma era questo fervore frenetico, noto come “la furia francese”, che spesso dava un margine di vantaggio a Napoleone in battaglia, quando la sua arringa aveva fatto leva sull’orgoglio di reggimento e stimolato il fervore patriottico.
I primi soldati sul ponte vennero abbattuti e arretrarono, ma alcuni saltarono nelle acque basse del fiume e continuarono a sparare da sotto al ponte e intorno, mentre Napoleone mandava altre ondate di uomini. Con grande coraggio, il ponte fu preso e difeso, nonostante i contrattacchi della cavalleria e della fanteria. Quando un reggimento francese di cacciatori comparve sulla sponda destra del fiume, avendo trovato un guado per attraversarlo, gli austriaci si ritirarono in buon ordine. Cinque giorni dopo gli austriaci erano stati respinti oltre l’Adige e Napoleone era a Milano.
L’assalto al ponte di Lodi divenne un elemento essenziale della leggenda napoleonica, anche se Napoleone affrontò soltanto la retroguardia austriaca ed entrambe le parti persero circa 900 uomini. Ci volle un tremendo coraggio per caricare su un ponte lungo e stretto affrontando la mitraglia incessante, e diversi ufficiali che condussero gli attacchi quel giorno, tra cui Berthier, Lannes e Masséna, divennero i più grandi comandanti di Napoleone. Dalla battaglia di Lodi in avanti, gli uomini di Napoleone lo soprannominarono le petit caporal, secondo l’antica tradizione dei soldati di canzonare con affetto i comandanti che ammirano. “Piccolo caporale” era un nomignolo gradito a Napoleone, che ne incoraggiava l’uso, poiché sottolineava un livellamento repubblicano al popolo. Dopo Lodi, tutto lo scontento facinoroso scomparve, sostituito dalla sensazione vitale dello spirito di corpo, che non svanì più per il resto della campagna.
«Non mi consideravo più un semplice generale, ma un uomo chiamato a decidere della sorte dei popoli», disse in seguito Napoleone parlando della sua vittoria. «Mi venne in mente che potevo davvero diventare un attore decisivo sul nostro palcoscenico nazionale. Nacque in quel momento la prima scintilla di suprema ambizione.» Lo ripeté a così tante persone diverse in così tante diverse occasioni per tutta la vita che Lodi può davvero essere considerata un momento di svolta nella sua carriera. Un’ambizione ostentata può essere una cosa terribile, ma se unita a una grande abilità, un’energia titanica, un grande obiettivo, il dono dell’oratoria, una memoria quasi perfetta, un tempismo superbo, un’autorevolezza stimolante, può dare risultati straordinari.
Riferì di aver perso 150 uomini contro i 2000 o 3000 austriaci. L’esagerazione sistematica delle perdite nemiche e la minimizzazione delle proprie sarebbe stato un tratto costante in tutte le campagne di Napoleone, e ovviamente era stato un tratto tipico degli scritti degli autori classici a lui così familiari. La applicava persino nelle sue lettere private a Giuseppina, aspettandosi che avrebbe diffuso l’informazione e questo avrebbe aggiunto credibilità grazie alla fonte. Sapeva che non avendo veri e propri mezzi per ricevere delle conferme, i francesi avrebbero creduto alle cifre che sceglieva di dichiarare, almeno in un primo momento, non solo riguardo ai morti e ai feriti, ma anche al numero dei prigionieri, dei cannoni e degli stendardi conquistati. Non riteneva di essere sotto giuramento quando compilava i bollettini militari.
Napoleone è stato criticato perché nei suoi rapporti dopo le battaglie mentiva, ma è assurdo ascrivere a tali rapporti una moralità convenzionale, poiché la disinformazione era un’arma bellica riconosciuta dai tempi di Sun Tzu. L’errore di Napoleone invece era di rendere così endemiche le esagerazioni che alla fine si arrivava a diffidare anche delle vittorie autentiche, o almeno a far loro la tara; nella lingua francese entrò l’espressione “mentire come un bollettino”. Quando poteva, Napoleone dava alla popolazione francese prove concrete, mandando gli stendardi catturati al nemico perché venissero esposti alla chiesa militare degli Invalides, ma per tutta la sua carriera dimostrò una straordinaria capacità di presentare le notizie terribili come se fossero soltanto cattive, quelle cattive come sgradite ma accettabili, quelle accettabili come buone e quelle buone come un trionfo.
Ancora prima di ricevere la notizia della vittoria di Napoleone a Lodi, il Direttorioescogitò un piano per cercare di costringerlo a condividere la gloria della campagna italiana, anche perché le prestazioni tutt’altro che brillanti dei generali Moreau e Jourdan in Germania avevano fatto sì che l’adulazione pubblica cominciasse pericolosamente a concentrarsi su di lui. Dopo il tradimento del generale Dumouriez nel 1793, nessun governo era stato disposto a concedere troppo potere a qualsiasi singolo generale. Quando Napoleone chiese che 15.000 uomini dell’armata delle Alpi al comando del generale Kellermann gli venissero inviati come rinforzi, il Direttoriorispose che senz’altro si potevano mandare gli uomini in Italia, ma Kellermann sarebbe andato con loro e il comando dell’Armata d’Italia sarebbe stato diviso. Il 14 maggio, quattro giorni dopo Lodi e il giorno prima di conquistare Milano, nella risposta Napoleone scrisse a Barras: «Darò le dimissioni. La natura mi ha concesso un sacco di caratteri e alcuni talenti. Non posso essere utile qui senza avere la vostra completa fiducia». Descriveva Kellermann, vincitore della battaglia di Valmy, come «un tedesco per il cui tono e i cui principi non ho rispetto». Allo stesso tempo disse a Carnot: «Non posso prestare servizio volentieri con un uomo che si considera il primo generale d’Europa, e inoltre sono convinto che sia meglio avere un cattivo generale che due buoni. La guerra, come il governo, è questione di tatto».
Napoleone dimostrò assai più tatto nella sua risposta ufficiale al Direttorio: «A ciascuno il suo modo di fare la guerra. Il generale Kellermann ha più esperienza e la farà meglio di me; ma entrambi, facendola insieme, la faremmo malissimo». Abbinata a questa falsa modestia c’era l’arroganza della giovinezza: «Ho condotto la campagna senza consultare nessuno. Non avrei compiuto niente che valesse la noia di obbligarmi a riconciliare le mie idee con quelle di un altro […] Poiché ero convinto della vostra totale fiducia, le mie mosse erano rapide come il mio pensiero». Napoleone aveva ragione a pensare che i due ben presto si sarebbero scontrati: come co-comandante sarebbe stato ingestibile, figuriamoci come subordinato. Fino a quel momento la campagna aveva dimostrato che un solo comandante in capo aveva maggior vantaggio sulla rigida struttura di comando austriaca. La sua minaccia di dimissioni, arrivando a ridosso della notizia della vittoria di Lodi e della presa di Milano, fu sufficiente a non sentir più parlare del progetto. Anche in seguito Napoleone avrebbe sempre saputo che, se continuava a vincere battaglie, aveva il coltello dalla parte del manico con il Direttorio, un organismo cui continuava a tributare obbedienza a parole, ma che era giunto a disprezzare sempre di più.
Domenica 15 maggio 1796 Napoleone entrò a Milano in trionfo. I carabinieri ebbero l’onore di entrare per primi, in riconoscimento dell’eroismo dimostrato nella presa del ponte a Lodi «vennero coperti di fiori e ricevuti con gioia» dal popolino. Anche se Napoleone veniva acclamato a voce alta mentre passava a cavallo per le strade, era consapevole della tendenza ad accogliere bene i conquistatori nelle città che si accingeva a occupare. Molti italiani erano felici che gli austriaci fossero stati espulsi, ma non nutrivano grande entusiasmo, quanto piuttosto apprensione, nei confronti dei loro successori francesi. Tuttavia un gruppo piccolo, ma comunque significativo, era sinceramente eccitato dall’effetto che le idee rivoluzionarie francesi avrebbero potuto avere sulla politica e la società italiana. Di regola erano più il ceto professionale e le élite secolarizzate a considerare Napoleone una forza liberatrice anziché i contadini cattolici, che vedevano i soldati francesi come atei stranieri.
Napoleone fu invitato ad alloggiare a Milano nel sontuoso palazzo Serbelloni dal duca Serbelloni, che aveva 30 domestici per il servizio in casa e 100 persone nelle cucine. Ne aveva bisogno, perché il suo ospite cominciò a dare ricevimenti di dimensioni grandiose, invitando scrittori, editori, aristocratici, scienziati, accademici, intellettuali, studiosi e persone capaci di influenzare l’opinione pubblica, e a godersela con l’opera, l’arte e l’architettura di Milano.

serbelloni

Palazzo Serbelloni dell'epoca

Desiderando apparire come il liberatore illuminato, anziché come l’ultimo di una lunga sfilza di conquistatori, Napoleone offriva la speranza che prima o poi ci sarebbe stato uno stato-nazione indipendente, unito, e perciò attizzava le scintille del nazionalismo italiano. A questo scopo, il giorno dopo il suo arrivo a Milano, dichiarò la creazione di una Repubblica lombarda che sarebbe stata governata da giacobini italiani filofrancesi. Inoltre incoraggiò l’apertura in tutta la regione di circoli politici (quello di Milano ben presto contava 800 tra avvocati e commercianti), abolì le istituzioni governative austriache, riformò l’università di Pavia, tenne elezioni municipali provvisorie, fondò una guardia nazionale e conferì con il principale promotore milanese dell’unificazione d’Italia, Francesco Melzi d’Eril, cui diede tutto il potere possibile. Nulla di tutto questo impedì a Napoleone e Saliceti di prelevare un “contributo” di 20 milioni di franchi alla Lombardia, per ironia della sorte lo stesso giorno in cui emanò l’ordine del giorno con il quale dichiarava di avere «un interesse troppo forte per l’onore dell’esercito per consentire a chiunque di violare i diritti di proprietà».
Il 23 maggio un’insurrezione contro l’occupazione francese a Pavia condotta da preti cattolici fu sedata brutalmente da Lannes, che si limitò a sparare sul consiglio municipale. Un incidente analogo ebbe luogo il giorno dopo a Binasco. Il paese era stato fortificato da contadini armati che lanciavano attacchi contro le linee di comunicazione francesi: «Mentre ero a metà strada per Pavia, a Binasco abbiamo incontrato un migliaio di contadini e li abbiamo sconfitti», riferì Napoleone a Berthier. «Dopo averne uccisi un centinaio abbiamo appiccato il fuoco al paese, dando un esempio terribile ma efficace.» L’incendio di Binasco fu simile a quel genere di azione antimboscata che stava prendendo piede all’epoca in tutta la Vandea, dove massacrare e mettere a fuoco i villaggi erano metodi utilizzati contro gli sciuani. «Lo spargimento di sangue è uno degli ingredienti della medicina politica», sosteneva Napoleone; ma pensava anche che le punizioni rapide e certe consentissero di evitare buona parte della repressione su larga scala.
Non indulgeva quasi mai nella brutalità fine a se stessa, e poteva essere sensibile alle sofferenze della gente. Una settimana dopo la repressione di Binasco disse al Direttorio: «Anche se necessario, lo spettacolo è stato comunque terribile; mi ha dolorosamente colpito». Dieci anni dopo, in un poscritto a una lettera a Junot, Napoleone scrisse: «Ricordate Binasco; mi ha procurato la tranquillità in tutta Italia, e ha risparmiato lo spargimento di sangue di migliaia di persone. Nulla è più salutare degli esempi adeguatamente severi». «Se si fa la guerra bisogna condurla con energia e severità», spiegò al generale d’Hédouville nel dicembre 1799, «è l’unico sistema per renderla più breve e di conseguenza meno deplorabile per l’umanità.»
Nel 1796 l’Italia, come avrebbe osservato in seguito Metternich, era «soltanto un’espressione geografica», un concetto assai più che una nazione, nonostante una cultura condivisa e un linguaggio comune che stava lentamente formandosi. Ora la Lombardia, in teoria, era una repubblica indipendente, anche se in sostanza restava un protettorato francese, ma Venezia era ancora una provincia austriaca e Mantova si trovava sotto l’occupazione dell’esercito asburgico. La Toscana, Modena, Lucca e Parma erano governate da duchi e granduchi austriaci; gli Stati pontifici (Bologna, Romagna, Ferrara, Umbria) erano di proprietà del papa; Napoli e la Sicilia costituivano un unico regno governato dal Borbone Ferdinando IV, e la monarchia savoiarda regnava ancora in Piemonte e Sardegna. Gli italiani come Melzi, che sognavano uno stato unificato, non avevano altra possibilità che riporre le proprie speranze su Napoleone, nonostante le sue richieste di “contributi”.
Il 16 maggio, venne insediata a Milano l'Amministrazione Generale della Lombardia, entità politico-militare della quale facevano parte sia francesi (provenienti dalle file dell'Armata d'Italia) sia esponenti illuministi filo-francesi del capoluogo lombardo, come Pietro e Alessandro Verri, Gian Galeazzo Serbelloni e Francesco Melzi d'Eril.
Il Direttoriovoleva che Napoleone avanzasse sulla Napoli borbonica, ma lui comprese che marciare verso sud sarebbe stato pericoloso alla luce della minaccia proveniente dal Tirolo, quindi invece di esorbitare dagli ordini provenienti da Parigi li sfidò. Napoleone ordinò a Miot di trattare un armistizio con Napoli in base al quale la città avrebbe dovuto ritirare i suoi quattro reggimenti di cavalleria dall’esercito austriaco e le sue navi dalla squadra della marina britannica a Livorno. L’alternativa era un’invasione di Napoli da parte dell’Armata d’Italia. Il negoziatore napoletano, il principe di Belmonte-Pignatelli, di fronte alla minaccia di invasione, nel giro di due ore firmò il trattato che gli fu posto davanti. Ormai Napoleone intendeva denigrare il Direttorio, e chiese a Pignatelli se davvero pensava «che lui combattesse per quei furfanti di avvocati».
Anche se nella campagna italiana il nemico principale era sempre l’Austria, Napoleone riusciva ad approfittare dei brevi momenti in cui gli austriaci non rappresentavano un pericolo per proteggere le sue retrovie. Le truppe francesi, arrivate negli Stati pontifici nel giugno 1796, accendevano le pipe con i ceri d’altare, anche se la semplice vividezza di questa immagine ha un sentore di propaganda antifrancese. È vero però che papa Pio VI aveva denunciato la rivoluzione francese e sostenuto, senza entrarvi ufficialmente, la prima coalizione contro la Francia. Ben presto gliel’avrebbero fatta pagare cara per questo insulto. Il papa, settantottenne, regnava già da 21 anni, e non aveva la capacità militare o personale per impedire che Napoleone entrasse a Modena il 18 giugno né, il giorno dopo, che espellesse le autorità papali da Bologna, e le costringesse a scendere a patti nel giro di una settimana. Verso la fine di giugno Napoleone concordò un armistizio con il papa, con un “contributo” di 15 milioni di franchi, sufficiente a conciliare il Direttoriocon l’idea di un trattato di pace. Saliceti negoziò anche la consegna di «100 dipinti, vasi, busti o statue, come stabiliranno i commissari francesi», incluso un busto di bronzo di Giunio Bruto e uno di marmo di Marco Bruto, più 500 manoscritti della biblioteca vaticana.
Il 21 giugno, il ventiseienne Napoleone scrisse non meno di quattro lettere al Direttorioa Parigi, avvertendo che aveva solo un esercito «mediocre» con cui «affrontare tutte le emergenze»: «Per tenere in scacco le armate [austriache], per assediare forti, proteggere le nostre retrovie, intimidire Genova, Venezia, Firenze, Roma e Napoli, dobbiamo essere in forze dappertutto». Era vero: le grandi città d’Italia (avrebbe potuto includervi anche Milano e Torino) erano tenute a freno sia dal timore complessivo dalla sua apparente invincibilità, sia da qualsiasi forza militare presente nelle vicinanze. Una rivolta ben coordinata lo avrebbe trovato vulnerabile. Il Direttorioera restio a concedere rinforzi, per la convinzione ancora solida che il Reno fosse un teatro delle operazioni assai più importante.
All’epoca, per governare l’Italia, Napoleone si avvaleva di un ben calibrato dosaggio di minacce e noncuranza. «Qui bisogna incendiare e sparare per instaurare il terrore», scrisse il 22 giugno, «e lì bisogna far finta di non vedere, perché non è ancora giunto il momento di agire». Faceva appello all’orgoglio di quelli che conquistava, ma non lasciava loro dubbi sulle conseguenze della resistenza. «L’esercito francese ama e rispetta tutte le popolazioni, soprattutto i semplici e virtuosi abitanti delle montagne», dichiarò in un appello ai tirolesi quello stesso mese, «ma se doveste ignorare i vostri stessi interessi e impugnare le armi, saremo terribili come il fuoco dal cielo».
I britannici, che erano stati ottimi soci d’affari del granduca di Toscana, vennero espulsi da Livorno il 27 giugno, e furono confiscate loro merci per un valore di 12 milioni di sterline. L’11 giugno, quando i britannici reagirono occupando, al largo delle coste italiane, l’isola d’Elba, già possedimento del granducato, Napoleone osservò con buonsenso: «Non avremo il diritto di lamentarci per una violazione di neutralità di cui noi stessi abbiamo dato l’esempio». Poco dopo Napoleone estorse un “contributo” al granduca Ferdinando III di Toscana, fratello minore dell’imperatore Francesco, che aveva concesso ai mercanti inglesi privilegi commerciali a Livorno. Il 1° luglio, quando Napoleone andò a Firenze, le strade da San Frediano alle porte di palazzo Pitti erano «gremite dell’intera popolazione» che cercava di vederlo un istante. Napoleone andò a trovare Ferdinando a palazzo Pitti, nel giardino di Boboli, e vide i magnifici affreschi di Pietro da Cortona sui soffitti, commissionati dai Medici, difficili da trasferire a Parigi, mentre i dipinti di Rubens, Raffaello, Tiziano, Van Dyck e Rembrandt, si potevano portar via. Disse al granduca, che lo ricevette con estrema gentilezza: «Vostro fratello non ha più un metro di terra in Lombardia». Non era vero: Mantova resisteva ancora. Ma anche se Ferdinando «ebbe una tale padronanza di sé da non tradire la minima preoccupazione», sapeva che alla caduta della città sarebbe presto seguita, per lui, la perdita del trono.
Il 26 giugno alla fine Giuseppina partì da Parigi diretta a Milano, in lacrime. La accompagnavano: la sua dama di compagnia Louise Compoint, Giuseppe Bonaparte (che stava curandosi una malattia venerea), il cognato di Giuseppe, Nicolas Clary, il finanziere Antoine Hamelin (che voleva un lavoro da Napoleone e quindi manteneva Giuseppina a sue spese), Junot, quattro servitori, una scorta di cavalleria e il suo cagnolino bastardo, Fortuné, che una volta aveva morso Napoleone a letto e in seguito avrebbe avuto la peggio in una impari battaglia contro il cane più grosso e più feroce del cuoco. Giuseppina, con una sfacciataggine inaudita, si portò dietro anche l'amante, il suo “ussaro da camera” Hippolyte Charles. Durante il viaggio Junot sedusse Louise, quindi, quando giunsero a Milano, Giuseppina la licenziò, inimicandosi Junot. Due anni dopo lo avrebbe rimpianto amaramente.
Costretto il Piemonte all'armistizio e occupata Milano, Napoleone ricevette dal Direttorioi pieni poteri sull'Armata d'Italia e si preparò al compito più difficile: sconfiggere l'esercito austriaco. Mentre le truppe francesi assediavano la fortezza di Mantova, gli austriaci sferrarono una controffensiva che inizialmente mise in difficoltà il generale. Dopo una serie di scontri parziali, gli eserciti francese e austriaco si fronteggiarono, il 5 agosto, nella Battaglia di Castiglione. Fu, quella di Castiglione delle Stiviere, la prima grande battaglia campale diretta da Napoleone, il quale dimostrò il suo genio tattico ribaltando a proprio favore una situazione che pareva compromessa e conquistando una delle più importanti vittorie della sua carriera militare. Sebbene non definitiva, la sconfitta fu pesante per l'esercito austriaco che, riorganizzato e rinforzato da nuovi reparti, venne in seguito battuto a Bassano, Arcole e, infine, a Rivoli, prima battaglia d'annientamento della carriera di Napoleone.
Nell'ottobre del 1796, si costituì la Legione Lombarda, prima forza armata composta da italiani ad adottare quale bandiera di guerra il Tricolore (verde, bianco e rosso). Contemporaneamente le ex-legazioni pontificie si costituirono in Repubblica Cispadana e adottarono (7 gennaio 1797) il tricolore quale bandiera nazionale. Col trattato di Tolentino, Papa Pio VI, fu costretto a riconoscere la cessione delle Legazioni di Forlì, Ravenna, Bologna e Ferrara. Per gestire questi territori, venne creata l'Amministrazione Centrale d'Emilia, la cui sede venne fissata da Napoleone stesso in Forlì a partire dal 18 aprile 1797. Il successivo 29 giugno venne proclamata la Repubblica Cisalpina con capitale Milano; la stessa il 9 luglio incorporò la Repubblica Transpadana. Con il diretto intento di danneggiare il pontefice fu proclamata il 19 novembre 1797 la Repubblica Anconitana con capitale Ancona che fu poi unita alla Repubblica Romana: il tutto ebbe però breve durata, poiché nel 1800 lo Stato Pontificio fu ripristinato.
Napoleone aveva chiamato Giuseppe, al quale Saliceti aveva procurato la carica di commissario generale dell’Armata d’Italia, allo scopo di avere qualcuno vicino a cui poter affidare delicate trattative segrete. In quella funzione, Giuseppe sarebbe stato utilizzato dal fratello per missioni a Livorno, Parma e Roma, e in seguito si sarebbe recato insieme a Miot de Melito in Corsica per ristabilire il controllo francese. Nel corso di tali spedizioni, Giuseppe scoprì di avere un autentico talento per la diplomazia.
Wurmser stava marciando verso sud con 50.000 uomini, e i francesi avevano bisogno di strappare Mantova a Beaulieu prima che potesse liberarla. «Propongo di effettuare un ardito colpo di mano», scrisse Napoleone al Direttorio. Lo informò anche del piano di Murat di attraversare di notte, con uomini travestiti da soldati austriaci, uno dei quattro laghi artificiali a protezione di Mantova, nella speranza di riuscire a tenere aperte le porte della città per un arco di tempo sufficiente a far entrare le truppe napoleoniche. Probabilmente Napoleone pensava alle oche capitoline che avevano salvato l’antica Roma quando scrisse dell’«attacco improvviso [di Murat] che come tutti quelli di natura analoga, dipende dalla fortuna, un cane o un’oca». Nel caso specifico un calo inaspettato del livello del Po fece abbassare le acque dei laghi abbastanza per intralciare il piano. Verso la fine di luglio Napoleone aveva scoperto da un informatore prezzolato nello stato maggiore austriaco che Wurmser stava portando il suo esercito, in cui al momento c’erano eccellenti unità di veterani recuperati dalla campagna sul Reno, su entrambi i lati del lago di Garda per liberare Mantova dove le malattie cominciavano a logorare la guarnigione di Beaulieu. Wurmser stava, effettivamente, avanzando lungo la sponda orientale del lago di Garda con 32.000 uomini disposti in cinque colonne, mentre il generale Peter von Quasdanovich, ufficiale di cavalleria croato di nascita, costeggiava il fiume sulla sponda occidentale con 18.000 uomini. Napoleone lasciò Sérurier con 10.500 uomini a mantenere l’assedio di Mantova. Gli restavano 31.000 uomini per affrontare le nuove minacce. Ne mandò 4400 al comando del generale Pierre-François Sauret a Salò per rallentare Quasdanovich, ordinò a Masséna di recarsi sulla sponda orientale con 15.400 uomini, schierò il generale Hyacinthe Despinoy con 4.700 uomini a proteggere la linea Peschiera-Verona, mandò i 5.300 uomini di Augereau a sorvegliare le strade provenienti da est e tenne come riserva i 1.500 soldati di cavalleria di Kilmaine. Lui poi continuò a spostarsi tra Brescia, Castelnuovo, Desenzano, Roverbella, Castiglione, Goito e Peschiera, stabilendo il suo quartier generale mobile nel campo che di volta in volta gli dava la migliore prospettiva riguardo al progredire della campagna militare.
Il 29 luglio Quasdanovich scacciò Sauret da Salò come previsto, anche se la cittadina cambiò di mano tre volte. Alle tre del mattino, a est del lago di Garda, Masséna fu attaccato alla Madonna della Corona e a Rivoli da gruppi numerosi, e dovette condurre una lunga ritirata armata seguendo il corso dell’Adige e arrivando a Bussolengo prima di notte. Gli austriaci avanzarono e occuparono Rivoli. Napoleone rassicurò Masséna: «Riprenderemo domani, o più avanti, quello che avete perso oggi. Nulla è perduto, finché c’è il coraggio». Ma il 30 luglio, in un’operazione nota come la “sorpresa di Brescia”, gli austriaci occuparono la guarnigione e gli ospedali di Brescia, con solo tre uccisi e undici feriti. Tra i malati c’erano Murat (che aveva preso una malattia venerea da madame Rugat), Lannes e il figlio di Kellermann, l’eccellente cavallerizzo François-Étienne.
«Abbiamo incontrato alcuni intoppi», ammise Napoleone nel rapporto al Direttorio, mentre inviava nelle retrovie tutto l’equipaggiamento non indispensabile. All’alba del 29 luglio, ritenendo che il nemico stesse scendendo in forza da Bassano, aveva ordinato il concentramento a Villanova, a est di Verona. La divisione di Augereau aveva percorso 100 chilometri in 55 ore di marcia e contromarcia, ma a mezzogiorno del giorno dopo Napoleone si rese conto che la forza nemica principale in realtà si trovava a nord e ovest rispetto a lui. Se nello scontro con il grosso delle forze di Wurmser non avesse ottenuto una vittoria completa avrebbe perso comunque Mantova, quindi decise di occuparsi innanzitutto di Quasdanovich. Perciò il 30 luglio ordinò a Seurier di abbandonare l’assedio di Mantova per andare a ingrossare le sue forze sul campo, aggiungendo alle truppe di Augereau la brigata del generale Louis Pelletier e quella di Dallemagne al contingente di Masséna. Il suo ordine ad Augereau di ritirarsi a Roverbella diceva: «Ogni minuto è prezioso […] il nemico ha sfondato la nostra linea in tre punti: è padrone di due punti importanti, la Corona e Rivoli […] Vedrete che le nostre comunicazioni con Milano e Verona sono state tagliate. Aspettate nuovi ordini a Roverbella; verrò di persona». Augereau non perse tempo.
Rinunciare all’assedio a Mantova comportava l’abbandono di ben 179 cannoni e mortai che non potevano essere spostati e obbligava a buttare nei laghi le munizioni. A Napoleone dispiaceva farlo, ma sapeva che nella guerra moderna le vittorie decisive si ottenevano sul campo di battaglia, non nelle fortezze. «Qualunque cosa accada e per quanto costi, domani dobbiamo assolutamente dormire a Brescia», disse a Masséna. Nel territorio tra Brescia e Mantova ci sono alture di 1000 metri e catene di colline moreniche sulla linea Lonato, Castiglione, Solferino e Volta, un terreno molto accidentato che scende su una campagna pianeggiante e ampia. Il 31 luglio alle tre del mattino l’esercito francese si mise in marcia in direzione ovest, e all’alba Sauret e il generale austriaco Ott si contesero la cittadina di Lonato in un’accanita battaglia che proseguì per quattro ore. Intanto Masséna si schierava alla sua sinistra, tra Desenzano e Lonato, con la 32a semibrigata di linea. Ott, data la forte inferiorità numerica, arretrò. Augereau stava avanzando in tutta fretta, quindi i 18.000 uomini di Quasdanovich si trovarono a dover affrontare 30.000 francesi: subito si ritirarono. Quella notte Napoleone, temendo per le sue linee di comunicazione, avanzò insieme ad Augereau fino a Brescia, e vi arrivò la mattina dopo prima delle dieci.
Intanto Wurmser, avendo sentito dire che Napoleone marciava verso ovest alla volta di Brescia e ammassava le forze a Roverbella per difendere le linee dell’assedio a Mantova (che in realtà aveva abbandonato), era del tutto disorientato, e rimase inattivo perdendo l’iniziativa. Il giorno dopo il generale Antoine Lavalette, che colto dal panico era fuggito da Castiglione, fu destituito dal comando di fronte ai suoi uomini della 18a semibrigata leggera. Quel giorno l’entusiasmo delle truppe aiutò Napoleone a decidere di tentare di sgominare Quasdanovich. Alla seconda battaglia di Lonato, il 3 agosto, mandò da Brescia il contingente di Despinoy ad accerchiare il fianco destro di Quasdanovich a Gavardo, e Sauret con i suoi effettivi e altri rinforzi ad attaccarlo sul fianco sinistro a Salò, mentre la brigata di Dallemagne marciava tra i due con funzioni di collegamento. Quando gli uomini di Sauret si lamentarono di avere fame, Napoleone disse loro che avrebbero potuto trovar da mangiare nel campo nemico.
Proprio mentre la brigata del generale Jean-Joseph Pijon veniva respinta da Lonato e Pijon stesso finiva prigioniero, Napoleone arrivò alla testa di una parte della divisione di Masséna. Ordinò la 32a semibrigata di linea in “colonne di plotoni”, e senza pause, mentre tamburini e musicisti suonavano, la mandò a una carica di baionetta, sostenuta dalla 18a di linea. Nonostante la perdita di entrambi i comandanti dei battaglioni, i francesi respinsero gli austriaci spingendoli verso Desenzano, proprio tra le braccia della compagnia di cavalleria della scorta di Napoleone insieme a una parte del 15° reggimento dragoni e del 4° di fanteria leggera. Junot era stato ferito sei volte, ma questo non gli impedì di accettare la resa di tutta la brigata austriaca. Quando apprese del disastro, Quasdanovich si ritirò proprio passando intorno alla parte settentrionale del lago per ricongiungersi a Wurmser. Per i dieci giorni successivi sarebbe rimasto inattivo. «Ero tranquillo», scrisse Napoleone nel bollettino dopo la battaglia. «C’era la coraggiosa 32a semibrigata.» La 32a fece ricamare a grandi lettere d’oro queste parole sulla propria bandiera: l’orgoglio l’avrebbe spronata a maggior coraggio. «È stupefacente il potere delle parole sugli uomini», osservò Napoleone anni dopo, parlando della 32a.
Augereau riconquistò Castiglione il 3 agosto, dopo 16 ore di accaniti combattimenti nella rovente, arida pianura. Per anni, in seguito, ogni volta che tra i generali Augereau veniva criticato per la sua slealtà, Napoleone diceva: «Ah, ma non dimentichiamoci che a Castiglione ci ha salvato». Il 4 agosto quando tutti i francesi vi si furono concentrati, Wurmser aveva ormai perso qualsiasi possibilità di attaccare Napoleone alle spalle. Il massimo che poteva sperare, mentre si avvicinava lentamente a Solferino con circa 20.000 uomini, era di guadagnare tempo perché Mantova si preparasse a un altro assedio. La mattina del 4 agosto Napoleone era a Lonato con 1.200 uomini appena, quando oltre 3.000 austriaci dispersi, che erano stati tagliati fuori dal comando di Quasdanovich, d’un tratto si ritrovarono per errore nella cittadina. Napoleone informò con calma il loro parlamentare (l’ufficiale mandato a trattare) che era presente il suo «intero esercito»: «Se nel giro di dieci minuti la divisione non avesse deposto le armi, non avrei risparmiato un solo uomo». Corroborò l’inganno dando a Berthier, che era al corrente della situazione, ordini circa unità di granatieri e di artiglieria del tutto fittizie. Solo dopo essersi arresi ed essere stati disarmati, gli austriaci scoprirono che non c’erano forze francesi nelle vicinanze e che avrebbero potuto catturare Napoleone senza difficoltà.
Nella seconda battaglia di Lonato Napoleone utilizzò per la prima volta il sistema del battaglione quadrato. Anche se era stato proposto da Guibert e Bourcet nei manuali tra il 1760 e il 1780, Napoleone fu il primo a metterlo in pratica con successo su un campo di battaglia. Con le unità in formazione a diamante, se ci si scontrava con il corpo principale del nemico, diciamo, sul fianco destro, la divisione sulla destra diventava avanguardia con il compito di trattenere il nemico sul posto. Le divisioni che in precedenza costituivano avanguardia e retroguardia diventavano automaticamente la massa di manovra. L’esercito perciò poteva svoltare di 90 gradi in entrambe le direzioni con relativa facilità; il sistema aveva l’ulteriore vantaggio di poter essere riprodotto in scala più ampia, in quanto applicabile a interi corpi d’armata e divisioni. Il punto essenziale era quello che Bourcet chiamava “dispersione calcolata”, che consentiva un enorme aumento di flessibilità a Napoleone, permettendogli di adeguare costantemente il fronte con il mutare delle circostanze.
Il battaglione quadrato venne impiegato da Napoleone anche venerdì 5 agosto nella seconda battaglia di Castiglione, 30 chilometri a nord-ovest di Mantova. Wurmser era schierato con 20-25.000 uomini tra Solferino, sul suo fianco destro, e la solida ridotta di Monte Medolano, sulla strada tra Mantova e Brescia. Napoleone aveva oltre 30.000 uomini, i 10.000 di Masséna ammassati in linea e in colonna alla sinistra, gli 8.000 di Augereau disposti su due linee di fronte alla cittadina di Castiglione, la cavalleria di Kilmaine di riserva sulla destra, 5.000 uomini di Despinoy tornati da Salò, e i 7.500 del generale Pascal Fiorella provenienti dal sud, nella speranza di infliggere un colpo decisivo alla retroguardia austriaca. Aveva progettato di attirare le riserve di Wurmser a nord fingendo di ritirarsi. Alle nove del mattino del 5 agosto, quando sentì sparare i cannoni, Napoleone ritenne che segnalassero l’arrivo del generale Fiorella, ma in realtà era soltanto il suo 8° dragoni che saccheggiava le salmerie austriache a Guidizzolo. Mandò all’attacco Masséna e Augereau, mentre Marmont fu inviato verso Monte Medolano con una batteria di 12 cannoni. I combattimenti si svilupparono su tutta la linea, Augereau espugnò Solferino e Despinoy arrivò in tempo per aiutare la sinistra del centro, mentre Wurmser fu costretto a spostare la fanteria per bloccare Fiorella. Così Wurmser si trovò intrappolato tra due armate, con una terza che lo minacciava alle spalle. Fu costretto a ritirarsi, evitando di essere catturato dalla cavalleria leggera francese. Solo la spossatezza dei francesi dopo la lunga marcia impedì la totale distruzione dell’esercito austriaco, che fuggì oltre il Mincio.
Quel giorno gli austriaci ebbero 2.000 caduti tra morti e feriti; altri 1.000 uomini vennero catturati insieme a 20 cannoni. «Quindi eccoci qui», riferì Napoleone al Direttorioil 6 agosto. «In cinque giorni è stata ultimata un’altra campagna». Due giorni dopo, mentre rioccupava Verona, aggiunse: «L’esercito austriaco […] è svanito come un sogno, e l’Italia che minacciava ora è tranquilla». Il 10 agosto riprese l’assedio di Mantova. Tra le sue mura spesse tre metri c’erano ancora 16.400 soldati austriaci, anche se solo 12.200 abili al servizio.
Napoleone impiegò le tre settimane di agosto rimaste a rimettere in sesto il suo esercito, e rimandò a casa Sauret e Sérurier, due suoi generali che erano stati feriti e che ammirava molto. Li sostituì, con pochissime indicazioni da Parigi, con un artigliere veterano, il generale Claude-Henri de Vaubois e il trentenne appena promosso generale Jean-Joseph de Sahuguet. La sua reputazione in Francia stava crescendo a ogni vittoria e i membri del Direttoriotemevano sempre di più che non potesse essere tenuto sotto controllo.
Alla fine di agosto Napoleone venne a sapere che Wurmser stava per fare un secondo tentativo di liberare Mantova. Setacciando le sue linee di comunicazione e ricevendo alcuni uomini dall’Armata delle Alpi Napoleone mise insieme un totale di oltre 50.000 effettivi. Non sapendo quale dei tre itinerari possibili avrebbe seguito Wurmser, inviò Vaubois con 11.000 uomini sulla parte orientale del lago di Garda per bloccare quell’accesso, Masséna con 13.000 e Augereau con 9.000 rispettivamente a Rivoli e a Verona come sua massa di manovra centrale. Kilmaine sorvegliava gli accessi orientali con 1.200 soldati di fanteria e la maggior parte della cavalleria. Quanto a Napoleone, rimase con 3.500 riserve a Legnago, mentre Sahuguet assediava Mantova con 10.000 uomini e altri 6.000 sorvegliavano i dintorni di Cremona contro le insurrezioni. Una volta compresa la via d’attacco seguita da Wurmser, Napoleone avrebbe concentrato le sue forze. Sino ad allora si sarebbe dedicato a fare in modo che ci fossero grosse provviste di brandy, farina, foraggio, munizioni e gallette.
Il 2 settembre ormai Napoleone sapeva per certo che Wurmser stava scendendo lungo la Vallagarina, la valle dell’Adige. Progettava di attaccare non appena avesse ricevuto la notizia che il generale Moreau, al comando dell’Armata di Germania, era arrivato a Innsbruck, perché, se possibile, intendeva coordinare le sue avanzate con quanto accadeva in Germania. Ma il 3 settembre l’arciduca Carlo sconfisse il generale Jourdan a Würzburg; Moreau stava compiendo un’incursione molto lontano nella Baviera meridionale, a Monaco, quindi nemmeno lui poteva essere di alcun aiuto. Napoleone doveva evitare il rischio di battersi nello stesso momento contro le forze dell’arciduca Carlo e quelle di Wurmser, perché non aveva abbastanza uomini per farlo.
Napoleone avanzò sino a Rovereto, 25 chilometri a sud di Trento, dove il 4 settembre intercettò l’avanguardia di Wurmser. All’alba si trovava di fronte alla ben difesa gola di Marco (proprio sotto Rovereto) mentre un altro contingente nemico aveva preso posizione oltre l’Adige, al campo trincerato di Mori. La fanteria leggera di Pijon conquistò le alture a sinistra di Marco, e dopo due ore di ostinata resistenza la linea austriaca cedette. 750 francesi risultarono uccisi, feriti o dispersi. Il generale austriaco, il barone Davidovich, perse 3.000 uomini (per la maggior parte fatti prigionieri), 25 cannoni e 7 stendardi.
L’esercito austriaco era ormai in piena ritirata, ma nella stessa vallata, nel corso di quella settimana, si svolsero altre quattro battaglie. A Calliano, a causa del cattivo servizio di picchetto austriaco, i francesi sorpresero gli austriaci mentre si preparavano la prima colazione e li costrinsero ad abbandonare le loro posizioni. Il 7 settembre a Primolano i francesi attaccarono una posizione in apparenza inespugnabile, e la occuparono grazie al loro slancio. I due lati della vallata si univano bruscamente formando una “u” in cui, tra i dirupi laterali, c’era meno di un chilometro. Non sembrava difficile per gli austriaci riuscire a difendere il passo, ma nel pomeriggio alcune colonne di fanteria leggera francese sciamarono su entrambi i lati della montagna, attraversarono la forte corrente del Brenta entrando nell’acqua fino al petto e caricarono gli austriaci, mettendoli in fuga sino a Bassano.
Il giorno dopo Napoleone catturò 2.000 austriaci e prese 30 cannoni a Bassano, oltre a molti carri di munizioni. Solo l’11, a Cerea, Masséna subì una sconfitta secondaria, con 400 francesi caduti, tra morti e feriti, quando, inseguendo il nemico, si spinse troppo avanti. Il giorno dopo Augereau prese Legnago e 22 cannoni austriaci senza subire perdite, liberando 500 prigionieri di guerra francesi. Poi, solo tre giorni dopo, il 15 settembre, alla Favorita, fuori Mantova, Kilmaine inferse una sconfitta a Wurmser che costrinse il comandante in capo austriaco a rifugiarsi in città.
Il 19 settembre Napoleone era di nuovo a Milano con Giuseppina, e vi rimase quasi un mese, mandando Marmont a Parigi con il miglior strumento di propaganda: 22 stendardi austriaci da esporre a Les Invalides. Il tempismo tenuto nelle operazioni gli aveva, da solo, consentito di mantenere sempre l’iniziativa, di filare inarrestabilmente lungo una stretta vallata piena di punti in cui gli austriaci sarebbero dovuti riuscire a rallentarlo o a fermarlo. Questa campagna lampo su per la valle del Brenta era un perfetto esempio del perché lo spirito di corpo fosse così prezioso. Napoleone aveva sfruttato la sua padronanza dell’italiano per interrogare la popolazione locale e aveva utilizzato il sistema del battaglione quadrato per poter muovere velocemente il suo esercito in qualsiasi direzione, dando ordini sul momento. Aveva diviso l’esercito austriaco a Rovereto e aveva costretto i tronconi ad allontanarsi separatamente, facendo sì di poterli battere uno dopo l’altro con la classica manovra della posizione centrale, mantenendo nel contempo Wurmser sotto pressione con attacchi regolari all’alba.
Il 10 ottobre ormai Mantova era di nuovo sotto stretto assedio, con la differenza che questa volta Wurmser era dentro le mura. Nel giro di sei settimane 4.000 dei suoi uomini morirono per le ferite, la malnutrizione e le malattie, e altri 7.000 vennero ricoverati. Disponendo di derrate alimentari sufficienti solo per altri 38 giorni, Wurmser era costretto a fare delle sortite per cercare provviste in campagna, anche se una gli costò quasi 1.000 uomini. Mantova non poteva resistere ancora per molto, ma nel quadro complessivo della guerra Napoleone non sembrava avere molte possibilità di espugnarla. Il 21 settembre Jourdan era stato respinto oltre il Reno dall’arciduca Carlo ed era probabile che gli austriaci avrebbero presto fatto un terzo tentativo di liberare Mantova, questa volta con effettivi assai più numerosi. Napoleone chiese al Direttorio25.000 uomini di rinforzo nel caso di una dichiarazione di guerra degli stati papalini e di Napoli, aggiungendo: «Il duca di Parma si comporta proprio bene; è anche inutile, da tutti i punti di vista». Il 2 ottobre Napoleone offrì condizioni di pace all’imperatore Francesco, sperando di attirarlo al tavolo dei negoziati con un misto di adulazioni e minacce. «Maestà, l’Europa vuole la pace», scrisse. «Questa guerra disastrosa è durata troppo a lungo.» Poi lo avvertì che il Direttoriogli aveva ordinato di chiudere il porto di Trieste e altri porti austriaci sull’Adriatico, aggiungendo: «Per ora ho rimandato l’esecuzione del piano, sperando di non aumentare il numero delle vittime innocenti di questa guerra». L’imperatore Francesco d’Austria, che era anche il capo del Sacro romano impero, era un uomo orgoglioso, ascetico, calcolatore, che odiava la rivoluzione in cui era stata decapitata sua zia Maria Antonietta e che aveva per breve tempo guidato l’esercito austriaco nella campagna delle Fiandre del 1794, prima di cedere il comando a suo fratello, l’arciduca Carlo, assai più dotato sul piano militare. Napoleone non ricevette risposta alla sua offerta di pace.
L’8 ottobre Napoleone minacciò di nuovo di dimettersi, questa volta in ragione dello sfinimento generale. «Non riesco più a montare a cavallo», scrisse, «mi rimane soltanto il coraggio, che non è sufficiente in un posto come questo». Dichiarò anche che non sarebbe stato possibile prendere Mantova prima di febbraio, aggiungendo: «Roma sta armandosi e fomenta il fanatismo della popolazione». Riteneva che l’influenza del Vaticano fosse «incalcolabile». Chiese l’autorizzazione di firmare un trattato definitivo con Napoli, valutandolo «davvero fondamentale», e una «necessaria» alleanza con Genova e il Piemonte, avvertendo che le piogge autunnali avevano portato malattie per cui i suoi ospedali stavano riempiendosi. Il messaggio principale era: «Soprattutto, mandate truppe». Ma voleva anche che a Parigi sapessero una cosa: «Ogni volta che il vostro generale in Italia non è al centro di tutto correte gravi rischi».
Due giorni dopo, e senza il consenso preventivo del Direttorio, Napoleone firmò un ampio trattato di pace con Napoli, che consentiva ai Borboni di conservare il trono indisturbati se accettavano di non partecipare ad alcuna attività contro i francesi. Se gli austriaci erano intenzionati a sferrare un attacco da nord, Napoleone aveva bisogno di essere sicuro a sud. Fece anche in modo che le sue linee di comunicazione corressero attraverso la più affidabile Genova, anziché il Piemonte, il cui nuovo re, Carlo Emanuele IV, rappresentava un’incognita.
Il 16 ottobre Napoleone mandò a dire a Wurmser di consegnare Mantova. «I prodi dovrebbero affrontare il pericolo, non soffocare le epidemie», scrisse, ma ricevette un netto rifiuto. Lo stesso giorno, sempre con istruzioni minime dal Direttorio, proclamò l’istituzione della Repubblica cispadana, formata da Bologna, Ferrara, Modena e Reggio (questo comportava la destituzione del duca di Modena, che aveva consentito a un convoglio di vettovaglie di entrare a Mantova) con una nuova legione italiana, forte di 2800 effettivi, per proteggerla. La Repubblica cispadana aboliva il feudalesimo, decretava l’eguaglianza civile, istituiva un’assemblea eletta dal popolo; diede inizio al movimento di unificazione noto come Risorgimento, che alla fine, anche se 75 anni dopo, avrebbe prodotto un’Italia unita, indipendente. Per scriverne la costituzione ci vollero ben 38 riunioni, e questo attesta la pazienza di Napoleone, che vi partecipò in prima persona. I francesi stavano cominciando a portare nella penisola un’unità politica che non si vedeva da secoli.
In un ambito, tuttavia, le istituzioni rivoluzionarie francesi non avevano grandi possibilità di imporsi, in Italia: nonostante gli sforzi, non riuscivano a ridurre il potere della chiesa cattolica romana. Gli italiani si opponevano con passione alle innovazioni religiose di Napoleone; in quella che nella storia italiana si chiama l’epoca francese, le riforme di Napoleone della chiesa erano odiate con la stessa intensità con cui era ammirata l’introduzione della sua cultura amministrativa. I tentativi di Napoleone di fare il prepotente con il Vaticano cominciarono presto. Nell’ottobre del 1796 avvertì Pio VI di non opporsi alla Repubblica cispadana e di non sognarsi di attaccare i francesi quando fossero tornati gli austriaci. Informò il pontefice con tono minaccioso che «per distruggere il potere temporale del papa, basta volerlo», aggiungendo che invece, in tempo di pace, «si può concordare ogni cosa». Poi lo avvertiva che se avesse dichiarato guerra, questo avrebbe comportato «la rovina e la morte dei pazzi che si fossero opposti alle falangi repubblicane». Con il Direttorioche non riusciva a mettere insieme i 25.000 rinforzi di cui aveva così disperato bisogno dopo le sconfitte di Jourdan e Moreau in Germania (ne arrivarono appena 3.000 per la campagna imminente), Napoleone doveva guadagnare tempo. Lo disse a Cacault a Roma: «Per noi in realtà il gioco consiste nel gettarci la palla da uno all’altro, in modo da ingannare la vecchia volpe».
All’inizio di novembre gli austriaci erano pronti per il loro terzo tentativo di liberare Mantova.n Il generale veterano ungherese József Alvinczi e i suoi 28.000 uomini dovevano respingere i francesi da Rivoli a Mantova, mentre il generale Giovanni di Provera sarebbe dovuto avanzare con 9.000 uomini da Brenta a Legnago come diversivo; intanto 10.000 effettivi a Bassano avrebbero cercato di impedire a Napoleone di concentrare le sue forze. Il fatto che 19.000 uomini fossero essenzialmente impegnati in azioni diversive, e solo 28.000 costituissero la forza principale domostrava che gli austriaci non avevano imparato niente dai sei mesi precedenti.
Napoleone ora aveva 41.400 uomini, li posizionò il più lontano possibile in modo che potessero avvertirlo con il massimo anticipo su dove e quando sarebbero arrivati gli austriaci. Inoltre aveva 2700 uomini di guarnigione a Brescia, Peschiera e Verona, e dalla Francia stava arrivando la 40a semibrigata, costituita da 2500 unità. Il 2 novembre Alvinczi attraversò il Piave. Diede ordine a Quasdanovich e Provera di arrivare a Vicenza, Quasdanovich passando da Bassano e Provera da Treviso. L’avanzata austriaca era iniziata. Con suo gran dispiacere, Masséna fu costretto a obbedire all’ordine di Napoleone di ritirarsi a Vicenza senza combattere. Dopo Augereau, anche lui aveva cominciato ad apprezzare Napoleone come capo e come soldato, ma d’altra parte era geloso della propria reputazione di essere fra i migliori generali di Francia e orgoglioso del soprannome di “amato figlio della vittoria”. Non gli piaceva ricevere l’ordine di ritirarsi, nemmeno davanti a forze più numerose. Il 5 novembre Napoleone fece arrivare Augereau a Montebello e, vedendo l’avanguardia austriaca attraversare il Brenta proprio di fronte alle loro colonne, decise di attaccarla il giorno dopo. Intanto Masséna attaccò la colonna di Provera a Fontaniva, respingendola su alcune isole nel fiume ma non sull’altra sponda. Il 6 novembre Augereau attaccò le forze di Quasdanovich che stavano uscendo da Bassano, ma pur battendosi con accanimento non riuscì a respingerla oltre il Brenta. Il paese di Nove cambiò di mano diverse volte nel corso della giornata; Napoleone, ora in minoranza numerica con 19.500 uomini contro 28.000, dovette ritirarsi. Ci sono molti criteri per assegnare una vittoria: il numero dei caduti, il controllo del campo di battaglia, il successo nell’intralciare i piani del nemico. Comunque si consideri la battaglia di Bassano, fu la prima sconfitta di Napoleone, anche se non grave. Ritirandosi a Vicenza, Napoleone apprese della sconfitta di Vaubois per mano di Davidovich dopo cinque giorni di scaramucce a Cembra e Calliano. Oltre il 40 per cento dei suoi effettivi erano stati uccisi, feriti o erano dispersi. Augereau ricevette l’ordine di tornare immediatamente all’Adige, a sud di Verona, Masséna a Verona, in città, e il generale Barthélemy Joubert, ricevette l’ordine di mandare una brigata da Mantova a Rivoli perché aiutasse Vaubois a riprendersi. L’inattività austriaca dopo la vittoria di Bassano consentì a Napoleone di radunare le forze. Il 12 aveva ormai il controllo di Verona con 2500 uomini e delle rive dell’Adige con 6000, mentre Vaubois, caduto in disgrazia, tratteneva Davidovich a Rivoli e Kilmaine proseguiva l’assedio di Mantova. Questo lasciava Masséna con 13.000 uomini sul fianco destro e Augereau con 5000 su quello sinistro per attaccare Alvinczi a Caldiero, un paese a 15 chilometri a est di Verona. Con la pioggia battente che sferzava loro il viso, non mostrarono affatto l’impeto consueto dell’Armata d’Italia. Il vento portava via la polvere da sparo, gli stivali scivolavano nel fango e i loro attacchi per tutta la mattina valsero soltanto a guadagnare un po’ di terreno sulla destra, che dovettero cedere alle tre del pomeriggio, quando arrivarono i rinforzi austriaci. Entrambi gli schieramenti persero un migliaio di uomini, tra morti e feriti.
Il 13 novembre entrambi gli eserciti si riposarono. Napoleone utilizzò il tempo a sua disposizione per scrivere una lettera disperata al Direttorioda Verona, di fatto imputandogli la colpa per quel brutto imbroglio: "Forse siamo sul punto di perdere l’Italia. Nessuno dei soccorsi che aspettavo è arrivato […] Sto facendo il mio dovere, l’esercito sta facendo il suo. La mia anima è a pezzi, ma la mia coscienza è in pace […] Il tempo continua a essere brutto; tutto l’esercito è troppo stanco e senza stivali […] I feriti sono l’élite dell’esercito; tutti i nostri ufficiali superiori, tutti i nostri generali migliori sono fuori combattimento. Chiunque venga da me è così inetto e non ha la sicurezza del soldato! […] Siamo stati abbandonati nelle remote terre d’Italia […] Forse la mia ora […] è giunta. Non oso più espormi perché la mia morte scoraggerebbe le truppe."
Era vero che Sérurier e Sauret erano feriti, mentre Lannes, Murat e il giovane Kellermann si trovavano all’ospedale perché malati, ma aveva molti altri bravi generali che prestavano servizio sotto di lui. Finiva poi con una nota così positiva da contraddire tutte le altre cose che aveva scritto: «Nel giro di qualche giorno faremo un ultimo tentativo. Se la fortuna ci sorride, Mantova sarà nostra, e con essa l’Italia». Napoleone aveva ideato un piano ardimentoso: prendere alle spalle Alvinczi a Villanova e costringerlo a battersi per la sua linea di ritirata in un terreno così coperto d’acqua per le piantagioni di riso che la sua superiorità numerica avrebbe contato poco. Evitando il facile attraversamento dell’Adige ad Albaredo, dove la cavalleria austriaca poteva dare l’allarme, decise di attraversarlo a Ronco, dove nella campagna precedente avevano costruito un ponte di barche; era stato smantellato, ma stivato al sicuro nelle vicinanze. La sera del 14 novembre Masséna lasciò Verona da ovest per ingannare le spie austriache in città, ma poi svoltò verso sud-est per congiungersi ad Augereau sulla strada.
All’alba la 51a semibrigata di linea attraversò con le barche per fissare la testa di ponte e alle sette del mattino dopo il ponte era finito. Dove la strada si biforcava dall’altra parte del fiume, Augereau girò a destra lungo un argine fino alla cittadina di Arcole, con l’intenzione di attraversare il torrente Alpone e dirigersi a nord verso Villanova, per attaccare il parco artiglieria di Alvinczi. Intanto Masséna svoltò a sinistra verso Porcile per cercare di aggirare il fianco sinistro di Alvinczi da dietro. Augereau avanzava nella nebbia con la 5a semibrigata leggera del generale Louis-André Bon, ma per tutta la strada che correva a fianco dell’Alpone si ritrovò sotto il fuoco di due battaglioni croati e di due cannoni che proteggevano la retroguardia sinistra di Alvinczi.
Arcole aveva difese formidabili, scappatoie e barricate, e respinse il primo attacco, come pure un secondo proveniente dalla 4a semibrigata di linea comandata da Augereau in persona. Gli attaccanti dovevano scivolare lungo gli erti pendii per cercare protezione dal fuoco. Intanto Masséna incontrò un altro battaglione croato e un reggimento austriaco al comando di Provera a metà strada per Porcile e li respinse, assicurandosi così la sinistra della testa di ponte. Combattere nelle pianure lombarde era diverso che in montagna e dava maggiori possibilità alla cavalleria austriaca; d’altra parte i torrenti impetuosi e la rete degli argini rappresentavano un vantaggio per un giovane comandante con un talento per i particolari tattici ma una cavalleria assai meno numerosa. Alvinczi fu tempestivamente informato del movimento francese, ma per via delle paludi suppose che si trattasse soltanto di una forza leggera che effettuava una manovra diversiva. Quando le sue pattuglie trovarono Verona tranquilla, le mandò a vedere che cosa stesse succedendo alla sua sinistra, dove i 3000 soldati di Provera erano stati battuti da Masséna. Altri 3000 avevano marciato in fretta sino ad Arcole, arrivando poco dopo mezzogiorno. Piazzarono due obici per tenere la strada rialzata sotto un fuoco battente mentre Lannes, che era appena tornato all’esercito dall’ospedale di Milano, fu ferito di nuovo.
Napoleone arrivò al ponte di Arcole proprio mentre il tentativo di Augereau di espugnarlo veniva respinto. Ordinò un altro attacco, che si concluse con uno stallo sotto un fuoco pesante. Allora Augereau afferrò una bandiera e uscì a 15 passi davanti ai suoi scaramucciatori, dicendo: «Granatieri, venite a prendere il vostro stendardo». A quel punto Napoleone, circondato dai suoi aiutanti di campo e dalla sua scorta, afferrò un’altra bandiera e guidò la carica di persona, spronando le truppe a ricordarsi del loro eroismo a Lodi. Nonostante tutte le dichiarazioni fatte al Direttoriodi due giorni prima riguardo al fatto che non si sarebbe esposto al pericolo, ad Arcole lo fece di sicuro. Ma senza successo. Secondo Sulkowski gli uomini mostrarono una «straordinaria codardia» perché non assaltarono il ponte coperto di cadaveri; nonostante questo, il suo aiutante di campo, il colonnello Muiron, e altri furono uccisi sul ponte accanto a Napoleone. Durante un contrattacco austriaco, Napoleone dovette essere portato indietro a braccia nel terreno paludoso retrostante il ponte e fu salvato soltanto da una carica dei granatieri. Era un uomo coraggioso, ma nessuno avrebbe potuto fare altro di fronte a un fuoco concentrato diretto dalla risoluta resistenza austriaca, che si protrasse poi per altri due giorni.
Quando divenne chiaro che non sarebbero riusciti a conquistare il ponte, Napoleone ordinò a Masséna e Augereau di tornare a sud dell’Adige, lasciando i fuochi dei bivacchi accesi ad Arcole per far credere che i francesi fossero ancora lì. Aveva bisogno di essere pronto ad avanzare contro Davidovich se Vaubois si fosse ritirato ancora più avanti, a Rivoli. Dal campanile del paesino di Ronco i francesi videro Alvinczi che tornava a Villanova e si schierava a est dell’Alpone. Il ponte di Arcole sarebbe stato preso solo un paio di giorni dopo da Augereau e Masséna, che vi tornarono il 17; Napoleone non era presente quando cadde. Anche se i francesi subirono perdite significative (1200 morti tra cui 8 generali, e 2300 feriti rispetto ai 600 morti e ai 1600 feriti austriaci), in fin dei conti Arcole fu una vittoria francese, perché i francesi ne tornarono con 4000 prigionieri e 11 cannoni catturati agli austriaci. «C’è voluta parecchia fortuna per sconfiggere Alvinczi», ammise in seguito Napoleone.
Mentre l’inverno si avvicinava e la stagione dei combattimenti si concludeva con Mantova ancora sotto assedio, gli austriaci fecero un quarto tentativo di liberare la città. La campagna era costata all’Austria quasi 18.000 caduti e ai francesi oltre 19.000. Ora i francesi scarseggiavano di tutto: ufficiali, scarpe, medicinali e salari. Alcuni erano affamati al punto che nella 33a semibrigata di linea vi fu un ammutinamento: si dovettero porre agli arresti tre compagnie e fucilare due caporioni. Non appena i combattimenti cessarono Napoleone destituì Vaubois e promosse Joubert al comando della divisione che proteggeva Rivoli. Alla fine di novembre, quando il Direttoriomandò a Vienna il generale Henri Clarke, ex capo di Napoleone all’agenzia topografica, a indagare sulle possibilità di pace, Napoleone lo persuase che, essendo Mantova sul punto di cadere, non avrebbe dovuto sacrificare la Repubblica cispadana nelle trattative. «È una spia che mi ha messo alle costole il Direttorio», disse Napoleone a Miot, o almeno così pare; «è un uomo senza talento, solo presuntuoso.» Difficile che fosse l’opinione ponderata di Napoleone, perché in seguito promosse il competentissimo Clarke, che poi nominò duca di Feltre, alla funzione di suo segretario privato, poi di ministro della guerra; nel 1812 sarebbe diventato uno degli uomini più potenti di Francia. «Mandatemi 30.000 uomini e avanzerò su Trieste», disse Napoleone al Direttorio, «portate la guerra nei territori dell’imperatore...... Allora avrete il diritto di aspettarvi milioni, e una buona pace».
Ammettendo che dopo la caduta di Livorno non potevano più difendere la Corsica dai francesi, i britannici al comando del commodoro trentottenne Horatio Nelson in ottobre avevano effettuato un’evacuazione dall’isola. Paoli e i suoi sostenitori partirono con loro. Napoleone mandò Miot de Melito e Saliceti a organizzare i dipartimenti francesi che sarebbero stati istituiti dopo la partenza dei britannici.
Tra il settembre e il dicembre 1796, a Mantova quasi 9000 persone morirono per le malattie e la fame. Sui 18.500 soldati di guarnigione in città erano ormai abili al servizio solo in 9800. Si prevedeva che le ultime razioni si sarebbero esaurite il 17 gennaio. Quindi il successivo intervento austriaco doveva arrivare in fretta, e la preoccupazione principale di Napoleone era preparare il suo esercito per affrontarlo. A dicembre, nel giro di 18 giorni mandò 40 lettere a Berthier da Milano e implorò il Direttoriodi inviargli altri rinforzi. «Il nemico sta ritirando le sue truppe dal Reno per mandarle in Italia. Fate lo stesso, aiutateci», scrisse il 28. «Stiamo chiedendo solo altri uomini.» Nella stessa lettera diceva di aver catturato una spia austriaca che portava una lettera per l’imperatore Francesco in un cilindro nel suo stomaco.
Il 7 gennaio Napoleone ricevette la notizia che Alvinczi stava avanzando verso sud, questa volta con 47.000 uomini. Gli austriaci divisero di nuovo le loro forze. L’esercito principale di Alvinczi, costituito da 28.000 uomini (incluso Quasdanovich), avanzò a est del lago di Garda in sei colonne, utilizzando tutte le strade e le piste disponibili ed evitando così di dover affrontare i francesi in pianura, mentre i 15.000 soldati di Provera attraversarono la pianura da est, dirigendosi a Verona. Oltre 4000 uomini furono collocati a ovest del lago di Garda. Alvinczi ordinò a Wurmser di sfondare l’assedio, uscire da Mantova e dirigersi a sud-est per raggiungerli. Napoleone partì immediatamente da Milano e fece svariate visite a Bologna, a Verona e al suo quartier generale di Roverbella, cercando di indovinare le intenzioni di Alvinczi. Aveva 37.000 uomini in campo e 8500 al comando di Sérurier nelle linee d’assedio mantovane.
Il 12 gennaio Joubert riferì di un attacco alla Corona, abbastanza a nord di Rivoli, fallito a causa della neve fresca, molto alta. Napoleone riteneva che la campagna sarebbe stata decisa sui pendii italiani delle Alpi lungo l’Adige, ma aveva bisogno di assai più informazioni prima di lanciare il contrattacco. Mentre aspettava, ordinò a Masséna di presidiare Verona e ritirare 7000 uomini oltre l’Adige; il generale Gabriel Rey era incaricato di concentrare due brigate a Castelnuovo. Lannes doveva lasciare i suoi soldati italiani nel sud e tornare con i 2000 francesi a Badia per impedire agli austriaci di avanzare verso sud, mentre Augereau difendeva Ronco.
Il giorno dopo, mentre Napoleone si preparava ad avanzare e a sgominare Provera, alle dieci di sera apprese che Joubert stava fronteggiando un’importante offensiva e si ritirava a Rivoli in buon ordine, lasciandosi dietro i fuochi di bivacco accesi. Rendendosi conto che l’avanzata di Provera era perciò una finta, e che l’attacco principale sarebbe arrivato attraverso Rivoli, Napoleone vi si recò in tutta fretta da Verona, emanando una serie di ordini. Ora Joubert doveva difendere Rivoli a tutti i costi; Sérurier doveva diffondere il massimo allarme tra le linee d’assedio, ma anche mandare subito a Rivoli cavalleria, artiglieria e 600 uomini di fanteria; Masséna doveva marciare con tre semibrigate, la 18a, la 32a e la 75a, fino a prendere posizione alla sinistra di Joubert; Augereau doveva trattenere Provera sull’Adige, pur mandando un po’ di cavalleria e di artiglieria a Rivoli. Fu detto a tutti che era in vista una battaglia decisiva. Napoleone, con due brigate del generale Gabriel Rey, aspettò di concentrare 18.000 unità di fanteria, 4000 di cavalleria e 60 cannoni a Rivoli all’alba del 14 gennaio, lasciandone 16.000 sull’Adige e 8000 a Mantova. Non si sarebbe potuta seguire meglio la vecchia massima “marciare separati, combattere uniti”. Alvinczi non aveva portato altre forze a Rivoli a parte i 28.000 uomini e i 90 cannoni con cui era partito.

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Generale Sextius Alexandre François de Miollis; comandante delle truppe francesi in Toscana e Lazio

Napoleone arrivò alle due del mattino di sabato 14 gennaio 1797 sull’altopiano sopra le gole di Rivoli, che sarebbe stato il luogo chiave della battaglia. Era una notte chiara, molto fredda, con una luna luminosa; lui dedusse dal numero e dalla posizione dei fuochi di bivacco che il marchese di Lusignano, un energico generale austriaco di origini spagnole, era troppo lontano per impegnare battaglia almeno fino a metà mattinata. Conosceva molto bene la zona, avendola attraversata a cavallo più volte nei quattro mesi precedenti. Poteva difendere la gola di Osteria e il pendio su cui c’era la cappella di San Marco, sul versante orientale del campo di battaglia, e riteneva di poter respingere l’attacco principale con relativa facilità. Doveva lasciar riposare la divisione di Masséna e guadagnare tempo per aspettare l’arrivo di Rey; quindi decise di effettuare una razzia per concentrare l’attenzione di Alvinczi. Joubert ricevette l’ordine di tornare all’altopiano di Rivoli e di mandare una brigata a Osteria prima di attaccare al centro, protetto da tutti i cannoni francesi posizionati sull’altopiano. Intanto Masséna ebbe l’ordine di mandare una brigata a trattenere Lusignano il più a lungo possibile.
Alle quattro, tre ore prima dell’alba, la brigata del generale Honoré Vial respinse gli austriaci a San Giovanni e Gamberon, conquistando la cappella di San Marco. All’alba Joubert attaccò all’altezza di Caprino e San Giovanni, ma la sua linea era molto rada e doveva affrontare una forza numericamente molto superiore. Gli austriaci contrattaccarono alle nove del mattino, mettendo in rotta la brigata di Vial, ma nel frattempo Napoleone mandò subito una brigata di Masséna a salvare il centro, riconquistando così il paese di Trambassore. I combattimenti al centro continuarono ininterrottamente per dieci ore.
Alle undici del mattino giunse Lusignano con 5000 uomini. Aveva respinto la brigata inviata da Masséna ed era penetrato a fondo nella parte sinistra delle retrovie francesi, nei pressi di Affi, impedendo ai rinforzi di arrivare. Napoleone riusciva a malapena a resistere, a tenere il centro; inoltre subiva pressioni enormi sul fianco destro, mentre Lusignano lo aveva accerchiato a sinistra. Aveva solo una brigata di riserva e Rey si trovava ancora a un’ora di distanza. Quando giunse la notizia che Lusignano era arrivato alle sue spalle, gli ufficiali di stato maggiore guardarono con ansia Napoleone, che con una calma fuori dal comune si limitò a osservare: «Ora li abbiamo in pugno». Napoleone valutò che le forze austriache al centro erano ormai esauste e Lusignano si trovava ancora troppo lontano per influire sulla battaglia, quindi si concentrò su Quasdanovich a est, poiché lo considerava la minaccia principale. Alleggerì la linea di Joubert e mandò a San Marco ogni uomo che poteva. Quando le fitte colonne austriache, protette dall’artiglieria, assaltarono la gola e raggiunsero l’altopiano, furono decimate dal fuoco di mitraglia dell’artiglieria francese, sparato a ranghi serrati da tutte le parti; poi furono caricati alla baionetta da una colonna di fanteria, quindi attaccati da tutta la cavalleria francese disponibile. Mentre arretravano nella gola, per un colpo di fortuna un proiettile colpì un carro di munizioni, il cui scoppio fu ancora più devastante nello spazio ristretto; Quasdanovich dichiarò l’interruzione dell’attacco.
Napoleone spostò immediatamente il suo attacco al centro, dove gli austriaci mancavano quasi del tutto di artiglieria e di cavalleria. Le tre colonne austriache, che avevano conquistato l’altopiano a caro prezzo, furono tutte ricacciate indietro. Lusignano venne bloccato al suo arrivo sul campo di battaglia, proprio mentre Rey gli piombava d’improvviso alle spalle. Riuscì appena a scappare con 2000 uomini. Alle due del pomeriggio gli austriaci erano ormai in piena ritirata e l’inseguimento fu abbandonato soltanto quando da Augereau giunse la notizia che Provera aveva attraversato l’Adige e si dirigeva verso Mantova; perciò Masséna fu mandato ad aiutare Augereau a impedirne la liberazione.
Alla battaglia di Rivoli Napoleone perse 2200 uomini e 1000 altri finirono prigionieri, ma il prezzo pagato dagli austriaci fu molto più alto: 4000 uomini tra uccisi e feriti e 8000 catturati, insieme a 8 cannoni e 11 stendardi. Fu un’impresa imponente, anche se non proprio dei livelli dichiarati da Napoleone.
A mezzogiorno del 15 gennaio, Provera giunse alla Favorita con la sua colonna di soccorso di 4700 uomini, molti dei quali erano reclute non ben addestrate. Il giorno dopo, alle prime luci, Wurmser tentò di fare una sortita fuori Mantova, ma fu subito bloccato. Quando arrivò Napoleone, Provera era intrappolato tra Masséna e Augereau alla Favorita, fuori Mantova. Si batté con coraggio, ma si arrese prima che avvenisse un massacro: tutto il suo contingente venne catturato. A Mantova alla fine le riserve di viveri erano finite. Wurmser era riuscito a tirare avanti per 15 giorni più del previsto, nella vana speranza che Alvinczi potesse comparire miracolosamente, ma giovedì 2 febbraio 1797 cedette la città e la sua emaciata guarnigione. Negli otto mesi precedenti la presa di Mantova erano morti circa 16.300 soldati austriaci, e molti più civili, ridotti a nutrirsi di topi e cani. I francesi si impadronirono di 325 cannoni austriaci e ripresero i 179 che avevano abbandonato ad agosto. Wurmser e 500 uomini del suo stato maggiore furono autorizzati a uscire con gli onori militari e a tornare in Austria, a condizione che non si battessero contro la Francia fino a quando non fosse avvenuto uno scambio di prigionieri. Gli altri andarono in prigionia in Francia, dove vennero messi a lavorare nel settore agricolo e in quello edile. La notizia della caduta di Mantova fece clamore a Parigi, dove venne annunciata tra squilli di tromba, come ricordava un contemporaneo, da un «pubblico ufficiale che proclamò la gloria delle armi francesi in mezzo a una immensa moltitudine».

RIVOLI
Stampa antica della battaglia di Rivoli

Napoleone non era presente per assistere a questo trionfo. Proseguì per Verona e poi Bologna per punire gli stati papalini che avevano minacciato di insorgere in favore dell’Austria nonostante l’armistizio firmato il giugno precedente. Usurpando senza ritegno i poteri del Direttorio, il 22 gennaio, per far pressione sul Vaticano, chiese all’inviato francese a Roma, Cacault, «di andarsene da Roma entro sei ore dal ricevimento» della sua lettera. Lo stesso giorno scrisse al negoziatore del papa, il cardinale Alessandro Mattei, per dire che l’influenza austriaca e napoletana sulla politica estera di Roma doveva cessare. Ma ammorbidì i toni nella conclusione: gli chiese di «assicurare a Sua Santità può restare a Roma nel massimo agio» nella sua qualità di «primo ministro della religione». Napoleone aveva un timore e lo espose al Direttorio: «Se il papa e tutti i cardinali dovessero fuggire da Roma, non riuscirei mai a ottenere quello che ho chiesto». Sapeva pure che fare irruzione in Vaticano gli avrebbe attirato addosso le ire, e forse la perenne inimicizia, dei cattolici devoti d’Europa. «Se andassi a Roma, perderei Milano», disse a Miot.
Il 1° febbraio Napoleone, sperando di smussare l’opposizione del clero al governo francese in Italia, emanò un proclama affermando che tutti i preti e i monaci che non si comportavano «secondo i principi del Nuovo Testamento», sarebbero stati trattati «con maggior severità degli altri cittadini». Le truppe degli Stati pontifici fecero un tentativo risibile, per quanto innegabilmente coraggioso, di combattere. A Castel Bolognese il 3 febbraio, il generale Claude Victor-Perrin sopraffece senza difficoltà i soldati che incontrò e una settimana dopo catturò la guarnigione papale ad Ancona senza perdite. Il 17 febbraio il papa chiese la pace. Mandò Mattei a Tolentino, al quartier generale di Napoleone, per firmare un trattato in base al quale cedeva la Romagna, Bologna, Avignone e Ferrara alla Francia, chiudeva tutti i porti alla Gran Bretagna e prometteva di pagare “un contributo” di 30 milioni di franchi e 100 opere d’arte. «Avremo tutto quello che c’è di bello in Italia», dichiarò Napoleone al Direttorio.
Il 18 febbraio 1797 l’Armata d’Italia pubblicò un notiziario intitolato “Journal de Bonaparte et des Hommes Vertueux”, la cui testata proclamava: «Annibale ha dormito a Capua, invece a Mantova Napoleone non dorme». Napoleone era ben consapevole del potere della propaganda, e ora cercava intenzionalmente di influenzare l’opinione pubblica che era già decisamente schierata in suo favore. Cominciò la sua nuova carriera di proprietario di un periodico e giornalista dettando frasi tipo “Bonaparte vola come il lampo e colpisce come il tuono”. Dieci giorni dopo il giornale criticava indirettamente il Direttorio, cosa che non avrebbe fatto senza il permesso di Napoleone. Nel corso dell’anno istituì anche due notiziari per l’esercito, il “Courrier de l’Armée d’Italie”, diretto dall’ex giacobino Marc-Antoine Jullien, e il meno consistente “La France Vue de l’Armée d’Italie”, diretto da Michel Regnaud de Saint-Jean d’Angély, di cui venivano regolarmente pubblicati degli estratti nei giornali parigini. Il fronte del Reno era molto più vicino alla Francia, Napoleone non voleva che la campagna d’Italia venisse marginalizzata nell’immaginazione pubblica, e pensava che i suoi uomini avrebbero apprezzato le notizie da Parigi.
D’Angély era un ex parlamentare e avvocato che dirigeva gli ospedali dell’Armata d’Italia e sarebbe diventato uno degli alti assistenti di Napoleone. La nomina di Jullien era un segno della disponibilità di Napoleone a ignorare le posizioni politiche pregresse se una persona era dotata e si dimostrava disposta a seppellire il passato. In una società fluida come quella francese, non si trattava tanto di tolleranza, quanto piuttosto di buon senso. In fondo, anche Napoleone solo tre anni prima era stato un giacobino.
Venerdì 10 marzo 1797, Napoleone avviò la campagna settentrionale che aveva promesso al Direttorio: una spedizione rischiosa con 40.000 uomini soltanto, attraverso il Tirolo fino a Klagenfurt e poi a Leoben in Stiria, da cui, in cima alle colline di Semmering, la sua avanguardia scorgeva le guglie di Vienna. Gli eserciti di Jourdan e Moreau, entrambi di dimensioni doppie, erano stati cacciati dalla Germania dall’arciduca Carlo; la Francia ora sperava che le forze più modeste di Napoleone, minacciando la capitale, avrebbero costretto gli austriaci a concludere la pace. In un primo momento Napoleone voleva lavorare in tandem con l’Armata del Reno per effettuare un movimento a tenaglia, ma quando venne a sapere che né Jourdan né Moreau erano riusciti a riattraversare il Reno dopo la disfatta d’autunno cominciò a preoccuparsi sempre di più. Per incoraggiare i suoi uomini, in un proclama definì il fratello di Carlo, l’imperatore Francesco, «servo prezzolato al soldo dei mercanti di Londra».
Il 16 marzo Napoleone attraversò il Tagliamento, infliggendo una piccola sconfitta all’arciduca Carlo a Valvassone; il giorno dopo il generale Jean-Baptiste Bernadotte la trasformò in qualcosa di più grande, poiché catturò un nutrito distaccamento di austriaci che erano rimasti isolati dal corpo principale. Al Tagliamento Napoleone introdusse l’ordine misto, un compromesso tra l’attacco in linea e l’attacco in colonna, elaborato per primo da Guibert per affrontare un terreno impervio che non consentiva gli schieramenti regolari. Era una tecnica che avrebbe utilizzato di nuovo alcuni giorni dopo mentre attraversava l’Isonzo e passava in Austria; in entrambe le occasioni intervenne personalmente per mettere a punto una formazione che combinasse la potenza di fuoco di un battaglione in linea con il peso d’attacco di due battaglioni in colonna.
«Bandite il vostro turbamento», disse alla popolazione della provincia asburgica di Gorizia, «siamo buoni e umani.» Non era impressionato dal suo nuovo avversario, di cui trovava ingiustificata la reputazione di stratega, anche se nel 1793 Carlo aveva vinto delle battaglie in Olanda e nel 1796 aveva sconfitto Jourdan e Moreau. «Per ora l’arciduca Carlo ha manovrato peggio di Beaulieu e Wurmser», disse Napoleone al Direttorio, «fa errori a ogni svolta, e per giunta molto stupidi.» Gli austriaci, assaliti con nuovo vigore anche da Moreau proveniente dalla Germania, decisero, senza che si fosse svolta nemmeno una battaglia importante tra Napoleone e l’arciduca Carlo, di non correre il rischio di dover consegnare la loro capitale ai francesi: il 2 aprile accettarono la loro offerta di armistizio a Leoben, poco più di 150 chilometri a sud-ovest di Vienna.
Napoleone aveva combattuto contro forze austriache immancabilmente più numerose, che spesso aveva decimato sul campo di battaglia, grazie all’impiego reiterato della strategia della posizione centrale. L’aver studiato in modo approfondito la storia e la geografia dell’Italia prima ancora di mettervi piede si era dimostrato oltremodo utile, e lo stesso si può dire della sua disponibilità a sperimentare le idee degli altri, in particolare il battaglione quadrato e l’ordine misto, e dei suoi minuziosi calcoli logistici, in cui era aiutato moltissimo dalla memoria prodigiosa. Dato che teneva le divisioni a un giorno di distanza una dall’altra, poteva concentrarle per la battaglia e, una volta unite, dimostrava la massima calma sotto pressione.
La tregua si concretizzò nel trattato di Campoformio, il 17 ottobre 1797. Oltre all'indipendenza delle nuove repubbliche formatesi, la Francia acquisiva i Paesi Bassi e la riva sinistra del Reno, gli austriaci inglobavano i territori della Repubblica di Venezia. Terminava così, con una secca sconfitta dell'Austria, la campagna d'Italia.
Nel corso della campagna d'Italia, Napoleone manifestò la sua brillante capacità strategica, in grado di assimilare le nuove teorie innovative dei pensatori militari francesi e applicarle magistralmente sul campo. Ufficiale di artiglieria per formazione, utilizzò i mezzi d'artiglieria in modo innovativo come supporto mobile agli attacchi della fanteria. Dipinti contemporanei del suo Quartier generale mostrano che in queste battaglie utilizzò, primo al mondo in un teatro di guerra, un sistema di telecomunicazioni basato su linee di segnalazione realizzate col telegrafo ottico di Chappe, appena perfezionato nel 1792. Napoleone imparò molte lezioni di comando essenziali da Giulio Cesare, soprattutto la sua prassi di ammonire i soldati che riteneva non avessero corrisposto alle aspettative, come a Rivoli nel novembre 1796. Nel suo libro Le guerre di Cesare, che scrisse in esilio a Sant’Elena, racconta la storia di un ammutinamento a Roma: Cesare aveva laconicamente accolto le richieste di smobilitazione dei suoi soldati, ma poi si era rivolto a loro chiamandoli con malcelato disprezzo “cittadini” anziché “compagni”. L’impatto era stato rapido e significativo. «Alla fine, il risultato di questa scena commovente fu di ottenere che restassero in servizio». Assai più spesso, ovviamente, prodigava lodi: «I vostri tre battaglioni potrebbero essere come sei ai miei occhi», dichiarò alla 44a semibrigata di linea durante la campagna di Eylau. «E lo dimostreremo!» risposero loro di rimando.
La principale residenza di Napoleone nella primavera del 1797 era il palazzo di Mombello fuori Milano, dove convocava Miot de Melito per discutere. Miot notò la grandiosità di Napoleone nelle faccende quotidiane. Non si era limitato a portare a vivere con sé la famiglia (in prima battuta Madame Mère, Giuseppe, Luigi, Paolina e suo zio Joseph Fesch, e altri a seguire), ma aveva introdotto anche una pseudo etichetta di corte. Alla sua tavola invece degli aiutanti di campo c’erano i nobili italiani, e i pranzi avvenivano in pubblico come accadeva a Versailles sotto i Borboni: Napoleone tradiva un gusto assai poco repubblicano per i lacchè. Per pagarli attingeva a una fortuna che, secondo le sue stesse affermazioni, all’epoca ammontava a 300.000 franchi. Bourrienne affermava che erano oltre tre milionidi franchi, equivalenti all’intera paga mensile dell’Armata d’Italia. In entrambi i casi, viene da pensare che non erano stati soltanto i suoi generali ad aver truffato l’Italia.

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Villa Pusterla Arconati Crivelli (Mombello) - Residenza di Napoleone nel 1779

In novembre Napoleone lasciò l’Armata d’Italia nelle mani di suo cognato Charles Leclerc, e andò al congresso di Rastatt, passando per Torino, Chambéry, Ginevra, Berna e Basilea, dove fu osannato dalle folle. Una sera a Berna, ricordava Bourrienne, passarono in mezzo a una doppia linea di carri «ben illuminati, carichi di belle donne che gridavano: “Viva Bonaparte! Viva il Pacificatore!”». Entrò a Rastatt su una carrozza trainata da otto cavalli e scortata da 30 ussari, un protocollo di solito adottato dai monarchi regnanti. Napoleone comprendeva il potere delle scene spettacolari sull’immaginario collettivo, e voleva che la nuova repubblica francese avesse lo stesso impatto visivo goduto dalle vecchie monarchie europee.
Il trattato di Campoformio fu ufficialmente ratificato a Rastatt il 30 novembre. Obbligava l’Austria a cedere le sue principali fortezze renane, Mainz, Philippsburg e Kehl, a evacuare Ulm e Ingolstadt, e a ritirare le sue forze oltre il fiume Lech. All’epoca c’erano 16 milioni di tedeschi che non vivevano né in Austria né in Prussia: Napoleone voleva che la Francia puntasse in modo energico a ottenere il loro sostegno, dato che i giorni gloriosi del Sacro romano impero che un tempo li univa erano ormai tramontati da tempo. Napoleone voleva compensare i principi tedeschi che avrebbero dovuto cedere territori alla Francia in base al trattato, atteggiandosi a protettore degli stati tedeschi di media dimensione contro le mire espansionistiche dell’Austria e della Prussia. Come aveva scritto con lungimiranza in una lettera al Direttorioil 27 maggio: «Se il concetto di Germania non esistesse, dovremmo inventarlo per le nostre finalità».
Arrivò a Parigi il 5 alle cinque del pomeriggio, in abiti civili e con una carrozza anonima, accompagnato soltanto da Berthier e dal generale Jean-Étienne Championnet. «Era nei piani generali di passare inosservato, in quel momento almeno, e lui faceva il suo gioco in silenzio», ricordava un contemporaneo. Napoleone, troppo giovane per diventare membro del Direttorio, decise deliberatamente di tenere un basso profilo a Parigi, in modo da non entrare in antagonismo con il Direttorio, nonostante il clamore che la sua presenza nella capitale provocò non appena divenne nota. La figlia di Giuseppina, Ortensia, ricordava di come si doveva «trattenere una folla costituita da persone di tutte le classi, impazienti ed entusiaste di dare un’occhiata al conquistatore d’Italia». Rue Chantereine, in cui Napoleone e Giuseppina avevano affittato una casa al numero 6 fu rinominata in suo onore “rue de la Victoire”.
Il 6 dicembre alle undici del mattino Napoleone incontrò Talleyrand al ministero degli esteri, l’hôtel Galifet su rue du Bac. Si studiarono con calma nel corso di una lunga conversazione e si piacquero. Giova dire subito che Talleyrand tradì Napoleone e la Francia in modo vergognoso e determinante per la sconfitta dei francesi; la causa del suo comportamento fu forse dovuto all'invidia nei riguardi dei successi di Napoleone. Quella sera Napoleone ebbe un pranzo privato con il Direttorio: fu ricevuto con cordialità da Barras e La Révellière, in modo abbastanza amichevole da Reubell, ma freddamente dagli altri. Domenica 10 dicembre a mezzanotte tutto il governo partecipò a un’enorme e lunga cerimonia di benvenuto data per lui al palazzo di Lussemburgo, dove il grande cortile era coperto da bandiere e in un anfiteatro costruito per l’occasione si ergevano statue che rappresentavano la Libertà, l’Eguaglianza e la Pace. Per tutto il tempo Napoleone tenne un atteggiamento diffidente. Un britannico che all’epoca viveva a Parigi notò: «Mentre passava per le strade affollate, si appoggiava allo schienale nella carrozza […] Lo vidi rifiutare di sedersi sulla poltrona di stato che gli era stata preparata, e sembrava che desiderasse sfuggire agli scoppi generali di applausi». Un altro contemporaneo osservava: «Le acclamazioni della folla contrastavano con le fredde lodi del Direttorio».
Collocarsi sotto le luci della ribalta mentre si finge di evitarle modestamente è una delle mosse politiche più abili: Napoleone era un maestro nel farlo. «Erano presenti tutte le persone più eleganti e distinte che ci fossero allora a Parigi», ricordava un altro osservatore; tra gli altri, i membri del Direttorioe di entrambe le camere con le rispettive mogli. Riguardo all’ingresso di Napoleone, un altro testimone osservò: «Tutti si alzarono e si scoprirono il capo; le finestre erano gremite di donne giovani e bellissime. Ma nonostante questo splendore, la cerimonia fu caratterizzata da una gelida freddezza. Tutti sembravano partecipare solo per dare un’occhiata, e la riunione pareva ispirata dalla curiosità più che dalla gioia».
Talleyrand presentò Napoleone con un discorso molto lusinghiero, a cui Napoleone rispose elogiando il trattato di Campoformio e lo zelo dei suoi soldati nel combattere "per la gloriosa costituzione dell’anno terzo".
Napoleone fu assai più contento il giorno di Natale, quando lo elessero, al posto dell’esule Carnot, membro dell’Institut de France, allora (come oggi) la società intellettuale più eminente in Francia. Con l’aiuto di Laplace, Berthollet e Monge ottenne il sostegno di 305 membri su 312, mentre gli altri due candidati ottennero rispettivamente solo 166 e 123 voti. Il giorno dopo, scrivendo per ringraziare Armand-Gaston Camus, presidente dell’Institut, Napoleone diceva: «Le vere conquiste, le uniche che non provocano rimpianti, sono quelle ottenute sull’ignoranza».
Non era soltanto il popolo francese che sperava di impressionare esibendo queste credenziali intellettuali: «Sapevo bene che nell’esercito non c’era un tamburino che non mi avrebbe rispettato di più per il fatto di non essere semplicemente un soldato», disse. I suoi promotori e sostenitori all’Institut senza dubbio pensavano che fosse un vantaggio avere il più eminente generale del momento tra i membri, ma Napoleone era un vero intellettuale, non soltanto un intellettuale tra i generali. Aveva letto e annotato molti dei libri più profondi del canone occidentale; era un conoscitore, un critico e persino un teorico dilettante della tragedia e della musica drammatica; difendeva la scienza e simpatizzava con gli astronomi; gli piaceva intrattenere lunghe discussioni teologiche con vescovi e cardinali, e non andava da nessuna parte senza la sua grande biblioteca da viaggio, che consultava spesso.
Avrebbe colpito Goethe con le sue opinioni sulle motivazioni del suicidio di Werther, e Berlioz con la sua conoscenza musicale. In seguito avrebbe inaugurato l’Institut d’Égypte e vi avrebbe fatto lavorare i più grandi eruditi francesi dell’epoca. Napoleone era ammirato da molti intellettuali europei e dai personaggi creativi di primo piano dell’Ottocento, tra cui Goethe, Byron, Beethoven (almeno all’inizio), Carlyle e Hegel; pose per l’università di Francia le più solide basi della sua storia. Meritava la sua giubba ricamata.
Napoleone dimostrò un notevole tatto quando, vedendosi offrire un ruolo di spicco dal Direttoriodurante le non più popolari celebrazioni dell’anniversario dell’esecuzione di Luigi XVI, il 21 gennaio, partecipò modestamente indossando la sua uniforme dell’Institut, anziché quella militare, e sedendo in terza fila anziché accanto ai membri del Direttorio.
Volgendo i suoi pensieri all’invasione della Gran Bretagna, Napoleone aveva organizzato per dicembre un incontro con Wolfe Tone, il capo della Society of United Irishmen, per sollecitarne il supporto. Quando Tone gli aveva detto di non essere un militare e quindi di non potergli dare grande aiuto, Napoleone lo aveva interrotto: «Ma siete coraggioso». Tone ammise con modestia che effettivamente lo era. «Eh bien, sarà sufficiente», rispose Napoleone, secondo quanto riferì in seguito Tone. In febbraio, nel giro di due settimane, Napoleone si recò a Boulogne, Dunkerque, Calais, Ostenda, Bruxelles e Douai per valutare le possibilità di riuscita di un’invasione, interrogando marinai, piloti, contrabbandieri e pescatori, talvolta sino a mezzanotte. «È troppo rischioso», concluse, «non ci proverò». Il suo rapporto al Direttoriodel 23 febbraio 1798 era inequivocabile:
  Qualsiasi sforzo facciamo, per alcuni anni non otterremo la supremazia navale. Invadere l’Inghilterra senza questa supremazia è l’impresa più azzardata e difficile mai intrapresa […] Se, tenendo in considerazione l’attuale organizzazione della nostra marina, sembra impossibile acquisire la necessaria rapidità di esecuzione, allora dobbiamo davvero rinunciare alla spedizione contro l’Inghilterra, accontentarci di sostenerne la finzione, e concentrare tutta la nostra attenzione e le nostre risorse sul Reno, allo scopo di cercare di sottrarre l’Hannover all’Inghilterra […] oppure intraprendere una spedizione orientale che minaccerebbe il loro commercio con le Indie. E se nessuna di queste tre operazioni è praticabile, non vedo altra soluzione che quella di concludere la pace con l'Inghilterra.
Il Direttorionon era affatto disposto a concludere la pace e scelse l’ultima delle tre alternative di Napoleone; il 5 marzo gli diede carta bianca per prepararsi a un’invasione a tutto campo dell’Egitto, nella speranza di infliggere un colpo all’influenza britannica sul paese e sulle vie commerciali del Mediterraneo orientale. Era nell’interesse del Direttorioche Napoleone andasse in Egitto. Poteva conquistarlo per la Francia o, soluzione altrettanto gradita, tornare dopo una sconfitta, con la reputazione debitamente distrutta. Per Napoleone rappresentava l’opportunità di seguire le tracce dei suoi due eroi preferiti, Alessandro il Grande e Giulio Cesare; non escludeva inoltre la possibilità di servirsi dell’Egitto come trampolino di lancio per l’India. «L’Europa non è altro che una montagnola di talpe», disse Napoleone felicissimo al suo segretario privato, «tutte le grandi reputazioni sono arrivate dall’Asia.»
Napoleone, mentre progettava una nuova campagna in Egitto, aveva tutte le ragioni per desiderare di allontanarsi al più presto da Parigi per evitare di essere coinvolto in scandali finanziari per la condotta di Giuseppina che oltrecchè esssere un po' "puttana" si era rivelata anche un po' ladra e intrallazzatrice.

Campagna d'Egitto.

Nel 1798 il Direttorio, preoccupato per l'eccessiva popolarità e per il notevole prestigio di Bonaparte, gli affidò, dunque, l'incarico di occupare l'Egitto per contrastare l'accesso inglese all'India e quindi per danneggiarla economicamente.
Un indizio della devozione di Napoleone ai principi dell'Illuminismo fu la sua decisione di affiancare gli studiosi alla sua spedizione: la spedizione d'Egitto ebbe il merito di far riscoprire, dopo centinaia di anni, la grandezza di quella terra, e fu proprio l'opera di Napoleone a far nascere la moderna egittologia, soprattutto grazie alla scoperta della Stele di Rosetta da parte dei soldati al seguito della spedizione. Napoleone aveva da anni accarezzato l'idea di una campagna in oriente, sognando di seguire le orme di Alessandro Magno ed essendo dell'idea che «L'Europa è una tana di talpe.

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Generale Jean Toussaint Arrighi de Casanova. Partecipò alla spedizione d'Egitto

Tutte le grandi personalità vengono dall'Oriente». Napoleone portò con sè 125 libri di storia, geografia, filosofia e mitologia greca, tra cui i Viaggi del capitano Cook in tre volumi, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, I dolori del giovane Werther di Goethe, i libri di Livio, Tucidide, Plutarco, Tacito e, naturalmente, Giulio Cesare. Portò anche le biografie di Turenne, Condé, Saxe, Marlborough, Eugenio di Savoia, Carlo XII di Svezia e Bertrand du Guesclin, l’eminente comandante francese della guerra dei Cent’anni. Anche la poesia e il teatro avevano il loro posto, con opere di Ossian, Tasso, Ariosto, Omero, Virgilio, Racine e Molière. Con la Bibbia a guidarlo riguardo alla fede di drusi e armeni, il Corano dei musulmani e i Veda degli indù, sarebbe stato ben fornito di citazioni adeguate per i suoi proclami alle popolazioni locali, in pratica ovunque quella campagna lo avesse condotto. Incluse anche Erodoto per la sua descrizione, in larga parte di fantasia, dell’Egitto. Portò anche un gran numero di savants specialisti di alto livello in varie branche del sapere.


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Generale Louis Baraguey d'Hilliers; partecipò alla spedizione d'Egitto


La spedizione cominciò il 19 maggio, quando Napoleone salpò da Tolone a capo dell'Armata d'Oriente, composta da oltre 60 navi da guerra, 280 navi da trasporto, 16.000 marinai e 38.000 soldati.
Il 10 giugno la flotta giunse a Malta, che dominava l’accesso al Mediterraneo orientale. Napoleone mandò Junot a ordinare al gran maestro dei cavalieri di san Giovanni, Ferdinand von Hompesch zu Bolheim, di aprire il porto della Valletta e arrendersi. Due giorni dopo, quando lo fece, Caffarelli spiegò a Napoleone quanto erano stati fortunati, perché altrimenti «l’esercito non ci sarebbe mai entrato». Malta aveva resistito già altre volte a duri assedi, soprattutto nel 1565, quando in quattro mesi i turchi avevano sparato 130.000 palle di cannone alla Valletta; lo avrebbero fatto di nuovo per 30 mesi durante la seconda guerra mondiale. Nel 1798, tuttavia, i cavalieri stavano scindendosi: quelli filofrancesi rifiutavano di combattere e i loro sudditi maltesi erano in rivolta. Nei suoi sei giorni a Malta Napoleone espulse tutti gli uomini della cavalleria eccetto 14 e sostituì l’amministrazione medievale dell’isola con un consiglio di governo; smantellò i monasteri; introdusse la pavimentazione e l’illuminazione stradale; liberò tutti i prigionieri politici; installò fontane e riformò gli ospedali, il servizio postale e l’università, che da allora avrebbe insegnato scienze accanto alle materie umanistiche. Mandò Monge e Berthollet a saccheggiare il Tesoro, la zecca, le chiese e gli studi d’arte.


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Generale Felice Baciocchi. Fu principe di Lucca e Piombino, duca consorte di Massa e principe consorte di Carrara e granduca consorte di Toscana, in quanto marito di Elisa Bonaparte.

Il 18 giugno scrisse 14 dispacci, in cui parlava dell’assetto militare, navale, amministrativo, giudiziario, fiscale, degli affitti e della polizia dell’isola per il futuro. Con essi aboliva la schiavitù, le livree, il feudalesimo, i titoli nobiliari e i blasoni dell’ordine dei cavalieri. Diede agli ebrei l’autorizzazione, sino a quel momento negata, di edificare una sinagoga, e indicò persino quanto avrebbe dovuto essere pagato ogni professore all’università. «Ora possediamo il posto più fortificato d’Europa», scrisse al direttorio, «e sarà dura sloggiarci.»
Dopo un'importante vittoria nella battaglia delle piramidi, Napoleone schiacciò i mamelucchi di Murad Bey ed entrando a Il Cairo divenne padrone dell'Egitto.

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Generale Claude Henri de Belgrand de Vaubois, partecipò alla spedizione d'Egitto

La battaglia delle piramidi è stata combattuta il 21 luglio 1798 contro le forze dei neo-Mamelucchi condotte da Murad Bey e Ibrahim Bey, in cui Bonaparte utilizzò una delle sue tecniche militari più significative: il grande quadrato divisionale. L'esercito mamelucco, sebbene numeroso, era equipaggiato in maniera "antiquata" con sciabole, archi, cotte di maglia e vecchi moschetti, armi quindi, molto più primitive e inefficienti di quelle in dotazione all'esercito francese. In più l'esercito era diviso in due, una parte (la cavalleria) al di qua del Nilo e l'altra (una milizia, prevalentemente di fanteria, che praticamente non partecipò allo scontro) al di là. Napoleone capì che la cavalleria era, tra le forze egiziane, la sola in grado di essere pericolosa sul campo di battaglia. Egli, al contrario, aveva una cavalleria molto meno numerosa e il suo esercito era numericamente inferiore di due o tre volte: 25.000 Francesi contro 50.000-75.000 egiziani.
Fu dunque costretto alla difensiva e organizzò il suo esercito in modo da formare "quadrati" con al centro l'artiglieria e la cavalleria, riuscendo in questo modo a disperdere le cariche della cavalleria mamelucca. Attaccò poi di sorpresa il campo nel villaggio di Embebeh (?Ayn Baba), e l'esercito egiziano, incapace di organizzarsi, fu facilmente disperso. La battaglia fece guadagnare alla Francia Il Cairo e il Basso Egitto. Essa segnò anche la fine, dopo 700 anni, del dominio mamelucco in Egitto, anche se dai primi del XVI secolo esso guidava l'Egitto in veste di feudatario degli Ottomani. I neo-Mamelucchi erano, assieme all'ordine di Malta, distrutto da Napoleone poco prima, le ultime vestigia dell'organizzazione politica e militare rimasta dalle crociate.
Pochi giorni dopo, il 1º agosto 1798, la flotta di Napoleone in Egitto fu completamente distrutta dall'ammiraglio Horatio Nelson, nella baia di Abukir, cosicché Napoleone rimase bloccato a terra; ancora una volta l'esercito francese mostrava il suo punto debole: la battagia navale.

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Horatio Nelson che riuscì a imporre il blocco navale alla Francia; ritratto da Lemuel Abbott

Napoleone, dopo una ricognizione sul mar Rosso, decise di recarsi in Siria, col pretesto di inseguire il governatore di Acri A?mad al-Jazzar Pascià che aveva tentato di attaccarlo. Giunto però il 19 marzo 1799 dinanzi a San Giovanni d'Acri, l'antica fortezza dei crociati in Terra Santa, Napoleone perse più di due mesi in un inutile assedio e la campagna di Siria si concluse con un fallimento.
Ritornato a Il Cairo, Napoleone sconfisse il 25 luglio 1799 un esercito di oltre diecimila ottomani guidati da Mustafa Pascià ad Aboukir, proprio dove l'anno prima era stato privato di tutta la sua flotta. Preoccupato tuttavia per le notizie che giungevano dalla Francia (l'esercito in ripiegamento su tutti i fronti, il Direttorio ormai privo di potere) e consapevole che la campagna d'Egitto non aveva conseguito i fini sperati, Napoleone, lasciato il comando al generale Kléber, s'imbarcò in gran segreto il 22 agosto sulla fregata Muiron (preda bellica ex veneziana) alla volta della Francia.


belliard

Generale Augustin Daniel Belliard; combattè in quasi tutte le guerre napoleoniche

Per Napoleone, dopo quasi un anno e cinque mesi, l’avventura egiziana era finita, ma non per l’esercito francese che si era lasciato dietro. Rimasero fino a quando i francesi non furono costretti a capitolare ai britannici due anni dopo. Nel 1802 al suo esercito e ai savants ancora presenti fu concesso di ritornare in Francia. Napoleone ammise la perdita di 5344 uomini nella sua spedizione, una sottovalutazione notevole poiché al tempo della resa, nell’agosto 1801, erano morti circa 9000 soldati e 4500 marinai, e dopo la sua partenza erano stati ingaggiati relativamente pochi combattimenti, persino nell’assedio finale di Alessandria. Ciò nonostante, aveva conquistato il paese come ordinato, sventato due invasioni turche ed era tornato ad aiutare la Francia nell’ora del pericolo. Kléber scrisse un rapporto alquanto negativo al Direttorio, denunciando sin dall’inizio la conduzione della campagna da parte di Napoleone, descrivendo le malattie, la penuria di armi, polvere, munizioni e indumenti dell’esercito.


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Generale Henri Gatien Bertrand; dalla camnpagna d'Italia fu sempre accanto a Napoleone che lo fece conte


Le più grandi realizzazioni di lungo periodo della campagna egiziana di Napoleone non furono militari o strategiche, ma intellettuali, culturali e artistiche. Il primo volume del vasto e magistrale Viaggio in Egitto di Vivant Denon uscì nel 1809: sul frontespizio proclamava di essere «pubblicato per ordine di Sua Maestà, l’imperatore Napoleone il Grande». La prefazione ricordava che l’Egitto era stato invaso da Alessandro e dai Cesari, le cui missioni erano state modelli per quella di Napoleone. Per il resto della vita di Napoleone, e anche in seguito, continuarono a uscire volumi di questa opera davvero straordinaria, fino ad arrivare a ventuno, costituendo così un monumento nella storia del sapere e dell’editoria. I savants non si erano fatti scappare niente. C’erano disegni in scala oltremodo dettagliati (di 50 x 55 centimetri), sia in bianco e nero sia a colori, di obelischi, sfingi, geroglifici, cartigli, piramidi e faraoni, come pure di uccelli, gatti, serpenti e cani imbalsamati provenienti dal Cairo, da Tebe, Luxor, Karnak, Aswan e tutti gli altri siti templari dell’antico Egitto.


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Generale Jean-Baptiste Kléber; perì nella campagna dì'Egitto

Oltre all’antica egittologia, i volumi contenevano cartine straordinariamente dettagliate del Nilo, di città e cittadine moderne, stampe di minareti e paesaggi, schizzi di canali di irrigazione, disegni di monasteri e templi, diversi tipi di colonne, viste di traffici marittimi, suk, tombe, moschee, canali, fortezze palazzi e cittadelle. C’erano progetti architettonici enciclopedici con piani di elevazione longitudinali e laterali, precisi fino all’ultimo centimetro. Senza essere politicamente trionfalistici, i molti tomi della Description de l’Égypte rappresentano un apogeo della cultura francese, anzi napoleonica, ed ebbero un profondo effetto sulla sensibilità artistica, architettonica, estetica e grafica dell’Europa. Inoltre il cittadino Ripaud, bibliotecario dell’Institut de l’Égypte, scrisse un rapporto di 104 pagine per la Commissione delle Arti sullo stato esistente delle antichità presenti al Cairo e provenienti dalle cataratte del Nilo. La scoperta più importante dei savants fu la stele di Rosetta, una pietra con incisioni in tre lingue rinvenuta a El-Rashid sul delta del Nilo. Fecero delle copie e tradussero la parte greca per poi cominciare a lavorare sui geroglifici. In base all’accordo di pace relativo alla ritirata francese nel 1801, la stele fu consegnata ai britannici e inviata al British Museum, dove si trova ancora al sicuro. Purtroppo l’istituto vicino a piazza Tahrir al Cairo è stato distrutto da un incendio durante l’insurrezione della primavera araba il 17 dicembre 2011: quasi tutti i suoi 192.000 libri, i giornali e i manoscritti, compreso l’unico originale di Denon della Description de l’Égypte, sono andati perduti.

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La campagna d'Egitto

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La più importante vittoria di Napoleone in Egitto: la scoperta della stele di Rosetta.

Il 18 brumaio e il Consolato
Il 9 ottobre 1799 Bonaparte sbarcò a Fréjus e la sua corsa verso Parigi fu accompagnata dall'entusiasmo dell'intera Francia, certa che il generale fosse tornato in patria per assumere il controllo della situazione ormai ingestibile e, in effetti, era questa la sua intenzione; ci riuscì potendo mascherare il fallimento in Egitto proprio con i disordini in patria così come in Italia provocati dalla sua assenza. Giunto a Parigi, egli riunì i cospiratori decisi a rovesciare il Direttorio. Dalla sua si schierarono il fratello maggiore Giuseppe e soprattutto il fratello Luciano, allora presidente del Consiglio dei Cinquecento, che con il Consiglio degli Anziani costituiva il potere legislativo della repubblica. Dalla sua Napoleone riuscì ad avere il membro del Direttorio Roger Ducos e soprattutto Emmanuel Joseph Sieyès, il celebre autore dell'opuscolo Che cosa è il Terzo Stato? e ideologo di punta della borghesia rivoluzionaria. Inoltre, dalla sua si schierò l'astutissimo ministro degli esteri Talleyrand e il ministro della polizia Joseph Fouché. Paul Barras, il membro più influente del Direttorio dopo Sieyès, conscio delle capacità di Napoleone, accettò di farsi da parte. Giova dire subito che Fouché in combutta con Talleyrand passarono al nemico della sesta coalizione informazioni preziose riguardanti la strategia di Napoleone per le sue ultime battaglie.
Fatta trapelare la falsa notizia di un complotto realista per rovesciare la repubblica, Napoleone riuscì a far votare al Consiglio degli Anziani e al Consiglio dei Cinquecento una risoluzione che trasferisse le due Camere il 18 brumaio (9 novembre) fuori Parigi, a Saint-Cloud; Napoleone fu nominato comandante in capo di tutte le forze armate. Ciò fu fatto per evitare che durante il colpo di Stato qualche deputato potesse sollevare i cittadini parigini per difendere la Repubblica dal tentativo di Napoleone. L'intenzione di Napoleone era quella di portare le due Camere a votare autonomamente il loro scioglimento e la cessione dei poteri nelle sue mani. Non fu così: il Consiglio degli Anziani rimase freddo al discorso pasticciato di Napoleone per far pressione su di esso, mentre quando Napoleone entrò nella sala del Consiglio dei Cinquecento i deputati gli si lanciarono contro chiedendo di votare per rendere Bonaparte fuorilegge.
Nel momento in cui sembrava che il colpo di Stato fosse prossimo alla catastrofe, a soccorrere Napoleone, che ebbe molte incertezze sul cosa fare, giunse il fratello Luciano, che nelle vesti di presidente dei Cinquecento, uscì dalla sala e arringò le truppe schierate all'esterno, affermando che Napoleone era stato accoltellato e ordinando che disperdessero i deputati contrari al fratello. Memorabile il momento in cui puntò la sua spada al collo di Napoleone e dichiarò: «Non esiterei un attimo a uccidere mio fratello se sapessi che costui stesse attentando alla libertà della Francia». Le truppe, in gran parte veterani delle campagne di Napoleone, al comando del cognato di quest'ultimo, il generale Charles Victoire Emmanuel Leclerc e del futuro cognato Gioacchino Murat, entrarono con le baionette innestate e dispersero i deputati. In serata, le Camere venivano sciolte e fu votato il decreto che assegnava i pieni poteri a tre consoli: Roger Ducos, Sieyès e Napoleone. Tuttavia il punto chiave del colpo di stato di brumaio non fu l’abolizione del Direttorio, il quale palesemente stava fallendo e sarebbe caduto, ma lo scioglimento di entrambe le camere del parlamento, insieme alla fine della costituzione dell’anno terzo. Il parlamento non era stato contaminato a fondo dall’impopolarità del Direttorio; i neogiacobini non rappresentavano una grande minaccia, e la nazione non si trovava in pericolo immediato. Eppure Sieyès e Napoleone riuscirono a sciogliere sia il Consiglio degli anziani sia il Consiglio dei cinquecento senza alcuna significativa reazione popolare. Dopo dieci anni di rivoluzione, molti francesi sentivano il desiderio di un’autorità, e riconoscevano che il processo parlamentare e una costituzione quasi impossibile da correggere impedivano la sua realizzazione. Quindi desideravano veder temporaneamente sospendere il governo rappresentativo affinché Napoleone e i suoi seguaci tagliassero il nodo gordiano.

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Generale Jean Étienne Championnet. Nel 1800 era comandante in capo dell'Armata delle Alpi, un'armata esistente solo sulla carta, che riuscì a creare dal nulla e a portare in battaglia in soli tre mesi. Tuttavia le sue truppe furono decimate da un'epidemia di tifo e Championnet seguì la sorte dei suoi soldati.

Di certo la pubblica opinione a Parigi era indifferente al problema se Napoleone avesse usato o no la forza per prendere il potere. Gli ufficiali dell’esercito apprezzavano l’ordine, la disciplina e l’efficienza, tutte cose che ormai Napoleone considerava più importanti della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità; in quel momento il popolo francese era d’accordo con lui. Inoltre riuscì a offrire alla Francia la storia di un successo nazionale, mentre, per usare la sua stessa espressione, «i membri del Direttorio sanno come non fare nulla per l’immaginario della nazione». Anche se le vittorie facevano parte del fascino di Napoleone, lo stesso poteva dirsi dei trattati di pace che aveva dato a un paese ormai esausto di guerra.
All’epoca, il golpe di brumaio non fu considerato un colpo di stato, anche se naturalmente lo fu; per i francesi quelle erano soltanto les journées. Nonostante l’aspetto melodrammatico degli avvenimenti, i neogiacobini si erano dimostrati un osso più duro del previsto: se la guardia del corpo legislativo avesse dimostrato un minimo di fedeltà ai cinquecento, i cospiratori avrebbero corso un grave pericolo.
Nominati consoli provvisori, i tre nuovi padroni della Francia redassero insieme a due commissioni apposite una nuova costituzione, la costituzione dell'anno VIII che, ratificata con un plebiscito popolare, legittimava il colpo di Stato. L'evoluzione della rivoluzione si stava ormai riportando verso forme di governo più aristocratico, dimostrandosi non praticabili molte delle teorie rivoluzionarie emerse nella rivoluzione. Nel pensiero politico di Sieyès, il Consolato avrebbe dovuto essere un governo dei notabili, che assicurasse la democrazia attraverso un complesso equilibrio di poteri.

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Generale Jean-Baptiste Cervoni. Partecipò alla battaglia di Eckmühl, nel corso della quale venne ucciso da una palla di cannone il 23 aprile 1809.

Prima che nelle pubbliche piazze di tutta Parigi venisse letta la costituzione dell’anno ottavo, ci furono intense discussioni in vari comitati e sottocomitati informali, costituiti dagli ex congiurati di brumaio, durante le quali la fazione di Napoleone, guidata da Luciano e Boulay, ebbe la meglio su quella di Daunou, secondo cui era necessario concentrare di più l’autorità. Napoleone fu molto aiutato dal tempestivo schieramento di Cambacérès in suo favore. Alla fine Boulay spiegò al comitato ad interim che la sua “missione” consisteva nel conferire a Napoleone poteri determinanti per dieci anni come primo console, senza alcun grande elettore a sorvegliarlo, ma con un consiglio di stato che lo affiancasse, dotato dell’unica autorità di avviare la legislatura. L’articolo 41 della nuova costituzione affermava: «Il primo console promulga le leggi; nomina e destituisce a suo piacere membri del consiglio di stato, ministri, ambasciatori e altri importanti inviati all’estero, ufficiali dell’esercito e della marina, membri delle amministrazioni locali e commissari governativi assegnati ai tribunali». Avrebbe avuto anche il potere di firmare trattati, avrebbe abitato alle Tuileries, e ricevuto 500.000 franchi all'anno; anche il secondo e il terzo console avrebbero abitato alle Tuileries, ma avrebbero percepito un onorario di 150.000 franchi annui per il loro ruolo di “foglie di fico costituzionali”.
Il consolato emanò una raffica di decreti concepiti per rendere popolare il nuovo regime e, per usare la sua stessa espressione, “completare la rivoluzione”. Versailles fu destinata ai soldati feriti; una durissima legge contro gli emigrati fu revocata, e Napoleone andò personalmente alla prigione del Tempio a liberare gli ostaggi. La polizia ricevette l’ordine di non tartassare gli emigrati rientrati; l’anniversario della presa della Bastiglia e il 1° vendemmiaio (il capodanno repubblicano) diventarono feste ufficiali. Ai feriti di guerra sarebbero state assegnate delle pensioni, come pure alle vedove e agli orfani dei soldati; i religiosi che rifiutavano di compiere il giuramento di fedeltà alla costituzione non dovevano essere più deportati. Il nuovo ministro dell'interno fu il marchese Laplace, matematico e astronomo, conosciuto in tutto il mondo scientifico.
La nomina di uno scienziato eminente come Laplace a una carica di così grande rilievo, rendeva evidente che non si trattava precipuamente di una dittatura militare solo perché Napoleone era un soldato e brumaio era stato un colpo di stato militare. Al ministero degli esteri tornò Talleyrand e solo un militare entrò nel governo, il nuovo ministro della guerra Alexandre Berthier. Fouché, come prevedibile, divenne ministro della polizia e Martin Gaudin, già alto funzionario del tesoro che aveva prestato servizio per ogni regime precedente dai tempi di Luigi XVI, fu nominato ministro delle finanze. Gaudin si mise subito all’opera per riformare il codice fiscale francese, diabolicamente complicato, e ridurre le imposte. La gestione finanziaria fu trasferita dalle autorità locali al ministero delle finanze e tutto il sistema di contabilità pubblica alla fine fu centralizzato. Napoleone istituì rapidamente un sistema centrale per il pagamento dell’esercito, fino ad allora effettuato per mezzo dei dipartimenti, classico esempio di come sapeva tagliare in due la burocrazia e realizzare senza indugio una riforma oltremodo necessaria. Napoleone avviò il processo del centralismo burocratico che attecchirà in tutta Europa, specie in Italia.
Il 13 dicembre 1799, alla riunione finale della commissione costituzionale, Napoleone invitò Sieyès a proporre i nomi dei tre consoli da presentare alla nazione nell’ambito della nuova costituzione dell’anno ottavo in un plebiscito a febbraio. Sieyès, che nel frattempo secondo le stime aveva accettato 350.000 franchi in contanti, una tenuta nei dintorni di Versailles e una casa a Parigi, propose debitamente Napoleone come primo console, Cambacérès come secondo e l’accondiscendente avvocato ed ex deputato Charles-François Lebrun, come terzo. A Sieyès venne assegnata la presidenza del senato, e a Ducos (che prese 100.000 franchi per rinunciare alla sua carica di console provvisorio) la vicepresidenza. Il secondo colpo di stato di Napoleone aveva richiesto un po’ più tempo del primo, ma, come l’altro, era avvenuto senza spargimento di sangue ed era riuscito. Anche se ci sarebbe voluto un plebiscito ufficiale, programmato per febbraio, al fine di conferire legittimità legale al consolato, Napoleone da parte sua non dubitò mai di avere il diritto morale di governare la Francia. Lo spiegò in seguito parlando di Giulio Cesare: «In tale stato di cose, simili assemblee deliberative non potevano più governare; perciò la persona di Cesare era la garanzia della supremazia di Roma nell’universo, e della sicurezza dei cittadini di tutti i partiti. Di conseguenza, la sua autorità era legittima». Nel 1799 il suo atteggiamento verso il governo della Francia era identico.
«Francesi!» proclamò Napoleone il 15 dicembre, «vi viene presentata una costituzione. Pone fine alle incertezze […] [nel]la situazione interna e militare della repubblica […] La costituzione si fonda sugli autentici principi del governo rappresentativo, sui sacri diritti di proprietà, eguaglianza e libertà […] Cittadini, la rivoluzione si fonda sui principi che le hanno dato inizio. È finita.» Porre il diritto di proprietà davanti a quelli di eguaglianza e libertà era indicativo di come Napoleone intendeva difendere gli interessi di commercianti, imprenditori. Erano la spina dorsale della Francia: lui ne comprendeva le preoccupazioni e le necessità. L’articolo 94, il penultimo della costituzione, affermava categoricamente che proprietà e terreni della monarchia, della chiesa e dell’aristocrazia requisiti e venduti durante la rivoluzione non sarebbero mai stati restituiti ai proprietari originali. Erano promesse che Napoleone avrebbe ribadito nel 1802 e nel 1804, ma senza garantire un’ulteriore redistribuzione. Quando parlava di eguaglianza, intendeva di fronte alla legge, non parità economica. Il suo sostenitore naturale più forte, l’esercito, uscì bene dal colpo di stato, con condizioni e salari migliori, pensioni e la promessa di terre. La legge che sospendeva i pagamenti ai fornitori fu revocata, e ben presto vennero ripagati del tutto.
Alla fine di dicembre furono fondate quelle che sarebbero diventate le istituzioni del dominio napoleonico. Il 22 fu inaugurato il Consiglio di stato nella sala del Lussemburgo a lui dedicata. Il Consiglio, costituito in larga parte da tecnocrati apolitici nominati dal primo console e in larga parte sotto il suo personale controllo, era il principale organo deliberativo del nuovo governo di Francia, consigliava il primo console e lo coadiuvava nella stesura delle leggi. Solo sei dei 50 membri erano militari. Purché fossero rispettosi, i membri del consiglio erano incoraggiati a usare tutta la necessaria franchezza, e Napoleone favoriva il dibattito tra di loro. In base alla nuova costituzione, il consiglio era l’ultimo tribunale d’appello per le cause amministrative e l’organo responsabile di esaminare la stesura dei bilanci prima che andassero in parlamento, funzioni che conserva ancora oggi. I ministri erano d’ufficio membri del consiglio; partecipavano alle sue riunioni quando in programma c’erano punti attinenti al loro ambito di competenza.
Il 25 dicembre 1799 (il giorno di Natale fu ufficialmente riconosciuto di nuovo soltanto nel 1802) entrò in vigore la costituzione dell’anno ottavo. Un discorso di Boulay servì da prefazione per la sua versione stampata, in cui si sosteneva che la stragrande maggioranza dei cittadini francesi voleva una repubblica che non fosse «né il despotismo dell’ancien régime, né la tirannia del 1793». La nuova costituzione, egli affermava, poteva essere riassunta nella frase: «La sicurezza viene dal basso, il potere dall’alto». In base al suo dettato, il primo console avrebbe detenuto per dieci anni il potere politico e amministrativo, e gli altri due consoli per lo stesso periodo lo avrebbero consigliato. Un Senatodi 60 uomini, i cui membri avrebbero servito “inviolabilmente e a vita” e il cui numero sarebbe aumentato di due ogni due anni fino a un massimo di 80, avrebbe scelto i consoli, i deputati del corpo legislativo di 300 persone e il Tribunato di 100 attingendo da elenchi nazionali derivati da quattro turni elettorali. Soprattutto, i proclami fatti dalla maggioranza del senato, i senatoconsulti, avevano piena forza legale, anche se all’inizio si riteneva andassero promulgati solo per modificare la costituzione.
Il Tribunato avrebbe discusso i progetti di legge formulati dal primo console e dal consiglio, ma senza potere di veto: il corpo legislativo poteva votare le leggi ma non discuterle. Il Tribunato poteva discutere le leggi che il consolato gli mandava e dire al corpo legislativo che cosa ne pensava; il corpo legislativo poteva restare in seduta non più di quattro mesi all’anno per valutarne le opinioni. Solo il Senatopoteva modificare la costituzione, ma nessuna delle tre camere aveva il potere di avviare o modificare una legislatura. Con questo sistema, Napoleone assicurava la separazione tra poteri abbastanza deboli, tenendo per sé la parte del leone. I cittadini potevano votare i deputati usciti da una selezione iniziale del corpo legislativo, anche se la scelta finale sarebbe stata fatta dal Senato. Tutti i votanti maschi adulti di una comunità avrebbero così scelto il dieci per cento del loro numero come “notabilità della comune”, che avrebbe poi scelto a sua volta il dieci per cento del loro numero come “notabilità dei dipartimenti”, che avrebbe poi scelto le 5000 o 6000 “notabilità della nazione”, tra cui sarebbero stati nominati i 400 membri del corpo legislativo e del Tribunato. Ne risultò una discreta continuità con le camere precedenti. Su 60 senatori, 38 avevano fatto parte in precedenza dell’assemblea nazionale, e su 100 tribuni, 69 erano già stati parlamentari, così come 240 deputati su 300. La loro esperienza era utile mentre Napoleone procedeva a consolidare, adeguare e, per usare un suo termine, “concludere” la rivoluzione. La mera complessità della costituzione, soprattutto il sistema della triplice votazione per eleggere la legislatura, andava perfettamente bene a Napoleone, perché gli dava ampia possibilità di frammentare l’opposizione.
La nuova costituzione abbondava di novità per placare la nazione: le autorità potevano entrare in casa di un francese senza invito solo nel caso di incendio o inondazione; il tempo massimo per cui i cittadini sarebbero stati trattenuti senza processo era di dieci giorni; la “rudezza usata negli arresti” sarebbe stata considerata reato. Il 1° gennaio 1800 (una data senza particolare significato nel calendario rivoluzionario, essendo l’11 nevoso dell’anno ottavo) il corpo legislativo e il Tribunato si riunirono per la prima volta.
Fattosi nominare Primo Console, Napoleone ricostruiva la Francia con una struttura amministrativa fortemente accentratrice ma così perfetta che è rimasta tale fino a oggi. La Francia veniva frazionata in dipartimenti, distretti e comuni, rispettivamente amministrati da prefetti, sottoprefetti e sindaci. Le casse dello Stato venivano risanate dalle conquiste di guerra e dalla fondazione della Banca di Francia, nonché dall'introduzione del franco d'argento che poneva fine all'era degli assegnati e dell'inflazione. La lunga lotta contro il Cattolicesimo si concludeva con il Concordato del 1801, ratificato da papa Pio VII, che stabiliva il Cattolicesimo «religione della maggioranza dei francesi» (benché non religione di Stato), ma non riconsegnava al clero i beni espropriati durante la rivoluzione. Nel campo dell'istruzione, Napoleone istituì i licei e i politecnici, per formare una classe dirigente preparata e indottrinata, ma tralasciò l'istruzione elementare, essendo dell'idea che il popolo dovesse rimanere in una certa ignoranza per garantire un governo stabile e un esercito ubbidiente. Il consolato di Napoleone divenne «a vita» con il plebiscito del 2 agosto 1802. Si apriva la strada all'istituzione dell'Impero napoleonico.
In meno di 15 settimane Napoleone aveva efficacemente posto fine alla rivoluzione francese, cacciato l’abate Sieyès, dato alla Francia una nuova costituzione, fondato le sue finanze su solide basi, messo la museruola alla stampa dell’opposizione, cominciato a far cessare il brigantaggio rurale e la lunga guerra in Vandea, istituito senato, Tribunato, corpo legislativo e consiglio di stato, nominato alle cariche di governo uomini di talento indipendentemente dalle affiliazioni politiche passate, respinto i Borboni, aveva avanzato a Gran Bretagna e Austria offerte di pace subito respinte, vinto un plebiscito con una maggioranza schiacciante (anche tenendo conto dei brogli), riorganizzato il governo locale francese e istituito la banca di Francia.
Il Codice napoleonico
Durante l'esilio a Sant'Elena, Napoleone sottolineò più volte che la sua opera più importante, quella che sarebbe passata alla storia più delle tante battaglie vinte, sarebbe stata il suo codice civile. Il Codice napoleonico legittimò alcune delle idee illuministiche e giusnaturalistiche, fu esportato in tutti i paesi dove giunsero le armate di Napoleone, fu preso a modello da tutti gli Stati dell'Europa continentale e ancora oggi è la base del diritto. Istituita l'11 agosto 1799, la commissione incaricata di redigere il codice civile (composta dal Secondo Console Jean-Jacques Régis de Cambacérès e da quattro avvocati), fu presieduta molto spesso dallo stesso Napoleone, il quale ne leggeva le bozze durante le campagne militari e inviava a Parigi, dal fronte, le sue idee sul progetto. Il 21 marzo 1804 il Codice Civile, immediatamente ribattezzato Codice Napoleonico, entrava in vigore.
Il Codice eliminava definitivamente i retaggi dell'Ancien Régime, del feudalesimo, dell'assolutismo monarchico, e creava una società prevalentemente borghese e liberale, di ispirazione laica, nella quale venivano consacrati i diritti di eguaglianza, sicurezza e proprietà. Tra i principi della Rivoluzione, venivano salvaguardati quelli della libertà personale, dell'uguaglianza davanti alla legge, della laicità dello Stato (già sancita dal Concordato) e della libertà di coscienza, della libertà del lavoro. Il Codice era stato però pensato e redatto soprattutto per valorizzare gli ideali della borghesia; perciò andava soprattutto a regolamentare questioni riguardanti i contratti di proprietà e la stessa legislazione riguardante la famiglia era di natura contrattualistica. La struttura familiare che il Codice consacra è di tipo paternalistico: il padre può far imprigionare i figli per sei mesi senza controllo delle autorità e amministra i beni della moglie. Veniva tuttavia garantito il divorzio, benché reso più complesso rispetto all'epoca rivoluzionaria. Per l'Italia il valore del Codice napoleonico fu fondamentale, poiché esso fu portato negli stati creati da Napoleone e confluì poi nel codice civile italiano del 1865. Di eguale valore e importanza sono anche gli altri codici: quello di procedura civile, emanato nel 1806, quello del commercio (1807), quello di procedura penale (1808) e il codice penale del 1810.
Le opposizioni
La sera del 10 ottobre 1800 Napoleone, mentre assisteva a un'opera al Théatre de la République, sarebbe dovuto cadere sotto le pugnalate di quattro sicari, ma il complotto fu sventato all'ultimo momento grazie a una soffiata, che consentì alla polizia di intervenire arrestando i quattro attentatori proprio in teatro. L'evento passerà alla storia con il nome di congiura dei pugnali. Poco dopo, la notte di Natale del medesimo anno Napoleone, la moglie ed il suo seguito scamparono miracolosamente a un attentato dinamitardo scatenatosi in Rue Saint-Nicaise a Parigi, mentre si recavano all'Opera. Napoleone ne approfittò per mettere fuori legge i giacobini, molti dei quali vennero esiliati in Guyana, e disperdere i monarchici. L'opposizione non demordeva e, oltre a un'intensa attività libellistica, si ebbe notizia di attentati in preparazione contro di lui. Infatti egli era odiato sia dai giacobini, che dopo le misure di riconciliazione nazionale, come l'amnistia generale e il diritto al rientro per i nobili emigrati per scampare al terrore, temevano volesse restaurare la monarchia, sia dai realisti, che lo consideravano come l'usurpatore del legittimo sovrano Luigi XVIII. Nel marzo 1804, per dare un segnale forte ai Borbone, che ancora complottavano per ritornare sul trono francese, Napoleone fece catturare a Ettenheim, cittadina dello stato del Baden situata presso il confine francese, il duca di Enghien, legato alla famiglia reale esiliata, che fu ingiustamente accusato di cospirazione contro il Primo Console e fucilato subito dopo. L'evento destò l'indignazione di tutte le corti europee per l'arrogante violazione della sovranità di uno stato estero da parte della Francia e per la sorte riservata al povero duca, e conferì un'ombra negativa all'immagine europea del Bonaparte, alla quale invece l'allora Primo Console teneva moltissimo. Il generale Moreau, implicato nel complotto realista ma idolo dei giacobini, venne invece condannato a soli due anni di carcere, successivamente condonati con la possibilità di espatriare negli Stati Uniti, da dove però Moreau ritornerà nel 1813 per unirsi all'esercito russo e morire durante la battaglia di Dresda.
La vittoria di Marengo e la pacificazione dell'Europa

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Napoleone sulle Alpi di Jacques Louis David

Durante l'assenza di Napoleone impegnato in Egitto, i francesi erano stati ripetutamente battuti in Italia e in Germania dagli austriaci e dai russi a Cassano d'Adda, a Novi e sul Reno. La Seconda coalizione antifrancese aveva rovesciato la Repubblica Napoletana del 1799, fondata dai francesi, quella Romana e la Repubblica Cisalpina. Il 6 maggio 1800, sei mesi dopo il colpo di Stato del 18 brumaio, Napoleone assunse il comando della cosiddetta Armata di riserva, destinata a essere trasferita in Italia per rovesciare le sorti della guerra.
Napoleone doveva scegliere il valico alpino da attraversare per raggiungere l’Italia settentrionale. Avrebbe preferito quelli più orientali, lo Splügen o il San Gottardo, in modo da poter eseguire la sua manovra favorita, la sur le derrière, ma la velocità dell’avanzata austriaca verso ovest attraverso l’Italia settentrionale lo costrinse a scegliere tra i 2700 metri del Gran San Bernardo e i 2350 del Piccolo San Bernardo. Il Piccolo San Bernardo era troppo a ovest, quindi Napoleone vi mandò soltanto una divisione e decise che il grosso dell’esercito sarebbe passato dal Gran San Bernardo. Mandò anche una divisione al comando del generale Adrien Moncey al passo del San Gottardo. Contava sull’elemento della sorpresa: nessuno aveva mai fatto attraversare le Alpi a un esercito dai tempi di Carlomagno, e di Annibale prima di lui. Anche se Napoleone non avrebbe viaggiato con gli elefanti, doveva far superare una catena montuosa a cannoni i cui fusti pesavano oltre 25 quintali. I primi di maggio, quando iniziò l’avanzata, la neve era ancora alta sul terreno, quindi Marmont inventò delle slitte per i fusti fatte di tronchi d’albero cavi, trascinati su per le Alpi e poi giù dall’altra parte, al rullo dei tamburi, da 100 uomini alla volta. Furono mandati avanti soldi e rifornimenti a monasteri e locande lungo il percorso, e vennero assunte guide locali che dovettero giurare la segretezza. Napoleone, Berthier e dopo il 2 aprile Carnot, che era stato nominato ministro della guerra quando Napoleone aveva mandato Berthier all’Armata di riserva, organizzarono insieme, nei minimi dettagli, un’operazione che sarebbe diventata una delle meraviglie della storia militare. «Ovunque possano metter piede due uomini, un esercito può sempre passare, e in qualsiasi stagione», disse Napoleone al generale Dumas, che era scettico.
Il 17 marzo Napoleone convocò una riunione dei consoli, come faceva quasi tutti i giorni in quell’epoca, una seduta del consiglio di stato, come faceva ogni paio di giorni, e poi una seduta di strategia militare con il suo capocartografo, il generale Bacler de l’Albe; stava in ginocchio su enormi carte del Piemonte aperte sul pavimento e coperte di spilli con la capocchia di ceralacca rossa e bianca, a indicare la posizione degli eserciti. Durante la riunione di strategia, a quanto pare, chiese a Bourrienne dove riteneva che si dovesse combattere la battaglia decisiva. «Come diavolo faccio a saperlo?» rispose il suo segretario privato, che aveva frequentato l’accademia militare di Brienne. «Ma come, guardate qui, sciocco», disse Napoleone indicando il terreno pianeggiante dello Scrivia nei pressi di San Giuliano Vecchio, e spiegando come ipotizzava che avrebbe manovrato Melas quando i francesi avessero attraversato le Alpi. Fu proprio in quel punto che tre mesi dopo si combatté la battaglia di Marengo.
Il 19 aprile i 24.000 uomini al comando del generale austriaco Karl von Ott posero sotto assedio Genova, dove si trovavano Masséna e 12.000 uomini. In città c’era poco, perché era stata posta sotto blocco dalla Royal Navy. Il tenente Marbot ricordava che nelle settimane successive dovettero alimentarsi di un “pane” che era «un’orribile mistura di farina cattiva, segatura, amido, cipria per capelli, avena, semi di lino, noci rancide e altre orribili sostanze, a cui veniva data una qualche consistenza con un po’ di cacao». Il generale Thiébault lo paragonava a torba mista a olio. Erba, aghi di pino e foglie venivano bolliti con il sale, tutti i cani e i gatti furono mangiati, e «i topi venivano ceduti a caro prezzo». Migliaia di civili e militari cominciarono a morire di inedia e per le malattie associate alla malnutrizione. Ogniqualvolta quattro o più genovesi si riunivano insieme, i soldati francesi avevano ordine di sparare loro per timore che cedessero il porto.
Napoleone fremeva per il desiderio di agire, e il 25 aprile scrisse a Berthier: «Il giorno in cui, o a causa degli eventi in Italia o di quelli sul Reno riterrete che sia necessaria la mia presenza, partirò un’ora dopo aver ricevuto la vostra lettera». Per placare la speculazione e affrontare i problemi logistici più generali della campagna imminente, Napoleone risiedeva alla Malmaison e a Parigi, e passava in rassegna le sue truppe peggio equipaggiate in bella vista, a favore di popolino (e spie austriache); la sera di lunedì 5 maggio andò all’opera. Il bilancio complessivo della guerra sembrava spostato verso il teatro tedesco, dove Moreau aveva forze superiori e procedeva bene; infatti il 25 aprile aveva attraversato il Reno, e Napoleone in privato si era congratulato con lui, in tono caloroso e quasi deferente. Per quanti non erano addentro ai reali equilibri di forze, forse poteva sembrare che Napoleone fosse il grande elettore e Moreau il suo console per la guerra.
Poi Napoleone colpì. Lasciò Parigi alle due del mattino, appena poche ore dopo la fine dell’opera, arrivando la mattina seguente a Digione, e il 9 maggio alle tre di notte a Ginevra. Lì si fece notare in parate e riviste militari, e fece sapere che stava andando a Basilea, benché l’avanguardia, costituita dalla divisione del generale François Watrin, stesse già cominciando l’ascesa verso il passo del Gran San Bernardo, seguita dalle forze al comando di Lannes, Victor e del generale Philibert Duhesme. Napoleone trattenne con sé la guardia consolare di Bessières e la cavalleria di Murat. Era stato un inverno rigido, e la pista, poiché fino al 1905 non vi era strada per arrivare al San Bernardo, era ghiacciata e coperta di neve alta; Napoleone invece ebbe molta fortuna con il tempo, che prima del 14 maggio, quando l’esercito partì per valicare le Alpi, era assai peggiore, e peggiorò di nuovo quando le ebbe superate, 11 giorni dopo (metà del tempo impiegato da Annibale). Solo un cannone su quaranta andò perduto a causa di una valanga. «[Il passo] non ha mai visto un esercito così grande dai tempi di Carlomagno», scrisse Napoleone a Talleyrand il 18; «voleva soprattutto bloccare il passaggio del nostro armamento pesante da campagna, ma finalmente metà della nostra artiglieria si trova ad Aosta.» Napoleone non guidò il suo esercito sulle Alpi, ma lo seguì dopo che erano stati risolti i più importanti problemi logistici: viveri, munizioni e muli. Teneva sempre sotto pressione i commissari ordinatori, con avvertimenti tipo: «Rischiamo di morire nella valle d’Aosta, dove ci sono soltanto fieno e vino». Lui compì la tratta più difficoltosa, a Saint-Pierre, il 20 maggio, quando ormai Watrin e Lannes erano penetrati di 60 chilometri in Piemonte.

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Ritratto di Charles Maurice de Talleyrand Périgord (Francois Gerard)

Nel complesso, attraversarono le Alpi 51.400 uomini, con 10.000 cavalli e 750 muli. In alcuni punti procedevano in fila indiana, e dovevano partire ogni giorno all’alba per limitare il rischio di valanghe dopo il sorgere del sole. Quando raggiunsero l’imponente Forte Bardo all’ingresso della valle d’Aosta, che domina una stretta gola in alto sulla Dora Baltea, 400 ungheresi al comando del capitano Joseph Bernkopf resistettero per 12 giorni, impedendo l’avanzata di quasi tutte le armi pesanti di Napoleone, cioè i cannoni, 36 cassoni e 100 altri veicoli, che perciò rimasero molto indietro, scombinando gravemente la campagna militare. Alcuni carri riuscirono a passare di notte, dopo aver seminato sulla la pista paglia e letame e coperto le ruote per attutire il rumore, ma gli altri proseguirono solo il 2 giugno, quando si fece breccia in diversi punti delle mura e il forte cadde, con un costo per Bernkopf di metà dei suoi uomini. A causa del ritardo accumulato a Forte Bardo, Napoleone dovette proseguire con una grave penuria di artiglieria e munizioni, e setacciare la Lombardia e la Toscana per requisire tutto quello che poteva.
Il 22 maggio Lannes aveva occupato Ivrea, e il Piemonte giaceva davanti all’esercito francese, ma secondo i rapporti ricevuti da von Melas (che nel frattempo aveva conquistato Nizza) nella valle d’Aosta c’erano 6000 francesi soltanto. Napoleone aveva consentito a Melas di occupare Nizza, per attirare gli austriaci sempre più a ovest prima di sferrare il suo colpo. Il 24 era ad Aosta con 33.000 uomini, e la divisione di Moncey, forte di 12.500, stava per arrivare. «Qui abbiamo colpito come il fulmine», scrisse Napoleone a Giuseppe che faceva parte del corpo legislativo a Parigi: «Il nemico non si aspettava niente del genere e quasi non riesce a crederci. Stanno per accadere grandi cose». Fu in questa fase della campagna a rivelarsi di nuovo la pura spietatezza che contribuiva a fare di Napoleone un comandante così formidabile. Invece di avanzare verso sud per liberare Genova affamata, come i suoi uomini, e anche i suoi generali in comando presumevano lo avrebbe fatto, svoltò a est verso Milano per impadronirsi dell’enorme scorta di provviste presente in città e tagliò la linea di ritirata di Melas verso il Mincio e Mantova. Ordinò a Masséna di resistere il più a lungo possibile, così da poter impegnare la forza d’assedio di Ott, e in questo modo ingannò Melas, il quale aveva dato per scontato che Napoleone avrebbe tentato di salvare Genova, e quindi, partendo da Nizza era tornato da Torino ad Alessandria per cercare di intercettare Napoleone.
Il 2 giugno Melas ordinò a Ott di levare l’assedio a Genova per concentrare il suo esercito. Ott ignorò i suoi ordini, perché Masséna aveva appena chiesto le condizioni di resa. Alle sei e mezzo di sera dello stesso giorno Napoleone entrò a Milano da porta Vercellina sotto una pioggia battente, e si insediò nel palazzo arciducale, restando alzato fino alle due del mattino per dettare lettere, ricevere l’ex reggente della Repubblica cisalpina, Francesco Melzi d’Eril, istituire un nuovo governo della città e liberare i prigionieri politici incarcerati dagli austriaci, che si servivano di Milano come del loro quartier generale in zona. Lesse anche i dispacci intercettati, provenienti da Vienna e indirizzati a Melas: ebbe dunque informazioni sulle forze nemiche, le loro posizioni e il morale delle truppe. Moncey raggiunse Napoleone a Milano con la sua divisione, ma con pochi cannoni e poche munizioni. Nel frattempo Lannes entrò a Pavia. Con gran divertimento di Napoleone fu intercettata una lettera di Melas alla sua amante che si trovava a Pavia, in cui le diceva di non preoccuparsi, perché non era possibile che un esercito francese comparisse in Lombardia.
Genova si arrese il 4 giugno; nel frattempo 30.000 dei suoi 160.000 abitanti erano morti di inedia o per le malattie associate alla denutrizione, così come 4000 soldati francesi. Altri 4000, abbastanza in forze per camminare, furono autorizzati a tornare in Francia con gli onori militari, e altri 4000 malati e feriti furono trasportati in Francia dalle navi della Royal Navy al comando dell’ammiraglio lord Keith, che aveva posto il blocco al porto, ma comprendeva il vantaggio di allontanare così tanti francesi dal teatro della guerra. La salute di Masséna era compromessa, anche perché aveva insistito per mangiare soltanto quello che mangiavano i suoi uomini. Non perdonò mai a Napoleone di non averlo soccorso. Da parte sua Napoleone, che non fu mai assediato in tutto il corso della sua carriera, criticò Masséna per non aver resistito altri dieci giorni, ricordando quando era in esilio a Sant’Elena: «Magari qualche vecchio e qualche donna sarebbero morti di fame, ma non doveva cedere Genova. Se si pensa all’umanità, sempre all’umanità, bisognerebbe smettere di andare in guerra. Io non so come va condotta una guerra all’acqua di rose».

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André Masséna, duca di Rivoli, principe d'Essling, maresciallo di Francia

Condannò Masséna persino nelle sue memorie, mettendo a confronto le sue azioni a quelle dei galli sotto Vercingetorige quando furono assediati da Cesare ad Alesia. Se in effetti Masséna fosse riuscito a resistere un’altra decina di giorni, forse Ott non sarebbe arrivato in tempo al campo di battaglia di Marengo.
Napoleone puntava a poste più alte di una singola città: voleva uccidere o catturare tutti gli austriaci a ovest di Milano. Fu la resistenza di Genova a consentirgli di arrivare alle spalle di Melas, il quale dovette perciò rinunciare al suo progetto di occupare Tolone insieme all’ammiraglio Keith e in qualche modo fu costretto a tornare a est per ripristinare le linee di comunicazione danneggiate. Piacenza e Valenza erano ora gli ultimi importanti punti per attraversare il Po che non si trovassero in mani francesi, quindi Melas inviò diverse colonne verso entrambe le città.
A Milano, Napoleone interrogò delle spie, che facevano il doppio (o forse triplo) gioco, come l’agente Francesco Toli, riguardo alle disposizioni degli austriaci. Il 4 giugno andò alla Scala, dove fu accolto da un’ovazione immensa, e quella notte dormì con la prima donna più famosa, la bella cantante ventisettenne Giuseppina Grassini; Berthier lo trovò a fare la prima colazione con lei la mattina dopo.
Melas aveva tre strade per la salvezza: attraverso Piacenza e lungo la riva meridionale del Po, verso Genova, con un’evacuazione via mare grazie alla Royal Navy, oppure attraversando il Ticino a Pavia. Il 9 giugno, tornato in campo, Napoleone tentò di bloccarle tutte e tre, ma per farlo dovette violare il suo primo principio bellico: la concentrazione delle forze. Quel giorno Lannes sconfisse Ott tra Montebello e Casteggio, costringendo gli austriaci a ritirarsi verso ovest oltre lo Scrivia, ad Alessandria, dove si unirono a Melas.
Nei tre giorni successivi, Napoleone rimase in attesa a Stradella per comprendere le intenzioni di Melas. La sera dell’11 giugno la trascorse a parlare con Desaix che era arrivato dall’Egitto proprio in tempo per lo scontro imminente, seppure senza i suoi uomini, poiché aveva approfittato di un breve armistizio con i britannici firmato da sir Sidney Smith ma non ratificato dal governo britannico. Il mese prima Napoleone aveva scritto a Desaix della loro amicizia: «Un’amicizia che il mio cuore, ormai molto vecchio e profondo conoscitore degli uomini, non nutre per nessun altro». Diede immediatamente a Desaix un corpo d’armata costituito dalle divisioni di Monnier e Boudet.


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Louis Charles Desaix, che Napoleone considerava amico fraterno, di Andrea Appiani


Alle dieci del mattino del 13 giugno Napoleone andò a cavallo a San Giuliano Vecchio. Aveva davanti i campi circostanti Marengo, circa quattro chilometri a est di Alessandra nei pressi della confluenza tra il Tanaro e la Bormida. A Marengo convergono tre strade, oltre le quali c’è un ponte sul Bormida che porta ad Alessandria: una doppia ansa del Bormida creava una posizione di testa di ponte naturale. I paesi di Castel Ceriolo, Marengo e Spinetta costeggiano il Bormida; sei chilometri più a est c’è San Giuliano. La zona tra il Bormida e Marengo era interrotta da vigne, case, fattorie e alcuni acquitrini, ma più in là il terreno pianeggiante era così vasto e piatto che uno storico militare, il colonnello Henri de Jomini, il quale anni dopo fu assegnato allo stato maggiore di Napoleone, lo definiva uno dei pochi posti in quella parte d’Italia dove le masse della cavalleria potessero attaccare a piena velocità. Nella pioggia battente di quel 13 giugno, i pochi uomini della cavalleria francese (di solito stimati in 3600) non riuscirono a esplorare per bene lo spiazzo di 365 chilometri quadrati e si limitarono ad accompagnare la fanteria che marciava verso Tortona. Fu un errore che pagarono caro.
Un’ora dopo essere arrivato a San Giuliano, Napoleone fu informato che Melas si accingeva ad andare a Genova. Sembrava che avesse del tutto abbandonato la pianura e tenesse Marengo solo per coprire la ritirata. Napoleone lasciò la divisione di Lapoype a nord del Po con il compito di impadronirsi dell’attraversamento di Valenza, e consentì a Desaix di prendere la divisione di Boudet e di dirigersi a Novi per intercettare Melas. Victor, al comando di un corpo d’armata di avanguardia, ricevette l’ordine di prendere Marengo; alle cinque di sera il generale Gaspard Gardanne attaccò circa 3000 austriaci che vi si trovavano. Mentre il generale Achille de Dampierre si avvicinava da sud, Gardanne caricò il paese. La pioggia scrosciante per un po’ rallentò l’azione, riempiendo ruscelli e fiumi prima che i francesi occupassero il paese, prendendo due cannoni e un centinaio di prigionieri. Anche se gli austriaci alle sette di sera riuscirono a fermare l’inseguimento francese con un energico cannoneggiamento dall’altra parte del Bormida, che proseguì sino alle dieci, i francesi presunsero che non avessero intenzione di combattere il giorno dopo. Non si vedevano fuochi di bivacco e le pattuglie francesi con i loro picchetti (fanteria) e le vedette (cavalleria) non riferirono di alcuna attività inconsueta, quindi il giorno dopo Napoleone non si aspettava l’importante contrattacco di Melas sul fiume. Spesso l’attività informativa era frammentaria. Le pattuglie della cavalleria, che contavano i soldati in lontananza con i telescopi, spesso in situazioni rischiose, non potevano dare informazioni esatte; in questo caso in mezzo c’era anche un fiume.
Napoleone interrogò i disertori, tra cui un ufficiale emigrato che, «con notevole onestà», portava la croce borbonica di san Luigi; Petit ricordava: «Tutti i prigionieri erano sbalorditi quando venivano a sapere che la persona con cui avevano appena parlato era Bonaparte». Ma nulla di quanto gli fu detto lo indusse a sospettare che la retroguardia austriaca avesse invertito in segreto la marcia e fosse stata raggiunta dal resto dell’esercito, o che Melas avesse deciso di sfruttare il suo vantaggio numerico di cavalleria e fanteria su Napoleone per attaccare in forze. Quindi la mattina di sabato 14 giugno 1800 Napoleone aveva sul campo di battaglia di Marengo solo 15.000 uomini circa, ripartiti in tre divisioni di fanteria e due brigate di cavalleria. Monnier e la guardia consolare erano a 12 chilometri buoni di distanza, intorno alla fattoria di Torre Garofoli, circa sei chilometri a est lungo la strada principale proveniente da San Giuliano; Napoleone vi aveva trascorso la notte e dal campanile della chiesa cinquecentesca di Sant’Agnese aveva esaminato il terreno.
Victor era a Marengo, ma Desaix, poco convinto che von Melas stesse andando verso Genova, si trovava più indietro diretto, molto lentamente, a Novi, e Lapoype stava marciando verso la riva settentrionale del Po.
Il Bormida ha sponde molto scoscese, ma la notte del 13 gli austriaci costruirono dei ponti galleggianti e li fissarono nei punti stabiliti, istituirono teste di ponte e poi dormirono senza accendere fuochi per non dare indizi ai francesi sulla loro posizione e sul numero dei loro effettivi. Alle quattro e mezzo del mattino, quando sorse il sole di una giornata che sarebbe stata torrida, 15.000 soldati francesi con 15 cannoni soltanto affrontarono le forze austriache: 23.900 uomini di fanteria, 5200 di cavalleria e 92 cannoni.31 Ma nemmeno all’alba Victor diede un quadro preciso a Napoleone, il quale si rese conto della gravità della situazione alle nove del mattino, quando l’artiglieria austriaca aprì il fuoco, e i picchetti di Gardanne vennero ricacciati indietro. Forse un precoce ed energico attacco francese alla testa di ponte avrebbe potuto evitare che gli austriaci effettuassero lo spiegamento, ma alle nove era ormai impossibile. Se gli austriaci si fossero semplicemente lanciati avanti a mano a mano che le unità attraversavano il ponte, invece di perdere un’ora per mettersi in formazione e avanzare insieme, avrebbero potuto sopraffare Victor. Un'importante sconfitta a Marengo avrebbe potuto rovesciare il consolato, perché a Parigi Sieyès e altri stavano già tramando.
Murat ordinò alla brigata di cavalleria di François-Étienne Kellermann (figlio del vincitore di Valmy) di avanzare da San Giuliano, mentre Berthier, che aveva un’ottima visuale da una collinetta a Cascina Buzana, ordinò a Victor di opporre una strenua resistenza, e mandò a dire a Napoleone di portare le truppe di Torre Garofoli il più in fretta possibile. Alle nove e mezzo Gardanne si trovava sotto un pesante fuoco di artiglieria, ma, dato che i francesi combatterono la battaglia in linea, le loro perdite furono ridotte al minimo. Lo scontro a fuoco infuriò per due ore, con i francesi che sparavano assiduamente a raffiche di plotone; i sei battaglioni di Gardanne però erano bombardati dai cannoni austriaci e dovettero arretrare lentamente al torrente Fontanone. La piccola forza di Dampierre, ben protetta in fossi e burroni alla destra degli austriaci, fu sopraffatta solo alle sette di sera, quando si arrese perché aveva finito le munizioni ed era circondata dagli ussari.
Il 14 giugno alle dieci Napoleone aveva già ordinato a Lannes di dirigersi verso Cascina La Barbotta per puntellare il fianco destro di Victor. Cantando la Marsigliese, la 6a semibrigata leggera e la 22a di linea sferrarono diversi attacchi respingendo gli austriaci oltre il Fontanone, gonfio per la pioggia della notte precedente. «Gli austriaci si batterono come leoni», ammise in seguito Victor. I francesi non vollero lasciare la linea del Fontanone quando gli austriaci contrattaccarono. A mezzogiorno la linea francese, bombardata da 40 cannoni e sotto l’incessante fuoco dei moschetti, stava restando a corto di munizioni. «Bonaparte avanzava ed esortava al coraggio e alla fermezza tutti i corpi d’armata che incontrava», ricordava Petit. «Era evidente che la sua presenza li rianimava.»

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Generale François Étienne Kellermann. Considerato il miglior generale di cavalleria dell'esercito di Napoleone.

A quel punto l’arciduca austriaco Giuseppe, fratello minore dell’arciduca Carlo, attraversò il Fontanone con la sua fanteria poichè le sponde erano troppo ripide per la cavalleria o l’artiglieria. I francesi non riuscirono a respingerlo e i suoi uomini cominciarono a costruire un ponte a traliccio, coperti dalla mitraglia dell’artiglieria che flagellava la brigata francese mandata a fermarli. Alle due del pomeriggio ormai Marengo era caduta: gli austriaci avevano messo in campo 80 cannoni, stavano attraversando il Fontanone in diversi punti e la divisione di Gardanne era distrutta, messa in fuga dal campo di battaglia, ma solo dopo avere dato tre ore e mezzo di respiro a Napoleone per organizzare il suo contrattacco. Solo la brigata di cavalleria di Kellermann, ritirandosi con cura squadrone dopo squadrone, dissuase gli austriaci dallo scatenare la loro, di cavalleria, che aveva la superiorità numerica. Mentre gli austriaci si disponevano in linea di battaglia oltre Marengo, Victor fu costretto a ritirarsi fino quasi a San Giuliano prima di poter riformare i ranghi; lo fece una volta arrivato in pianura, disponendo gli uomini a quadrato e subendo gravi perdite a causa di una batteria di 15 cannoni che gli austriaci avevano portato molto avanti.
Nel frattempo Lannes, con il fianco destro ripiegato e a corto di munizioni, fu costretto a porsi sulla difensiva di fronte all’avanzata della fanteria di Ott. Senza artiglieria, quasi circondato e bombardato dai cannoni nemici, ordinò una ritirata in pianura a poco più di un chilometro l’ora, arretrando a scaglioni con un movimento disciplinato ma costoso in termini di vite umane davanti ai cannoni austriaci. Napoleone, che ormai disponeva soltanto della divisione di Monnier e della guardia consolare come riserva, alle undici del mattino aveva mandato un messaggio disperato a Desaix dicendogli di tornare il più presto possibile con la divisione di Boudet. «Avevo pensato di attaccare il nemico, invece è stato lui ad attaccare me», diceva il suo messaggio. «In nome di Dio, tornate se ancora potete.» Per fortuna del consolato di Napoleone, Desaix non era molto lontano, come Napoleone immagginava. All’una mandò indietro un messaggero per dire a Napoleone di aspettarlo intorno alle cinque del pomeriggio. Lui e Boudet dovettero fermare la divisione, farle fare dietrofront e riportarla indietro di otto chilometri nell’intensa calura, nel frastuono dei cannoni, e ci riuscirono appena in tempo. Un messaggio analogo di Napoleone per richiamare Lapoype da molto più lontano gli arrivò soltanto alle sei di sera, quando ormai era troppo tardi.
Alle due del pomeriggio, quando Napoleone e Monnier giunsero sul campo di battaglia, la situazione non avrebbe potuto essere più grave: i francesi stavano ritirandosi lentamente al centro ed erano in rotta sulla sinistra e seriamente minacciati sulla destra. Napoleone sapeva di dover difendere la strada di Tortona, ma non poteva farlo frontalmente, quindi schierò le sue riserve sulla destra. Si poteva fare affidamento su Lannes, avrebbe difeso quella linea, che in caso di necessità poteva essere usata come via di ritirata alternativa. Il problema principale era Ott: veniva trattenuto da 600 uomini appena. Per aiutare a disimpegnare Lannes, Monnier inviò il generale Claude Carra Saint-Cyr e 700 uomini della 19a semibrigata leggera a Castel Ceriolo, difesa a malapena, mentre la 70a semibrigata di linea si mosse per sorprendere Ott alle spalle, mentre la 72a di linea veniva tenuta di riserva. In un primo momento Ott venne respinto nelle paludi della Bormida, ma dopo uno scontro a fuoco di un’ora con Saint-Cyr riconquistò il paese.
Perciò per Melas non era proprio il momento di abbandonare il campo di battaglia, tornare ad Alessandria, annunciare a Vienna una vittoria e ordinare al suo vice di prendere il suo posto, conquistare San Giuliano e mandare la cavalleria all’inseguimento dei francesi in rotta. Ma, per quanto possa stupire, fece proprio così.
Alle tre del pomeriggio, mentre un altro contingente austriaco di cavalleria scendeva in piano per minacciare il fianco di Lannes, Napoleone decise di impegnare 900 fanti della guardia consolare, che vennero schierati in colonna tra La Poggi e Villanova e cantavano “On va leur percer le flanc” (Bucheremo loro il fianco). In seguito la 96a semibrigata di linea disse di aver salvato la situazione perché aveva condiviso le sue munizioni mentre avanzava. Quando un reggimento di dragoni di Ott caricò i francesi, essi formarono un quadrato, e lo respinsero aiutati dai loro scaramucciatori e da quatto cannoni reggimentali. Poi la guardia fu attaccata dalla fanteria, con cui per 40 minuti scambiò raffiche a una portata di 50-100 metri; quel giorno vennero uccisi 260 uomini della guardia, e più o meno altrettanti rimasero feriti. Sventò tre cariche di cavalleria ma, quando la fanteria austriaca sistemò le baionette e attaccò a testa bassa, fu costretta a ritirarsi combattendo in quadrato verso La Poggi. Questo sacrificio della guardia tuttavia procurò il tempo di cui aveva bisogno Monnier per completare le sue manovre, che a loro volta diedero all’esercito in generale il tempo per riorganizzarsi. In seguito Napoleone parlò della “fortezza di granito” che era stata la guardia consolare quel giorno, conferì 24 decorazioni alla sua fanteria, 18 alla sua cavalleria e otto alla sua artiglieria.
Alle quattro del pomeriggio ormai sia la guardia consolare sia la divisione di Monnier stavano ritirandosi con disciplina mentre gli austriaci si avvicinavano a San Giuliano. I francesi arretrarono in buon ordine, un battaglione alla volta, continuando a combattere mentre si muovevano. Fu una vera e propria prova di controllo non cedere alla tentazione di rompere i ranghi in quelle circostanze, e diede i suoi risultati. La giornata continuò molto calda, senza acqua, con scarso supporto dell’artiglieria e i prolungati attacchi della cavalleria austriaca, ma le unità si ritirarono regolarmente dalle nove e mezzo alle quattro per oltre otto chilometri, senza mai rompere i ranghi.
Napoleone dispensava incoraggiamenti senza perdere la calma, e trasudava autorevolezza «con il suo consueto sangue freddo», come disse una delle sue guardie; riuscì a fare in modo che la fanteria, la cavalleria e la sua misera artiglieria si sostenessero a vicenda. «Il console sembrava sfidare la morte da vicino, poiché più di una volta si videro pallottole conficcarsi nel terreno tra le zampe del suo cavallo», ricordava Petit. Ormai aveva completamente utilizzato le sue riserve, gli restavano soltanto 6000 uomini della fanteria su un fronte di otto chilometri, con 1000 effettivi di cavalleria e solo sei cannoni utilizzabili; inoltre il suo esercito era esausto, disperatamente assetato, a corto di munizioni e con un terzo degli uomini fuori combattimento; e tuttavia si comportava come se la vittoria fosse certa. Riusciva persino a essere allegro.
Mentre una fitta massa di fanteria austriaca si accingeva ad avanzare, Napoleone ordinò a Berthier di organizzare una ritirata sicura mentre lui andava a villa Ghilina a cercare di individuare Desaix dal tetto. Vedendo la polvere sollevata dalla colonna di Desaix, le andò incontro a cavallo per farla affrettare, e poi subito revocò l’ordine di ritirata a Berthier. Vedendo arrivare Desaix a cavallo un po’ davanti ai suoi uomini che erano a piedi, l’esercito si rincuorò. Quando Boudet giunse a San Giuliano, e Lannes, Monnier e Watrin fecero disporre i loro uomini su una specie di linea di battaglia, gli austriaci fermarono le loro colonne e cominciarono a schierarsi il linea per quello che pensavano sarebbe stato l’ultimo assalto trionfante. «Per oggi siamo arretrati abbastanza», dichiarò Napoleone nella sua arringa agli uomini. «Soldati, ricordate che ho l’abitudine di bivaccare sul capo di battaglia!»
Mettendo in campo i sei cannoni ancora utilizzabili, integrati dai cinque della riserva e dagli otto di Boudet, ora Marmont aveva una batteria rispettabile da collocare in posizione lievemente elevata. Boudet schierò sulla strada principale i suoi 4850 effettivi di fanteria in ordine misto, in parte nascosti da siepi e vigne. Napoleone cavalcava lungo la linea incoraggiando gli uomini; ora aveva 11.000 uomini di fanteria e 1200 di cavalleria per il suo tanto atteso contrattacco.
Alle cinque di sera, quando gli austriaci avanzarono, il fronte dei loro reggimenti centrali fu dilaniato dal fuoco di mitraglia della batteria di Marmont. Come a Rivoli, una palla fortunata colpì un carro di munizioni che esplose e provocò il caos. Gli austriaci indietreggiarono bruscamente e l’effetto traumatico fu grave, soprattutto quando la divisione di Boudet avanzò contro di loro. Poco dopo, gli austriaci presero a caricare con forza, costringendo Boudet sulla difensiva; ma proprio mentre poco meno di 6000 fanti austriaci sparavano una raffica di moschetto e poi caricavano alla baionetta, Kellermann lanciò la sua cavalleria, che si era avvicinata tra gli alberi nascosta tra le vigne. Gli austriaci avevano i moschetti scarichi quando 400 uomini del 2° e del 20° reggimento di cavalleria si schiantarono sul fianco sinistro della colonna centrale di granatieri ungheresi. Il 2° cavalleria sciabolò tre battaglioni, prendendo 2000 prigionieri e mettendo in fuga 4000 uomini. Immediatamente dopo, Kellerman fece voltare i 200 uomini che erano stati nelle retroguardia dell’ultima carica e attaccò circa 2000 uomini della cavalleria austriaca, che erano rimasti inattivi, mettendo in rotta anche loro.
Quindi l’esercito francese avanzò su tutto il fronte. Fu in quel momento di trionfo che Desaix fu colpito al petto e ucciso. «Perché non mi è consentito piangere?» disse Napoleone affranto apprendendo la notizia, ma doveva concentrarsi sulla direzione dell’assalto successivo. I seguenti attacchi di Kellerman fecero sì che la cavalleria austriaca finisse per caricare la sua stessa fanteria, gettarono nel caos le forze nemiche e consentirono a Lannes, Monnier e alla guardia consolare di completare la vittoria avanzando su tutti i fronti. «Il destino di una battaglia è il risultato di un solo istante; un pensiero», avrebbe detto in seguito Napoleone parlando di Marengo. «Viene il momento decisivo, una scintilla morale si accende e la più piccola riserva consegue una vittoria.» Le truppe austriache, che si erano battute con coraggio tutto il giorno, crollarono semplicemente per il trauma e la tensione di vedersi soffiare la vittoria, e fuggirono in disordine ad Alessandria.
Quando la notizia di Marengo giunse a Parigi, i titoli di stato che sei mesi prima valevano 11 franchi, e subito prima della battaglia 29, balzarono a 35 franchi. Dopo la battaglia, il 22 giugno, Napoleone ordinò a Masséna di «saccheggiare e bruciare il primo paese che si rivolti in Piemonte» e il 4 novembre disse a Brune: «Tutti gli stranieri, ma soprattutto gli italiani, di tanto in tanto vanno trattati con severità». Ma ora che gli austriaci erano stati espulsi per la seconda volta, l’Italia settentrionale fu pacificata in fretta con pochissimi atti di repressione, e sarebbe rimasta calma per i 14 anni successivi. Marengo confermò Napoleone nella sua posizione di primo console, e incrementò il mito della sua invincibilità.
A Marengo Napoleone aveva fatto lavorare in perfetto concerto fanteria, artiglieria e cavalleria; comunque la fortuna aveva giocato un ruolo essenziale nella vittoria, ottenuta in larga parte per lo sconcerto provocato dall’arrivo di Desaix sul campo proprio nel momento psicologicamente giusto, e lo straordinario tempismo delle cariche di cavalleria di Kellermann. I francesi riconquistarono in un’ora il terreno pianeggiante che gli austriaci avevano impiegato otto ore a occupare. I coscritti francesi, guidati dai veterani, si erano comportati molto bene.

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La battaglia di Marengo

Il giorno dopo la battaglia, Napoleone scrisse agli altri consoli: «Provo il più profondo dolore per la morte di un uomo che amavo e rispettavo moltissimo». Trasferì Savary e l’altro aiutante di campo di Desaix, Jean Rapp, nel suo stato maggiore in segno di rispetto.
Giova rimarcare che il destino di Napoleone sembrava concluso quel 14 giugno 1800 nel villaggio piemontese di Marengo. Il giovane Primo Console aveva attraversato le Alpi con l’esercito, come Annibale, era entrato a Milano, aveva vinto a Montebello contro il generale Ott von Bátorkéz e sperava che l’avversario austriaco, barone Melas, fosse facile preda. Davanti alla fattoria di Marengo Bonaparte non ha dubbi, fiducioso nella dottrina militare di mobilità, sorpresa, manovra indiretta, cariche alla baionetta, opposta alla rigida sintassi della guerra classica, quadrati e le linee di fanteria, cariche di cavalleria prevedibili come un palio. Michael Friedrich Benedikt Baron von Melas ha 71 anni, combatte da quando ne aveva 17 e detesta Napoleone. Vuol batterlo a Marengo e restaurare l’ordine di Dio e Corona sradicato nel 1789. Il futuro imperatore non crede invece che l’anziano barone osi attaccarlo, e si persuade che le prime cariche austriache siano astuti diversivi per coprire la ritirata. Ordina quindi al generale Louis Charles Antoine Desaix, 31 anni, di allontanarsi all’inseguimento di Melas. Napoleone sbaglia. L’attacco di Melas è autentico. Il generale francese Berthier respinge per due volte gli austriaci sul torrente Fontanone e chiama il generale Lannes a sostegno. Non basta. La pressione aumenta tra artiglieria e fucilate. Alle 2 e 30 i francesi sono esausti, gli austriaci sfondano. Von Bátorkéz, che vuole vendicare Montebello in quella che sarà la sua ultima battaglia, occupa Castel Ceriolo, i dragoni si ritirano e la fattoria di Marengo cade, attaccata da Melas. Va avanti la Guardia consolare, si ritirano i fanti di Berthier verso San Giuliano Vecchio. Napoleone ordina avanti il poco che ha di riserva, guarda con ansia le posizioni di Kellerman. Richiama al galoppo il generale Desaix, carta disperata, dovrebbe essere già lontano dietro il fantasma di Melas. Ma il generale Desaix è uomo straordinario, Napoleone lo stima «migliore tra i miei generali». Aristocratico arruolato dalla Rivoluzione, durante il Terrore rischia la ghigliottina, combatte in Baviera e in Egitto, alla Battaglia delle Piramidi, tiene testa ai Mamelucchi. Coraggioso, saggio e sereno ha scritto un bel libro di memorie. Desaix non crede alla finta di Melas. Disobbedendo agli ordini non s’è allontanato a marce forzate, ma molto lentamente, e quando arriva il retrofront è pronto. Piomba a Marengo, la luce ancora chiara. Napoleone lo informa della débâcle. Desaix chiede «Che ora sono? Le 17?» e conclude «Questa battaglia è perduta. Ma c’è tempo per vincerne un’altra». Sostenuto da Kellerman, Desaix attacca gli austriaci, persuasi di avere già vinto. Il barone Melas s’è ritirato ad Alessandria, i soldati increduli davanti alla rinnovata furia francese. La carica di Desaix è vincente, le casacche austriache, nel gran fumo dei moschetti, nel turbinare delle sciabole dei dragoni, arretrano, si ritirano, sconfitte alle prime ombre della sera. Il giorno dopo uno sconfortato Melas firma la Convenzione di Alessandria e si ritira ad est del Mincio. Napoleone è padrone del teatro di guerra. Combattono a Marengo 28 mila francesi con 25 cannoni, subendo 1100 morti, 3600 feriti, un migliaio tra prigionieri e dispersi. Gli austriaci sono 30 mila con 100 cannoni, soffrono mille caduti, 5500 feriti, 2900 prigionieri e perdono 15 cannoni e 40 bandiere. Tra i morti, nei primissimi minuti della carica conclusiva, il generale Desaix. Con i se non si fa la storia ma giova dire che la morte di Desaix fu una grave perdita per Napoleone; Desaix, infatti, era l'unico che Napoleone ascoltava seriamente e forse se lui ci fosse ancora stato avrebbe evitato a Napoeone i due grandi errori strategici: concedere all'Inghilterra il dominio assoluto sui mari e la campagna di Russia.
La pace in Italia venne sancita con il trattato di Lunéville, che in pratica riconfermava il precedente trattato di Campoformio violato dagli austriaci. Nel 1802 Napoleone venne proclamato Presidente della Repubblica Italiana, titolo che conserverà sino al 17 marzo 1805 quando assumerà quello di Re d'Italia, mentre il patrizio milanese Francesco Melzi d'Eril ne fu nominato vice Presidente. Con la pace di Amiens del 1802 anche l'Inghilterra firma la pace con la Francia. Napoleone aveva distrutto la nuova coalizione antifrancese, assicurandosi anche l'appoggio dello zar di Russia Alessandro I. Per due anni l'Europa fu finalmente in pace.
Nel 1802 Napoleone vendette una parte del Nord America agli Stati Uniti come parte dell'Accordo sulla Louisiana: egli aveva appena fronteggiato un grosso problema militare quando l'esercito, mandato a riconquistare Santo Domingo, dopo aver affrontato la rivolta capeggiata da Toussaint Louverture, fu colpito dalla febbre gialla. La rivolta fu comunque stroncata. Con le forze dell'Ovest in condizioni tali da non poter agire, Napoleone capì che non avrebbe potuto difendere la Louisiana e decise di venderla (8 aprile 1803).
Rapporti con il papato.
Durante la rivoluzione francese l’anticlericalismo era stato una forza trainante, che aveva sottratto alla chiesa cattolica la sua ricchezza, espulso e in molti casi trucidato i suoi sacerdoti e dissacrato i suoi altari. Ma Napoleone intuiva che molti dei suoi naturali sostenitori (operai specializzati, artigiani e piccoli proprietari, tutta gente di campagna, conservatrice e industriosa) non avevano abiurato la fede dei loro padri e desideravano ardentemente un accordo tra la chiesa cattolica romana e il consolato. Tuttavia qualsiasi accordo avrebbe dovuto garantire a quanti avevano acquisito le proprietà nazionali possedute in precedenza dalla chiesa (gli acquéreurs) di conservarle, e la certezza di non tornare ai vecchi tempi, in cui la popolazione rurale era costretta a pagare la decima ai preti.
Per qualche tempo Napoleone aveva rispettato il papa, perché era in condizione di organizzare insurrezioni in Italia, e nell’ottobre 1796 aveva detto al Direttorio: «È stato un grave errore litigare con quella potenza». Nel suo incontro con il clero milanese del 5 giugno 1800 aveva promesso di «rimuovere tutti gli ostacoli sul cammino di una completa riconciliazione tra la Francia e il capo della chiesa». Pio VI era morto l’agosto precedente a 81 anni. Il nuovo papa, Pio VII, in fondo era un semplice e santo monaco, con opinioni sulle questioni sociali in linea di principio non apertamente ostili alla rivoluzione francese. Napoleone sapeva che qualsiasi negoziato sarebbe stato delicato, ma il premio in palio era grande: l’adesione della Francia cattolica alla causa napoleonica. Un accordo con il papato avrebbe eliminato una delle rivendicazioni fondamentale dei ribelli ancora rimasti in Vandea, e forse avrebbe potuto migliorare i rapporti con i cattolici in Belgio, Svizzera, Italia e anche nella Renania.
La Francia aveva una popolazione di circa 28 milioni di persone, un quinto delle quali risiedevano in zone urbane con oltre 2000 abitanti; la maggior parte degli altri vivevano in 36.000 comuni rurali con poche centinaia di residenti. Napoleone si rendeva conto che sarebbe stato un inestimabile vantaggio se colui che in tali comunità svolgeva l’importante ruolo sociale di diffondere le informazioni, spesso la persona più istruita con il compito di leggere a voce alta i decreti governativi, fosse stata sul libro paga nazionale. «Il clero è una potenza che non è mai tranquilla», disse una volta Napoleone. «Non puoi essere in obbligo nei suoi confronti, piuttosto devi essere il suo padrone.» Il suo trattato con il papato è stato descritto come un tentativo «di assumere i preti delle parrocchie come “prefetti morali”».
Nonostante i suoi atteggiamenti verso la sostanza della fede cristiana, non aveva dubbi riguardo alla sua utilità sociale: «Nella religione non vedo il mistero dell’Incarnazione, ma il mistero dell’ordine sociale», disse a Roederer, uno dei pochi consiglieri di stato ammessi ai negoziati segreti. «Associa il paradiso a un’idea di eguaglianza grazie alla quale si evita il massacro dei ricchi da parte dei poveri […] La società non è possibile senza ineguaglianza, l’ineguaglianza intollerabile senza un codice di moralità, e un codice di moralità inaccettabile senza la religione.» Aveva già mostrato in Egitto quanto fosse flessibile nell’usare la religione per finalità politiche; una volta spiegò a Roederer: «Se governassi un popolo di ebrei, ricostruirei il tempio di Salomone!». Questa visione sostanzialmente pragmatica della religione era comune tra i pensatori e gli scrittori dell’Illuminismo. In Declino e caduta dell’Impero romano, Edward Gibbon, come è noto, scrisse: «I diversi culti religiosi praticati nel mondo romano erano considerati dal popolo tutti ugualmente veri, dal filosofo tutti ugualmente falsi, dal magistrato tutti ugualmente utili». «L’idea di Dio è molto utile per mantenere il buon ordine, tenere gli uomini sul sentiero della virtù e lontani dal crimine».
Nel giugno 1800, non appena tornato a Parigi da Milano, Napoleone aprì le trattative con il segretario di stato del Vaticano, il cardinale Ercole Consalvi, offrendo di restaurare appieno il culto pubblico in Francia se tutti i vescovi francesi rinunciavano alle loro sedi vescovili e consentivano a Napoleone di sceglierne di nuovi che sarebbero poi stati “nominati” dal papa. (Dal 1790 i vescovi francesi si erano divisi tra ortodossi, che riconoscevano soltanto l’autorità del papa, e costituzionalisti, che avevano prestato giuramento di obbedienza al governo.). I negoziati, condotti per parte francese da Giuseppe Bonaparte e dall’ex capo della Vandea Étienne-Alexandre Bernier, e per il Vaticano da Consalvi, dal legato papale, il cardinale Giovanni Caprara, e dal consigliere teologico del papa, Charles Caselli, si svolsero in segreto, senza obbligo di renderne conto nemmeno al consiglio di stato. Nel corso di un anno furono scambiati 1279 documenti, e vennero stilate almeno dieci bozze d’accordo. «Si dovrebbe rendere a Dio quello che è di Dio, ma il papa non è Dio», disse in seguito Napoleone.
Anche se il concordato fu firmato ufficialmente in luglio, venne ratificato e pubblicato solo nove mesi dopo; nel frattempo Napoleone aveva cercato di placare l’intensa opposizione che incontrava nell’esercito e in parlamento. «Il governo della repubblica riconosce che la religione cattolica apostolica romana è la religione della grande maggioranza dei cittadini francesi», esordiva il concordato. «Parimenti, sua Santità riconosce che questa stessa religione ha derivato e probabilmente deriverà il massimo splendore dall’istituzione del culto cattolico in Francia, e dal fatto che venga apertamente professato dai consoli della repubblica.» Nei 17 articoli successivi affermava che la fede cattolica sarebbe stata «liberamente professata in Francia […] in conformità ai regolamenti […] che il governo riterrà necessari per la quiete pubblica».
Ci sarebbero state nuove diocesi e parrocchie. Napoleone e il papa insieme avrebbero nominato dieci arcivescovi (con uno stipendio annuo di 15.000 franchi ciascuno) e 50 vescovi (10.000 franchi ciascuno); i vescovi avrebbero giurato di non fare nulla per “turbare la quiete pubblica” e avrebbero comunicato al governo tutte le informazioni riguardo a quanti lo facevano; in tutte le funzioni religiose sarebbe stata inserita una preghiera per la repubblica e i consoli; i vescovi avrebbero nominato i preti delle parrocchie, purché fossero accettabili per il governo. Il concordato consolidava il trasferimento di terre avvenuto durante la rivoluzione: tutte le proprietà un tempo della chiesa appartenevano “per sempre” agli acquéreurs.
Con la fine dello scisma, almeno 10.000 preti “costituzionalisti” tornarono in seno alla chiesa romana, e una delle principali ferite della rivoluzione fu guarita. Napoleone, l’8 aprile 1802 inserì nel concordato una nuova montagna di restrizioni e regole, note come “articoli organici”, che proteggevano i diritti dei 700.000 protestanti e dei 55.000 ebrei francesi.
Anche se in generale il concordato fu accolto bene in Francia, soprattutto nelle aree rurali più conservatrici, suscitò profonda ostilità nell’esercito, nel consiglio e nel Tribunato, dove brulicavano ancora gli ex rivoluzionari ed ex giacobini. Venne ufficialmente proclamato in pompa magna durante una messa del Te Deum a Notre-Dame la domenica di Pasqua, il 18 aprile 1802: le campane tenore suonarono per la prima volta dopo dieci anni, e Napoleone fu ricevuto dall’arcivescovo di Parigi di recente nomina, Jean-Baptiste de Belloy-Morangle. Di lì a un mese il Tribunato lo approvò per settantotto voti a sette. Il concordato rimase alla base dei rapporti tra la Francia e il papato per un secolo.

Napoleone console a vita
Nel marzo 1801, quando lord Hawkesbury, il ministro degli esteri nel nuovo governo di Henry Addington a Londra, aprì le discussioni con il diplomatico francese Louis-Guillaume Otto che era stato nella capitale britannica per diversi anni a organizzare scambi di prigionieri di guerra, si prospettò all’orizzonte un nuovo trattato di pace. Il governo di William Pitt il Giovane era caduto a febbraio sulla questione dell’emancipazione cattolica e Hawkesbury, pur essendo un seguace di Pitt, cominciò a sondare con cautela la possibilità di una conciliazione con la Francia, soluzione che durante il ministero di Pitt era considerata inammissibile. Allo stesso tempo, l’8 marzo una forza di spedizione britannica sbarcò ad Abukir in Egitto. I generali Friant, Belliard, Lanusse e Menou ancora non riuscivano a evacuare le truppe perché la Royal Navy era al largo di Tolone e bloccava l’ammiraglio Ganteaume, il quale avrebbe dovuto andare a prenderli; quindi in Egitto la situazione stava diventando molto difficile per Napoleone.
Il 5 agosto Hawkesbury disse a Otto che forse avrebbe potuto consentire a Malta di diventare indipendente. Questo avrebbe impedito alla Royal Navy di utilizzare l’isola, essenziale dal punto di vista strategico: era la concessione che Napoleone aspettava.
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Generale Jacques François Menou Comandò l'armata d'Oriente, come era stato chiamato il corpo di spedizione francese in Egitto.

Quando seppe che Menou aveva capitolato alle forze britanniche il 2 settembre dopo un assedio di due settimane, ordinò a Otto di offrire la ritirata francese dall’Egitto, da Napoli e dagli stati papalini in cambio della pace, prima che la notizia arrivasse al governo britannico. Non sapendo che i francesi erano stati sconfitti ad Alessandria, Hawkesbury accettò.
Il 1° ottobre 1801 Otto firmò i 15 articoli di un accordo, e tanto in Francia quanto in Gran Bretagna iniziarono i festeggiamenti. «Il pubblico era così impaziente di esprimere i propri sentimenti in occasione della notizia della firma dei preliminari di pace, che la notte scorsa quasi tutte le strade pubbliche erano illuminate», riferiva il “Times”. Il ritratto di Otto veniva esposto nelle vetrine e le sue lodi erano cantate dai canzonieri. Alcuni giorni dopo, quando un aiutante di campo di Napoleone, il generale Jacques de Lauriston, arrivò a Londra con la ratifica ufficiale, la folla staccò i cavalli dal suo cocchio e lo spinse da Oxford Street a St James’s Street, e poi da Downing Street all’Ammiragliato e attraverso St James’s Park; i festeggiamenti proseguirono per tutta la notte, nonostante una tempesta e una pioggia torrenziale. Tutto questo risultò oltremodo sgradito a Hawkesbury, il quale era convinto che quella situazione sarebbe valsa soltanto a rafforzare la posizione negoziale di Napoleone prima della ratifica dell’intero trattato.
In base all’articolo 2 del trattato preliminare, la Gran Bretagna restituiva a Francia, Spagna e Olanda quasi tutti i territori che aveva conquistato dal 1793, ovvero il Capo di buona speranza, la Guiana olandese, Tobago, la Martinica, Santa Lucia, Minorca e Pondicherry, conservando solo Trinidad e Ceylon. L’articolo 4 decretava che nel giro di un mese la Gran Bretagna avrebbe restituito Malta (che era stata riconquistata dai britannici) ai cavalieri di San Giovanni, i quali sarebbero poi stati protetti da una terza potenza da decidersi nel trattato definitivo; con l’articolo 5 l’Egitto veniva restituito all’impero ottomano; in base al 7 la Francia doveva lasciare Napoli e gli Stati pontifici, mentre la Gran Bretagna, l’isola d’Elba e tutti i porti e le isole che possa occupare nell'Adriatico e nel Mediterraneo. Napoleone era riuscito a strappare grandi concessioni in virtù del desiderio britannico di pace, che, a causa dell’interruzione del commercio con l’Europa per i nove anni di guerra, era molto auspicata. Sul piano diplomatico il trattato era un vero e proprio colpo grosso, poiché l’Egitto sarebbe stato comunque evacuato dopo la sconfitta di Menou, come i britannici scoprirono il 2 ottobre, proprio il giorno dopo averlo firmato. Tutto l’impero d’oltremare della Francia le veniva reso in cambio di alcuni territori italiani, per la cui restituzione Napoleone subiva continue pressioni dalla Russia, la quale manteneva interessi nel Mediterraneo e ancora nel 1800 aveva un esercito in Svizzera; in caso di necessità la Francia avrebbe potuto facilmente riconquistarli. Sul piano territoriale, dopo quasi dieci anni di guerra e 290 milioni di sterline spesi (con il conseguente raddoppiamento abbondante del debito nazionale), la Gran Bretagna non aveva acquisito altro che Trinidad e Ceylon; nessuna delle due comunque in precedenza apparteneva alla Francia. Invece le truppe francesi erano sul Reno, in Olanda e nell’Italia nordoccidentale, e la Francia aveva egemonia sulla Svizzera e influenza sulla Spagna sua alleata, tutte cose che il trattato non menzionava.

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Generale Jacques Jean Alexandre Bernard Law de Lauriston; partecipò a molte battaglie napoleoniche ed ebbe incarichi diplomatici.

Nell’agosto 1801 Napoleone firmò un trattato di amicizia con la Baviera, poi l’8 ottobre un trattato di pace con la Russia, in base al quale 6000 prigionieri russi tornarono a casa con le armi e le uniformi. Il giorno dopo fu concluso un trattato di pace anche con la Turchia, con cui i due paesi accettavano di aprirsi rispettivamente l’accesso ai porti. Insomma, nel giro di un anno Napoleone aveva fatto la pace con l’Austria, Napoli, la Turchia, la Russia, la Gran Bretagna e gli emigrati. All’inizio dell’estate dell’anno seguente sarebbe seguita la Prussia. Il 14 ottobre il sessantatreenne lord Cornwallis, il generale britannico che si era arreso a George Washington a Yorktown nel 1781, fu accolto a Calais con una salva di cannoni e la guardia d’onore, e fu accompagnato prima a Parigi, dove c’erano festeggiamenti e illuminazioni.
Anche se il termine decennale del consolato sarebbe scaduto solo nel 1810, nel maggio 1802 una mozione del senato lo estese per altri dieci anni con una maggioranza di sessanta voti a uno; l’unico a votare contro fu il conte ex girondino Lanjuinais. Questo portò alla richiesta, in apparenza spontanea ma di fatto ben orchestrata, di una nuova costituzione dell’anno decimo, in base alla quale Napoleone sarebbe diventato primo console a vita. «Voi ritenete che io debba al popolo un altro sacrificio», dichiarò lui al senato. «Lo farò, se la voce del popolo ordina quello che ora il vostro voto autorizza.» Come Giulio Cesare che rifiutò per due volte la corona di Roma, voleva far sembrare di accettare controvoglia e con riluttanza il potere a vita. Era un completo rovesciamento dei principi della rivoluzione, ma il popolo francese lo sostenne. La domanda del plebiscito era: «Deve Napoleone Bonaparte diventare console a vita?»; il risultato, rimaneggiato in modo ancora più radicale e non necessario che nel febbraio 1800, fu di 3.653.600 voti a favore e 8.272 contro. Era il primo plebiscito nella storia francese in cui l’affluenza al voto fu, almeno in apparenza, di oltre la metà degli aventi diritto, anche se in alcune zone non venne negato che si era votato due volte a favore; e ancora, la grande maggioranza del paese che era analfabeta non aveva modo di sapere come i sindaci avevano votato a nome loro.
Il 2 agosto 1801 Napoleone fu, secondo le previsioni, dichiarato primo console a vita, con il potere di nominare il suo successore. «Il suo atteggiamento non era affettato né supponente», riferiva il pari britannico bonapartista lord Holland, che era presente quando la delegazione del senato gli conferì quell’onore, «ma di certo gli mancavano la scioltezza e l’attrattiva che si ritiene si possano acquisire solo quando abituati sin da piccoli alle buone compagnie.» Giuseppe fu nominato successore di Napoleone, ma il 10 ottobre 1802 Luigi e Ortensia ebbero un figlio, Napoléon-Louis-Charles, di cui in seguito si parlò come possibile erede.
Il 23 settembre Napoleone scrisse a Talleyrand dicendogli di aver bisogno che la frontiera della Franca Contea fosse sicura, quindi l’alternativa possibile era tra «un governo svizzero solidamente organizzato e amico della Francia» e «nessuna Svizzera». La politica svizzera era complicata da contrasti tra i cantoni aristocratici e quelli populisti, e tra quelli germanofoni, italofoni e francofoni. Il 30 settembre 1802, l’Atto di mediazione di Napoleone riorganizzava la Svizzera in 19 cantoni, con un governo centrale molto debole e un esercito di soli 15.200 uomini. «Non ci sono persone più impudenti o più esigenti degli svizzeri», avrebbe detto in seguito. «Il loro paese è grande circa come la mano di un uomo e loro hanno le pretese più incredibili.» L’atto di mediazione violava il trattato di Lunéville, soprattutto quando il 15 ottobre Napoleone mandò in Svizzera con 40.000 uomini il generale Michel Ney per farlo attuare; tuttavia l’Austria gli diede mano libera, russi e prussiani non protestarono, e gli svizzeri che non erano ancora favorevoli si adeguarono. «Il possesso del Valais è una delle cose più vicine al mio cuore», disse Napoleone a un suo sostenitore svizzero, il filosofo repubblicano Philipp Stapfer, e «l’intera Europa non lo avrebbe indotto a rinunciarvi.» Nonostante il trattato di Amiens non facesse cenno alla Svizzera, la Gran Bretagna bloccò la restituzione di Pondicherry alla Francia e del Capo di Buona speranza all’Olanda, e le sue truppe rimasero ad Alessandria e a Malta.
Il 20 febbraio Napoleone disse al parlamento di Parigi che a causa dell’«abdicazione del sovrano e dei desideri del popolo» per forza di cose il Piemonte era «sottoposto al potere della Francia». Analogamente, disse, la sovranità svizzera era stata violata per «aprire un triplo e facile accesso all’Italia». Con maggior preveggenza faceva riferimento alle truppe britanniche che ancora occupavano Malta e Alessandria, e diceva che mezzo milione di soldati in Francia erano «pronti a difendere e vendicare». Il giorno dopo i britannici consegnarono Città del Capo alla Compagnia dell’India orientale olandese, ma né lusinghe né minacce valsero a convincerli a onorare i loro impegni riguardo a Malta e Alessandria.
Il 25 febbraio la dieta del Sacro romano impero ratificò la dichiarazione finale della deputazione imperiale, che faceva entrare in vigore in Germania le condizioni della pace di Lunéville. Per compensare stati e principi tedeschi dell’annessione da parte della Francia della riva occidentale del Reno, era necessario che l’Austria e gli altri grandi stati tedeschi congiungessero o razionalizzassero gli oltre 200 stati della Germania, riducendoli a 40, soprattutto secolarizzando i territori ecclesiastici e connettendo le città “libere” e “imperiali” ai loro vicini più grandi. Sarebbe stato il più grande trasferimento di stati e proprietà in Germania prima del 1945, con quasi 2.400.000 uomini e 12.700.000 fiorini di entrate annue che andavano ai nuovi governanti. Ne conseguirono diversi mesi di mercanteggiamenti tra Talleyrand e i governanti, che avrebbero beneficiato dell’intero spodestamento delle entità più piccole, fino a quel momento autonome. La carta della Germania fu enormemente semplificata, a prezzo dell’estinzione, dopo secoli, di centinaia di staterelli come la contea ereditaria di Winneburg-Bilstein che apparteneva al padre del principe Clemens von Metternich. Si deve a Napoleone la nascita del primo embrione di Germania.
Dopo una serie di provocazioni, bluff e intrighi tra i britannici e i francesi, accusandosi l'un l''altro di non aver ottemperato alle clausole della pace di Amiens, la Gran Bretagna dichiarò ufficialmente guerra alla Francia, il 18 maggio 1803. Napoleone reagì internando tutti i britannici di sesso maschile in età per combattere che si trovavano ancora sul suolo francese; molti di essi in seguito furono scambiati, ma alcuni invece restarono agli arresti domiciliari per i dieci anni successivi. Il suo messaggio al senato del 20 maggio era propaganda pura; sostenne infatti che in Gran Bretagna la pace di Amiens «era oggetto di un’aspra censura; veniva descritta come fatale per l’Inghilterra, perché non era vergognosa per la Francia […]; vana valutazione del loro odio!». Due giorni dopo ordinò a Decrès di costruire un prototipo di imbarcazione a fondo piatto che potesse traghettare un cannone e 100 uomini oltre la Manica, e di mettersi in contatto con Cambacérès, Lebrun e Talleyrand per trovare persone disposte a finanziare con fondi privati la costruzione di questi mezzi di trasporto che avrebbero portato il loro nome.
Nel trattato di San Ildefonso Napoleone aveva promesso alla Spagna di non vendere la Louisiana a terzi, ma ora decise di ignorare quell’impegno. Lo stesso giorno in cui Whitworth chiese i suoi passaporti a Parigi, dall’altra parte dell’Atlantico il presidente Thomas Jefferson firmava l’acquisto della Louisiana, raddoppiando le dimensioni degli Stati Uniti con un tratto di penna. Gli americani pagarono alla Francia, al costo di circa quattro centesimi all’acro, 80 milioni di franchi per 2.266.000 chilometri quadrati di territorio che oggi comprende per intero o in parte 13 stati, dal Golfo del Messico attraverso il Midwest fino alla frontiera canadese. «L’irresolutezza e la riflessione non sono più di moda», scrisse Napoleone a Talleyrand. «Rinuncio alla Louisiana. Non sto cedendo solo New Orleans, ma tutta la colonia, senza riserve; conosco il valore di quello che abbandono […] Vi rinuncio con il massimo rimpianto: tentare con ostinazione di tenerla sarebbe una follia.»
Dopo il fallimento di Amiens, Napoleone concluse che doveva assolutamente mettere a frutto il suo più grande e (per l’immediato futuro) del tutto inutile vantaggio, uno che prima o poi avrebbe potuto trascinare la Francia in un conflitto con gli Stati Uniti. Invece, aiutando gli Stati Uniti a conseguire dimensioni continentali e nel contempo arricchendo il tesoro francese, Napoleone poteva predire: «Ho appena regalato all’Inghilterra un rivale in mare che prima o poi umilierà il suo orgoglio». Nel giro di dieci anni gli Stati Uniti erano in guerra con la Gran Bretagna, e la guerra del 1812 avrebbe sottratto forze britanniche che stavano ancora combattendo nel febbraio 1815, le quali altrimenti forse sarebbero state presenti a Waterloo.
Dopo la dichiarazione di guerra del 18 maggio la situazione cambiò in fretta. Alla fine del mese la Francia invase l’elettorato di Hannover, il principato di origine di Giorgio III. Per rappresaglia la Royal Navy pose il blocco alle foci dell’Elba e del Weser in Germania; in giugno Nelson isolò Tolone, e a settembre ormai la Gran Bretagna aveva riconquistato Santa Lucia, Tobago, Berbice, Demerara ed Essequibo. Nel frattempo, in violazione del trattato franco-napoletano firmato nel 1801, e nonostante una vigorosa protesta russa, Napoleone mandò in Italia il generale Laurent de Gouvion Saint-Cyr, a presidiare di nuovo Taranto, Brindisi e Otranto.

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Generale Laurent de Gouvion-Saint-Cyr Si distinse eroicamente alla battaglia di Polack.

In giugno Napoleone ordinò la costruzione di cinque grandi campi d’invasione a Brest, Boulogne, Montreuil, Bruges e Utrecht. Furono allestiti dei campi di supporto per la cavalleria e la riserva a Saint-Omer, Compiègne, Arras, Étaples, Vimereaux, Parigi e Amiens. L’Armata d’Inghilterra assorbì gli uomini dell’Armata d’Occidente in Vandea, e fu ribattezzata Armata delle coste oceaniche. Nel gennaio 1804 contava 70.000 uomini, e in marzo 120.000. In seguito Napoleone affermò che aveva sempre e solo voluto spaventare la Gran Bretagna, placare l’Austria e addestrare il suo esercito, ma che in realtà non aveva intenzione di effettuare l’invasione.
Poco dopo il fallimento di un serio complotto, Napoleone dichiarò al consiglio: «Cercano di distruggere la rivoluzione attaccando la mia persona. La difenderò, perché la rivoluzione sono io». È chiaro che ci credeva, e in certa misura era vero, ma fu proprio in quel momento che si allontanò in modo più evidente dal repubblicanismo proclamato dalla rivoluzione. Alcuni giorni dopo il senato approvò un messaggio di congratulazioni a Napoleone che, come disse Fouché, ipotizzava la necessità di “altre istituzioni” per distruggere le speranze di qualsiasi futuro cospiratore.
Il 28 marzo Napoleone disse al consiglio che «l’argomento meritava la massima attenzione; che da parte sua lui non voleva niente; era del tutto soddisfatto della sua sorte, ma era suo dovere tenere conto anche del destino della Francia, e di che cosa era probabile producesse il futuro». Aveva rivisto la sua precedente valutazione riguardo alla legittimità dei monarchi. «Solo il principio ereditario potrebbe prevenire una controrivoluzione», aggiunse in modo analogo. In seguito, dai dipartimenti cominciarono a pervenire petizioni che imploravano Napoleone di prendere la corona. I giornali cominciarono a pubblicare articoli di elogio alle istituzioni monarchiche, e vennero pubblicati libelli ufficiali come Réflexions sur l’hérédité du pouvoir souverain di Jean Chas, in cui si suggeriva che il modo migliore per neutralizzare i cospiratori fosse fondare una dinastia napoleonica.
Napoleone imperatore
Alla fine di marzo questa campagna organizzata con cura aveva riscosso un tale successo che il consiglio di stato dibatteva quale fosse il miglior titolo da assumere per Napoleone. «Nessuno ha proposto di chiamarlo re!» osservò Pelet. Furono discussi invece “console”, “principe” e “imperatore”. I primi due parevano troppo modesti, ma Pelet era convinto che il consiglio considerasse «troppo ambizioso quello di imperatore». Secondo Ségur, il cui padre, il conte di Ségur, era presente all’assemblea e in seguito divenne il gran maestro di cerimonia imperiale, 27 consiglieri su 28 approvarono che Napoleone assumesse un titolo ereditario di qualche genere. Quando il presidente del comitato fece la sua relazione, tutti ritennero che il titolo di imperatore fosse «l’unico di valore sufficiente per lui e per la Francia».

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Napoleone imperatore dipinto di François Gérard

All’epoca in cui Napoleone era pronto per autonominarsi imperatore, molti dei grandi generali repubblicani che avrebbero potuto obiettare erano ormai fuori gioco: Hoche, Kléber e Joubert erano morti; Dumouriez si trovava in esilio; Pichegru e Moreau stavano per subire un processo per tradimento. Restavano solo Jourdan, Augereau, Bernadotte e Brune, i quali poco dopo sarebbero stati rabboniti con il bastone da maresciallo.

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Generale Guillaume Marie-Anne Brune, un eroe della Repubblica più che dell'impero.

Naturalmente la spiegazione data da Napoleone a Soult («Bisognava porre fine alle speranze dei Borboni») non era l’unica ragione; voleva anche essere in condizione di trattare come suoi pari Francesco di Austria e Alessandro di Russia. Nel 1804 ormai la Francia era de facto un impero, e solo riconoscendo questa realtà Napoleone si dichiarò imperatore de iure, proprio come sarebbe diventata la regina Vittoria per l’impero britannico nel 1877. Un numero straordinariamente basso di francesi si oppose al ritorno di una monarchia ereditaria appena 11 anni dopo l’esecuzione capitale di Luigi XVI, e quelli che lo fecero ricevettero la promessa di poter esprimere il proprio dissenso in un plebiscito.


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Generale Jean Baptiste Jourdan Nel gennaio 1803 fu eletto al Senato per il collegio della Haute-Vienne e quindi nominato comandante in capo dell'armata d'Italia.


Il 10 maggio 1804, William Pitt il Giovane tornò al premierato britannico, sostituendo il traballante governo Addison e impegnandosi a costruire la terza coalizione contro la Francia, su cui era disposto a spendere 2.500.000 sterline e nella quale sperava di reclutare la Russia e l’Austria. Otto giorni dopo Napoleone fu ufficialmente proclamato imperatore con una cerimonia di un quarto d’ora a Saint Cloud, nel corso della quale Giuseppe venne nominato grande elettore e Luigi diventò conestabile di Francia. Da quel momento assunse il titolo un po’ contorto e in apparenza contraddittorio «Napoleone, per grazia di Dio e della costituzione della repubblica, imperatore dei francesi».

Divenuto imperatore, Napoleone diede vita a una stagione che spesso viene sottovalutata da tutti coloro che sono soliti attribuirgli solo una grandezza militare. In effetti egli fu un grandissimo legislatore e altrettanto sapiente amministratore. Approfittando del periodo di pace concessagli dagli antagonisti stranieri, Napoleone si dedicò, infatti, alla realizzazione di un numero impressionante di disposizioni. Affetto da una vera e propria febbre di innovazioni portò a compimento una serie di realizzazioni destinate a cambiare per sempre non solo il volto della Francia, ma quello dell'Europa stessa. I suoi grandi capolavori furono le codifiche che si attuarono attraverso la rielaborazione dei codici, civile, penale e commerciale che rappresentarono l'esito finale del percorso iniziato con la Rivoluzione, ma sfrondato dagli aspetti utopistici per realizzare strumenti pragmatici, reali, in grado di essere adottati nella perfetta funzionalità. E tutto questo volle lui stesso seguirlo e indirizzarlo.
Si era deciso che, se Napoleone fosse morto senza un erede, la corona sarebbe passata a Giuseppe e poi a Luigi, mentre Luciano e Girolamo erano tagliati fuori dalla linea di successione a causa dei loro matrimoni disapprovati dal fratello.
Il giorno dopo essere stato proclamato imperatore, Napoleone nominò quattro “marescialli dell’impero” onorari, e 14 attivi. I 14 marescialli attivi erano Alexandre Berthier, Joachim Murat, Adrien Moncey, Jean-Baptiste Jourdan, André Masséna, Pierre Augereau, Jean-Baptiste Bernadotte, Nicolas Soult, Guillame Brune, Jean Lannes, Édouard Mortier, Michel Ney, Louis-Nicolas Davout e Jean-Baptiste Bessières.
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Generale Bon Adrien Jeannot de Moncey Alla Restaurazione ebbe l'audacia di rifiutare di presiedere il consiglio di guerra incaricato di giudicare il maresciallo Ney.

Tra il 1807 e il 1815 ne furono nominati altri otto. Il maresciallato non era un grado militare, ma onorifico, inteso a riconoscere e premiare qualcosa che Napoleone in seguito chiamò “il sacro fuoco”, e ovviamente incentivare gli altri membri dell’alto comando.
Il 12 giugno 1804 il nuovo consiglio imperiale (in sostanza il vecchio consiglio di stato) si riunì a Saint-Cloud per decidere quale forma dare all’incoronazione di Napoleone. Furono prese in considerazione Reims (dove avveniva per tradizione l’incoronazione dei re francesi), il Champ de Mars (scartato per la probabilità di condizioni climatiche inclementi) e Aix-de-la-Chapelle (per le sue connessioni con Carlomagno), prima di decidere per Notre-Dame. La data del 2 dicembre era un compromesso fra il desiderio di Napoleone, che avrebbe voluto il 9 novembre, quinto anniversario del colpo di stato di brumaio, e quello del papa, che avrebbe preferito il giorno di Natale, in cui nell’800 era stato incoronato Carlomagno. Poi il consiglio discusse l’insegna araldica e l’emblema ufficiale dell’impero, Napoleone scelse l'aquila con le ali aperte.


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Generale Michel Ney. Legatissimo a Napoleone si distinse nelle battaglie di Ulma, Friedland e nelle campagne di Spagna e Russia. Considerato un traditore dopo la Seconda Restaurazione, fu processato e fucilato

Il risultato del plebiscito sull’istituzione dell’impero fu annunciato il 7 agosto. Domenica 2 dicembre 1804 l’incoronazione di Napoleone e Giuseppina a Notre-Dame fu uno spettacolo magnifico. Alle sei del mattino, quando cominciarono ad arrivare i primi ospiti, nevicava, quindi si rifugiarono sotto un ponte neogotico di legno e stucco, progettato per nascondere gli effetti della furia iconoclastica perpetrata durante la rivoluzione. Alle sette del mattino 460 musicisti e coristi cominciarono a radunarsi sui transetti, come pure le orchestre al completo della cappella imperiale, del conservatorio, del teatro Feydeau, dell’Opéra, dei granatieri e dei cacciatori della guardia.
Durante l’incoronazione in Notre-Dame, Napoleone ricevette due corone: la prima era una ghirlanda di alloro d’oro, la indossò entrando nella cattedrale per evocare l’impero romano, e la portò per tutta la durata della cerimonia; la seconda era una copia della corona di Carlomagno. Quando il papa ebbe benedetti Napoleone e Giuseppina, abbracciò Napoleone e intonò Vivat Imperator in aeternam. La messa finì, e Napoleone pronunciò il suo giuramento di incoronazione:
Giuro di mantenere l’integrità del territorio della repubblica: di rispettare e di far rispettare le leggi del concordato e della libertà di culto, di libertà politica e civile; di irreversibilità della vendita dei beni nazionali; di non chiedere tasse, se non in virtù della legge; di mantenere l’istituzione della Legion d’onore; di governare solo per l’interesse, il benessere e la gloria del popolo francese.
L’“autoincoronazione” di Napoleone fu il trionfo definitivo di un uomo che si era fatto da solo, e in un certo senso un momento saliente dell’Illuminismo. In fondo fu anche un atto di onestà: Napoleone ci era arrivato davvero per i suoi sforzi. Ma forse in seguito lo rimpianse, per lo sfrenato egocentrismo che l'incoronazione evocava.
Successivamente, il 26 maggio 1805 nel Duomo di Milano, Napoleone fu incoronato Re d'Italia. L'incoronazione a Milano fu fastosa, e accompagnata dai suoi più fedeli collaboratori in Italia, come il cardinale Bellisoni, il Fenaroli, il Baciocchi, il Melzi e l'Aldini. In questa occasione Napoleone, postosi sul capo la corona imperiale, fatta realizzare per l'occasione[, pronunciò le famose parole: "Dio me l'ha data, guai a chi la tocca".
La conquista dell'Europa
Nel dicembre 1804 William Pitt firmò un’alleanza con la Svezia; nell’aprile 1805, quando anche la Gran Bretagna firmò il trattato di San Pietroburgo con la Russia, ormai si era formato il nucleo della terza coalizione. La Gran Bretagna avrebbe pagato alla Russia 1.250.000 sterline in ghinee d’oro per ogni 100.000 uomini che avesse schierato contro la Francia. Austria e Portogallo aderirono alla coalizione in seguito. Napoleone impiegò tutta la sua capacità di formulare minacce diplomatiche nel tentativo di evitare che altri vi aderissero. Già il 2 gennaio scrisse a Maria Carolina, la regina consorte del re di Napoli e Sicilia, sorella di Maria Antonietta e zia dell’imperatore Francesco. La avvertì in modo semplice: «Ho in mano mia numerose lettere scritte da Vostra Maestà che non lasciano dubbi riguardo alle sue segrete intenzioni», cioè di unirsi alla recente coalizione.
Già nel 1793 Pitt aveva creato il precedente di finanziare i nemici della Francia, quando aveva incominciato a prendere in affitto truppe dai principati tedeschi perché combattessero nei Paesi Bassi, ma spesso rimaneva profondamente deluso dai suoi investimenti, come nel 1795, quando i prussiani sembravano più contenti di combattere i polacchi che i francesi, o nel 1797, quando a Campoformio l’Austria prese il Veneto in cambio del Belgio (e della pace). In generale tuttavia, i governi britannici che si erano succeduti avevano ritenuto la politica dei sussidi valevole del suo prezzo.
All’insaputa di Napoleone, il 9 agosto l’Austria, adirata per l’incoronazione italiana, l’annessione di Genova e le alleanze che Napoleone aveva concluso con la Baviera, il Württemberg e il Baden, aveva aderito in segreto alla terza coalizione. Anche se il 3 agosto in privato Napoleone disse a Talleyrand «una guerra non ha senso», era pronto a combattere in caso di necessità. All’inizio di agosto, nel giro di pochi giorni, ordinò a Saint-Cyr di tenersi pronto a invadere Napoli dall’Italia settentrionale se necessario, diede a Masséna il comando dell’Italia e inviò Savary a Francoforte a procurarsi le migliori carte della Germania disponibili e cercare di spiare il consiglio aulico a Vienna.
Essendo giunta la notizia che a quanto pareva l’Austria stava mobilitandosi, era chiaro che l’invasione della Gran Bretagna doveva essere rimandata. «Chiunque dovrebbe essere completamente pazzo per farmi guerra», scrisse a Cambacérès. «Di certo in Europa non c’è esercito migliore di quello che ho oggi.» Ma nel corso della giornata, quando apparve chiaro che davvero l’Austria stava mobilitandosi, fu irremovibile. «Ho preso la mia decisione», scrisse a Talleyrand. «Voglio attaccare l’Austria ed essere a Vienna prima di novembre per affrontare i russi se mai dovessero presentarsi.» Nella stessa lettera ordinava a Talleyrand di cercare di spaventare «quello scheletro di Francesco, collocato sul trono per merito dei suoi antenati» e convincerlo a non combattere: «Voglio essere lasciato in pace per fare la guerra con l’Inghilterra».
Napoleone non voleva rinunciare ai suoi piani di invasione della Gran Bretagna, tuttavia comprendeva che sarebbe stato poco accorto cercare di combattere simultaneamente su due fronti. Aveva dunque bisogno di un piano dettagliato per sgominare l’Austria. Fece sedere Daru perché scrivesse sotto dettatura. In seguito Daru raccontò a Ségur:
"Senza alcuna transizione, in apparenza senza la minima riflessione, e nei suoi toni brevi, concisi e imperiosi, [mi] dettò senza un attimo di esitazione l’intero piano della campagna di Ulma sino a Vienna. L’Armata della Costa, schierata su una linea di oltre 200 leghe di fronte all’oceano, al primo segnale doveva rompersi e marciare verso il Danubio in diverse colonne. L’ordine delle varie marce, la loro durata; i punti dove le varie colonne dovevano convergere o riunirsi; le sorprese; gli attacchi a piena forza; i diversi movimenti; gli errori del nemico; durante la frettolosa dettatura era stato previsto tutto".
Il minuzioso sistema di registrazione di Berthier era una delle colonne portanti dell’imminente campagna; l’altra fu l’adozione da parte di Napoleone del sistema dei corpi d’armata, in pratica una versione enormemente allargata del sistema delle divisioni con cui si era battuto in Italia e in Medio Oriente. Grazie al periodo trascorso negli accampamenti a Boulogne e alle continue manovre effettuate tra il 1803 e il 1805, Napoleone poté dividere il suo esercito in unità di 20-30.000 uomini, a volte anche 40.000, e dare loro un addestramento intensivo. Ogni corpo d’armata era a tutti gli effetti un miniesercito, dotato di fanteria, cavalleria, artiglieria, stato maggiore, servizi informativi, genio, trasporti, vettovagliamento, amministrazione, sezioni mediche e commissariati, concepito per lavorare in stretta connessione con gli altri corpi. Spostandosi a meno di una giornata di marcia uno dall’altro, consentivano a Napoleone di invertire i ruoli di retroguardia, avanguardia o riserva quasi immediatamente, a seconda dei movimenti del nemico. Quindi, tanto in attacco quanto in ritirata, l’intero esercito poteva ruotare sul suo asse senza confusione. Nelle zone rurali i corpi d’armata potevano anche allontanarsi abbastanza uno dall’altro senza causare problemi di vettovagliamento.
Ogni corpo d’armata doveva essere grande abbastanza per fronteggiare un’intera armata sul campo di battaglia, mentre gli altri potevano scendere in campo nel giro di 24 ore per rinforzarlo e disimpegnarlo, o, cosa ancora più utile, per aggirare o accerchiare il nemico. Ai comandanti dei singoli corpi d’armata, che di solito erano marescialli, sarebbero stati assegnati un luogo dove andare e una data di arrivo, e per il resto avrebbero dovuto regolarsi da soli. Non avendo mai comandato una compagnia, un battaglione, un reggimento, una brigata, una divisione o un corpo di fanteria o cavalleria in battaglia, e fidandosi dell’esperienza e della competenza dei suoi marescialli, in generale Napoleone era ben felice di lasciare a loro la logistica e la tattica di battaglia, purché loro riportassero i risultati richiesti. Inoltre, durante un’offensiva, un corpo d’armata doveva essere capace di fare incursioni di rilievo nella forza nemica.
Era un sistema geniale, concepito in origine da Guibert e dal maresciallo de Saxe. Napoleone se ne servì in quasi tutte le successive battaglie vittoriose, in particolare a Ulma, Jena, Friedland, Lützen, Bautzen e Dresda, non desiderando correre di nuovo i rischi di Marengo, dove le sue forze erano troppo sparpagliate. Le sue sconfitte, in particolare ad Aspern-Essling, Lipsia e Waterloo, si verificarono quando non si servì in modo adeguato del sistema dei corpi d’armata.
«A quanto pare l’Austria vuole la guerra», scrisse Napoleone il 25 agosto al suo alleato, l’elettore Massimiliano Giuseppe di Baviera. «Non riesco a spiegarmi un comportamento così bizzarro; ma l’avrà, e prima di quanto se lo aspetti.» Il giorno dopo ricevette conferma da Louis-Guillaume Otto, all’epoca inviato francese a Monaco, che gli austriaci stavano per attraversare l’Inn e invadere la Baviera. Nella previsione che accadesse, alcune unità francesi di quella che era ormai ufficialmente ribattezzata Grande Armée avevano già lasciato Boulogne tra il 23 e il 25 agosto. Napoleone la definì la sua “pirouette”, e finalmente disse al suo stato maggiore del piano di invadere la Gran Bretagna: «Bene, se dobbiamo rinunciarvi, comunque ascolteremo la messa di mezzanotte a Vienna». Il campo di Boulogne non fu fisicamente smantellato fino al 1813.
Per tenere la Prussia fuori dalla coalizione disse a Talleyrand di offrire l’Hannover, «ma devono assolutamente capire che quest’offerta non la riproporrò tra 15 giorni.» I prussiani dichiararono la propria neutralità, continuando tuttavia a insistere per l’indipendenza della Svizzera e dell’Olanda.

Il 1° settembre, quando Napoleone partì da Pont-de-Briques per Parigi allo scopo di chiedere al senato di radunare una nuova leva di 80.000 uomini, disse a Cambacérès: «Non c’è un solo uomo a Boulogne, a parte quelli necessari per la protezione del porto». Impose un totale occultamento delle notizie riguardo ai movimenti delle truppe, e disse a Fouché di proibire a tutti i quotidiani «di citare l’esercito, come se non esistesse più». Se ne uscì anche con un’idea per seguire la mobilitazione del nemico, ordinando a Berthier di trovare qualcuno che parlasse il tedesco per «seguire il progresso dei reggimenti austriaci, e registrare le informazioni nei compartimenti, per poi metterle in una scatola preparata appositamente […] Il nome o il numero di ciascun reggimento deve essere segnato su una carta da gioco, e le carte devono essere spostate da un compartimento all’altro a seconda dei movimenti dei reggimenti».

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Generale Jean Baptiste Bessières; Cavalcando in prima linea per osservare lo schieramento nemico a Lützen, fu colpito da una granata che l'uccise sul colpo. Quel 1º maggio del 1813 moriva uno dei più fidati uomini di Napoleone e amico.

Il giorno seguente il generale austriaco Karl Mack von Leiberich attraversò la frontiera bavarese e poco dopo conquistò la città fortificata di Ulma, nella previsione di ricevere poco dopo rinforzi dai russi al comando del generale Mihail Kutuzov, i quali avrebbero portato le forze di coalizione in quel teatro a un totale di 200.000 uomini. Ma Ulma era pericolosamente avanzata perché gli austriaci potessero tenerla senza l'aiuto dei russi che, per qualche ragione stavano schierandosi con grande ritardo. Intanto l’arciduca Carlo si preparava ad attaccare in Italia, dove Napoleone aveva rimpiazzato Jourdan con Masséna.
I sette corpi d’armata della Grande Armée, al commando dei marescialli Bernadotte, Murat, Davout, Ney, Lannes, Marmont e Soult, che contavano in totale 170.000 uomini, si diressero verso est a straordinaria velocità, attraversando il Reno il 25 settembre. Gli uomini erano felici di combattere sulla terra asciutta e non affrontare la Manica con fragili chiatte. «Finalmente tutto sta prendendo colore», disse Napoleone a Otto quel giorno. Di per sé, era la campagna più grande mai condotta dalle truppe francesi. Il fronte, che andava da Boulogne all’Olanda e oltre, si allungava per quasi 300 chilometri, da Coblenza a nord fino a Friburgo a sud.
Napoleone partì da Saint-Cloud il 24 settembre, e due giorni dopo raggiunse l’esercito a Strasburgo, dove lasciò Giuseppina, e si diresse verso il Danubio a est di Ulma per cercare di accerchiare Mack e di isolarlo dai russi. Il generale Georges Mouton fu inviato dall’elettore di Württemberg a chiedere l’autorizzazione al passaggio del corpo d’armata di Ney, forte di 30.000 uomini, autorizzazione difficile da rifiutare, e quando l’elettore chiese che Württemberg fosse innalzato a regno, Napoleone scoppiò a ridere: «Bene, a me va benissimo; sia pure re, se non vuole altro!». Il sistema dei corpi d’armata consentì a Napoleone di far ruotare tutto il suo esercito di 90 gradi a destra una volta giunto al Reno. La manovra fu definita da Ségur «il più grande cambio di fronte mai visto», e grazie a essa il 6 ottobre la Grande Armée guardava a sud su tutta la linea da Ulma sino a Ingolstadt sul Danubio. Questa agile collocazione di un esercito molto grande attraverso la linea di ritirata di Mack ancora prima che questi si rendesse conto di quanto stava accadendo, senza perdere nemmeno un uomo, è una delle più grandiose realizzazioni militari di Napoleone. «Per negoziare con gli austriaci non c’è altra premessa che il fuoco dei cannoni», disse quella volta a Bernadotte. Era incoraggiato dal fatto che tutti i contingenti provenienti da Baden, Baviera e Württemtemberg si erano uniti alla Grande Armée.
La sera del 6 ottobre Napoleone proseguì fino a Donauwörth, a detta di Ségur, «per l’impazienza di vedere il Danubio per la prima volta». Mentre si trovava ancora a Bamberga, Napoleone scrisse il primo di 37 bollettini, profetizzando da lì la «totale distruzione» del nemico. Il 9 ottobre i francesi ottennero la vittoria in uno scontro minore a Günzburg, e poi di nuovo ad Haslach-Jungingen l’11. La sera seguente, alle undici, dopo che Bernadotte aveva conquistato Monaco. Il 13 ottobre, avendo completato l’accerchiamento di Ulma, Napoleone ordinò a Ney di riattraversare il Danubio e conquistare le alture di Elchingen, ultimo ostacolo importante prima di Ulma: dall’abbazia di Elchingen c’è una vista magnifica sul terreno pianeggiante fino alla cattedrale di Ulma, a 9 chilometri di distanza. Ney la occupò il giorno dopo. Il giorno dopo Mack aprì i negoziati con la promessa di arrendersi se non fosse stato sollevato dai russi entro 21 giorni. Napoleone, che cominciava a rimanere a corto di provviste e non voleva perdere lo slancio, gliene diede un massimo di sei. Il 18 ottobre, quando Murat sventò un tentativo di soccorso del feldmaresciallo Werneck e catturò 15.000 uomini a Trochtelfingen, la notizia colpì Mack come un pugno allo stomaco. Mack cedette Ulma alle tre del pomeriggio del 20 ottobre, insieme a circa 20.000 uomini di fanteria, 3.300 di cavalleria, 59 cannoni da campagna, 300 carri di munizioni, 3.000 cavalli, 17 generali e 40 stendardi. Quando un ufficiale francese che non lo riconobbe gli chiese chi fosse, il comandante austriaco gli rispose: «Voi vedete dinanzi a voi lo sfortunato Mack!».
La resa avvenne sull’altopiano di Michelsberg, nei dintorni di Ulma. Dalla torre di Aussichtsturm, appena fuori dalla città vecchia, si vede il luogo in cui gli austriaci uscirono in fila dalla città e deposero moschetti e baionette, prima di andare in prigionia a lavorare nelle fattorie francesi e nei progetti edilizi parigini. Parlando ai generali austriaci catturati, aggiunse: «È una sfortuna che persone coraggiose come voi, i cui nomi sono citati con onore ovunque abbiate combattuto, debbano essere vittime della stupidità di un governo il quale si limita a fantasticare su progetti folli e non arrossisce a compromettere la dignità dello stato». Cercò di convincerli che la guerra era stata del tutto inutile, dovuta soltanto al denaro dato dalla Gran Bretagna a Vienna per proteggere Londra dalla conquista. In un ordine del giorno Napoleone descriveva i russi e gli austriaci come puri e semplici mignon dei britannici. Rapp ricordava che Napoleone «era pieno di gioia per un sì bel fatto», come aveva tutte le ragioni di essere, dato che la campagna era stata impeccabile e quasi senza spargimento di sangue. «L’imperatore ha inventato un nuovo metodo per fare la guerra», diceva Napoleone in un bollettino, citando i suoi uomini; «usa soltanto le loro gambe e le nostre baionette.» Con un tempismo quasi poetico, anche se Napoleone lo avrebbe appreso solo quattro settimane dopo, la coalizione sfogò la sua vendetta contro la Francia proprio il giorno dopo. Al largo di capo Trafalgar, un’ottantina di chilometri a ovest di Cadice, la flotta franco-spagnola costituita da 33 navi di linea fu distrutta dalle 27 navi di linea dell’ammiraglio Nelson. Invece di rinunciare del tutto ai suoi sogni di invasione, Napoleone continuò a spendere enormi quantità di denaro, tempo ed energia per cercare di ricostruire una flotta che pensava avrebbe potuto minacciare di nuovo la Gran Bretagna grazie alla mera superiorità numerica. Non comprese mai che una flotta, se trascorreva il 90 per cento del suo tempo in porto, non poteva proprio acquisire le competenze marinaresche necessarie per competere con la Royal Navy al culmine della sua capacità operativa. Non c’era più nulla che potesse ostacolare la Grande Armée nella sua avanzata verso Vienna. Eppure la campagna era tutt’altro che finita, poiché Napoleone doveva fermare l’esercito russo di Kutuzov, forte di 100.000 uomini e diretto verso ovest, impedendogli di congiungersi a quello austriaco, di 90.000 unità, al comando dell’arciduca Carlo, che al momento si trovava in Italia. La speranza di Napoleone che si potesse impedire a Carlo di proteggere Vienna si realizzò verso la fine di ottobre, quando Masséna riuscì a portare gli austriaci a un pareggio nella combattutissima battaglia di Caldiero, durata tre giorni.
«Sono in piena marcia», scrisse Napoleone a Giuseppina il 3 novembre da Haag am Hausruck. «Fa molto freddo; la campagna è coperta da 30 centimetri di neve […] Per fortuna la legna non manca; qui siamo sempre in mezzo a foreste.» Non poteva saperlo, ma quello stesso giorno la Prussia firmò il trattato di Potsdam con l’Austria e la Russia, promettendo “mediazione” armata contro la Francia in cambio del ricevimento di un sussidio britannico. Il trattato, firmato il 15 novembre, fu un raro esempio di come un atto può essere rapidamente superato dagli eventi. Napoleone proseguì l’avanzata verso Vienna. La scarsa efficienza dei sistema di rifornimenti suscitò accese proteste degli uomini, e persino di ufficiali di alto grado come il generale Pierre Macon, ma Napoleone spronò l’esercito a proseguire, e il 7 novembre diede «ordini rigorosissimi» contro il saccheggio; centinaia di uomini furono puniti a Braunau e altrove, privati del bottino e persino frustati dai loro compagni (cosa molto insolita nell’esercito francese). «Ora siamo nel paese del vino!» poté dire alle truppe da Melk il 10 novembre, anche se fu permesso loro di bere solo quello che era stato requisito dai quartiermastri. Il bollettino si concludeva con la ormai consueta invettiva contro gli inglesi, «artefici delle disgrazie dell’Europa».
Il 13 novembre alle undici di mattina fu conquistato l’importante ponte di Tabor sul Danubio, quasi soltanto grazie a vuote minacce dei francesi, i quali diffusero la notizia, inventata di sana pianta, che era stata firmata la pace e Vienna era stata dichiarata città aperta. Quando la verità fu scoperta era troppo tardi, e Murat ordinò perentoriamente agli austriaci di evacuare la zona. Fu dunque un’astuzia di guerra a consegnare Vienna nelle mani dei francesi, anche se l’alto comando austriaco non aveva progettato di resistere molto prima di far saltare i ponti. Quando Napoleone apprese la notizia era «fuori di sé dalla gioia», e proseguì in fretta per occupare il palazzo asburgico di Schönbrunn, fermandovisi quella stessa notte ed entrando a Vienna in pompa magna il giorno dopo, mentre Francesco e la sua corte si ritiravano a est verso i russi in arrivo. Il trionfo fu guastato soltanto dal fatto che Murat consentì a un esercito austriaco di sfuggire alla cattura a Hollabrünn il 15 novembre. Impaziente di avanzare in fretta verso la vittoria decisiva che voleva, Napoleone partì da Schönbrunn il 16 «furibondo» nei confronti di Murat; Napoleone molte volte se la prese con Murat per la sua indisciplina e le sue guasconate. Ma Murat fu spesso capace di risolvere situazioni difficili. Napoleone era altrettanto scontento di Bernadotte, di cui scrisse a Giuseppe: «Mi ha fatto perdere un giorno, e da un giorno dipende il destino del mondo; io non avrei lasciato scappare un solo uomo».

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Gioacchino Murat, il generale "guascone"

Il 17, quando apprese di Trafalgar, si trovava a Znaïm'. La censura che ordinò era talmente rigorosa che la maggior parte dei francesi sentì parlare del disastro per la prima volta solo nel 1814. Le città conquistate dovevano essere presidiate, e le linee di rifornimento protette, quindi alla fine di novembre la forza in avanzata di Napoleone era ridotta a 78.000 uomini sul campo, mentre procedeva di altri 300 chilometri verso est per entrare in contatto con il nemico. I prussiani avevano adottato un atteggiamento minaccioso a nord, gli arciduchi Giovanni e Carlo avanzavano da sud e Kutuzov si trovava ancora davanti a lui a est in Moravia, perciò la Grande Armée stava cominciando a parere molto esposta. Aveva marciato a lungo per tre mesi, e ormai era esausta e affamata. Il capitano Jean-Roch Coignet della guardia imperiale valutava di aver percorso più di 1000 chilometri in sei settimane. In una clausola del successivo trattato di pace, tra i risarcimenti di guerra, Napoleone avrebbe chiesto cuoio da calzature. Il 20 novembre Napoleone fu «sorpreso e lieto» della resa di Bruna (attuale Brno) che era piena di armi e provviste e vi stabilì la sua base successiva. Il giorno dopo si fermò a 15 chilometri a est della cittadina su «una montagnola sul lato della strada che si chiama Santon», non lontana dal villaggio di Austerlitz (attuale Slavkov), e diede ordine di scavarne la base dal lato del nemico in modo da aumentare la scarpata. Poi perlustrò a cavallo il terreno, osservando con cura due grandi laghi e le zone esposte e «fermandosi diverse volte sui punti più elevati», soprattutto l’altopiano Pratzen, per poi dichiarare al suo stato maggiore: «Signori, esaminate con cura il terreno. Diventerà un campo di battaglia, e voi dovrete fare la vostra parte!».
I russi e gli austriaci avevano elaborato un piano per cercare di intrappolare Napoleone tra di loro. Il principale esercito campale, accompagnato da due imperatori, doveva marciare verso ovest da Olmütz con una forza di 86.000 uomini, mentre l’arciduca Ferdinando avrebbe colpito a sud da Praga nelle retrovie aperte dei francesi. Napoleone rimase a Bruna fino al 28 novembre, consentendo un po’ di riposo all’esercito. «Ogni giorno aumentava il pericolo della nostra posizione isolata e distante», ricordava Ségur, e Napoleone decise di sfruttare questo fatto a suo vantaggio. Il 27 novembre, nei colloqui a Bruna con due inviati austriaci, il conte Johann von Stadion e il generale Giulay, finse di essere preoccupato per la sua posizione e la sua generale debolezza, e ordinò ad alcune unità di ritirarsi di fronte agli austriaci, nella speranza di instillare nel nemico un’eccessiva sicurezza. «I russi credevano che i francesi non osassero ingaggiare battaglia», scrisse il generale Thiébault riguardo a questo stratagemma.   I francesi avevano evacuato tutti i punti minacciati, erano andati via da Wischau, Rausnitz e Austerlitz di notte; si erano ritirati di 12 chilometri senza fermarsi; si erano concentrati, invece di cercare di minacciare i fianchi russi. Presero questi segni di esitazione e apprensione, questa apparente ritirata, come la prova definitiva che il nostro coraggio era scosso e come un sicuro presagio di una loro vittoria. Essendo venuto a sapere da un disertore che le forze della coalizione erano decisamente all’offensiva, e dai servizi informativi di Savary che non avrebbero aspettato i 14.000 russi di rinforzo, Napoleone concentrò le sue forze. Con Marmont a Graz, Mortier a Vienna, Bernadotte alle sue spalle a sorvegliare la Boemia, Davout che si muoveva verso Presburgo (l’odierna Bratislava) sorvegliando l’Ungheria, per il momento tranquilla, e Lannes, Murat e Soult allargati davanti a lui sull’asse Bruna-Wischau-Austerlitz, Napoleone aveva bisogno di rimettere insieme tutti i suoi corpi d’armata per la battaglia. Il 28 novembre incontrò il giovane e arrogante aiutante di campo dello zar Alessandro, il ventisettenne principe Petr Petrovic Dolgorukij, sulla strada di Olmütz fuori di Posorsitz. «Ho avuto una conversazione con quel presuntuosetto», raccontò Napoleone all’elettore Federico II di Württemberg una settimana dopo, «durante la quale mi ha parlato come avrebbe fatto con un boiaro che si accingeva a mandare in Siberia.» Dolgorukij chiese che Napoleone consegnasse l’Italia al re di Sardegna, il Belgio e l’Olanda a un principe prussiano o britannico. Ricevette una risposta adeguatamente asciutta, ma Napoleone non lo mandò via fino a quando non gli fu permesso di intravedere quelli che sembravano preparativi per una ritirata. Il piano originale di Napoleone prevedeva che Soult, Lannes e Murat combattessero in difesa per attirare avanti i 69.500 uomini della fanteria austro-russa, i 16.565 della cavalleria e i 247 cannoni, mentre Davout e Beradotte dovevano arrivare quando il nemico fosse stato pienamente impegnato e ne fossero emersi con chiarezza i punti deboli. Anche se Napoleone aveva in totale solo 50.000 uomini di fanteria e 15.000 di cavalleria, disponeva di 282 cannoni, e riuscì a concentrare più uomini ad Austerlitz di quanti gli alleati, sapessero che poteva schierare. Per indurre ancora di più il nemico a cullarsi nel pensiero che i francesi fossero in procinto di ritirarsi, Soult ricevette l’ordine di abbandonare le alture di Pratzen con una fretta in apparenza inopportuna. Anche gli alleati compresero l’importanza delle alture di Pratzen; il loro piano, steso dal capo di stato maggiore austriaco, il generale Franz von Weyrother, era che il generale Friedrich von Buxhöwden sovrintendesse all’attacco di tre colonne (su cinque) dalle alture, al di sopra del fianco destro francese a sud. Poi si sarebbero voltate a nord e avrebbero circondato la linea francese mentre l’intero esercito si avvicinava. In ogni caso, c’era un’eccessiva concentrazione di uomini su un terreno accidentato a sud del campo di battaglia, dove avrebbero potuto essere bloccati da un contingente francese più piccolo, mentre il piano lasciava il centro completamente aperto al contrattacco francese. Lo zar Alessandro approvò l’idea, anche se il suo comandante in campo, Kutuzov, non la condivideva. Invece la strategia francese derivava soltanto da un’autorità unica.

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Ritratto dell'epoca del generale Jean Lannes Lannes fu considerato da Napoleone il suo più caro amico, anche ai tempi dell'Impero permise a lui soltanto di dargli del tu nelle occasioni ufficiali, cosa che era riservata solo a Giuseppina e neppure ai membri della sua famiglia. Per il suo particolare carattere, Napoleone lo chiamava affettuosamente "Orso Lannes".

La mattina di lunedì 2 dicembre 1805 alle quattro, le truppe francesi furono trasferite nelle loro posizioni iniziali sul campo di battaglia di Austerlitz, in larga parte inosservate perché il terreno più basso era avvolto in una fitta foschia che continuò a confondere l’alto comando degli alleati riguardo alle intenzioni di Napoleone per tutte le prime ore della battaglia. «Le nostre divisioni stavano assembrandosi in silenzio nella notte chiara e di un gelo pungente», ricordava Thiébault. «Per ingannare il nemico, alimentarono i fuochi che stavano lasciando.» Napoleone era andato in ricognizione molto prima dell’aurora, e alle sei chiamò i marescialli Murat, Bernadotte, Bessières, Berthier, Lannes e Soult, come pure diversi comandanti di divisione tra cui il generale Nicolas Oudinot, al suo quartier generale di campo su una montagnola chiamata Žurán´, un po’ a sinistra rispetto al centro del campo di battaglia; in seguito lo Žurán´ gli avrebbe offerto una visuale magnifica su quello che doveva diventare il centro della battaglia sulle alture di Pratzen, da cui però non poteva vedere i villaggi di Sokolnitz e Tellnitz dove avvennero molti dei primi combattimenti. La riunione continuò fino alle sette e mezzo del mattino; a quel punto Napoleone era sicuro che ciascuno avesse capito con esattezza che cosa gli veniva chiesto di fare. Il piano di Napoleone era di mantenere debole il suo fianco destro per attirare il nemico ad attaccare a sud, ma di farlo ben proteggere dal corpo d’armata di Davout in avvicinamento, mentre il fianco sinistro a nord era tenuto dalla fanteria di Lannes e dalla cavalleria di riserva di Murat al Santon, su cui aveva collocato 18 cannoni. La terza divisione del corpo d’armata di Soult, al comando del generale Claude Legrand, doveva sostenere l’attacco austriaco al centro, mentre il corpo d’armata di Bernadotte, che fu spostato dal Santon per rischierarsi tra Grzikowitz e Punowitz, doveva sopportare l’attacco principale della giornata. A dare il segnale d’inizio sarebbe stato l’assalto di Soult sul Pratzen, guidato dalle divisioni di Saint-Hilaire e Vandamme, non appena le truppe alleate avessero cominciato a lasciare le alture per attaccare i francesi a sud.

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Generale Louis Charles Vincent Le Blond de Saint-Hilaire Morì nel corso della battaglia di Aspern-Essling a seguito della perdita del piede destro, amputatogli da una palla di cannone.

«Uno attacca, poi aspetta e vede», così Napoleone spiegava la sua arte tattica. Quindi tenne di riserva la guardia imperiale, la cavalleria di riserva di Murat e i granatieri di Oudinot per utilizzarli come forza di emergenza sul fianco meridionale, oppure per intrappolare il nemico quando le alture di Pratzen fossero state conquistate. Negli archivi di stato bavaresi c’è uno schizzo che disegnò per spiegare come era stata combattuta la battaglia, in cui si vede quanto avesse seguito da vicino la concezione originale. Anche se Napoleone cambiava di continuo i piani di battaglia a seconda delle circostanze, in alcune occasioni gli scontri seguivano un piano, e ad Austerlitz fu quello che accadde.
Poco dopo le sette, ancora prima che la riunione finisse e gli uomini di Soult venissero ridisposti in formazione, cominciarono i combattimenti intorno a Tellnitz, dove Legrand fu attaccato dagli austriaci come previsto. Alle sette e mezzo le truppe di Soult vennero schierate a Puntowitz per indurre gli alleati a pensare che stessero spostandosi verso il fianco destro, mentre in realtà avrebbero preso d’assalto le alture di Pratzen e sfondato il centro del campo di battaglia. Alle otto i russi (che quel giorno sopportarono il grosso dei combattimenti) stavano muovendosi verso sud, dalle alture di Pratzen verso il fianco destro francese, indebolendo il centro degli alleati. Alle otto e mezzo ormai gli alleati avevano conquistato Tellnitz e Sokolnitz, ma un quarto d’ora dopo Sokolnitz cadde di nuovo in mani francesi dopo un contrattacco di Davout, che vi comandava personalmente una brigata. Entrando nel villaggio, il maresciallo trentacinquenne, che stava combattendo la sua prima grande battaglia, ricevette un appello urgente dai difensori di Tellnitz e mandò suo cognato, il generale Louis Friant, con la 108a di linea ad attaccare il villaggio coperto di fumo, per riprenderlo ai russi. A un certo punto la 2a divisione di Friant era ridotta a 3.200 uomini, la metà degli effettivi normali, ma sebbene assottigliata non cedette. Come spesso accadeva nell’epoca della polvere da sparo, vi furono alcuni gravi incidenti di “fuoco amico”, come quando la 108a di linea e la 26a leggera si spararono a vicenda fuori Sokolnitz e smisero soltanto nel momento in cui videro le reciproche aquile.
Ora Legrand difendeva Sokolnitz con due semibrigate una delle quali, la Tiratori còrsi, era un’unità isolata soprannominata “i cugini dell’imperatore”. Affrontava 12 battaglioni di fanteria russa che avanzavano verso il muro della fagianaia fuori dal villaggio, difeso da quattro battaglioni francesi soltanto. Durante la lotta, la 26a semibrigata leggera fu lanciata dentro Sokolnitz, e mise in fuga cinque battaglioni russi, proprio mentre la 48a di Friant respingeva altri 4700 russi. Ma prima delle nove e mezzo i russi avevano espugnato il castello di Sokolnitz in un assalto generale; dei 12 più eminenti comandanti francesi presenti a Sokolnitz, 11 rimasero uccisi o feriti. Come spesso accadeva, fu l’ultima formazione di uomini, la più fresca mandata in capo a determinare le sorti della battaglia, giustificando la prassi di Napoleone di tenere sempre delle riserve. Alle dieci e mezzo ormai 10.000 uomini di Davout avevano neutralizzato 36.000 nemici, mentre Napoleone faceva entrare lentamente in campo la fanteria e l’artiglieria, tenendo indietro la cavalleria. Davout diede a Napoleone il tempo importantissimo di cui aveva bisogno per assumere il predominio al centro e inoltre gli consentì di mutare le sorti della battaglia in quel punto, lanciando 35.000 uomini contro 17.000 austro-russi nel luogo decisivo del campo di battaglia, le alture di Pratzen.
Alle nove Napoleone aspettava con impazienza al Žurán' che due delle quattro colonne nemiche lasciassero le alture di Pratzen. «Quanto ci metteranno le vostre truppe per occupare l’altopiano?» chiese a Soult, il quale rispose che sarebbero bastati 20 minuti. «Molto bene, aspetteremo un altro quarto d’ora.» Quando fu trascorso, Napoleone concluse: «Finiamo questa guerra in un lampo!». L’attacco doveva cominciare con la divisione di Saint-Hilaire, che era nascosta tra le ondulazioni e la foschia sospesa della valle di Goldbach. Alle dieci ormai il sole era sorto e dissolse la bruma, e da quel momento “il sole di Austerlitz” divenne un’immagine simbolo del genio di Napoleone, e della sua fortuna. Soult arringò gli uomini della 10a semibrigata leggera, diede loro tripla razione di cognac e li mandò su per il pendio. I francesi adottarono l’ordine misto, una combinazione di linea e colonna per attaccare, con una linea di scaramucciatori davanti, che caricò direttamente la quarta colonna russa mentre scendeva dalle alture. Rendendosi conto del pericolo, Kutuzov mandò gli austriaci di Kollowrath a riempire i vuoti tra le colonne russe. Nella feroce lotta che seguì furono presi pochissimi prigionieri e in pratica non vennero lasciati vivi i feriti.
Saint-Hilaire conquistò il villaggio di Pratzen e buona parte dell’altopiano tra pesanti combattimenti. A quanto pare a determinare le sorti della giornata fu il consiglio del colonnello Pierre Pouzet che sferrasse un nuovo attacco nonostante le condizioni terribilmente avverse, allo scopo di impedire al nemico di contare le sue forze ridotte: gli uomini tornavano a recuperare le armi abbandonate durante la ritirata. Alle undici e mezzo Saint-Hilaire aveva raggiunto l’altopiano, e Soult, non appena divennero disponibili, aveva lanciato in battaglia molti più uomini dei russi. La 57a semibrigata di linea (“i terribili”) si distinse di nuovo.
Kutuzov fu lasciato a guardare sconcertato mentre 24.000 francesi si scontravano con 12.000 uomini degli alleati rimasti sulle alture; fece invertire direzione alle ultime colonne dirette a sud, ma era troppo tardi. Osservando dal Žurán´, e anche grazie ai rapporti di schiere di aiutanti di campo, Napoleone vide le fitte colonne che salivano lungo i fianchi del Pratzen, e alle undici e mezzo diede a Bernadotte l’ordine di avanzare. Bernadotte chiese di essere accompagnato dalla cavalleria, ma ricevette una secca replica: «Non me ne avanza». Non ci si può certo aspettare cortesia su un campo di battaglia ed era la pura verità, ma se alla corte di Napoleone c’era l’opposto di un favorito, quello era Bernadotte.

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Ritratto di Jean-Baptiste Bernadotte. Tradì Napoleone e la Francia.

Alle undici la divisione di Vandamme aveva assalito il quartier generale dello zar Alessandro, il poggio di Stare Vinohrady sul Pratzen, attaccando con sfrenato entusiasmo al suono di bande ammassate che era «sufficiente a elettrizzare un paralitico», come ricordò Coignet. Il granduca Costantino mandò avanti i 30.000 uomini (inclusa la cavalleria) della guardia imperiale russa ad affrontare Vandamme, la cui linea vacillò all’impatto. La 4a semibrigata di linea, comandata dal maggiore Bigarré ma di cui era colonnello onorario Giuseppe Bonaparte, fu caricata dai corazzieri della guardia russa; ruppe le righe, si voltò e fuggì, anche se i suoi uomini ebbero la presenza di spirito di gridare «Vive l’Empereur!» mentre passavano accanto a Napoleone. All’una Napoleone mandò Bessières e Rapp con cinque squadroni di cavalleria della guardia, e in seguito altri due, incluso uno di mamelucchi, ad aiutare Vandamme a riprendere l’iniziativa sul Pratzen togliendola alla guardia imperiale russa. Marbot era presente quando arrivò Rapp, con una sciabola spezzata e una spada piegata fino all’elsa, e offrì all’imperatore le bandiere conquistate e il suo prigioniero, il principe Nikolaj Repnin-Volkonskij, comandante di uno squadrone della guardia russa. «Un cacciatore ferito a morte offrì il suo stendardo e cadde morto sul colpo», ricorda un testimone.
Nella parte settentrionale del campo di battaglia, Murat e Lannes affrontarono il generale Petr Bagration, che ebbe ingenti perdite. A mezzogiorno ormai Napoleone aveva tutti i motivi per essere soddisfatto. Soult aveva occupato le alture del Pratzen, le difese del Santon tenevano saldamente la linea a nord, e a sud Davout non cedeva. All’una trasferì il suo quartier generale a Stare Vinohrady, da dove poteva vedere dall’alto la valle di Goldbach ed elaborare il suo piano per annientare il nemico. Il suo ciambellano Thiard era presente quando Soult giunse a incontrare Napoleone che gli fece i complimenti per il brillante ruolo svolto. «Del resto, monsieur le maréchal, era soprattutto sul vostro corpo d’armata che contavo per vincere», disse. Poi l’imperatore mandò le divisioni di Saint-Hilaire e Vandamme alle spalle dei russi impegnati a combattere a Sokolnitz, e nonostante fossero ancora in minoranza numerica di tre a uno, Davout ordinò un’offensiva generale tra Tellnitz e Sokolnitz. Alle due l’esito della battaglia era ormai certo.

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Generale Jean Rapp Salva per ben due volte la vita a Napoleone.

L’altopiano di Pratzen era già occupato da Bernadotte, quindi Napoleone poté ordinare a Oudinot, Soult e alla guardia imperiale a sud di accerchiare Buxhöwden, mentre la cavalleria di Davout attaccava verso il villaggio meridionale di Augedz. Poi Napoleone partì a tutta velocità dal Pratzen diretto alla torre della cappella di Sant’Antonio che sovrastava tutta l’area lacustre, per comandare l’ultima fase della battaglia. La forza russa a Buxhöwden fu divisa in due e fuggì a est dei laghi ghiacciati e oltre, mentre Napoleone faceva aprire il fuoco sul ghiaccio ai suoi cannoni. L’incidente condusse al mito secondo cui migliaia di russi affogarono perché il ghiaccio si ruppe, benché scavi recenti nella terra bonificata del lago Satschan abbiano restituito solo una dozzina di corpi e un paio di cannoni. Nel complesso, tuttavia, le forze alleate soffrirono terribilmente mentre abbandonavano il campo inseguite da vicino dalla cavalleria francese e sotto il fuoco dell’artiglieria che era stata portata in cima alle alture. (I pettorali degli uomini della cavalleria austriaca non avevano schienale, e questo li rendeva più leggeri da portare durante gli attacchi ma anche oltremodo vulnerabili alle spade e alle lance scagliate, e al fuoco di mitraglia in ritirata.) Un reggimento russo e due battaglioni austriaci che si erano barricati nel castello di Sokolnitz furono massacrati, ma a moltissimi uomini fu consentita la resa nella fagianaia e assai oltre, mentre le bande francesi intonavano La Victoire est à nous.
La notte di Austerlitz, Napoleone scrisse al suo esercito vittorioso con la consueta retorica:
  "Soldati della Grande Armée! Persino a quest’ora prima che questo grande giorno svanisca e si perda nell’oceano dell’eternità, il vostro imperatore sente il bisogno di parlarvi e dirvi quanto è soddisfatto della condotta di tutti quelli che hanno avuto la buona fortuna di battersi in questa memorabile battaglia. Soldati! Siete i combattenti migliori del mondo. Il ricordo di questo giorno e delle vostre imprese sarà eterno! Da qui in avanti per migliaia di ere, fino a che si continueranno a raccontare gli avvenimenti dell’universo, si dirà che un esercito di 76.000 russi, comprati con l’oro dell’Inghilterra, è stato annientato da voi nella pianura di Olmütz".
Fonti moderne affidabili stimano le perdite russe in 16.000 tra morti e feriti, tra cui 9 generali e 293 ufficiali, e 20.000 prigionieri, oltre a 186 cannoni, 400 carri di munizioni e 45 stendardi. Le perdite francesi giunsero a 8.279 uomini, di cui 1.288 morti. Tra i feriti, 2.476 necessitavano di lunghe cure; la divisione di Saint-Hilaire aveva subito il 23 per cento delle perdite, e quella di Vandamme il 17 per cento. Avendo moltissimi russi che ancora non avevano combattuto, l’arciduca Carlo in arrivo dall’Italia e i prussiani che minacciavano di dichiarare guerra contro la Francia, in teoria gli alleati avrebbero potuto continuare a combattere, ma Austerlitz buttò il morale a terra agli austriaci, e lo stesso accadde a quello di Alessandro, che si ritirò in Ungheria. Poco dopo arrivò alla Stara Posta il principe Giovanni di Liechtenstein per discutere le condizioni. «Mai forse nei palazzi dei sovrani europei fu trattato un affare così importante come in quella miserabile abitazione.»
friant

Generale Louis Friant. Nel 1813 assunse il comando della 4a divisione della Nuova guardia dell'Imperatore; durante la Campagna di Germania partecipò eroicamente alle battaglie di Dresda e di Hanau.

Un piano magistrale, la valutazione del terreno, un tempismo straordinario, i nervi d’acciaio, la disciplina e l’addestramento appresi a Boulogne, il sistema dei corpi d’armata, lo sfruttamento di un temporaneo vantaggio numerico nel momento decisivo, un formidabile spirito di corpo, ottime prestazioni quel giorno da parte di Friant, Davout, Vandamme, Soult e Saint-Hilaire, un nemico diviso e a volte incompetente (durante la battaglia Büxhowden era ubriaco) avevano dato a Napoleone la più grande vittoria della sua carriera.
I sovrani d'Europa chiesero la pace.

vandamme

Generale Dominique-Joseph René Vandamme; soldato aggressivo, brutale e violento;

L'Austria perdeva anche Venezia, che veniva unita al regno d'Italia, e perdeva ogni controllo sulla Germania, che ora si ricostruiva come Confederazione del Reno, primo seme dell'unità tedesca sotto il controllo diretto di Napoleone.
Dopo Austerlitz, Napoleone accettò la richiesta dell’imperatore Francesco di un colloquio, e alle due del pomeriggio si incontrarono per la prima volta davanti a un fuoco ai piedi del mulino di Spálený Mlýn, 15 chilometri a sud-ovest di Austerlitz, sulla strada per l’Ungheria. Si abbracciarono cordialmente e parlarono per un’ora e mezzo. «Voleva concludere immediatamente la pace», raccontò poi Napoleone a Talleyrand, «ha fatto appello ai miei più elevati sentimenti.» Rimontando a cavallo, Napoleone annunciò al suo stato maggiore: «Signori, torniamo a Parigi; la pace è fatta». Poi tornò al galoppo al villaggio di Austerlitz per fare una visita a Rapp, che era ferito. «Strano spettacolo, sul quale un filosofo avrebbe da riflettere!» ricordò uno dei presenti. «Un imperatore di Germania arrivato a umiliarsi implorando la pace dal figlio di una modesta famiglia còrsa, che fino a poco tempo prima era soltanto un sottotenente di artiglieria e, grazie al suo talento, alla sua fortuna e al coraggio dei soldati francesi, aveva raggiunto all’apice del potere ed era diventato l’arbitro dei destini dell’Europa.» Talleyrand consigliò a Napoleone di cogliere l’opportunità di allearsi con l’Austria, trasformandola in «un baluardo necessario e sufficiente contro i barbari», naturalmente riferendosi ai russi. Napoleone rifiutò, convinto che, fino a quando l’Italia fosse rimasta francese, l’Austria avrebbe sempre mantenuto un atteggiamento bellicoso e ostile.

francesco ii

Francesco II dopo l'incoronazione imperiale, 1792. Non diede mai tregua a Napoleone

Il 15 dicembre fu consegnato al conte von Haugwitz il trattato franco-prussiano di Schönbrunn, in virtù del quale l’Hannover, ossia la patria d’origine dei sovrani britannici, sarebbe andato alla Prussia in cambio di territori più ridotti. Era un’offerta così allettante che Haugwitz la sottoscrisse subito, in forza della sua sola autorità. Quindi la Prussia scioglieva gli impegni assunti con la Gran Bretagna nel trattato di Potsdam, che aveva concluso appena un mese prima: Napoleone era riuscito a creare una frattura tra i due paesi alleati. Inoltre con il trattato di Schönbrunn la Prussia si impegnava a chiudere i propri porti alle navi britanniche. «La Francia è onnipotente e Napoleone è l’uomo del secolo», scrisse Haugwitz nell’estate del 1806, dopo aver costretto in marzo il suo rivale Karl von Hardenberg, ministro degli esteri prussiano, a rassegnare le dimissioni. «Che cosa dobbiamo temere se siamo suoi alleati?» Tuttavia il re Federico Guglielmo e sua moglie, la bella e indipendente regina Luisa, figlia del duca di Meclemburgo, che nutriva una fiera ostilità per Napoleone, chiese a Hardenberg di continuare a servire in segreto il governo, anche per mantenere aperti i canali diplomatici con la Russia.

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La battaglia di Austerlitz

Talleyrand firmò il trattato di Presburgo (attuale Bratislava) nell’antica capitale dell’Ungheria il 27 dicembre 1805, ponendo così fine alla guerra della terza coalizione. Il trattato confermava a Elisa, sorella di Napoleone, il possesso dei principati di Lucca e Piombino; trasferiva al regno d’Italia quanto l’Austria aveva ottenuto in precedenza da Venezia (in sostanza, l’Istria e la Dalmazia); concedeva il Tirolo, la Franconia e il Vorarlberg alla Baviera, alla quale veniva riconosciuto lo status di nuovo regno; e incorporava cinque città danubiane, una contea, un langraviato e una prefettura nel Württemberg, che diveniva pure regno. Il Baden diventava granducato, con altro territorio austriaco. Francesco fu costretto a riconoscere Napoleone come re d’Italia, pagare 40 milioni di franchi di risarcimento e promettere che tra lui e Napoleone ci sarebbero state «pace e amicizia per sempre». L’imperatore austriaco aveva perso di colpo oltre due milioni e mezzo di sudditi e un sesto delle sue entrate, e questo rendeva alquanto improbabile la possibilità di un’eterna amicizia. Da parte sua, Napoleone riconosceva l’“indipendenza” della Svizzera e dell’Olanda, garantiva l’integrità del restante territorio dell’impero austriaco e prometteva, dopo la sua morte, di separare le corone della Francia e dell’Italia, tutte cose che non gli interessavano e non costavano niente.
Il trattato di Presburgo non menzionava affatto Napoli, che era entrata nella terza coalizione nonostante i chiarissimi avvertimenti dati a gennaio da Napoleone alla regina Maria Carolina, e malgrado il trattato di neutralità firmato in seguito. Il 20 novembre i Borboni avevano salutato con favore lo sbarco a Napoli di 19.000 soldati russo-britannici, che tuttavia erano subito ripartiti quando era giunta notizia di Austerlitz. A quanto si dice, Maria Carolina definì Napoleone «quella bestia feroce […] quel còrso bastardo, quel parvenu, quel cane!».
Così, il 27 dicembre, Napoleone annunciò semplicemente: «La dinastia di Napoli ha cessato di regnare; la sua esistenza è incompatibile con la pace in Europa e con l’onore della mia corona». Le dichiarazioni, smaccatamente false, della regina, che sosteneva di essere stata colta di sorpresa dallo sbarco alleato, vennero confutate. Sembra che Napoleone, parlando con Talleyrand, avesse detto: «Finalmente darò una lezione a quella sgualdrina», dimostrando un talento per le invettive colorite quasi pari a quello della regina.
Masséna, arrivato da Milano, aveva conquistato in fretta gran parte dei territori napoletani, facendo impiccare nel novembre 1806 il brigante e capopopolo Michele Pezza (noto come Fra Diavolo), ma i Borboni riuscirono a fuggire in Sicilia; ne derivò una “guerra sporca” nelle montagne calabresi, durante la quale per diversi anni i contadini armati si scontrarono con i francesi, un conflitto caratterizzato da feroci rappresaglie, soprattutto dopo il 1810, quando Napoleone nominò come governatore militare dell’area il generale Charles Manhès. Questa guerra non convenzionale esaurì le energie, il morale e le forze dell’esercito francese, devastando nel contempo la Calabria e lasciando prostrata la sua popolazione. Anche se all’occasione i britannici diedero un aiuto (inviando via mare un piccolo contingente che nel luglio 1806 vinse la battaglia di Maida), il loro principale contributo fu la sorveglianza dello Stretto di Messina.
Un rapporto inviato dal ricevitore-generale della Grande Armée nel gennaio del 1806 illustra alla perfezione quanto fosse stata vantaggiosa la vittoria di Austerlitz per la Francia. Erano stati prelevati circa 18 milioni di franchi alla Svevia, cui si aggiungevano i 40 milioni di franchi richiesti all’Austria come indennità di guerra in base al trattato di Presburgo. Le merci britanniche erano state requisite in tutti i territori appena conquistati e vendute. In totale, le entrate ammontavano a circa 75 milioni di franchi; una volta dedotti i costi di guerra e i debiti francesi nei confronti degli stati tedeschi, rimanevano alla Francia quasi 50 milioni di franchi di profitto. Sebbene Napoleone ripetesse continuamente ai suoi fratelli che finanziare l’esercito era il compito principale del governo, di norma le truppe venivano pagate al termine delle campagne, allo scopo di disincentivare le diserzioni e con l’ulteriore vantaggio che non c’era alcun bisogno di versare lo stipendio ai soldati uccisi o fatti prigionieri. «La guerra deve pagare la guerra», scrisse Napoleone a Giuseppe e a Soult il 14 luglio 1810. Per conseguire questo scopo utilizzava tre metodi insieme: requisizioni dirette di denaro e beni ai nemici (note come “contributi ordnari”); pagamenti da parte delle tesorerie dei paesi nemici concordati nei trattati di pace (“contributi straordinari”); stipendio e mantenimento delle truppe francesi a spese dei paesi alleati o stranieri. La Francia si preoccupava di addestrare, equipaggiare e vestire le sue armate; per tutto il resto, ci si aspettava che si autofinaziassero.
Il 23 gennaio 1806 William Pitt il Giovane morì, a 46 anni, per un’ulcera gastrica. Charles James Fox, da tempo favorevole alla rivoluzione francese e a Napoleone, fu nominato ministro degli esteri. Dopo la vittoria di Austerlitz, quando Napoleone aveva rimandato a San Pietroburgo il principe Repnin, si era dimostrato disposto alla pace con lo zar Alessandro; ora fece lo stesso con Fox il quale il 20 febbraio scrisse a Talleyrand da Downing Street per avvertirlo, nella sua «qualità di uomo onesto», di un complotto per assassinare Napoleone. Questo gesto di correttezza diede inizio a negoziati di pace a largo raggio che proseguirono per tutta l’estate, in larga parte condotti da lord Yarmouth e lord Lauderdale per i britannici, e da Champagny e Clarke per i francesi, grazie ai quali si riuscì a formulare una proposta di trattato.

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Alessandro I, imperatore di tutte le Russie

I negoziati si svolsero in segreto, poiché in caso di fallimento entrambe le parti preferivano non dovere ammettere che avevano avuto luogo; ma negli archivi del ministero degli esteri francese ci sono ben 148 distinti documenti relativi al periodo febbraio-settembre 1806. Il 9 agosto, quando il cinquantasettenne Fox si ammalò, queste lunghe trattative (che vertevano su Malta, l’Hannover, le città anseatiche, l’Albania, le Baleari, la Sicilia, il Capo di Buona speranza, il Suriname e Pondicherry), si trovavano ormai in posizione di stallo; ma fu la sua morte, il 13 settembre, a decretarne il definitivo naufragio. «So benissimo che l’Inghilterra è soltanto un angolo del mondo di cui Parigi è il centro», scrisse Napoleone a Talleyrand quando si interruppero i colloqui, «e che trarrebbe vantaggio da una solida presenza qui, persino in tempo di guerra.» Perciò preferì non intrattenere alcun rapporto con la Gran Bretagna, se non per concludere la pace, e nel marzo 1807, quando il governo di Grenville fu sostituito da quello del terzo duca di Portland, che riprese verso la Francia l’atteggiamento aggressivo di Pitt, perse qualsiasi speranza al riguardo.
La creazione della confederazione del Reno ebbe profonde conseguenze per l’Europa. La più immediata fu che, a causa della simultanea uscita dei suoi membri dal Sacro romano impero, l’impero stesso, istituito con l’incoronazione di Carlomagno nell’anno 800, venne ufficialmente abolito da Francesco il 6 agosto 1806. Con la fine del Sacro romano impero Francesco II divenne semplicemente Francesco I d’Austria. In virtù dello statuto fondante della confederazione del Reno, Napoleone aveva a propria disposizione un contingente aggiuntivo di 63.000 soldati tedeschi, cifra che ben presto venne accresciuta; anzi, la stessa espressione “esercito francese” risulta in qualche modo imprecisa per il periodo che va dal 1806 fino al crollo della confederazione nel 1813. Un’altra conseguenza fu che Federico Guglielmo III di Prussia dovette rinunciare a qualsiasi speranza di svolgere un ruolo di primo piano fuori dai confini del proprio stato, a meno che non fosse disposto a entrare in una quarta coalizione contro la Francia. Nel frattempo, la confederazione promosse un sentimento nascente di nazionalismo germanico e alimentò il sogno che un giorno la Germania avrebbe potuto essere uno stato indipendente governato dai tedeschi. Non c’è esempio che illustri la legge delle conseguenze inattese della storia in modo più efficace: Napoleone contribuì alla creazione della nazione che, mezzo secolo dopo la sua morte, avrebbe distrutto l’impero francese di suo nipote Napoleone III.
La decisione di entrare in guerra contro la Francia, presa da Federico Guglielmo all’inizio di luglio ma concretizzata soltanto a ottobre, nasceva dal suo timore che il tempo non giocasse a favore della Prussia. Pur essendo stato il primo paese a riconoscere Napoleone come imperatore, avendo espulso i Borboni dal proprio territorio e firmato il trattato di Schönbrunn nel dicembre del 1805, a ottobre del 1806 la Prussia si trovava già in guerra. Federico Guglielmo sognava di esercitare un’egemonia regionale senza essere ostacolato dalla Francia e dall’Austria, e temeva sempre di più un’invasione francese della Germania settentrionale. Tra fine giugno e inizio luglio del 1806 il successore di Hardenberg, von Haugwitz, il quale in precedenza aveva lodato l’alleanza con la Francia, scrisse tre memorandum, giungendo alla conclusione che Napoleone stava cercando un casus belli contro la Prussia e tentava di staccare l’Assia dall’orbita prussiana. Raccomandava che la Prussia costituisse un’alleanza antifrancese con la Sassonia, l’Assia e la Russia, e rinunciasse ad annettersi l’Hannover per assicurarsi i sussidi di guerra britannici. La sua posizione era condivisa dall’influente generale Ernst von Rüchel, il quale, tuttavia, riconobbe davanti al re che la guerra contro la Francia, ad appena un anno di distanza da Austerlitz, sarebbe stata un gioco pericoloso.
Intanto a Parigi, il 20 luglio l’inviato dello zar Petr Jakovlevic Ubri accettò la formulazione di un trattato di «eterna pace e amicizia», che richiedeva soltanto la ratifica dello zar a San Pietroburgo per far naufragare qualsiasi speranza prussiana di una quarta coalizione. Ma lo zar era furibondo, poiché aveva saputo che il generale Sébastiani, ambasciatore francese a Costantinopoli, stava esortando la Turchia ad attaccare la Russia; di conseguenza, decise di attendere ancora prima di scegliere tra Francia e Prussia. Non è dato sapere fino a che punto Sébastiani stesse agendo su ordine di Napoleone o Talleyrand; ma, non essendo stato stipulato alcun trattato di pace dopo Austerlitz, era ragionevole che la Francia seguisse questa via diplomatica a Costantinopoli. Napoleone, tuttavia, non desiderava una guerra né con la Prussia né con la Russia, e ancor meno con entrambe contemporaneamente. Il 2 agosto ordinò a Talleyrand di comunicare ad Antoine Laforest, ambasciatore francese a Berlino il suo desiderio di mantenere «rapporti cordiali con la Prussia a qualsiasi prezzo», e aggiunse: «Se necessario, lasciate continuare a credere a Laforest che in realtà non farò la pace con l’Inghilterra a cagione dell’Hannover». Lo stesso giorno ordinò a Murat, il quale si trovava a Berg, nella valle della Ruhr, di non prendere alcuna iniziativa che potesse essere considerata ostile nei confronti della Prussia. «Con i prussiani dovete mantenere un atteggiamento conciliante, molto conciliante, e non far nulla che possa infastidirli», scrisse Napoleone. «Di fronte a una potenza come la Prussia, non si procede mai con abbastanza cautela.»
Federico Guglielmo (influenzato dalla regina Luisa e dalla fazione interventista berlinese, di cui facevano parte due suoi fratelli, un nipote di Federico il Grande e von Hardenberg) inviò un ultimatum a Napoleone nel quale gli ordinava di ritirare tutte le truppe francesi a ovest del Reno entro l’8 ottobre. Era stato così sciocco da non stringere alcun patto con la Russia, la Gran Bretagna o l’Austria prima di fare questa mossa. Alcuni giovani ufficiali prussiani si spinsero fino ad affilare le loro sciabole sui gradini della scalinata principale dell’ambasciata francese a Berlino.
All’inizio di settembre Napoleone si rese conto che, non avendo lo zar Alessandro ratificato il trattato di Ubri, la Russia, in caso di guerra, si sarebbe schierata a fianco della Prussia. Il 5 settembre ordinò a Soult, Ney e Augereau di concentrarsi sulla frontiera prussiana, ritenendo che, se fosse riuscito a condurre il suo esercito oltre Kronach in otto giorni, ne sarebbero occorsi soltanto dieci per marciare fino a Berlino, sicché avrebbe potuto sconfiggere la Prussia prima che la Russia potesse accorrere in suo aiuto. Richiamò 50.000 coscritti, mobilitò 30.000 uomini della riserva e inviò diverse spie a perlustrare le strade che portavano da Bamberga alla capitale prussiana. Se doveva muovere per centinaia di chilometri all’interno del territorio nemico 200.000 uomini suddivisi in sei corpi d’armata, oltre alla cavalleria di riserva e alla guardia imperiale, Napoleone aveva bisogno di informazioni precise sulle caratteristiche del terreno, in particolare sui fiumi, le risorse, i forni, i mulini e i magazzini. Ai topografi che tracciavano le sue mappe fu chiesto di includere ogni tipo di informazione immaginabile, soprattutto «la lunghezza, l’estensione e la natura delle strade»: «Fiumi e torrenti devono essere tracciati e misurati in modo scrupoloso, indicando ponti, guadi, profondità e larghezza del corso d’acqua […] Deve essere specificato il numero di case e abitanti di città e villaggi […] deve essere riportata l’altezza di colline e montagne».
Nel contempo, bisognava passare al nemico informazioni sbagliate. «Domani dovete fare uscire 60 cavalli dalle mie stalle», comunicò Napoleone a Caulaincourt il 10 settembre. «E dovete operare nel modo più misterioso possibile. Cercate di far credere a tutti che sto uscendo per una battuta di caccia a Compiègne.» Specificò che la sua tenda da campo «doveva apparire robusta e non sfarzosa»: «Aggiungetevi qualche folto tappeto». Lo stesso giorno ordinò a Luigi di riunire un contingente di 30.000 uomini a Utrecht «con il pretesto di prepararsi per la guerra contro l’Inghilterra». Alle undici di sera del 18 settembre, mentre la guardia imperiale veniva trasferita in diligenza da Parigi a Magonza, Napoleone dettò al suo ministro della guerra Henri Clarke le proprie “Disposizioni generali per la riunione della Grande Armée”, documento fondante della campagna. Stabiliva con precisione la posizione in cui ciascuna unità, al comando di quale maresciallo, doveva trovarsi per una certa data tra il 2 e il 4 ottobre. Il 25 settembre, alle quattro e mezzo del mattino, Napoleone lasciò Saint-Cloud insieme a Giuseppina. Non sarebbe rientrato a Parigi per dieci mesi. Quattro giorni dopo, mentre si trovava a Magonza, giunse un rapporto di Berthier che, insieme alle informazioni fornite da due spie, modificò del tutto la sua opinione sulla situazione strategica. Appariva ora chiaro che i prussiani, anziché occupare posizioni avanzate, come aveva temuto Berthier, si trovavano ancora nei dintorni di Eisenach, Meiningen e Hildburghausen, e questo avrebbe permesso ai francesi di attraversare le montagne e il fiume Saale schierandosi senza alcun rischio di essere intercettati. Di conseguenza, Napoleone cambiò radicalmente il suo piano d’operazioni; poiché anche Murat e Berthier stavano emanando nuove direttive, per un po’ ci fu una certa confusione. «Ho intenzione di concentrare tutte le forze sulla mia destra», disse Napoleone a Luigi, «lasciando interamente aperto lo spazio tra il Reno e Bamberga, al fine di poter riunire circa 200.000 uomini sullo stesso campo di battaglia.» Era necessario compiere delle marce di eccezionale lunghezza: il 7° corpo d’armata di Augereau in tre giorni marciò rispettivamente per 40, 32 e 38 chilometri, e due semibrigate riuscirono a raggiungere la media di 38 chilometri al giorno per nove giorni consecutivi, gli ultimi tre dei quali attraverso una regione montuosa. Poco dopo Davout occupò Kronach, che, con grande stupore di Napoleone, i prussiani non avevano difeso. «Quei signori non si curano di mantenere le posizioni», disse a Rapp, «si risparmiano per sferrare un grande colpo; daremo loro quello che vogliono.» Il piano generale di Napoleone, conquistare Berlino pur proteggendo con cura le sue linee di comunicazione, era già delineato e operativo quando lasciò Giuseppina a Magonza e partì per Würzburg, dove arrivò il 2 ottobre. Il 7 l’esercito era pronto ad attaccare.
Il 7 Napoleone era a Bamberga, in attesa di comprendere le intenzioni del nemico, e prevedendo una ritirata verso Magdeburgo o un’avanzata attraverso Fulda. La dichiarazione di guerra prussiana giunse quello stesso giorno, insieme a un documento di 20 pagine talmente ovvio e prevedibile che Napoleone non si diede la pena di leggerlo sino alla fine, dicendo con un sogghigno che era scopiazzato pari pari dai giornali britannici. «Lo gettò via con disprezzo», avrebbe raccontato in seguito Rapp; poi, alludendo alle vittorie prussiane del 1792, disse di Federico Guglielmo: «Pensa di essere in Sciampagna?», e aggiunse: «Davvero, ho pietà per la Prussia. Provo compassione per Guglielmo. Non si rende conto di quali rapsodie ispirerà. Anche questo è ridicolo». La risposta privata di Napoleone, inviata il 12 ottobre, mentre il suo esercito avanzava in Turingia, fu la seguente:
  "Vostra Maestà sarà sconfitta, metterete a repentaglio la vostra tranquillità e l’esistenza dei vostri sudditi senza nemmeno l’ombra di un pretesto. La Prussia oggi è intatta, e può trattare con me su un piano consono alla sua dignità; nel giro di un mese si troverà in una situazione ben diversa. Siete ancora in condizione di salvare i vostri sudditi dalle devastazioni e dalle sofferenze della guerra. È appena iniziata; voi potreste fermarla, e l’Europa ve ne sarebbe grata.".
Questa lettera può anche essere considerata l’offerta a Federico Guglielmo di una (davvero) ultima possibilità di soluzione dignitosa, con una valutazione alquanto precisa delle prospettive prussiane nel conflitto (anzi, la previsione di un disastro «nel giro di un mese» era una sottovalutazione, visto che le battaglie di Jena e Auerstädt si svolsero nello spazio di due settimane). La vera arroganza e intimidazione era stata quella dei prìncipi, generali e ministri prussiani che avevano spedito l’ultimatum.
Anche se in teoria la Prussia disponeva di un esercito molto grande, 225.000 uomini, 90.000 erano di guarnigione nelle fortezze. Non ci si poteva aspettare alcun aiuto immediato dalla Russia o dalla Gran Bretagna; inoltre, sebbene alcuni comandanti prussiani avessero combattuto sotto la guida di Federico il Grande, nessuno di loro scendeva in battaglia da almeno un decennio. Il comandante in capo, il duca di Brunswick, aveva 70 anni, e l’altro comandante anziano, il generale Joachim von Möllendorf, addirittura 80. Come se non bastasse, Brunswick e il generale al comando dell’ala sinistra dell’esercito prussiano, il principe Federico von Hohenlohe, avevano strategie opposte e si detestavano, con la conseguenza che i consigli di guerra, sempre tempestosi, potevano durare anche tre giorni prima di giungere a una decisione. Napoleone non tenne nemmeno un solo consiglio di guerra per tutta la durata della campagna.
Alcune delle manovre più bizzarre effettuate dai prussiani nel corso della campagna, decisi da una commissione di generali, risultavano difficili da comprendere persino dalla loro stessa prospettiva. La sera del 9 ottobre Napoleone, sulla base delle informazioni ricevute, concluse che il nemico si stava spostando da Erfurt verso est, per concentrarsi a Gera. In realtà non era così, anche se forse avrebbe dovuto farlo, perché avrebbe protetto Berlino e Dresda meglio che con la manovra effettivamente attuata, ossia l’attraversamento della Saale. Napoleone aveva compiuto un errore di valutazione; ma il giorno dopo, non appena se ne accorse, si mosse con straordinaria rapidità per correggerlo e trarre vantaggio dalla nuova situazione.

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Generale Jean-de-Dieu Soult La seconda restaurazione colpì duramente anche lui che fu proscritto e rischiò addirittura il linciaggio durante il terrore bianco.

L’avanzata francese nella Sassonia occupata dalla Prussia era protetta da solo sei reggimenti di cavalleria leggera comandati da Murat. Li seguivano il corpo d’armata di Bernadotte in testa, Lannes e Augereau sulla sinistra, Soult e Ney sulla destra, la guardia imperiale al centro e Davout con il resto della cavalleria nella retroguardia. Nella battaglia di Saalfeld, il 10 ottobre, Lannes sconfisse l’avanguardia prussiana e sassone comandata dal principe Luigi Ferdinando, nipote di Federico Guglielmo, che rimase ucciso guidando un’ultima disperata carica contro il centro dello schieramento francese, abbattuto dal quartiermastro Guindet del 10° ussari. Questa sconfitta, nella quale furono uccisi, feriti o catturati 1.700 prussiani, rispetto ai 172 caduti francesi, ebbe un pesante effetto sul morale prussiano. La Grande Armée si mise in formazione, dando le spalle a Berlino e all’Oder, e impedendo ai prussiani l’accesso alle loro linee di comunicazione, di rifornimento e di ritirata. La mattina dopo si schierò nella pianura sassone, pronta per la nuova fase della campagna. Lasalle, spostandosi rapidamente verso le otto di sera, costrinse i prussiani a ritirarsi attraverso Jena. Napoleone, quando ne venne informato da Murat, all’una del mattino del 12 ottobre, rimase a riflettere per due ore, poi impartì una raffica di ordini che ebbero l’effetto di far muovere l’intero esercito verso ovest, all’inseguimento dei prussiani oltre la Saale.

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Generale Antoine-Charles-Louis, Comte de Lasalle di Antoine-Jean Gros. Molto legato a Napoleone morì alla battaglia di Wagram.

Il 12 ottobre la cavalleria e le spie di Murat confermarono che il grosso dell’esercito prussiano si trovava a Erfurt; pertanto, Murat aprì a ventaglio la sua cavalleria a nord, mentre Davout guadò il fiume a Naumburg, distruggendo qualsiasi eventuale speranza di Brunswick di adottare una difesa avanzata. Perciò i prussiani avviarono un’altra ritirata di massa verso nord-est, demoralizzati e psicologicamente sulla difensiva ancor prima di affrontare uno scontro degno di nota. Il 13 ottobre Lannes mandò la sua avanguardia a conquistare Jena, sgomberò gli avamposti prussiani che vi si trovavano e inviò subito delle truppe a conquistare l’altopiano di Landgrafenberg, che dominava la città.
Napoleone aveva ormai compreso che i prussiani si stavano ritirando verso Magdeburgo, e che Lannes si trovava perciò isolato e rischiava di essere investito da un poderoso contrattacco da parte di 30.000 prussiani i quali, a quanto aveva riferito egli stesso, si trovavano nelle vicinanze. Napoleone ordinò di concentrare tutta la Grande Armée su Jena per il giorno seguente. Davout e Bernadotte ricevettero l’ordine di avanzare, passando da Naumburg e Dornburg, per aggirare il fianco sinistro del nemico a Jena. Davout non poteva sapere che il grosso dell’esercito prussiano stava in realtà dirigendosi contro di lui e, forse per eccesso di sicurezza, non avvertì Berthier delle ingenti forze nemiche già incontrate. Bernadotte e la cavalleria della riserva si mossero più lentamente verso Jena, stremate dalla fatica.

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Generale Louis Nicolas Davout eroe di Auisterlitz e di Jena

Napoleone arrivò sull’altopiano di Landgrafenberg verso le quattro di pomeriggio del 13 ottobre, e, vedendo gli accampamenti nemici collocati a una certa distanza sul medesimo altopiano, ordinò a tutto il corpo d’armata di Lannes e alla guardia imperiale di raggiungerlo, impresa alquanto rischiosa visto che si trovavano a 1000 metri appena dal fuoco nemico. Quella notte Napoleone fece portare sull’altopiano l’artiglieria di Lannes per congiungerla con il corpo d’armata di Augereau e la guardia imperiale. Ney si trovava nelle vicinanze, mentre Soult e la cavalleria della riserva stavano per arrivare. Sperando che Davout avrebbe aggirato la sinistra prussiana il giorno seguente, Napoleone e Berthier gli inviarono un messaggio formulato con cura: «Se Bernadotte è con voi, potete marciare insieme» verso la città di Dornburg.
La battaglia di Jena iniziò alle sei e mezzo del mattino di martedì 14 ottobre 1806 in una fitta nebbia. Napoleone era in piedi già dall’una per ispezionare gli avamposti con uno dei comandanti di divisione di Lannes, il generale Louis Suchet. Rientrato nella sua tenda, Napoleone, cominciò già alle tre del mattino a impartire una lunga sfilza di ordini. Secondo il suo piano, Lannes doveva impiegare entrambe le sue divisioni per attaccare l’avanguardia di Hohenlohe, al comando del generale Bogislav von Tauentzien, onde ottenere lo spazio necessario per consentire al resto dell’esercito di fare manovra sulla sommità. Augereau doveva rimettere in formazione i suoi sulla strada tra Jena e Weimar (nota anche come gola di Cospeda) e marciare sulla sinistra di Lannes, mentre Ney si univa da destra. Soult avrebbe protetto il fianco destro e la guardia imperiale e la cavalleria sarebbero rimaste nella retroguardia per colpire i punti più deboli delle linee nemiche.
Napoleone arringò personalmente le truppe di Lannes alle sei del mattino, poi le fece avanzare verso Taeuntzien. Il colonnello barone Henri de Jomini, uno storico militare che aveva suscitato l’attenzione di Napoleone con un saggio sulla strategia pubblicato nel 1804 ed era stato chiamato a far parte del suo stato maggiore come storico ufficiale dall’imperatore stesso, rimase colpito poiché aveva compreso «la necessità di non ispirare mai troppo disprezzo del nemico, perché, nel caso ci si imbatta in una resistenza ostinata, il morale del soldato potrebbe rimanere scosso». Così, quando si rivolse agli uomini di Lannes, Napoleone elogiò la cavalleria prussiana, ma promise che non sarebbe riuscita a «fare nulla contro le baionette dei suoi egiziani!», riferendosi ai veterani di Lannes che avevano combattuto nella battaglia delle Piramidi.

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Generale Louis Gabriel Suchet Nella Campagna di Prussia (1806), la sua divisione lanciò il primo attacco vittorioso a Saalfeld e diede inizio anche alla battaglia di Jena.

Le forze diel generale Suchet avanzarono sul villaggio di Closewitz in colonne pronte a schierarsi in linea non appena avessero raggiunto l’altopiano; ma nella nebbia svoltarono a sinistra e si scontrarono con il nemico tra Closewitz e il villaggio di Lützeroda. Quando la nebbia cominciò a dissiparsi, si scatenò un aspro combattimento che durò quasi due ore e creò scompiglio tra i francesi, costretti a sprecare moltissime munizioni sulle masse della cavalleria nemica schierate sul Dornberg, il punto più elevato del campo di battaglia. Ciò nonostante, Lannes, un esperto maestro d’esercitazioni, fece avanzare la sua seconda linea verso il fronte con il compito di sgomberare l’altopiano, respingendo un contrattacco lanciato da Lützeroda e riuscendo anche a volgersi verso il villaggio di Vierzehnheiligen. Oltre Vierzehnheiligen, il terreno del campo di battaglia diventa improvvisamente molto piatto, ideale per la cavalleria. Nel corso dei combattimenti tanto Vierzehnheiligen quanto il Dornberg furono conquistati e perduti, poiché Hohenlohe continuava a inviare alla spicciolata contro i francesi piccole unità anziché sferrare un massiccio contrattacco. Napoleone si congiunse a Lannes proprio in questa fase della battaglia, verso le sette e mezzo, quando la nebbia si dissolse, facendo piazzare una batteria di 25 cannoni, e ordinando al 40° reggimento di linea di attaccare Vierzehnheiligen.
Grazie all’arrivo di Soult, Saint-Hillaire riuscì a cacciare i prussiani da Closewitz, e non appena la sua artiglieria e la sua cavalleria lo raggiunsero si mosse verso il villaggio di Rödigen. Fu fermato da una tenace resistenza dei prussiani, ma verso le dieci riuscì a riprendere l’avanzata attraverso Hermstedt per aggirare il fianco sinistro nemico. Augereau, che aveva ammassato un’intera divisione nella gola di Cospeda, non giunse sull’altopiano fino alle nove e mezzo; ma, non appena arrivato, ingaggiò battaglia con il nemico a est di Isserstedt. Nel frattempo, Ney aveva raggiunto l’altopiano con circa 4.000 uomini, e aveva notato che si stava aprendo una breccia sulla sinistra di Lannes. Perciò, di sua iniziativa, si spostò dietro a Lannes e si dispose sulla sua sinistra, proprio mentre quest’ultimo veniva scacciato da Vierzehnheiligen. Grazie all’attacco di Ney i francesi ripresero il villaggio e riuscirono a portarsi sull’estremità meridionale del Dornberg. La potenza del fuoco d’artiglieria prussiano fermò la loro avanzata, ma la fanteria di Ney tenne il villaggio ormai in fiamme. Un attacco della cavalleria costrinse Ney a rifugiarsi in un quadrato della fanteria. A quel punto Napoleone inviò un altro appello a Lannes, le cui truppe assalirono il Dornberg e si riunirono a quelle di Ney alle dieci e trenta, proprio mentre Hohenlohe inviava 5.000 fanti, sostenuti da circa 3.500 uomini della cavalleria e 500 artiglieri in perfetto ordine di schieramento, a scontrarsi con i difensori di Vierzehnheiligen. Fatto di cruciale importanza, le truppe di Hohenlohe non assaltarono il villaggio.
Alle undici Augereau aveva ormai conquistato Isserstedt e si era ricollegato con Ney, e a mezzogiorno Soult era giunto sul fianco destro. Con le due divisioni di Ney alla sinistra di Lannes, e la cavalleria guidata dai generali Dominique Klein, Jean-Joseph d’Hautpoul ed Étienne Nansouty sul punto di arrivare, Napoleone ritenne giunto il momento di sferrare un attacco decisivo.

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Generale Dominique Louis Antoine Klein Si distinse nell'Armata del Nord

Al suo ordine, l’esercito francese avanzò d’impeto in linee compatte seguite da battaglioni incolonnati. I prussiani indietreggiarono caparbiamente per un’ora, ma le loro perdite aumentarono, e sotto i ripetuti attacchi della cavalleria di Murat alla fine i reggimenti di Tauentzien si dispersero e si diedero alla fuga. Alle due e mezzo del pomeriggio l’esercito di Hohenlohe fuggiva ormai dal campo di battaglia in completo disordine, e soltanto qualche battaglione in formazione a quadrato si ritirava sotto il comando dei propri ufficiali. Murat, che cavalcava seguito dai dragoni, dai corazzieri e dalla cavalleria leggera di tutti i tre corpi d’armata, si lanciò in un inseguimento per oltre nove chilometri, uccidendo molti nemici e catturando diverse migliaia di sassoni lungo la strada. Si fermò soltanto quando arrivò a Weimar, alle sei del pomeriggio. Questo prolungato inseguimento delle forze prussiane dopo la disfatta di Jena fu un’operazione da manuale, alla lettera, poiché ancora oggi si insegna nelle accademie militari per illustrare come si fa a trarre il massimo vantaggio dalle vittorie.
Soltanto dopo avere vinto Napoleone si rese conto di non essersi battuto con il corpo principale dell’esercito prussiano, al comando del duca di Brunswick, ma solo contro la sua retroguardia, guidata da Hohenlohe. Fu invece Davout che quello stesso giorno, a 20 chilometri di distanza, ad Auerstädt, sconfisse Federico Guglielmo e Brunswick: il primo riuscì a mettersi in salvo solo grazie a una fuga di molte ore a cavallo, mentre il secondo morì poco dopo la battaglia per le ferite riportate. Davout, con 30.000 uomini e 46 cannoni, era riuscito a effettuare un doppio accerchiamento delle forze prussiane, costituite da 52.000 uomini e 163 cannoni, perdendo, in quel sanguinoso combattimento, 7.000 uomini tra morti e feriti, ma infliggendo quasi il doppio delle perdite ai prussiani. Fu una delle più straordinarie vittorie delle guerre napoleoniche, e, come ad Austerlitz, Davout aveva completamente ribaltato il pronostico in favore dei francesi. Quando il colonnello Falcon, aiutante di campo di Davout, riferì a Napoleone che non aveva sconfitto il grosso dell’esercito prussiano ma soltanto il distaccamento di Hohenlohe, Napoleone non volle crederci. Ma quando si rese conto della verità, Napoleone si dimostrò estremamente caloroso. «Comunicate al maresciallo che lui, i suoi generali e le sue truppe hanno acquisito un eterno diritto alla mia riconoscenza», disse a Falcon, concedendo alle truppe di Davout l’onore di guidare l’entrata trionfale a Berlino il 25 ottobre.
Bernadotte, invece, non era riuscito ad arrivare in tempo su nessuno dei due campi di battaglia, cosa che Napoleone e Davout non gli perdonarono mai. «Avrei dovuto far fucilare Bernadotte», disse Napoleone a Sant’Elena, e sembra che già all’indomani della battaglia avesse preso in considerazione, per un momento, la possibilità di portarlo davanti alla corte marziale. Il 23 ottobre Napoleone gli scrisse un’aspra lettera: «Il vostro corpo d’armata non era sul campo di battaglia, e questo avrebbe potuto risultarmi fatale». Bernadotte aveva preso alla lettera gli ordini di Berthier e aveva fatto marciare i suoi uomini a Dornburg. Dal 9 ottobre la sua strada e quella di Napoleone non si incrociarono fino all’8 dicembre, quando ormai l’imperatore gli aveva già scritto congratulandosi per aver strappato Lubecca a Blücher, per cui gli aneddoti su un infuocato colloquio personale sono soltanto leggende. Capitava di rado che Berthier desse ordini ambigui, ma l’assenza di Bernadotte da entrambi i campi di battaglia era un perfetto esempio di che cosa poteva accadere se lo faceva. Nonostante tutto, Bernadotte sapeva di essere ancora una volta il bersaglio dell’ira di Napoleone, e la situazione era aggravata dall’antica antipatia e dall’invidia che provava nei suoi confronti. Il comportamento "generoso" di Napoleone nei riguardi di Bernadotte potrebbe essere anche dovuto al fatto che Bernadotte aveva sposato Desiree, la prima donna amata da Napoleone, pertanto Napoleone poteva essere un po' imbarazzato nel castigare duramente Bernadotte.

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La battaglia di Jena

La Grande Armée proseguì la sua inesorabile avanzata attraverso la Prussia, non concedendo mai ai prussiani la possibilità di fermarsi e ricompattarsi. Spandau si arrese a Suchet il 25 ottobre, Stettino a Lasalle il 29 e Magdeburgo, nonostante le sue potenti fortificazioni, a Ney l’11 novembre, assicurando così ai francesi l’intera metà occidentale della Prussia. Il 7 novembre il generale Gerhard von Blücher, che aveva combattuto coraggiosamente ad Auerstädt, rimase del tutto privo di munizioni e fu costretto alla resa, quindi si consegnò insieme a tutti i suoi uomini e alla città di Lubecca.
La caduta di Berlino fu così repentina che i negozianti non ebbero nemmeno il tempo di togliere dalle vetrine le numerose caricature satiriche di Napoleone. Come a Venezia, l’imperatore fece rimuovere la quadriga e il carro della vittoria alata dalla porta di Brandeburgo e li trasferì a Parigi, mentre i prigionieri della guardia prussiana furono costretti a marciare davanti all’ambasciata francese, sui cui gradini avevano con tanta protervia affilato le loro spade appena un mese prima. Napoleone visitò il campo di battaglia di Rossbach, dove nel 1757 la Francia era stata umiliata da Federico il Grande, e ordinò di inviare a Parigi anche la colonna che vi era stata eretta.
Napoleone entrò a Berlino il 27 alla testa di un grandioso corteo di 20.000 granatieri e corazzieri in uniforme da parata. «L’imperatore procedeva fiero con la sua divisa modesta, il cappellino e la coccarda da un centesimo», raccontava il capitano Coignet; «il suo stato maggiore portava l’uniforme da parata, ed era davvero strano vedere l’uomo peggio vestito a capo di un così splendido esercito.» Nel 1840, scrivendo alla futura imperatrice Eugenia, Stendhal ricordava che Napoleone «cavalcava 20 passi davanti ai suoi soldati; la folla silenziosa si trovava a due passi appena dal suo cavallo. Avrebbero potuto sparargli con un fucile da qualsiasi finestra». A Berlino, si insediò nel vasto palazzo rococò di Charlottenburg, già appartenuto a Federico Guglielmo, che divenne il suo quartier generale.
Il 30 ottobre Napoleone propose la pace, a patto che la Prussia rinunciasse a tutti i suoi territori a ovest del fiume Elba; Federico Guglielmo era disposto ad accettare, ma quando Napoleone aggiunse che il regno doveva servire anche da base operativa per l’imminente scontro con la Russia, il re ignorò i suggerimenti della maggioranza dei suoi consiglieri e proseguì la guerra, ritirandosi a Königsberg (odierna Kaliningrad), sulla costa baltica.
La Francia forniva a Napoleone circa 80.000 coscritti all’anno, e buona parte della leva del 1806 era già in viaggio verso la Prussia. Grazie a queste forze, cui si aggiungevano 80.000 soldati che aveva sul territorio, senza contare le guarnigioni presenti nelle città prussiane conquistate e diversi distaccamenti forniti dalla confederazione del Reno, nel novembre 1806, prima che l’inverno facesse cessare la campagna, Napoleone poté attraversare la Vistola in forze e penetrare nei territori già appartenenti alla Polonia. La Polonia era stata una nazione europea dal 966, un regno dal 1205, e nel 1569, con l’unione di Lublino, si era associata alla Lituania. Era stata poi progressivamente ma inesorabilmente cancellata dalla carta geografica con le spartizioni del 1772, 1793 e 1795 tra Russia, Prussia e Austria; ma anche se il paese in quanto tale non esisteva più, le potenze responsabili della spartizione non potevano fare nulla per scalfire il patriottismo dei polacchi. Napoleone incoraggiava senza sosta tale sentimento, facendo credere ai polacchi che un giorno avrebbe riunificato la loro nazione. Forse prima o poi lo avrebbe anche fatto, ma nel breve periodo non aveva alcun progetto a riguardo.
Dal 1797, quando l’esercito rivoluzionario francese aveva costituito le “legioni polacche”, avevano prestato servizio nelle due campagne d’Italia, in Germania e a Santo Domingo, tra i 25.000 e i 30.000 polacchi. L’apparente simpatia di Napoleone per la loro causa incoraggiò un numero crescente di polacchi a schierarsi al suo fianco, e alcuni tra i soldati migliori di Napoleone furono polacchi, tra gli altri quelli delle prime unità di lancieri della Grande Armée: si dimostrarono così efficienti che già nel 1812 Napoleone aveva trasformato nove reggimenti di dragoni in altrettanti reggimenti di lancieri.
I cavalli per la nuova campagna furono requisiti in tutta la Francia e in tutta la Germania, mentre all’Armata d’Italia fu sottratta la cavalleria, destinata alla Grande Armée. In Prussia Napoleone requisì uniformi, viveri, selle, calzature e molte altre cose, ma i rifornimenti erano sempre insufficienti a causa del pessimo stato delle strade polacche.
Il 2 novembre Napoleone ordinò a Davout di spingersi a est fino a Posen con i dragoni di Beaumont, seguito da Augereau. Giunti a destinazione, organizzarono una base e costruirono dei forni per il pane prima dell’arrivo dei corpi d’armata al comando di Lannes, Soult, Bessieres, Ney e Bernadotte, un contingente costituito da 66.000 uomini di fanteria e 14.400 di cavalleria circa. Napoleone fece occupare il territorio tra l’Oder e la Vistola soprattutto per sottrarlo ai russi, ma anche perché sperava di impedire ai prussiani di prepararsi alla rivincita e di persuadere gli austriaci a rimanere neutrali. Lui rimase a Berlino. Il 4 venne informato che 68.000 russi stavano avanzando da Grodno verso ovest con l’intenzione di riunirsi ai 20.000 prussiani al comando del generale Anton von Lestocq. «Se lascio avanzare i russi, potrei perdere il sostegno e le risorse della Polonia», disse; «potrebbero indurre l’Austria, che ha finora esitato soltanto perché erano così lontani, a prendere una decisione; e si porterebbero dietro l’intera nazione prussiana.»
Perciò Murat, Davout, Lannes e Augereau continuarono ad avanzare fino alla Vistola dove allestirono delle teste di ponte prima di rientrare nei loro accantonamenti invernali sulla sponda occidentale del fiume. Marciare verso est a migliaia di chilometri da Parigi, procedendo nel gelido inverno in una delle aree rurali più povere e peggio rifornite d’Europa contro due nazioni nemiche, e con un’altra forse ostile a sud, sarebbe stato comunque un considerevole rischio, per quanto non peggiore di quello affrontato nella campagna di Austerlitz.
Nella successiva fase della campagna quasi tutti gli scontri avvennero nella Prussia orientale, territorio un tempo polacco corrispondente a quella che è oggi l’enclave russa di Kaliningrad, un’area con un’estensione di 9.400 chilometri quadrati. Si tratta in gran parte di terreno pianeggiante e paludoso con numerosi fiumi, laghi e foreste. In inverno le temperature scendono fino a 30 gradi sotto zero e la luce diurna dura soltanto dalle sette e mezzo del mattino alle quattro e mezzo del pomeriggio. Le strade spesso erano solo piste non tracciate sulle mappe; persino la strada principale tra Varsavia e Posen era sterrata e priva dei fossi laterali. Pesanti piogge avevano trasformato tutta la zona in un mare di fango, dove i cannoni avanzavano a una velocità massima di meno di due chilometri all’ora. Napoleone disse scherzando di avere scoperto un quinto elemento da aggiungere all’acqua, al fuoco, all’aria e alla terra: il fango! Mandò in avanscoperta il suo dipartimento topografico a mappare e tracciare il territorio, a registrare il nome di ogni villaggio, la popolazione e persino il tipo di terreno; accanto a queste informazioni era apposta la firma dell’ufficiale responsabile, in modo da poterlo convocare in seguito per avere ulteriori dettagli.
Pur preparandosi ad affrontare nuovamente i russi, Napoleone pensava anche alla Gran Bretagna, che considerava una minaccia altrettanto seria per gli interessi di lungo termine della Francia. Venerdì 21 novembre 1806 convertì in legge il decreto di Berlino, concepito per costringere la Gran Bretagna a sedersi al tavolo dei negoziati, ma destinato invece a provocare (quando cercò di imporlo con la forza al Portogallo, alla Spagna e alla Russia) la sua stessa caduta. Il “blocco continentale” introdotto dal decreto di Berlino (e da quelli successivi, di Milano e di Fontainebleau, del 1807 e del 1810) era ciò che Napoleone definiva “una ritorsione” contro l’order-in-council britannico del 16 maggio 1806, che aveva imposto il blocco della costa europea da Brest fino all’Elba.
«L’Inghilterra non accetta la legge delle nazioni seguita universalmente da tutti i popoli civilizzati», esordiva il decreto di Berlino, concludendo che i suoi avversari avevano «il naturale diritto di opporsi al nemico con le stesse armi da esso impiegate». Pertanto, gli articoli del decreto, redatti e rivisti da Talleyrand, sostenitore di quella linea politica, erano intransigenti:
1. Le isole britanniche sono in stato di blocco.
2. Sono proibiti scambi o corrispondenza di qualsiasi tipo con le isole britanniche.
3. Ogni suddito britannico, quale che sia il suo stato o la sua condizione […] sarà fatto prigioniero di guerra.
4. Tutti i depositi, le merci e le proprietà, di qualsiasi natura, appartenenti a un suddito dell’Inghilterra saranno dichiarati legittimo bottino […]
7. Nessuna nave proveniente direttamente dall’Inghilterra o dalle colonie inglesi, o che vi abbia transitato dopo la pubblicazione del presente decreto, sarà autorizzata a entrare in porto.
Poiché un terzo delle esportazioni dirette britanniche e tre quarti delle sue riesportazioni erano destinate al continente europeo, Napoleone sperava che il decreto avrebbe esercitato una fortissima pressione politica sul governo britannico spingendolo a riprendere i negoziati di pace interrotti in agosto. Il 3 dicembre, in una lettera a Luigi, spiegava: «Conquisterò il mare dominando in terraferma». In seguito affermò: «È il solo modo di colpire l’Inghilterra e costringerla alla pace». Era vero: dopo la distruzione della flotta francese a Trafalgar, non rimaneva altro sistema diretto per danneggiare la Gran Bretagna se non quello commerciale.
Napoleone era convinto che il decreto di Berlino avrebbe riscosso il favore degli imprenditori francesi, i quali, sperava, sarebbero subentrati negli scambi commerciali alla Gran Bretagna, ma ben presto fu disingannato dai rapporti delle sue camere di commercio. Già a dicembre quella di Bordeaux registrò una pericolosa contrazione degli affari. Infatti gli scambi internazionali non sono quel gioco a somma zero che Napoleone, nel suo rozzo colbertismo, credeva. Nel marzo 1807 fu costretto ad autorizzare alcuni speciali prestiti industriali finanziati con i fondi di riserva per neutralizzare la crisi in corso.
Anche se gli articoli più veementi dell’“Edinburgh Review”, un influente periodico britannico conservatore, invocavano la pace per consentire la ripresa del commercio, il governo riuscì a superare le critiche interne. Invece, il blocco continentale danneggiò proprio quanti erano stati avvantaggiati dal regime di Napoleone, e quindi fino a quel momento erano stati i suoi più decisi sostenitori: la classe media, commercianti, mercanti e contadini agiati, acquirenti delle proprietà nazionali che lui aveva sempre cercato di aiutare. «I negozianti di tutti i paesi si lamentavano per la situazione degli affari», ricordava in seguito il ministro del tesoro Mollien, ma Napoleone non aveva intenzione di ascoltare, e ancor meno di scendere a compromessi.
Impedendo ai consumatori occidentali di acquistare le merci britanniche, Napoleone sperava di stimolare la produzione europea, soprattutto francese, e di incoraggiare i produttori a sperimentare nuove alternative. Nel 1810, quando si scoprì che le barbabietole da zucchero e l’indaco potevano essere prodotti in Francia, parlando con il suo segretario paragonò la scoperta a quella dell’America. A Saint-Denis venne aperta una scuola sperimentale per insegnare le tecniche di produzione dello zucchero, e nel marzo 1808 Napoleone chiese a Berhollet di studiare se fosse «possibile ottenere zucchero di qualità dalle rape».
Napoleone ottenne un grande successo quando l’elettore Federico Augusto di Sassonia, le cui forze avevano combattuto a fianco dei prussiani a Jena e Auerstädt, abbandonò l’alleanza con Federico Guglielmo III ed entrò nella confederazione del Reno. Il 19 dicembre Napoleone fu accolto a Varsavia con eccezionale entusiasmo. Istituì immediatamente un governo provvisorio di nobili polacchi, fornito però di poco più che poteri consultivi. Supponeva che i russi non si sarebbero ritirati ulteriormente e che fossero pronti a combattere, perciò ordinò a tutti i suoi corpi d’armata di attraversare la Vistola. Sperando di colmare il divario che lo separava dai generali russi Bennigsen e Büxhowden (entrambi di origine tedesca), disse ai comandanti di corpo d’armata di tenersi pronti per un’importante offensiva. Il 23 dicembre, quando il corpo d’armata di Davout raggiunse il villaggio di Czarnowo, sul fiume Bug, Napoleone fece lui stesso una ricognizione della zona e poi sferrò un attacco notturno, riuscendo a mettere in fuga 15.000 russi che, al comando del conte Aleksandr Ostermann-Tolstoj, si erano spinti troppo avanti, e assicurando ai francesi le vie d’acqua a nord di Varsavia.
Il giorno di Natale del 1806 Napoleone cercò di annientare l’esercito di Bennigsen, che si stava ritirando a nord-est, inviando Lannes a Pultusk per tagliargli la linea di ritirata, mentre Davout, Soult e Murat marciavano verso nord, Augereau si dirigeva a nord-est dal fiume Wkra e Ney, e Bernadotte a sud-est dalla Vistola. Le condizioni atmosferiche guastarono tutte le opportunità di Napoleone, rallentando gli spostamenti a un ritmo di appena 11 chilometri al giorno. «Il terreno sul quale marciavamo era argilloso e inframmezzato da paludi», ricordava Rapp, «le strade erano in pessimo stato: la cavalleria, la fanteria e l’artiglieria rimanevano impantanate, e facevano un’immensa fatica a districarsi.» Il giorno dopo, quando scoppiò la battaglia a Pultusk, «molti ufficiali rimasero bloccati nel fango e non poterono muoversi per tutto il corso della battaglia. Erano bersagli per il nemico».
Bennigsen, al comando di 35.000 uomini, svolse un’efficace azione di retroguardia durante una tempesta di neve a Pultusk contro il corpo d’armata di Lannes, forte di 26.000 effettivi, e si ritirò il giorno seguente. Lo stesso giorno, a Golymin, il principe Andrej Golicyn combatté fino all’imbrunire, e poi sottrasse con eleganza i suoi da una tipica trappola di Napoleone (Murat, Augereau e Davout dovevano attaccarlo da tre lati); a luglio, quando si incontrarono a Tilsit, Napoleone si complimentò con Golicyn per la sua fuga. Dopo una ritirata riuscita, i russi raggiunsero l’accantonamento invernale nei pressi di Bialystok; il 28 dicembre Napoleone sospese le ostilità e acquartierò l’esercito lungo la Vistola, tornando a Varsavia il giorno di capodanno. Non aveva avuto altra scelta, considerando il cattivo tempo, il pessimo stato delle strade e il fatto che, a causa della febbre, delle ferite, della fame e dello sfinimento, spesso mancava all’appello il 40 per cento dei suoi uomini, per lo più impegnati a cercare cibo in una regione che era a malapena in grado di mantenere la propria popolazione in tempo di pace; figurarsi quindi due enormi eserciti in guerra. Furono date disposizioni per la costruzione di ospedali, officine, panetterie e depositi di viveri, e intanto si allestivano teste di ponte e accampamenti fortificati, in modo che la primavera successiva la Grande Armée non fosse costretta ad attraversare a forza il fiume.
Nel gennaio del 1806 Napoleone ruppe gli indugi; il 19 gennaio l’avanguardia di Napoleone incontrò quella di Bennigsen che procedeva in direzione di Danzica. Il tempo era ancora pessimo. «Mai una campagna era stata così dura», scrisse il generale di artiglieria Alexandre de Sénarmont. I suoi cannoni erano sprofondati nel fango fino all’asse e i suoi artiglieri fino alle ginocchia. Poi il terreno si indurì per il gelo, e una pesante nevicata rallentò ulteriormente l’esercito.
Il 27 gennaio la Grande Armée stava ancora procedendo verso nord a marce forzate, mentre Ney e Bernadotte ricevettero l’ordine di proseguire la loro ritirata verso ovest, attirando così Bennigsen sempre più nella trappola di Napoleone. «Non sono mai stato così in salute», si vantò Napoleone con Giuseppe, «e di conseguenza sono diventato più galante di prima».
Il 31 gennaio un contingente di cosacchi appartenenti all’avanguardia del generale russo Bagration catturò un aiutante di campo che stava portando un messaggio non cifrato di Napoleone a Bernadotte, e che non era riuscito a distruggerlo in tempo. Nel messaggio si ordinava a Bernadotte di ricongiungersi alla sinistra della Grande Armée avanzando durante la notte in segreto. Conteneva anche le disposizioni per tutta la Grande Armée e rivelava la sua intenzione di isolare l’intero esercito russo con un attacco da sud. Con perfetta calma, Bennigsen ordinò un’immediata ritirata verso l’Alle. Ignaro che il suo piano era stato scoperto, Napoleone continuò a procedere verso nord, lungo strade in condizioni spaventose e con un tempo tremendo. Per un comandante che aveva sempre considerato la velocità un elemento essenziale, l’inverno polacco era un ostacolo oltremodo frustrante. Il 2 febbraio Napoleone fu informato che, anziché avanzare verso la Vistola, Bennigsen stava ritirandosi verso l’Alle, per mettersi in salvo. Napoleone andò il più in fretta possibile a Bergfried nel tentativo di bloccarlo prima che sfuggisse. Disponeva solo di cinque divisioni di fanteria, la cavalleria della riserva di Murat e parte della guardia imperiale. Il giorno dopo Bennigsen attraversò l’Alle, lasciando soltanto retroguardia a contrastare i francesi. Napoleone annullò l’attacco, e il giorno dopo i russi erano scomparsi. «Sono all’inseguimento dell’esercito russo», disse a Cambacéres, «e lo costringerò a indietreggiare oltre il Niemen».
Il 6 febbraio, quando Murat entrò in contatto con la retroguardia russa presso il ponte di un affluente del Frisching, nelle vicinanze di Hof, il generale Jean-Joseph d’Hautpoul mandò alla carica i suoi corazzieri contro l’artiglieria russa, occupando la postazione. Mezz’ora dopo, di fronte all’intera divisione, Napoleone abbracciò il mastodontico e corpulento veterano dalla lingua tagliente, il quale, fedele all’etichetta, subito dopo si rivolse alle sue truppe e tuonò: «L’imperatore è contento di voi, e anch’io sono così contento di voi che vi bacio il culo a tutti!».

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Generale Jean Joseph Ange d' Hautpoul. Rimase ucciso nella massiccia carica di cavalleria ordinata da Murat nella battaglia di Eylau del 1807.

Bennigsen era riuscito anche in quell’occasione a svicolare. Bennigsen aveva una sola possibilità per proteggere Königsberg, 30 chilometri più a nord (dove non poteva lasciarsi intrappolare), dare battaglia a Eylau (l’odierna Bagrationovsk) allora cittadina della Prussia orientale con 1.500 abitanti, a 200 chilometri dalla frontiera russa. Aveva circa 58.000 uomini, ma attendeva a breve l’arrivo di Lestocq con altri 5.500. Napoleone ne aveva 48.000, ma Ney, 19 chilometri a ovest, e Davout, 16 chilometri a sud-est, stavano sopraggiungendo con quasi 30.000. I russi però erano in netto vantaggio quanto ad artiglieria, con 336 cannoni rispetto ai 200 di Napoleone.
La strada maestra da Landsberg a Königsberg si allunga per una quindicina di chilometri tra una pianura e una foresta e poi sfocia in una pianura ondulata un paio di chilometri da Eylau, che termina in una leggera altura. Da quel punto Napoleone godeva di un’ottima visuale sull’ampia valle che conduceva al pronunciato crinale dove era schierato l’esercito russo. Aveva sulla sinistra il lago Tenknitten e sulla destra il lago Waschkeiten. Nel chilometro circa che li separa, il terreno si solleva leggermente, soprattutto presso l’incrocio stradale, dopo il quale la strada scende per quasi un chilometro fino a Eylau, con una modesta pendenza. Su una collina a destra di quella che nel 1807 era una cittadina di solide case sorte intorno a un importante crocevia si erge una chiesa con il suo cimitero. Il terreno era tempestato di paludi, laghi ghiacciati e boschi di betulle. Sul punto più elevato c’era il villaggio di Serpallen, dove in alcuni tratti la neve era alta un metro.
L’esercito di Bennigsen si schierò per la battaglia nella tarda mattinata di sabato 7 febbraio 1807. Alle due del pomeriggio la cavalleria di Murat e la testa della fanteria di Soult raggiunsero i boschi che si stendevano di fronte al villaggio di Grünhofschen. Augereau arrivò subito dopo e si schierò in direzione del lago Tenknitten. Soult mandò in campo il 18° e il 46° reggimento di linea contro l’avanguardia russa, priva di supporto; i francesi attraversarono un’estremità del lago ghiacciato sotto un pesante fuoco d’artiglieria, scartarono sulla destra e, già alquanto scompigliati, furono attaccati alla baionetta. Poi i dragoni San Pietroburgo, bramosi di vendetta per la sconfitta subita a Hof, attraversarono il lago ghiacciato e attaccarono la retroguardia sinistra, cogliendo di sorpresa entrambi i battaglioni e sbaragliandoli (fu in quell’occasione che il 18° reggimento perse la sua aquila). I dragoni francesi giunsero appena in tempo per contrattaccare e salvarli da un completo annientamento; ma fu una carneficina. Il 46° reggimento di linea riuscì a ritirarsi in buon ordine. Quando Soult schierò la sua artiglieria tra Schwehen e Grünhofschen, l’avanguardia russa cominciò a indietreggiare verso il grosso dell’esercito.
Napoleone controllava ormai tutto l’altopiano, fino alla valle; aveva però subito perdite pesanti: tre settimane dopo c’era ancora un cumulo di cadaveri. Non era sua intenzione assaltare Eylau quella sera, e avrebbe preferito aspettare l’arrivo di Ney e Davout, ma varie circostanze e fraintendimenti, ben riassunti nella celebre espressione «la nebbia della guerra», lo costrinsero a farlo. Forse la miglior spiegazione era quella di Soult, secondo il quale una parte della cavalleria di riserva aveva inseguito i russi fino a Eylau, e il suo 24° reggimento di linea si era mosso dietro di loro, per cui era iniziato uno scontro generale per la chiesa e il cimitero, che naturalmente richiedeva sempre più uomini. Qualunque fosse la vera ragione, la battaglia si trasformò in due giorni di scontri, con 115.000 uomini che si battevano per un’area di appena 12 chilometri quadrati.
La chiesa e il cimitero furono presi d’assalto dalla divisione di Saint-Hilaire; nel corso dell’attacco, Barclay de Tolly, uno dei migliori generali dell’esercito russo, subì una grave ferita dalla mitraglia, che lo lasciò fuori combattimento per 15 mesi. Bagration avrebbe voluto evacuare Eylau ma Bennigsen ordinò che fosse riconquistata a tutti i costi; perciò, guidò tre colonne a piedi contro la fanteria e l’artiglieria francese, che sparava a mitraglia. Alle sei del pomeriggio i russi avevano ripreso gran parte della città, ma non la chiesa e il cimitero. A quel punto Bennigsen cambiò idea e, alle sei e mezzo, ordinò alle truppe russe di ritirarsi dalla città fino a un leggero promontorio a est; i francesi rioccuparono immediatamente la città.

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Generale Claude Juste Alexandre Louis Legrand ritratto da Antoine Jean Gros. Morì il 9 gennaio 1815 a causa delle ferite subite durante la campagna di Russia.

Al calar della notte la divisione di Legrand si spostò poco oltre Eylau; Saint-Hilaire si accampò all’aperto vicino a Rothenen; la cavalleria di Milhaud si trovava a Zehsen; Grouchy era dietro a Eylau; Augereau si teneva in seconda linea tra Storchnest e Tenknitten, e la guardia imperiale trascorse la notte sull’altura da cui Bagration aveva dato avvio alla giornata. Nevicava, ed entrambi gli eserciti si ammassarono intorno ai fuochi dei bivacchi. Dato che in caso di marce forzate le salmerie non erano in grado di tenere il ritmo dell’esercito, da tre giorni un certo numero di soldati non riceveva la razione di pane, e alcuni si ridussero a mangiare la carne dei cavalli morti sul campo di battaglia. Un’ora prima dell’imbrunire Napoleone andò a trovare Eylau. «Le strade erano piene di cadaveri, uno spettacolo orribile», ricordava il capitano François-Frédéric Billon. «Gli occhi dell’imperatore si riempirono di lacrime; nessuno avrebbe creduto possibile una simile emozione in quel grande uomo di guerra; ma le ho viste io stesso, quelle lacrime […] L’imperatore faceva del suo meglio per impedire che il suo cavallo calpestasse qualche resto umano, ma non ci riusciva […] è stato allora che l’ho visto piangere.» Passata la mezzanotte di quella notte gelida, mentre nevicava, Napoleone si coricò su una poltrona nella stazione di posta semidistrutta che si trovava sotto il Ziegelhof, senza nemmeno togliersi gli stivali.

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Generale Édouard Jean-Baptiste Milhaud, famoso per i suoi attacchi con la cavalleria

Alle otto del mattino di domenica 8 febbraio 1807 i russi avviarono un furioso cannoneggiamento su Eylau: la mancanza di precisione nel tiro era compensata dall’enorme numero di colpi sparati. La risposta dell’artiglieria francese provocò pesanti danni alle formazioni russe che spiccavano nella neve. Soffiava un vento gelido e di tanto in tanto nevicava, quindi quel giorno la visibilità fu un fattore di primaria importanza: talvolta si riduceva ad appena una decina di metri, tanto che i russi sulle alture in certi momenti non riuscivano a scorgere Eylau e molto spesso i loro comandanti non riuscivano a vedere le proprie truppe.
Alle nove e mezzo Napoleone ordinò a Soult di spostarsi sull’estrema sinistra della sua linea, a nord-ovest di Eylau. Il corpo d’armata di Davout si avvicinava alla città dalla direzione opposta, e l’imperatore voleva distogliere l’attenzione di Bennigsen. Verso le dieci, tuttavia, Soult fu respinto dai russi fino a dentro Eylau. «Trecento cannoni da entrambi gli schieramenti si tempestavano da breve distanza con una pioggia di colpi a mitraglia, provocando spaventose stragi», ricordava Lejeune. Quando il corpo d’armata di Davout giunse sulla destra di Napoleone, fu arrestato dagli attacchi accaniti della cavalleria di Ostermann-Tolstoj contro l’avanguardia di Friant. Poiché il fianco sinistro, guidato da Soult, era in posizione di debolezza, e Davout si stava schierando con sconfortante lentezza, Napoleone aveva bisogno di una decisiva diversione sulla destra.
Ordinò ad Augereau di attaccare il fianco sinistro russo con i suoi 9000 uomini, e se possibile di ricongiungersi con Davout. Già prima della battaglia Augereau era molto malato, e soffriva il freddo al punto che si era avvolto la testa in una sciarpa, su cui aveva ficcato il suo cappello da maresciallo; doveva essere sostenuto in sella da un aiutante di campo. Durante l’avanzata si perse nella bufera e marciò dritto contro una batteria russa che sparava a mitraglia ad alzo zero, e di cui si poteva intuire la posizione solo dalle fiammate dei fusti. Nel giro di un quarto d’ora vennero uccisi o feriti 5.000 tra ufficiali e soldati, e lo stesso Augereau rimase ferito. Anche la divisione di Saint-Hilaire, che aveva proseguito la marcia per cercare di soccorrere Davout, fu ricacciata indietro. Verso le undici e un quarto la situazione appariva grave. Napoleone osservava lo svolgimento della battaglia dalla chiesa di Eylau, malgrado fosse bombardata dall’artiglieria russa. Il suo fianco sinistro era stato sbaragliato, quello destro gravemente compromesso, e i rinforzi erano in ritardo. Anch’egli si trovò in pericolo quando una colonna di fanteria russa riuscì a entrare a Eylau e ad avvicinarsi alla chiesa, ma poi venne fermata e annientata.
Alle undici e mezzo, essendo ormai chiaro che Augereau aveva fallito, Napoleone effettuò una delle mosse più audaci della sua carriera militare. Non appena la bufera si calmò, lanciò quasi tutta la cavalleria di riserva di Murat nella più grandiosa carica delle guerre napoleoniche. Murat, che per l’occasione indossava un mantello polacco verde, un berretto di velluto verde e teneva in mano soltanto un frustino, si mise alla testa di 7300 dragoni, 1900 corazzieri, 1500 uomini della guardia imperiale a cavallo e lanciò un attacco frontale. «Avanti, per Dio!» gridò il colonnello Louis Lepic dei granatieri a cavallo della guardia. «Sono pallottole, non stronzi!» La cavalleria russa fu respinta contro la propria fanteria; gli artiglieri russi vennero abbattuti a sciabolate accanto ai cannoni; Serpallen fu riconquistata, e Murat si fermò soltanto quando raggiunse Anklappen.
La carica di Murat bloccò il centro dello schieramento russo e riportò l’iniziativa nelle mani di Napoleone. Costò almeno 2.000 caduti, compreso il generale d’Hautpoul, che fu colpito dalla mitraglia e morì pochi giorni dopo la battaglia. Intanto Ney, in mezzo alla bufera, procedeva con lentezza sulle strade terribili che portavano al campo di battaglia. Verso le tre e mezzo Davout era riuscito a portarsi dietro a Bennigsen, e si trovava ormai in prossimità di Anklappen. Napoleone stava per far scattare la sua trappola, accerchiando l’esercito russo, quando improvvisamente apparve Lestocq, che sferrò un attacco contro la divisione di Friant. Ricacciò i francesi da Anklappen quando rimaneva ancora soltanto mezz’ora di luce, salvando così il fianco sinistro di Bennigsen. Alle sette arrivò finalmente Ney, ma era troppo tardi per sferrare il colpo devastante in cui Napoleone aveva sperato. I combattimenti si placarono a poco a poco mentre scendeva l’oscurità e i due schieramenti cedevano esausti alla fatica. A mezzanotte Bennigsen, ormai a corto di munizioni e consapevole dell’arrivo di Ney, ordinò la ritirata, lasciando il campo ai francesi.
«Quando due eserciti si sono inflitti terribili ferite per tutto il giorno, la vittoria sul campo spetta allo schieramento che, armato di perseveranza, rifiuta di abbandonarlo», commentò Napoleone. Ma la vittoria sul campo fu tutto ciò che Napoleone ottenne a Eylau. Non sapendo se si trovava di fronte la retroguardia russa o l’intero esercito di Bennigsen, i suoi attacchi erano stati scomposti e costosi, e gli scontri nelle strade di Eylau erano stati un episodio inutile. Ney fu chiamato soltanto alle otto di mattina dell’8, quando era ormai troppo tardi, perché Murat aveva erroneamente riportato la notizia di una ritirata russa. L’attacco di Augereau nella bufera di neve era stato disastroso al punto che il suo corpo d’armata dovette esser smantellato e gli effettivi distribuiti ad altri marescialli mentre Auegerau si rimetteva in forze, cosa per la quale non perdonò mai veramente Napoleone. La carica della cavalleria di Murat era stata un’impresa splendida e utile, ma comunque un rimedio disperato, come attestava in modo inequivocabile il fatto che vi avesse partecipato la guardia del corpo di Napoleone. Anche la fanteria della guardia imperiale subì gravi perdite a Eylau, essendosi dovuta esporre al fuoco dell’artiglieria nemica per nascondere la debolezza numerica di Napoleone.

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La battaglia di Eylau

Erano stati due giorni davvero terribili. «Non molti prigionieri, ma moltissimi cadaveri», ricordava Roustam, il quale per poco non vi morì assiderato. «I feriti sul campo di battaglia erano coperti di neve, e se ne poteva scorgere soltanto la testa.» Undici giorni dopo la battaglia, Lestocq fece seppellire circa 10.000 cadaveri, più della metà dei quali erano francesi. Eylau rappresenta perciò un nuovo tipo di battaglia nelle guerre napoleoniche, perfettamente riassunto dalle parole pronunciate da Ney alla sua conclusione: «Che massacro! E senza nessun risultato!».
Entrambi gli eserciti rietrarono nei risperttivi acquartieramenti invernali. Napoleone sfruttò il tempo a sua disposizione per reclutare una divisione bavarese di 10.000 uomini e organizzare una leva di 6.000 polacchi, far arrivare rinforzi dalla Francia, dall’Italia e dall’Olanda, e richiamare la leva del 1808 con più di un anno d’anticipo. Eylau aveva infranto il mito della sua invincibilità, e bisognava cancellare la macchia se si voleva che gli austriaci rimanessero neutrali, soprattutto perché, alla fine di febbraio, Federico Guglielmo aveva rifiutato condizioni di pace ben più concilianti di quelle offerte da Duroc dopo la battaglia di Jena al marchese di Lucchesini, l’ambasciatore prussiano a Parigi. Sarebbe stato impossibile effettuare una campagna offensiva in primavera se il ricco e ben fortificato porto di Danzica non fosse caduto, perché in caso contrario i russi avrebbero potuto sferrare un attacco nelle retrovie di Napoleone con l’aiuto della Royal Navy. Dopo il rapimento del generale Victor a Stettino (20 gennaio 1807) a opera di 25 soldati prussiani camuffati da contadini, il maresciallo Lefebvre ricevette l’ordine di assediare Danzica. Quando riuscì a conquistarla, il 24 marzo, mettendo così in sicurezza il fianco sinistro francese, Napoleone gli inviò una scatola di cioccolatini. Il maresciallo non ne fu affatto colpito, ma quando l’aprì scoprì che conteneva 300.000 franchi in banconote. Un anno dopo l’orgoglioso repubblicano Lefebvre, che era stato vice di Napoleone il 18 brumaio, fu nominato duca di Danzica.

lefebvre

Generale François Joseph Lefebvre. Fu tra i marescialli che chiesero l'abdicazione dell'Imperatore; e con la resa della Francia, egli riuscì, trattando con lo zar Alessandro, a far sì che l'Alsazia rimanesse francese.

Entrambi gli eserciti rietrarono nei risperttivi acquartieramenti invernali. Verso fine maggio Napoleone era pronto: Danzica era nelle sue mani, i malati erano stati mandati via dal fronte, e c’erano provviste sufficienti per otto mesi. Poteva contare su 123.000 soldati di fanteria, 30.000 effettivi di cavalleria e 5000 artiglieri. Stabilì la data del 10 giugno per la sua principale offensiva, ma Bennigsen si mosse per primo, attaccando Ney a Guttstadt il 5 giugno. Quello stesso giorno fece muovere tutti i suoi corpi d’armata, desiderando come sempre una battaglia decisiva che potesse concludere la campagna. Davout, che aveva già spostato due divisioni da Allenstein per minacciare il fianco sinistro dei russi, lasciò catturare apposta un messaggero con la falsa notizia che Napoleone aveva 40.000 uomini pronti per assalire le retrovie russe, mentre in realtà ne aveva in tutto 28.000. Il giorno dopo Bennigsen ordinò una ritirata. Nel frattempo, Soult attraversò in forze il fiume Passarge e risospinse indietro il fianco destro dello schieramento russo. L’8 giugno Napoleone interrogò alcuni prigionieri di guerra della retroguardia di Bagration, i quali gli rivelarono che Bennigsen stava marciando su Guttstadt. Sembrava plausibile che vi desse battaglia, invece si ritirò al campo ben fortificato di Heilsberg. Napoleone avanzò con Murat e Ney in testa, seguiti da Lannes e dalla guardia imperiale, mentre Mortier si trovava indietro a una giornata di marcia. Davout era posizionato all’estremità destra e Soult alla sinistra; il sistema dei corpi d’armata funzionava alla perfezione. Bagration protesse la ritirata di Bennigsen, distruggendo ponti e villaggi alle sue spalle man mano che i suoi uomini procedevano lungo le strade interminabili e polverose in un caldo bruciante. Pensando che Bennigsen potesse dirigersi verso Königsberg, il 9 giugno Napoleone decise di attaccare quella che riteneva essere soltanto la retroguardia nemica. Si trattava in realtà dell’intero esercito russo, forte di 53.000 uomini e 150 cannoni.
La cittadina di Heilsberg, che sorge in un avvallamento sulla riva sinistra del fiume Alle, era la base operativa fortificata dell’esercito russo. Diversi ponti portavano a un sobborgo sulla riva destra. I russi avevano costruito quattro enormi ridotte per proteggersi nel caso il nemico avesse attraversato il fiume, intervallate da flêches (terrapieni a forma di punta di freccia), da cui avevano dato battaglia nelle prime ore del 10 giugno. Napoleone arrivò alle tre del pomeriggio, infuriato per il modo dispendioso con cui Murat e Soult avevano condotto la battaglia, durante la quale erano state perdute altre tre aquile. Gli scontri cessarono soltanto alle undici di sera, e dopo si videro scene disgustose di civili al seguito di entrambi gli eserciti indaffarati a depredare i morti e i feriti. L’alba sorse a illuminare un campo di battaglia davvero desolante (erano rimasti feriti più di 10.000 francesi e almeno 6.000 russi), e quando il sole giunse allo zenith entrambi gli eserciti furono costretti ad arretrare per il fetore di morte.
Anche se a Heilsberg erano state prese ingenti quantità di equipaggiamenti e di viveri, Napoleone aveva messo gli occhi su quelle ben più consistenti di Königsberg. Per raggiungere Königsberg i russi dovevano riattraversare l’Alle. Napoleone sapeva che nella cittadina di Friedland (l’odierna Pravdinsk) c’era un ponte; mandò quindi Lannes a compiere una ricognizione, e divise in due il resto del suo esercito: Murat, con 60.000 uomini (la sua cavalleria, più i corpi d’armata di Soult e Davout), fu mandato a conquistare Königsberg, mentre lui stesso rientrò a Eylau con 80.000 uomini. Il 13 giugno l’avanguardia di Lannes riferì di una grande concentrazione russa a Friedland, una città di media grandezza situata in una profonda ansa del fiume, che, in conformità alla dottrina dei corpi d’armata, lo stesso Lannes attaccò e poi riuscì a tenere per almeno nove ore, fino all’arrivo dei rinforzi. Alle tre e mezzo del pomeriggio 3000 uomini di cavalleria dell’avanguardia russa attraversarono l’Alle e cacciarono i francesi dalla città. A quanto pare Bennigsen pensava di poter attraversare l’Alle il giorno dopo, annientare Lannes e poi riattraversare il fiume prima che Napoleone riuscisse ad arrivare da Eylau, situata 24 chilometri a ovest di Friedland. Non era mai opportuno sottovalutare la velocità di Napoleone, soprattutto quando marciava su un terreno asciutto e solido per il sole estivo.
L’Alle è un fiume profondo e impetuoso, con sponde alte oltre dieci metri. Fa una profonda curva intorno a Friedland, avvolgendo la città a sud e a est; a nord invece la delimita un lago formato dal Mühlenbach. Di fronte alla città si apre un ampio terreno pianeggiante, largo quasi tre chilometri; allora era fertile (grano e segale arrivavano al petto) e confinava con una fitta foresta, il bosco di Sortlack. A dividere la pianura, il Mühlenbach, anch’esso dalle sponde alte. Il campanile della chiesa di Friedland offre una superba vista panoramica su tutto il campo di battaglia: molto saggiamente Bennigsen, il suo stato maggiore e il suo ufficiale di collegamento britannico, il colonnello John Hely-Hutchinson, salirono in cima. Ma non si accorsero che i tre ponti di barche fatti montare da Bennigsen per aumentare la portata di quello di pietra della città erano troppo lontani, oltre il suo fianco destro, e che se fossero stati distrutti o comunque bloccati, Friedland sarebbe diventata un’enorme trappola mortale.
Tra le due e le tre del mattino di domenica 14 giugno (l’anniversario della battaglia di Marengo), Oudinot giunse nella piana antistante al villaggio di Posthenen. Oudinot inviò i suoi uomini nel bosco di Sortlack, e lungo il fronte si scatenò un pesante fuoco di scaramuccia e di cannone. Quando il generale Emmanuel de Grouchy, un aristocratico e dotato comandante di cavalleria, giunse alla testa di una divisione di dragoni francesi, Lannes, che nel frattempo era stato raggiunto dalla cavalleria leggera sassone, aveva ormai uomini a sufficienza per tenere a bada circa 46.000 russi fino all’arrivo di Napoleone.

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Generale Emmanuel de Grouchy (dipinto da Jean-Sébastien Rouillard. E' considerato il principale responsabile della sconfitta di Waterloo.

Bennigsen inviò un vasto contingente oltre l’Alle a Friedland, con l’ordine di cominciare ad aprirsi a ventaglio in direzione di Heinrichsdorf, da dove avrebbero potuto minacciare la retroguardia francese. I corazzieri di Nansouty, inviati verso Heinrichsdorf da Lennes, riuscirono a ricacciare indietro le prime linee russe. Quindi Grouchy si mosse in fretta da Posthenen, caricò dal fianco e penetrò in mezzo ai cannoni russi, massacrando a sciabolate gli indifesi artiglieri. La cavalleria francese, ormai non più in formazione, fu contrattaccata, ma alle sette del mattino Grouchy era ormai riuscito a consolidare la linea francese a est di Heinrichsdorf.
Nei confusi scontri che seguirono, il maresciallo Lannes, un guascone astuto e agile, si trovava nel suo elemento. Protetto da una linea insolitamente fitta di scaramucciatori nascosti tra il grano alto e folto, continuava a spostare piccole unità di fanteria e cavalleria su è giù, fuori e dentro il bosco, facendo apparire di avere più uomini di quanti ne avesse in realtà, poiché gliene restavano soltanto 9000 di fanteria e 8000 di cavalleria per fermare le sei divisioni russe che avevano attraversato l’Alle. Per fortuna, proprio mentre Bennigsen schierava le sue forze e attaccava, giunse sul campo di battaglia il corpo d’armata di Mortier, che entrò a Heinrichsdorf giusto in tempo per sottrarla alla fanteria russa. Lasciati tre battaglioni dei granatieri di Oudinot all’interno del villaggio, Dupas si dispose alla sua destra. Giunse poi la divisione polacca di Mortier, e i tre reggimenti polacchi del generale Henri Dombrowski si portarono in posizione, sostenendo l’artiglieria a Posthenen. Nello scontro spaventoso avvenuto nel bosco di Sortlack, la divisione di Oudinot si immolò per respingere la fanteria russa. Alle dieci del mattino la divisione del generale Jean-Antoine Verdier si era ormai riunita a Lannes, portando il totale delle sue forze a 40.000 uomini.
Bennigsen si rese conto che Napoleone (assente ma in arrivo al galoppo a Friedland), gli stava mandando contro un numero crescente di uomini, e cambiò opinione sull’esito della battaglia. Ormai sperava soltanto di tenere la sua linea fino al termine della giornata, in modo da poter scappare di nuovo. Ma d’estate, a quella latitudine, fa buio molto tardi; e a mezzogiorno, Napoleone comparve sul campo di battaglia, giunto di gran carriera da Eylau, con la guardia del corpo. Oudinot, in sella a un cavallo ferito, con l’uniforme forata dai proiettili, riuscì ad avvicinarsi all’imperatore e lo pregò con queste parole: «Datemi dei rinforzi e caccerò i russi nel fiume!». Dalla collina dietro a Posthenen Napoleone comprese subito il grave errore tattico compiuto da Bennigsen. Dato che il lago formato dal Mühlenbach separava in due la piana, il fianco sinistro di Bennigsen era vulnerabile e poteva essere ricacciato verso il fiume.

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Generale Nicolas Charles Oudinot (dipinto di Robert Lefèvre). Oudinot non fu un grande comandante, né pretese di esserlo, ma fu un grande generale di divisione. Fu l'ideale per un generale di fanteria: energico, analitico, risoluto ed abile nella battaglia come qualunque altro maresciallo di Napoleone.

Mentre aspettava rinforzi insieme a Oudinot, l’imperatore concesse un momento di tregua, convinto che Bennigsen non avrebbe potuto rimediare al suo errore nemmeno qualora si fosse accorto di averlo fatto. Gli uomini di entrambi gli schieramenti accolsero con piacere l’opportunità di riposarsi all’ombra e bere un po’ d’acqua. Molti deliravano per la sete, perché avevano passato ore e ore a strappare con i denti le cartucce impregnate di salnitro, in quell’afosa e ardente giornata di giugno, con una temperatura che toccava i 30 gradi centigradi all’ombra. Napoleone si sedette su una sedia di legno e pranzò con un po’ di pane alla portata dei cannoni russi. Il soldato e diplomatico Jacques de Norvins osservò Napoleone camminare avanti e indietro colpendo le erbacce più alte con il suo frustino e poi dire a Berthier: «Giornata di Marengo, giornata di vittoria!». Napoleone prestava sempre grande attenzione alle opportunità propagandistiche degli anniversari, e poi era superstizioso.
Alle due del pomeriggio emanò l’ordine che alle cinque si riprendessero le ostilità. Ney doveva attaccare in direzione di Sortlack; Lannes avrebbe continuato a tenere il centro, e i granatieri di Oudinot avrebbero fatto una diversione a sinistra per attirare l’attenzione su se stessi e allontarla da Ney; Mortier avrebbe preso e tenuto Heinrichsdorf, mentre Victor e la guardia imperiale sarebbero rimasti di riserva dietro il centro.

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Generale Claude-Victor Perrin. Votò a favore della condanna a morte dell'ex collega, Maresciallo Michel Ney.

Dall’alto del campanile della chiesa, Bennigsen e il suo stato maggiore osservavano. Quando era ormai troppo tardi, Bennigsen emanò l’ordine di ritirata, ma subito fu costretto ad annullarlo, poiché ritirarsi risultava troppo pericoloso con il nemico che incalzava.
Alle cinque del pomeriggio tre salve di 20 cannoni segnalarono l’inizio dell’attacco della Grande Armée. I 10.000 uomini della fanteria di Ney si lanciarono nel bosco di Sortlack e alle sei lo avevano ripulito del tutto. Poi marciarono in colonna contro il fianco sinistro dei russi. La divisione del generale Jean-Gabriel Marchand entrò nel villaggio di Sortlack e spinse molti suoi difensori letteralmente dentro il fiume. Poi si spostò a occidente lungo il fiume, isolando la penisola di Friedland e lasciandovi i russi intrappolati. L’artiglieria francese non poteva mancarli. Quindi Napoleone inviò il corpo d’armata di Victor verso Friedland, a sud-ovest, lungo la strada per Eylau.

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Generale Jean Gabriel Marchand. Nel 1814 comandò la 7ª divisione militare, rendendo grandi servigi, quali la riconquista della piazza di Chambéry, strappata agli austriaci.

Quando il corpo d’armata di Ney, ormai esausto, cominciò a indietreggiare, Sénarmont suddivise i suoi 30 cannoni in due batterie. Facendo intonare Front d’action ai propri trombettieri, le sue squadre di cavalleria avanzarono al galoppo, inarrestabili, e spararano prima a 500 metri, poi a 250, a 125 e infine, non avendo più altro che colpi di mitraglia, a 50. Le guardie dell’Ismailovskij e i granatieri del Pavlovskij cercarono di assaltare le batterie, ma in 25 minuti circa il loro fuoco abbatté più o meno 4000 uomini. Un’intera carica di cavalleria fu sbaragliata da un'intensa raffica di mitraglia. Il fianco sinistro russo fu completamente distrutto e intrappolato sulle rive dell’Alle. L’azione di Sénarmont divenne celebre nei manuali militari come esempio di “carica dell’artiglieria”, anche se i suoi artiglieri subirono perdite pari al 50 per cento. Il corpo d’armata di Ney, che si era ripreso, con in testa il 59° reggimento di linea, entrò a Friedland da ovest, si batté per le strade e alle otto di sera si era ormai impadronito della città. I russi furono respinti verso i ponti, chepresero fuoco, e molti soldati annegarono mentre cercavano di attraversare il fiume.

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Generale Alexandre-Antoine barone di Sénarmont. Generale di divisione

A quel punto le divisioni di Lannes e Mortier si riversarono nella piana e le unità russe che si trovavano a destra di Friedland vennero semplicemente sospinte nel fiume. Molti russi combatterono sino alla fine alla baionetta, ma 22 squadroni di cavalleria riuscirono a fuggire lungo la riva sinistra del fiume. Di volta in volta sono stati addotti il caldo, la stanchezza, il crepuscolo e il saccheggio della città in cerca di cibo per spiegare come mai, dopo Friedland, i russi non furono inseguiti come era avvenuto a Jena. Forse Napoleone pensò che un completo massacro avrebbe reso più difficile far scendere a patti Alessandro, mentre lui ormai desiderava con forza la pace. «Nel complesso hanno buoni soldati», disse a Cambacérès: fino a quel momento non lo aveva mai ammesso, e avrebbe fatto bene a ricordarsene cinque anni più tardi.
In virtù della sola concentrazione delle forze, la battaglia di Friedland fu la vittoria più spettacolare di Napoleone dopo Austerlitz e Ulma. Al prezzo di 11.500 caduti, tra morti, feriti e dispersi, aveva completamente sbaragliato i russi, le cui perdite sono state stimate intorno ai 20.000 uomini (ossia il 43 per cento del totale). I 100 chirurghi di Percy dovettero lavorare tutta la notte, e un generale ricordò in seguito «prati coperti di arti asportati dai corpi, corpi, e quei terrificanti luoghi di amputazione e dissezione che l’esercito chiamava ambulanze».

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Battaglia di Friedland (stampa antica)

Il giorno dopo la battaglia Lestocq evacuò Königsberg, e Napoleone emanò uno dei suoi tipici bollettini:
  "Soldati! Il 5 giugno siamo stati attaccati nei nostri accantonamenti dall’esercito russo, che aveva frainteso le cause della nostra inattività. Si è accorto, troppo tardi, che il nostro riposo era quello del leone: ora fa penitenza per i suoi errori […] Dalle rive della Vistola abbiamo raggiunto quelle del Niemen con la rapidità dell’aquila. Ad Austerlitz avete celebrato l’anniversario dell’incoronazione; quest’anno avete degnamente celebrato quello della battaglia di Marengo, che ha posto fine alla guerra della seconda coalizione. Francesi, siete stati degni di voi, e di me; tornerete in Francia coperti di alloro, dopo avere conquistato una pace che è garanzia della sua stessa durata. È tempo che il nostro paese viva in tranquillità, protetto dalla nefasta influenza dell’Inghilterra. Le mie ricompense vi dimostreranno la mia gratitudine e la grandezza dell’amore che vi porto.".
Il 19 giugno lo zar Alessandro inviò il principe Dmitrij Lobanov-Rostovskij a chiedere un armistizio, mentre i russi riattraversavano il Niemen e bruciavano il ponte di Tilsit, l’ultima cittadina prussiana (l’odierna Sovetsk), dove Napoleone arrivò verso le due del pomeriggio. I prussiani, che non potevano proseguire la guerra senza l’aiuto dei russi, avrebbero dovuto adeguarsi alle decisioni diplomatiche dello zar. Alessandro era esortato a concludere la pace da sua madre, l’imperatrice madre Maria Fedorovna, convinta che fosse stato versato fin troppo sangue russo per gli Hohenzollern, e da suo fratello Costantino, che ammirava apertamente Napoleone. L’accordo che fu concluse a Tilsit non rispecchiava affatto la portata della sua sconfitta: fu la Prussia a pagarne quasi tutto il prezzo e la Russia non perse alcun territorio, fatta eccezione per le Ionie (compresa Corfù, che Napoleone definiva «la chiave per l’Adriatico»).
Napoleone garantì che gli stati tedeschi governati da parenti stretti dello zar (come l’Oldenburgo) non sarebbero stati costretti a entrare nella confederazione del Reno. Alessandro accettò di evacuare la Moldavia e la Valacchia, recentemente sottratte ai turchi (non erano mai state russe), ma ottenne mano libera per l’invasione della Finlandia, che apparteneva alla Svezia. La sola concessione che Alessandro dovette fare a Tilsit fu la promessa di aderire al blocco continentale, perché Napoleone sperava che questo avrebbe aumentato le pressioni sulla Gran Bretagna convincendola alla pace.
In netto contrasto con l’eccezionale clemenza mostrata verso la Russia, la Prussia fu penalizzata in modo molto severo. «L’errore più fatale l’ho compiuto a Tilsit», disse in seguito Napoleone; «avrei dovuto detronizzare il re di Prussia. Ma ho esitato. Ero convinto che Alessandro non si sarebbe opposto, purché non mi fossi impadronito dei possedimenti del re.» Alessandro sottrasse alla Prussia la regione di Bialystok, nella Polonia orientale (un gesto non certo da alleato); ma tutte le altre frustate furono inferte da Napoleone. Dalle province che la Prussia aveva acquisito con la seconda e terza spartizione della Polonia ritagliò il granducato di Varsavia, che i polacchi speravano potesse rappresentare la prima fase per la ricostituzione del loro regno, pur non avendo alcuna rappresentanza diplomatica all’estero ed essendo governato da un granduca tedesco, Federico Augusto di Sassonia, con un parlamento privo di effettiva autorità. I territori prussiani a ovest dell’Elba andarono a formare il nuovo regno di Vestfalia, Cottbus venne assegnata alla Sassonia, e fu imposta una gigantesca indennità di guerra (120 milioni di franchi). Per pagarla, Federico Guglielmo fu costretto a vendere parecchi terreni e ad alzare il prelievo fiscale dal 10 al 30 per cento della ricchezza nazionale. La Prussia fu obbligata a aderire al blocco continentale, e le fu proibito di imporre dazi su svariate vie d’acqua, come il fiume Netze e il canale di Bromberg.
Giuseppe doveva essere riconosciuto re di Napoli, Luigi re d’Olanda e Napoleone protettore della confederazione del Reno; inoltre, guarnigioni francesi sarebbero rimaste a proteggere le fortezze sulla Vistola, l’Elba e l’Oder. La Prussia fu ridotta a una popolazione di appena 4,5 milioni (la metà di prima della guerra) e perse due terzi del suo territorio; fu autorizzata ad avere un esercito di 42.000 uomini appena. In quasi tutti i territori tra il Reno e l’Elba «tutti i diritti reali o eventuali» del regno di Prussia erano «cancellati per sempre». Il re di Sassonia avrebbe avuto addirittura il diritto di utilizzare le strade prussiane per inviare truppe al granducato di Varsavia. Imponendo queste umiliazioni al bisnipote di Federico il Grande, Napoleone sapeva benissimo che la Prussia avrebbe nutrito un perpetuo rancore; ma contava di poter tenere a bada il revanscismo austriaco per Presburgo e quello prussiano per Tilsit grazie alla sua nuova amicizia con la Russia.
Ormai prossimo a toccare l’apice della sua potenza, Napoleone seguiva una strategia grazie alla quale, pur sapendo di dover sempre fare i conti con l’ostilità britannica, sarebbe stato sicuro che, in nessun momento, le tre potenze continentali di Russia, Austria e Prussia si sarebbero rivolte contro di lui contemporaneamente. Doveva perciò metterle l’una contro l’altra, e per quanto possibile anche contro la Gran Bretagna. Per evitare di dover combattere nello stesso tempo contro queste quattro potenze, Napoleone sfruttò l’aspirazione della Prussia a possedere l’Hannover, l’impossibilità russa di proseguire il conflitto dopo Friedland, un’alleanza matrimoniale con l’Austria, le divergenze tra Russia e Austria sull’impero ottomano, e il timore di una risorgenza polacca, paventata da tutte e tre le potenze continentali. Il fatto di essere riuscito a realizzare questo obiettivo per un intero decennio dopo il crollo della pace di Amiens, e pur essendo chiaramente l’egemone europeo più temuto da ogni potenza, attesta il suo eccezionale talento di statista. La divisione dell’Europa in sfere di influenza francese e russa fu un momento determinante della sua strategia.
Magdeburgo fu assegnata alla Vestfalia, un nuovo regno con un estensione di 2850 chilometri quadrati ricavato dai territori di Brunswick e Assia-Cassel, cui furono aggiunti dei territori prussiani a ovest dell’Elba, e in seguito alcune parti dell’Hannover. A regnare su questa nuova entità di grande importanza strategica, però, Napoleone inviò un ragazzo che non aveva combinato nulla nei suoi 22 anni di vita, se non prendere una licenza non autorizzata in America, dove aveva contratto un malaccorto matrimonio, poi annullato in modo non del tutto legale; aveva poi prestato servizio nell’esercito guidando, con perfetta competenza (ma nulla di più), i contingenti della Baviera e del Württemberg nell’ultima campagna. Girolamo non aveva un curriculum tale da meritarsi una corona, ma Napoleone continuava a pensare di potersi fidare dei suoi parenti più che di qualsiasi altra persona, nonostante tutte le palesi indicazioni del contrario, a cominciare dall’esilio di Luciano e dal matrimonio di Girolamo per concludere con la debolezza mostrata da Giuseppe a Napoli, le infedeltà e la disobbedienza di Paolina e il disinteresse di Luigi per il contrabbando britannico in Olanda.
Napoleone voleva che la Vestfalia diventasse un modello per il resto della Germania, spingendo così altri stati tedeschi a entrare nella confederazione, o almeno a stare fuori dall’orbita prussiana e austriaca. «È essenziale che il tuo popolo goda di una libertà, un’uguaglianza e un benessere ignoti al popolo tedesco», scrisse a Girolamo il 15 novembre, inviandogli una costituzione per il nuovo regno e predicendo che nessuno avrebbe desiderato tornare al dominio prussiano dopo avere «gustato i benefici di un’amministrazione saggia e liberale». Ordinò a Girolamo di «seguirla fedelmente»: «I vantaggi offerti dal codice napoleonico, dai processi pubblici e dall’istituzione delle giurie saranno la caratteristica specifica e saliente del tuo governo […] Conto più suoi loro effetti […] che sulle più spettacolari vittorie militari». Poi, per colmo di paradosso considerando a chi stava scrivendo, decantò le virtù della meritocrazia: «La popolazione tedesca attende con ansia il giorno in cui coloro che non hanno nobili natali ma sono dotati di talento avranno pari diritti per candidarsi a un lavoro; attende l’abolizione di ogni servitù e la sopressione di tutti gli intermediari tra il popolo e il suo sovrano». Questa lettera non era destinata alla pubblicazione, ma rappresenta comunque i più elevati ideali di Napoleone. «Il popolo della Germania, come quello della Francia, dell’Italia e della Spagna, vuole uguaglianza e valori liberali. Mi sono convinto che l’onere dei privilegi era contrario all’opinione generale. Sii un re costituzionale.»
Campagne di Spagna e Portogallo
All’inizio del 1808 la Prussia era ormai sottomessa e c’era un grandioso accordo con la Russia. Napoleone poteva quindi concentrare l’attenzione sui sistemi per costringere la Gran Bretagna a sedersi al tavolo dei negoziati. Era evidente che, dopo Trafalgar, non poteva riprendere i piani d’invasione; ma i britannici continuavano a incoraggiare attivamente il contrabbando in Europa per far naufragare il blocco continentale, bloccando i porti francesi e non mostrando la minima intenzione di porre fine alla guerra. Perciò Napoleone guardò a sud per realizzare il desiderio di danneggiare il commercio britannico, che a suo parere era il modo infallibile per ridurre quella «nazione di bottegai» all’ubbidienza. Fin dal novembre del 1800, quando a Giuseppe aveva scritto «il più grande danno che possiamo infliggere al commercio britannico sarebbe impadronirsi del Portogallo», Napoleone aveva considerato un possibile tallone d’Achille il più antico alleato della Gran Bretagna. Il 19 luglio 1807 aveva richiesto che il Portogallo chiudesse i propri porti alle navi britanniche entro settembre, arrestasse tutti i cittadini britannici presenti a Lisbona e confiscasse tutte le merci britanniche. Il Portogallo non era riuscito a rispettare il pagamento dell’indennità che aveva accettato nel 1801, quando aveva chiesto la pace. Consentiva alle navi britanniche l’ingresso nei suoi porti per acquistare vino, il suo principale prodotto d’esportazione, e aveva grandi colonie e una flotta consistente, ma un esercito di soli 20.000 uomini. Il paese era governato dall’indolente, obeso e ottuso principe autocratico Giovanni, che la moglie spagnola, Carlotta, aveva cercato di rovesciare nel 1805.

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Generale Bertrand Clauzel; si distinse nella campagna di Spagna.

Il 29 agosto 1807, quando i francesi invasero l’Etruria nel tentativo di debellare la piaga cronica del contrabbando di merci britanniche, il primo ministro spagnolo, don Manuel de Godoy y Álvarez de Faria, comprese che avrebbe dovuto collaborare con Napoleone se voleva ottenere un adeguato compenso per l’infanta Maria Luisa, regina d’Etruria e figlia di Carlo IV di Spagna, il cui marito, re Luigi I, era morto di epilessia nel maggio del 1803. Napoleone non stimava Godoy e non si fidava di lui; quando, nel 1801, Godoy aveva chiesto a Luciano un ritratto di Napoleone, quest’ultimo aveva replicato con una frase brusca: «Non manderò mai il mio ritratto a un uomo che tiene il suo predecessore in galera [Godoy aveva fatto imprigionare il precedente primo ministro, il conte di Aranda, dopo una sconfitta spagnola a opera dei francesi nel 1792] e ricorre ai sistemi dell’Inquisizione. Posso servirmene, ma gli devo soltanto disprezzo». Reagì con estremo sospetto il giorno della battaglia di Jena, quando Godoy mobilitò l’esercito spagnolo, smobilitandolo in fretta e furia alla notizia del suo esito. Godoy stabilì che sarebbe stato opportuno permettere alle truppe francesi di attraversare la Spagna per attaccare il Portogallo.

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Generale Charles Mathieu Isidore Decaen; si distinse nella campagna di Spagna.

«Per prima cosa, il Portogallo deve essere sottratto all’influenza dell’Inghilterra», scrisse Napoleone al re Carlo IV il 7 settembre 1807, «in modo da obbligare quest’ultima a chiedere la pace.» Il 27 ottobre il rappresentante di Godoy firmò il trattato di Fontainebleau, contenente delle clausole segrete sulla spartizione del Portogallo in tre sezioni: quella settentrionale sarebbe stata assegnata all’infanta Maria Luisa in cambio dell’Etruria, quella centrale sarebbe stata sottoposta all’occupazione militare franco-spagnola e quella meridionale avrebbe costituito il feudo personale dell’elegante, astuto, gretto e pretenzioso Godoy, che sarebbe diventato principe di Algarve. Il trattato garantiva i domini di Carlo IV e gli permetteva di fregiarsi del titolo di “imperatore delle due Americhe".

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Generale Jean-Andoche Junot in un ritratto di Henri Félix. Fu aiutante di campo di Napoleone nella campagna di Russia.

Napoleone ratificò il trattato il 29 ottobre, quando le truppe francesi erano già penetrate in profondità nella penisola iberica. Il 18 ottobre Junot aveva attraversato il fiume Bidasoa, entrando in Spagna diretto verso il Portogallo. Non incontrò alcuna resistenza nemmeno a Lisbona, e il 29 novembre la famiglia reale portoghese fuggì a Rio de Janeiro a bordo di navi da guerra della Royal Navy, tra gli insulti della folla che si era riunita al porto, indignata per la loro diserzione. Napoleone aveva ordinato a Junot di assicurarsi che i suoi ingegneri tracciassero una mappa delle strade spagnole durante la marcia di avvicinamento al Portogallo. «Voglio conoscere le distanze tra i villaggi, la conformazione del paese e le sue risorse», scrisse, dimostrando che già allora prevedeva la possibilità di invadere i territori del suo alleato.

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Generale Guillaume Dode de la Brunerie; si distinse nella campagna di Spagna

La politica spagnola era così guasta e i Borboni spagnoli così decadenti e patetici che il loro trono sembrava pronto per la conquista. Carlo IV e la sua autoritaria moglie, Maria Luisa di Parma, odiavano il proprio figlio maggiore ed erede, il ventiquattrenne Ferdinando, principe delle Asturie (poi Ferdinando VII), un sentimento del tutto corrisposto. Il potere esercitato da Godoy in Spagna era così forte che fu persino nominato ammiraglio senza essere mai stato in mare nemmeno una volta. Ferdinando, debole e codardo quanto il padre, detestava Godoy, il quale ricambiava di cuore. Godoy era in effetti detestato in tutta la Spagna per il miserabile stato in cui aveva fatto sprofondare il paese e, soprattutto, per la perdita delle sue colonie a vantaggio della Gran Bretagna, per la catastrofe di Trafalgar (in cui la Spagna aveva perso 11 navi di linea), per la debolezza dell’economia, per la corruzione, le carestie, la vendita di terreni della chiesa, l’abolizione delle corride e persino per lo scoppio di un’epidemia di febbre gialla nel sud del paese.

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Generale Jean Isidore Harispe; si distinse nella campagna di Spagna.

Un’allettante prospettiva si presentò nell’ottobre 1807, quando Ferdinando scrisse a Napoleone (o meglio all’«eroe che cancella tutti i suoi predecessori», come si espresse adulatoriamente il principe) per chiedergli il permesso di unirsi in matrimonio con un membro della famiglia Bonaparte. Suo padre lo aveva fatto arrestare quello stesso mese per tradimento (con false accuse), ma lo aveva subito rilasciato a malincuore, e probabilmente Ferdinando voleva superare in furbizia i genitori e allo stesso tempo proteggere il trono da un’invasione francese. Sarebbe stata la soluzione ideale, risparmiando a Napoleone quella che lui stesso avrebbe poi definito «l’ulcera spagnola»; ma la migliore candidata, Charlotte, figlia di Luciano, aveva appena 12 anni. Durante il suo breve soggiorno alla corte di Napoleone, aveva scritto parecchie lettere ai suoi genitori a Roma lamentandosi dell’immoralità di quell’ambiente e pregandoli di farla tornare a casa; Napoleone, intercettate le lettere, aveva acconsentito.
Dopo avere occupato Lisbona, Junot depose ufficialmente (in abstentia) la dinastia dei Braganza e ne confiscò le proprietà; impose un “contributo” di 100 milioni di franchi e promulgò una costituzione che prevedeva la tolleranza religiosa, l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà dell’individuo. Dichiarò che si sarebbero costruite strade e scavati canali, sostenute l’industria e l’agricoltura e promossa l’istruzione pubblica; ma i portoghesi non si entusiasmarono affatto. Napoleone stabilì che le truppe di Junot dovevano ricevere, oltre alle loro normali razioni, una bottiglia di vino portoghese al giorno.
Nel gennaio 1808, quando il Portogallo pareva ormai sotto controllo, Napoleone inviò nel nord della Spagna un contingente di truppe al comando di Murat, ufficialmente per aiutare Junot, ma in realtà per impadronirsi delle grandi fortezze di San Sebastian, Pamplona, Figueras e Barcellona, con il completo sostegno di Godoy, che era deciso a diventare un sovrano a pieno diritto in base alle clausole segrete del trattato di Fontainebleau. Anche se non lo si affermava, di fatto si trattava di un’invasione della Spagna, e con l’appoggio del suo primo ministro. Il 13 marzo Murat si trovava già a Burgos con 100.000 uomini, e cominciava ad avanzare verso Madrid. Per ingannare gli spagnoli, Napoleone ordinò di «diffondere la voce» che il suo piano fosse «assediare Gibilterra e passare in Africa».
La notte del 17 marzo 1808 Godoy fu destituito dall’“ammutinamento di Aranjuez”, una sollevazione popolare scoppiata in una località a 40 chilometri da Madrid, dove la famiglia reale aveva il proprio palazzo invernale innescata dalla voce che Godoy stesse progettando di portare il re e la regina in America passando dall’Andalusia. Una folla inferocita penetrò in casa sua per linciarlo. Il principe Ferdinando appoggiò la rivolta, e due giorni dopo Carlo IV abdicò. Il giorno prima era stato costretto a licenziare Godoy, scatenando enormi festeggiamenti a Madrid. «Ero ben preparato a qualche cambiamento in Spagna», disse Napoleone a Savary quando gliene giunse notizia, «ma mi sembra di capire che le cose stiano prendendo una direzione diversa da quella che mi aspettavo.» Napoleone, intravedendo un’opportunità di estendere la propria influenza, non volle riconoscere Ferdinando come re, dichiarando che Carlo era stato un suo fedele alleato.
Quando, Godoy cercò di arrendersi alle autorità, la folla lo prese, lo ferì all’anca e per poco non gli cavò un occhio; ma fu comunque arrestato vivo. Il suo ministro delle finanze fu assassinato a Madrid, e la folla saccheggiò le case della sua famiglia e dei suoi amici per poi gettarsi sugli spacci di vino. All’epoca l’opinione pubblica spagnola e la stampa britannica ritennero che fosse stato Napoleone a istigare la rivolta, ma non era vero. Intendeva però sfruttare l’opportunità mettendo una fazione contro l’altra. La Spagna era troppo importante dal punto di vista strategico ed economico per essere lasciata nelle mani di Ferdinando, a parere di Napoleone una pedina delle forze reazionarie aristocratiche ed ecclesiastiche (lo era davvero) e un alleato segreto dei britannici (per il momento, non lo era ancora).
Napoleone non poteva permettersi di avere uno stato in preda al caos alle sue frontiere meridionali, soprattutto se si trattava di uno stato che fino ad allora gli aveva sempre fornito 5 milioni di franchi al mese e che, anche dopo Trafalgar, possedeva una grande flotta della quale avrebbe avuto bisogno se mai avesse deciso di tornare al suo sogno di invadere la Gran Bretagna. Il potere aborrisce il vuoto, e i Borboni (che governavano la Spagna soltanto dal 1700, quando vi erano stati installati da Luigi XIV) ne avevano creato uno. Come aveva dimostrato il 18 brumaio, Napoleone era dispostissimo ad attuare un colpo di stato se lo considerava vantaggioso, e sapeva farlo.
Dopo Tilsit, la Grande Armée non aveva più particolari impegni sul continente, fatta eccezione per il servizio di guarnigione e una moderata azione di contrasto alle forze irregolari in Calabria. «Non ho invaso la Spagna per mettere un membro della mia famiglia sul trono», affermò Napoleone nel 1814, «ma per rivoluzionarla, per farne un regno fondato sulla legge, per abolire l’Inquisizione, i diritti feudali e gli ingiusti privilegi di certe classi.»67 Sperava che la formula della modernizzazione, dimostratasi così efficace in Italia, Belgio, Olanda e nelle regioni occidentali della confederazione del Reno, avrebbe potuto riconciliare gli spagnoli con il suo dominio. Certo si trattava in larga parte di una spiegazione a posteriori, ma Napoleone si aspettava davvero che le sue riforme avrebbero ottenuto l’appoggio di alcune classi spagnole, e almeno in certa misura fu proprio così. Negando di voler appropriarsi dei suoi vasti tesori latinoamericani, disse di volere soltanto 60 milioni di franchi all’anno per francesizzare la Spagna. Ma nonostante tali aspirazioni, questa guerra, al contrario delle precedenti, era un conflitto dinastico, e rappresentò perciò una rottura rispetto alle guerre rivoluzionarie del passato.
Il 21 marzo Carlo IV ritirò la sua abdicazione per l’ottima ragione che era stata resa sotto costrizione. Due giorni dopo, Murat occupò Madrid con 50.000 uomini provenienti dai corpi d’armata di Moncey e Dupont. All’inizio tutto sembrava tranquillo, anche il giorno dopo, quando Ferdinando arrivò a Madrid e fu accolto da sfrenate manifestazioni di giubilo. Ferdinando aveva l’impressione che Napoleone volesse soltanto destituire Godoy, e il 10 aprile partì da Madrid per recarsi a conferire con Napoleone a Bayonne, vicino al confine spagnolo, dove si stavano recando separatamente anche i suoi genitori. Mentre viaggiava verso Bayonne, incontrandolo molti spagnoli si toglievano la giacca e la mettevano sotto le ruote della carrozza per «conservare le tracce di un viaggio che rappresentava il momento più felice della loro vita», credendo (come lo stesso Ferdinando) che Napoleone lo avrebbe riconosciuto legittimo re di Spagna.
Napoleone arrivò a Bayonne il 15 aprile 1808 e si stabilì nel vicino castello di Marraq, dove sarebbe rimasto per oltre tre mesi, con un distaccamento della guardia imperiale accampato in giardino. Sul campo di battaglia cercava sempre di guadagnare un vantaggio sui suoi avversari colpendoli dove le loro forze erano più deboli; ora avrebbe fatto la stessa cosa nei negoziati con i Borboni. L’odio di Carlo e Maria Luisa nei confronti del figlio Ferdinando, e il suo per loro, era ben più forte di qualsiasi sentimento che chiunque di loro potesse nutrire per Napoleone. Lui era dispostissimo a intromettersi nei dolori privati di quella disastrata famiglia, e avendo 50.000 uomini di stanza a Madrid, nessuna delle due parti poteva regnare senza il suo appoggio. Questo gli permise di architettare un piano.
In base alle condizioni di una serie di accordi conclusi a Bayonne, Ferdinando avrebbe restituito la corona spagnola a suo padre Carlo IV, a patto che Carlo la cedesse subito a propria volta a Napoleone, il quale l’avrebbe poi assegnata a suo fratello Giuseppe. Intanto Murat aveva fatto uscire in segreto Godoy dalla Spagna, con grande gioia di Maria Luisa, che ora poteva stare con lui; sembrava dunque che un altro paese ancora fosse finito nelle mani della famiglia Bonaparte. «Se non m’inganno», disse Napoleone a Talleyrand il 25 aprile, «questa tragedia è al quinto atto; arriverà presto la scena conclusiva.»
Si sbagliava: stava per cominciare solo il secondo atto. Il 2 maggio, mentre trapelavano notizie da Bayonne e ormai ci si aspettava il peggio, i madrileni inscenarono una rivolta contro l’occupazione di Murat, e nell’insurrezione passata alla storia come “el Dos de mayo” uccisero circa 150 dei suoi uomini. Come a Pavia, al Cairo e in Calabria, i francesi sedarono la rivolta con brutalità; ma in Spagna non fronteggiarono una sollevazione nazionale coordinata. In alcune regioni, come l’Aragona, si ebbe pochissima opposizione al dominio francese; in altre, come la Navarra, fu fortissima. A Cadice le cortes incontrarono altrettante difficoltà di Giuseppe nel riscuotere le imposte o imporre la coscrizione. La Spagna era così grande che nelle province insorte si riuscirono a stabilire dei governi insurrezionali (juntas) di ambito regionale, e la Francia si trovò costretta a combattere sia contro l’esercito regolare spagnolo sia contro bande locali dedite alla guerra non convenzionale.
I francesi esordirono assediando Girona, Valencia, Saragozza e altre città strategicamente importanti (in realtà nella guerra iberica vi furono più assedi che in tutte le altre guerre napoleoniche messe insieme). Anche se la rivolta del Dos de mayo ebbe certamente un risvolto patriottico, antifrancese, antiateo e di supporto a Ferdinando, vi erano problemi di classe, proprietà terriera, diserzione, contrabbando, regionalismo, renitenza alla leva, anticlericalismo, penuria di cibo, oltre a un crollo degli scambi commerciali che fecero della guerra imminente qualcosa di ben più complesso di un semplice scontro tra avidi invasori francesi ed eroici partigiani spagnoli, pur essendovi indubbiamente anche questo elemento. Alcuni dei gruppi armati che si battevano contro i francesi (come quelli di Juan Martín Díez a Guadalajara e di Francisco Espoz y Mina in Navarra) erano ben organizzati, ma molti erano poco più che bande di briganti simili a quelle sgominate da Napoleone in Francia quando era primo console e contro le quali qualsiasi governo sarebbe dovuto intervenire. Come in ogni insurrezione, alcuni partigiani erano animati dal patriottismo, altri dal desiderio di vendetta per le innegabili atrocità, altri ancora dall’opportunismo, e molti banditi si limitavano a depredare i propri connazionali spagnoli. Il capitano Blaze, della guardia imperiale, scoprì che in molti villaggi la popolazione locale non faceva differenza tra l’esercito francese e i briganti spagnoli.
A luglio, quando Giuseppe fu incoronato a Madrid, Murat prese al suo posto la corona napoletana, mentre Luigi e il figlio più grande di Ortensia (tra quelli ancora in vita), il principe Luigi Napoleone, che aveva tre anni, sostituirono Murat nel granducato di Berg.
Per poter controllare Ferdinando qualora il popolo spagnolo avesse rifiutato gli accordi di Bayonne, Napoleone lo fece trattenere nella residenza di campagna di Talleyrand a Valençay, consentendo così ai suoi sostenitori di parlare di rapimento e prigionia. Quando un audace colonnello ventottenne della sua guardia, don José de Palafox, gli propose di fuggire, Ferdinando disse che preferiva rimanere lì a ricamare e a ritagliare figurine di carta.
Con tutte le critiche destinate a piovere su Napoleone per la sua razzia spagnola, ci si dimentica che quello stesso anno lo zar Alessandro sottrasse la Finlandia alla Svezia con una guerra breve ma altrettanto illegittima. «Ho venduto la Finlandia per la Spagna», disse lo stesso Napoleone; ma nell’affare fu lui a perderci. Non aveva avuto bisogno di fare esplicite minacce a nessuno e nemmeno di combattere sul serio per mettere le mani sul trono spagnolo, ma come disse a Talleyrand in maggio aveva fatto l’errore di credere che gli spagnoli fossero "come tutti gli altri popoli". Napoleone riteneva che, se anche non era stato accolto in Spagna come salvatore e riformatore, Giuseppe avrebbe sempre potuto battere sul campo l’esercito spagnolo; e in effetti il 14 luglio Bessières sconfisse il capitano generale don Gregorio de la Cuesta e l’esercito spagnolo di Galizia nella battaglia di Medina del Rioseco. Ma solo otto giorni dopo sull’esercito francese si abbatté la catastrofe quando il generale Pierre Dupont consegnò il suo intero corpo d’armata, 18.000 uomini e 36 cannoni, più tutte le sue insegne, all’armata di Andalusia del generale Francisco Castaños dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Bailén.
Si affrontarono 20.000 francesi al comando del generale Dupont contro 30.000 uomini dell'esercito spagnolo al comando del generale Castaños. Il generale Dupont, dopo la sua vittoria nella battaglia di Ponte Alcolea e dopo aver conquistato e saccheggiato Cordova, si preoccupò di sapere se Castaños stava organizzando un esercito che potesse tagliargli la via di comunicazione con Madrid e lasciarlo così senza basi di approvvigionamento per mantenere il suo avamposto tra popolazioni ostili. Per questo motivo abbandonò Cordova e si ritirò alla difesa di Andújar, dove stabilì il suo quartier generale. Da parte sua, Castaños mise in piedi il suo esercito prendendo come basi gli antichi corpi militari, ai quali si aggiunsero reclute delle Giunte Provinciali dell'Andalusia. Dal suo quartier generale in Utrera si diresse a Sierra Bruno per tagliare le comunicazioni nel centro della Penisola alle truppe francesi in Andalusia. Castaños, con una serie di audaci manovre, spostò il suo esercito di giorno e di notte, cambiando costantemente direzione, in modo che le truppe francesi non potessero essere sicure delle sue intenzioni, mentre egli si manteneva perfettamente al corrente dei movimenti francesi attraverso i compaesani. Davanti a ciò, il generale Dupont inviò parte importante delle sue forze a La Carolina, con l'intenzione di proteggere il passo verso Madrid da un possibile attacco di Castaños, quello che avrebbe comportato l'incomunicabilità che tanto temeva. Ma questo aveva realizzato precisamente tutti i suoi movimenti con l'intenzione di forzare Dupont a dividere le sue forze; si realizzava così la prima condizione che Castaños aveva immaginato come necessaria per la vittoria spagnola. Dupont, da Andújar, non osò opporsi in una battaglia alle forze di Castaños e preferì retrocedere, cercando di ricongiungersi con le altre truppe francesi comandate dai generali Vedel e Dufour, che venivano in suo aiuto e che erano già quasi al limite della provincia. Dirigendosi con quell'intenzione a Bailén il 18 luglio, si trovò con le truppe di Castaños che uscivano della città in quel momento e lì ebbe inizio la battaglia. Il fatto che il confronto avesse luogo alle stesse porte di Bailén poté essere decisivo per la vittoria spagnola: la popolazione locale appoggiò in tutto quanto poté le sue truppe; l'aiuto più importante fu senza dubbio la somministrazione di acqua per i soldati, in un giorno che i cronisti segnalano come "specialmente caldo" — in una regione che già di per sé registrava elevate temperature in quell'epoca. La fornitura d'acqua non fu meno importante per i pezzi dell'eccellente artiglieria spagnola, che non smisero di compiere la loro missione contro le truppe francesi; nel campo avverso, invece, l'efficacia dell'artiglieria fu sostanzialmente ridotta per l'eccessivo riscaldamento dei cannoni. Dopo vari episodi di lotta molto virulenta, in condizioni climatiche asfissianti, il generale Dupont fu sconfitto dalle truppe del Castaños prima che l'esercito del generale francese Vedel, che ritornava da La Carolina avendo indovinato le intenzioni di Castaños, potesse unirsi a Dupont. Alla fine della battaglia, circa 17.600 soldati francesi deposero le armi. Le condizioni di resa furono gravi ed includevano la condizione che le truppe francesi fossero rimpatriate in Francia, tuttavia queste condizioni non furono mai rispettate: benché Dupont ed i suoi ufficiali fossero stati liberati e trasportati in Francia, i loro uomini furono deportati nella desolata isola di Cabrera ed alla fine della guerra non più della metà erano ancora vivi.

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Prima grande sconfitta dei francesi. Bailen

La notizia della sconfitta di Bailén risuonò in tutt’Europa; era la peggiore sconfitta subita dalla Francia in terraferma dal 1793. Napoleone ovviamente era furibondo. Sottopose Dupont alla corte marziale, lo imprigionò per due anni a Fort de Joux e lo privò del suo titolo nobiliare (era stato conte dell’impero), dicendo in seguito: «Avremmo dovuto scegliere alcuni dei generali che hanno prestato servizio in Spagna e mandarli al patibolo. Dupont ci ha fatto perdere la penisola iberica per assicurarsi il bottino». Anche se è vero che l’esercito di Dupont fu sconfitto dopo il saccheggio di Cordoba, pochi generali francesi sarebbero riusciti a sfuggire alla trappola preparata da Castaños.
«Sembrava fare tutto benissimo alla testa di una divisione», scrisse Napoleone a Clarke a proposito di Dupont, «ma come comandante è stato un disastro». Si trattava di un problema che si ripresentava spessissimo con i suoi subordinati, al punto che la colpa è stata imputata allo stesso Napoleone, poiché la sua abitudine di controllare tutto finiva per soffocare lo spirito d’iniziativa. Talvolta si rimproverava del fatto che la maggior parte dei suoi luogotenenti, e persino dei marescialli, sembrava dare il meglio soltanto quando era presente lui. Ma, a parte l’ordine di recarsi in Andalusia, Dupont non era stato sommerso di direttive. «In guerra gli uomini non sono niente, ma un uomo è tutto», scrisse Napoleone a Giuseppe il 30 agosto. Queste parole, a lungo interpretate come un’egoistica espressione di durezza e insensibilità nei confronti delle proprie truppe, in realtà facevano riferimento a Dupont, in una lettera piena di autocritiche: «Fino a ora dovevamo cercarne esempi soltanto nella storia dei nostri nemici; purtroppo, oggi ne abbiamo uno in mezzo a noi». Ben lungi dall’essere una lode al proprio genio, era piuttosto l’ammissione che un comandante incapace poteva provocare un disastro.

Inizio del declino
Quando il papa rifiutò di aderire all'embargo nei confronti dell'Inghilterra, dichiarando che le sue qualità di pastore universale gli imponevano la neutralità, Napoleone fece occupare Roma dal generale Miollis e il 7 maggio 1809 ordinò l'annessione dello Stato Pontificio all'Impero francese. Il papa rispose con una bolla di scomunica e Napoleone ordinò a Miollis di procedere all'arresto del pontefice. Provvide subito il generale Radet che lo fece trasportare, insieme con il Segretario di Stato cardinale Bartolomeo Pacca, a Grenoble, indi a Fontainebleau, dove Napoleone riuscì solo quattro anni dopo a strappargli l'approvazione di un nuovo Concordato. L'annessione alla Francia dello Stato pontificio fu un grave errore di Napoleone; quasi tutta l'Europa era cattolica e, a eccezione degli ambienti culturali della borghesia illuminata pochi compresero e approvarono quella decisione.
Per mettere in ginocchio l'Inghilterra, unica potenza ancora in armi contro la Francia, Napoleone aveva attuato un Blocco Continentale (poiché, nelle intenzioni del Bonaparte, tutta l'Europa continentale avrebbe dovuto aderire all'embargo contro le isole britanniche) che non diede i risultati sperati. Il fallimento del blocco era dovuto al fatto che molti paesi europei, per motivi di convenienza economica, non vi aderirono completamente, continuando a mantenere scambi commerciali con l'Inghilterra.
Nonostante le difficoltà organizzative iniziali, Napoleone fu in grado da aprile 1809 di affrontare la quinta coalizione; mostrando ancora una volta la sua netta superiorità di stratega, l'imperatore ottenne una serie di vittorie contro gli austriaci comandati dall'arciduca Carlo, culminate nella battaglia di Eckmühl il 22 aprile 1809. Napoleone occupò Vienna e il Castello di Schönbrunn il 12 maggio 1809. La battaglia di Aspern-Essling invece terminò con un insuccesso di Napoleone che tuttavia alla fine vinse, tra, il 5 e il 6 luglio 1809, la decisiva battaglia di Wagram.
Dopo la sconfitta nella battaglia di Austerlitz nel 1805, l'imperatore Francesco II d'Asburgo-Lorena aveva firmato il trattato di Pressburg con la Francia, costretto ad accettare termini molto duri per il suo paese: l'Austria pagò alla Francia un'indennità di guerra pari a 40.000.000 di franchi, cioè un sesto delle entrate totali annue dell'Austria, oltre alla cessione dei domini in Italia settentrionale e in Baviera e nella Confederazione del Reno. Nel 1806, dopo la sconfitta della Prussia e su pressione dei francesi, Francesco II dovette rinunciare al suo titolo di Imperatore del Sacro Romano Impero, divenendo semplicemente "Imperatore d'Austria". L'arciduca Carlo, fratello dell'imperatore e uno dei più abili generali del suo tempo, venne nominato Generalissimo e riformò l'esercito austriaco per predisporlo ai futuri scontri, oltre a iniziare la ricerca di possibili alleati in Europa. Dopo il trattato di Tilsit del 1807, la Russia e la Francia si erano alleate, mentre Prussia e Regno Unito si coalizzarono contro la Francia.
Il 9 aprile 1809 le armate austriache al comando dell'arciduca Carlo invasero la Baviera e l'Italia settentrionale senza che però venisse proclamata una dichiarazione di guerra ufficiale. Napoleone nel frattempo si trovava a Parigi e quest'attacco fu quanto mai inaspettato. Gli austriaci riuscirono facilmente a conquistare Monaco e a dividere così le armate francesi in Baviera in due corpi distinti. Quando Napoleone giunse con la Guardia Imperiale, ad ogni modo, egli attaccò in forza e sconfisse varie colonne austriache nelle battaglie di Abensberg, Landshut, Eckmühl e Ratisbona. Carlo si ritirò lungo il Danubio inseguito dai francesi. Il 12 maggio i francesi presero Vienna. Gli austriaci non capitolarono in quanto sebbene la capitale fosse occupata, il grosso dell'esercito austriaco resisteva ancora con Carlo in testa. Il 21 maggio Napoleone attraversò il Danubio col chiaro intento di attaccare le armate dell'Arciduca, ma quest'ultimo aveva anticipato questa mossa ed attese che Napoleone prendesse Mühlau (importante villaggio presso Aspern e Essling) per poi affiancarlo e creare una testa di ponte. I tentativi di Napoleone di rafforzare le proprie difese furono vani in quanto gli austriaci impedirono ai francesi di ricevere viveri e munizioni. Dopo due giorni di battaglia il maresciallo Jean Lannes, uno tra i migliori comandanti di Napoleone, venne ferito mortalmente e Napoleone abbandonò le proprie posizioni. Egli si ritirò sull'isola di Lobau nel mezzo del Danubio che l'armata francese usò come luogo di ristoro.
Lobau, con la massa di soldati densamente ammassati in pochi chilometri quadrati di terreno, era un facile obbiettivo per l'artiglieria austriaca che avrebbe potuto bombardare le posizioni nemiche dalla sponda opposta, ma l'arciduca Carlo preferì non seguire questa strategia, lasciando a ogni modo un corpo di osservatori a qualche miglio di distanza. Napoleone riconobbe quindi la necessità di provare ad attraversare il Danubio e iniziò i preparativi. Il 1º giugno gli ingegneri francesi iniziarono la costruzione di un ponte tra le due sponde lavori che vennero completati il 21 giugno successivo. La notte tra il 4 e il 5 luglio tutto era pronto e 162.000 soldati francesi passarono il fiume, mentre le truppe dell'arciduca Carlo si erano poste sulle colline attorno a Deutsch-Wagram.

wagram

Battaglia di Wagram stampa antica

Il piano di Napoleone era quello di creare un diversivo a nord di Lobau, nella stessa area ove era stata combattuta la battaglia di Aspern-Essling. Attraversando il Danubio a est a quel punto egli si augurava di poter accerchiare il fianco destro degli austriaci e di assaltare direttamente Russbach. L'arciduca Carlo da parte sua sapeva che Napoleone avrebbe fatto di tutto per attraversare il fiume e in più punti e prevedendo le intenzioni dell'Imperatore egli pose il grosso delle proprie armate proprio dietro Russbach formando una linea a V di 12 chilometri di lunghezza e ancorata tra Süssenbrunn su un lato e Wagram e Aderklaa sull'altro. Usando le teste di ponte fortificate, Napoleone iniziò l'attraversamento su vasta scala dall'isola con 162.000 uomini la notte tra il 5 e il 6 luglio. La sua armata era composta dai corpi II, III, IV dall'armata d'Italia dal corpo sassone e dall'XI, oltre alle riserve ed alla guardia imperiale. D'altro canto l'arciduca Carlo aveva predisposto un vantaggio sul nemico di 60.000 unità il che gli permetteva operazioni su vasta scala anche se con scarsa mobilità. Louis Alexandre Berthier, capo dello staff di Napoleone, commise però l'errore di assegnare l'attraversamento dello stesso ponte a due diversi corpi creando confusione e pertanto Napoleone fu costretto a spostare una parte di altri corpi in un'altra posizione di attraversamento. L'artiglieria austriaca, a questo punto, si accanì sull'area ove i francesi stavano disponendo le loro armate sebbene questi continuassero a prendere piede sulla terraferma, conquistando verso mezzogiorno praticamente tutta l'area tra Aspern ed Essling formando poi un semicerchio per anticipare l'arrivo dell'arciduca Giovanni ed impedire il rifornimento dell'artiglieria ai corpi austriaci. Attorno alle 18.00, Napoleone ordinò di attaccare il centro delle armate austriache, intendendo risolvere lo scontro entro la sera. Quest'attacco estemporaneo fu poco coordinato e non produsse l'effetto voluto venendo rapidamente respinto. Il contrattacco austriaco riprese quindi le posizioni ai francesi.
Riflettendo sulla posizione tattica, l'arciduca Carlo determinò che il breve fronte di distanza dai francesi e la posizione delle loro truppe avrebbero permesso a Napoleone di attaccare e irrompere le linee austriache. Per prevenire questo fatto egli decise di compiere la prima mossa con attacchi casuali ai lati e al centro dell'armata francese presso il villaggio di Aderklaa. Come risultato di quest'azione i francesi vennero circondati anche se il mancato arrivo dell'arciduca Giovanni non rivolse definitivamente questa parte di scontro a favore degli austriaci.

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Generale Augustin Gabriel d'Aboville. Comandante delle batterie a cavallo della Guardia.

Il maresciallo Bernadotte, ad ogni modo, aveva abbandonato il villaggio di Aderklaa in grandi difficoltà e senza aver atteso gli ordini superiori a tal punto che Napoleone lo dimise dal proprio comando in quella stessa circostanza e prese personalmente il controllo della situazione. L'imperatore alle ore 11.00 mise in azione la cosiddetta "Grande batteria", una potente concentrazione di cannoni costituita raggruppando, al comando superiore del generale Lauriston, tutta l'artiglieria di riserva della Guardia e le batterie dell'Armata d'Italia e del contingente bavarese. Per prime entrarono in azione le batterie a cavallo della Guardia del generale d'Aboville, equipaggiate con cannoni da 6 e 8 libbre e con obici da 24 libbre; subito dopo si schierarono quattro batterie a piedi della Guardia con i cannoni da 12 libbre, comandante dal generale Drouot; infine sulla sinistra vennero posizionati i cannoni bavaresi e quelli dell'Armata d'Italia.

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Generale Antoine Drout Uomo di grande umanità, mise in pratica la sua etica anche sul campo di battaglia.

La Grande batteria era costituita da 112 cannoni ed era allineata su un fronte di circa 1.800 metri alla distanza di circa 350-400 metri dalle linee austriache.
Nel frattempo il fianco destro francese avanzava al comando di Oudinot e Davout verso il villaggio di Markgrafsneusiedl ove si aprì un pesante conflitto che forzò Davout a retrocedere verso le 15.00, preludendo al successivo attacco guidato dal generale di divisione Jacques MacDonald i cui 27 battaglioni con circa 8.000 uomini totali attaccarono il centro delle forze austriache. Gli austriaci risposero con un intenso fuoco di artiglieria e cariche di cavalleria leggera. Dopo diverse azioni, MacDonald riuscì a sfondare le file austriache che iniziarono a ritirarsi verso il villaggio di Znaim, consegnando la vittoria nelle mani di Napoleone. Le truppe francesi erano esauste da quaranta ore di marcia e combattimento totali, ma a MacDonald venne garantito il bastone di maresciallo di Francia quello stesso giorno sul campo per le brillanti azioni sostenute.

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Generale Étienne Jacques Joseph Alexandre Macdonald Fu tra i più convinti a consigliare l'abdicazione di Napoleone a Fontainbleau.

L'Austria subì pesanti condizioni di pace con il trattato di Schönbrunn: il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo, la Baviera, l'Istria e la Dalmazia furono perse. L'indennizzo di guerra fu enorme. Due giorni prima della conclusione delle trattative di pace Napoleone fu soggetto a un attentato alla sua vita da parte di certo Friedrich Staps, che cercò, senza riuscirvi, di accoltellarlo nella corte del Castello di Schönbrunn.
Dal 1810 l'aspetto fisico di Napoleone cambiò e la sua salute cominciò a declinare; il trascorrere del tempo e l'enorme impegno di governo e amministrazione dell'Impero cominciarono a logorarlo; ben diverso dallo "scaramouche sulfureo", magro, con i capelli lunghi sulle spalle, cupo e ombroso della giovinezza, egli aumentò di peso, i capelli tagliati corti si diradarono, il viso si fece pieno e il colorito livido; i lineamenti si rilassarono. Pur mantenendo nel complesso una grande lucidità intellettuale e una tenace risolutezza, egli episodicamente mostrò un decremento delle sue capacità di concentrazione e di decisione. Disuria e gastralgia si fecero più frequenti.
Nel 1810, l'Europa era definitivamente ridisegnata secondo il volere napoleonico. I territori sotto il diretto controllo francese si erano espansi ben oltre i tradizionali confini pre-1789; il resto degli Stati europei era o suo satellite o suo alleato. Il regno d'Italia era nominalmente governato da Napoleone, ma retto dal viceré Eugenio di Beauharnais (figlio di primo letto della moglie di Napoleone, Giuseppina); il principato di Lucca e Piombino (dal 1805 al 1814) fu assegnato a Felice Baciocchi, ma in realtà governato dalla moglie di lui e sorella dell'Imperatore, Elisa. Dal 1809 la stessa Elisa fu anche messa a capo dei tre dipartimenti toscani annessi all'Impero con il titolo di Granduchessa di Toscana, che si aggiunse a quello di Principessa di Lucca e Piombino, rimanendo peraltro i due territori disgiunti; alla sorella Paolina, sposata col principe Camillo Borghese, andò il ducato di Guastalla, poi ceduto al regno d'Italia; il fratello maggiore Giuseppe aveva il trono di Spagna; il fratello Luigi il trono d'Olanda dopo aver sposato Ortensia di Beauharnais, figlia della moglie di Napoleone, Giuseppina; il fratello Girolamo ebbe il regno di Vestfalia; il generale Gioacchino Murat, poi maresciallo dell'Impero, ebbe il regno di Napoli, dopo aver sposato la sorella di Napoleone, Carolina; il maresciallo Bernadotte, che aveva sempre manifestato una profonda invidia verso Napoleone, ebbe il trono di Svezia, ma ben presto tradì il suo ex capo entrando nella coalizione che lo avrebbe detronizzato. La Confederazione del Reno era di fatto sotto il controllo di Napoleone.
Dopo la pace di Schönbrunn, Napoleone e l'austriaco Metternich si erano accordati per un matrimonio di Stato.
Il 30 novembre Napoleone disse a Giuseppina che intendeva annullare il loro matrimonio. «Tu hai dei figli, io invece no», disse. «Devi comprendere che ho la necessità di consolidare la mia dinastia.» Giuseppina scoppiò a piangere, disse che non poteva vivere senza di lui e lo implorò di ripensarci. «La vidi piangere per ore e ore», ricordava Rapp; «parlava del suo affetto per Bonaparte, perché lo chiamava abitualmente così in nostra presenza. Si rammaricava per la fine della sua splendida carriera. Era del tutto naturale.»47 Quella sera, a cena, Giuseppina indossava un grande cappello bianco per non far vedere che aveva pianto, ma a Bausset sembrò «l’immagine del dolore e della disperazione».48 Cenarono insieme da soli, ed entrambi mangiarono poco; le uniche parole furono pronunciate da Napoleone, che chiese a Bausset informazioni sulle condizioni del tempo. A un certo punto, come ricordava lo stesso Napoleone, Giuseppina «lanciò un urlo e svenne», e dovette essere accompagnata fuori dalla sua dama di compagnia. L’arrivo di Eugenio, il 5 dicembre, servì a calmare sua madre, e i Bonaparte e i Beauharnais riuscirono presto a mettersi a discutere i particolari. Per poter avere i requisiti per la cerimonia ecclesiastica di cui Napoleone aveva bisogno per le seconde nozze, il matrimonio religioso con Giuseppina, avvenuto alla vigilia della sua incoronazione, doveva essere dichiarato nullo, anche se era stato celebrato da un principe della chiesa, il cardinale Fesch. Quindi Napoleone dichiarò che era stato clandestino, senza testimoni sufficienti, e che lui aveva accettato perché costretto da Giuseppina. Lei accettò di confermare quest’assurdità, ma ben 13 cardinali francesi su 27 rifiutarono di assistere alle nuove nozze di Napoleone. (Da parte sua, Napoleone proibì ai dissidenti di indossare la tunica rossa, e quindi divennero noti come i “cardinali neri”.) Per annullare il matrimonio i giuristi del governo si avvalsero come precedenti dei divorzi di Luigi XII ed Enrico IV. La stranezza del rapporto tra Napoleone e Giuseppina è che lui l'amò moltissimo e, all'inizio, lei non corrispose e lo tradì; quando Napoleone non l'amò più, o l'amò meno, fu Giuseppina ad amarlo. Gli accordi finanziari furono vantaggiosi per entrambi: d’altra parte a Giuseppina fu garantito un reddito elevato, e può dirsi fortunato l’uomo che riesce a farsi pagare dallo stato l’accordo di divorzio. Per ironia della storia, anche se Napoleone divorziò da Giuseppina per avere un erede al trono, sarebbe stato il nipote di lei, e non un figlio di Napoleone, a diventare il successivo imperatore di Francia, e sono i diretti discendenti di Giuseppina a sedere oggi sui troni di Belgio, Danimarca, Svezia, Norvegia e Lussemburgo. Quelli di Napoleone no.
Il 1º aprile 1810 Napoleone sposò la figlia dell'imperatore d'Austria, Maria Luisa, nipote di Maria Antonietta, la regina decapitata durante la Rivoluzione (il che provocò non poche polemiche in Francia). Con questo matrimonio l'Austria si era legata a Napoleone, il che portava alla creazione di un'alleanza pressoché indissolubile. Comunque, Maria Luisa non fu l’amore della sua vita. Lo confermò lui stesso anni dopo: «Pur avendo sinceramente amato Maria Luisa, credo che amai Giuseppina ancora di più. Era naturale: eravamo arrivati al vertice insieme, ed era una vera moglie, la moglie che avevo scelto. Era piena di grazia, graziosa persino nel modo in cui si preparava per andare a letto, nel modo in cui si spogliava […] Non mi sarei mai separato da lei se mi avesse dato un figlio; ma, ma ....». Alla fine Napoleone si sarebbe pentito del suo secondo matrimonio, cui imputò la sua caduta. «Se non fosse stato per il mio matrimonio con Maria di certo non avrei mai fatto guerra alla Russia», disse, «ma mi sentivo sicuro dell’appoggio dell’Austria, e mi sbagliavo, perché l’Austria è la nemica naturale della Francia.» Napoleone ebbe un erede legittimo da Maria Luisa, nato dopo un parto difficile il 20 marzo 1811. Tuttavia l'erede dell'Impero, Napoleone Francesco, detto il re di Roma (Napoleone II), non salì in realtà mai al trono: Napoleone fu detronizzato pochi anni dopo e Napoleone II morì successivamente a soli 21 anni.

caulaincourt

Generale Armand Augustin Louis de Caulaincourt; affiancò Napoleone nell'azione diplomatica. Fu strenuamente contrario alla campagna di Russia, anche perchè conosceva bene l'esercito russo e i suoi comandanti.

Nonostante gli accordi stabiliti a Tilsit, lo zar Alessandro I di Russia temeva l'egemonia napoleonica e rifiutò di collaborare con lui riguardo al Blocco Continentale, per non danneggiare l'economia russa e perché segretamente sperava di formare una nuova coalizione antifrancese. Nella realtà, Alessandro, pur manifestando atteggiamenti di amicizia nei riguiardi di Napoleone, in privato lo chiamava il còrso e non lo riteneva alla sua altezza a livello di aristocrazia. Napoleone decise di cominciare una campagna decisiva contro la Russia per sottomettere lo zar al suo sistema di potere in Europa, costringerlo ad aderire al Blocco, privarlo della sua influenza in Polonia, Balcani, Finlandia, Persia. L'imperatore disponeva di circa 700.000 uomini, di cui circa 300.000 francesi e il resto contingenti stranieri provenienti da tutti gli stati vassalli e alleati del Grande Impero. I russi, comandati prima dal generale Michael Barclay de Tolly e poi dal generale Mikhail Kutuzov, timorosi di affrontare il preponderante esercito nemico e intimiditi dalla reputazione militare di Napoleone, decisero inizialmente di ritirarsi nel cuore della Russia.
Campagna di Russia
Una serie di vaste manovre strategiche, ideate da Napoleone per sconfiggere l'esercito nemico e concludere rapidamente la guerra, fallirono a causa di errori dei suoi luogotenenti, delle difficoltà del terreno e delle tattiche prudenti dei suoi avversari; a Vilna, a Vitebsk e soprattutto nella battaglia di Smolensk e nella battaglia di Valutino i russi, battuti ma non distrutti, riuscirono a evitare uno scontro decisivo e a ripiegare verso est.

charpentie

Generale Henri François Marie Charpentie. Si distinse nella camnpagna di Russia.

Nella seconda metà del mese di agosto 1812 Napoleone, dopo il fallimento delle sue manovre di annientamento a Vilna, a Vitebsk e a Smolensk, che non si erano concluse con la distruzione dell'esercito russo come progettato dall'imperatore, si trovava in una fase difficile e incerta della campagna di Russia. La Grande Armata si stava indebolendo con impressionante rapidità e la massa di manovra principale sotto il controllo diretto di Napoleone si era ridotta, dopo la battaglia di Smolensk e il distacco del II e VI corpo d'armata a nord, a circa 160.000 soldati. Le difficoltà della campagna erano sempre più evidenti; la strategia napoleonica aveva mostrato i suoi punti deboli nelle estese e desolate terre dell'est; le truppe non potevano essere vettovagliate a sufficienza per carenza di mezzi e non potevano sfruttare le risorse locali che erano modeste o erano state già distrutte in precedenza dai russi; il clima torrido sfibrava i soldati durante le lunghe marce forzate. I russi evitavano la battaglia campale, e sembravano decisi a logorare lentamente l'invasore grazie al clima, al terreno, alle distanze.
I principali collaboratori di Napoleone consigliavano da tempo all'imperatore di arrestare la campagna e porre i quartieri d'inverno a Smolensk o a Vitebsk. Napoleone riconosceva i pericoli della situazione ma considerava anche le pericolose conseguenze politiche di una sua lunga assenza dalla Francia, isolato nel cuore della Russia. Gli alleati tedeschi avrebbero potuto defezionare alle sue spalle, la sua posizione sarebbe potuta divenire meno solida in patria dove il suo prestigio personale, in caso di mancata vittoria, avrebbe potuto subire un grave colpo. Considerando l'insieme di questi fattori e soprattutto essendo convinto che una marcia su Mosca avrebbe inferto un colpo decisivo alla capacità di resistenza del nemico ed alla risolutezza dello zar Alessandro, egli decise, dopo una settimana di sosta, di lasciare Smolensk e riprendere l'avanzata verso est.

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Generale Louis Pierre Montbrun. Era considerato, tra tutti i generali comandanti di cavalleria di Napoleone, secondo solo a Kellermann.

L'avanguardia dell'armata, costituita dalle cinque divisioni del I corpo d'armata del maresciallo Louis-Nicolas Davout e dalla cavalleria del generale Louis-Pierre Montbrun, avanzava sotto il comando superiore di Joachim Murat; i rapporti tra il re di Napoli e il maresciallo Davout non erano buoni e violenti contrasti tra i due intralciarono la marcia; dopo un confuso scontro con la retroguardia russa, i francesi raggiunsero la città di Dorogobuž, abbandonata e incendiata dal nemico, il 24 agosto. Napoleone decise di ripartire subito con l'armata divisa in tre colonne: al centro, davanti all'imperatore, avanzava Murat con il corpo d'armata del maresciallo Davout e dietro il corpo d'armata del maresciallo Michel Ney, sulla sinistra era il IV corpo del principe Eugenio Beauharnais, sulla destra marciavano i polacchi del principe Jozef Poniatowski.

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Principe Eugenio di Beauharnais, figlio di Giuseppina in un dipinto di Andrea Appiani. Si comportò in modo eroico in molte delle battaglie napoleoniche.

L'esercito russo continuava a ripiegare; le truppe mantenevano la coesione e la disciplina e la ritirata si svolgeva in modo ordinato; la retroguardia, comandata dal generale Pëtr Konovnicyn, svolse con abilità il compito di copertura e riuscì a rallentare l'avanzata nemica dando tempo al grosso dell'esercito di salvare i materiali e gli equipaggiamenti. In realtà forti contrasti erano presenti all'interno del comando russo; in particolare il generale Michael Barclay de Tolly, comandante di fatto dell'esercito, era esposto a dure critiche per la sua tattica di attesa, considerata rinunciataria e umiliante; il generale Pëtr Bagration e molti altri ufficiali polemizzavano con il generale di origine tedesca e auspicavano una grande battaglia campale per fermare finalmente l'invasione; anche tra le truppe si diffondeva il malumore e lo scontento per l'abbandono delle terre della Russia profonda, i soldati chiedevano di battersi.
A San Pietroburgo lo zar Alessandro doveva fronteggiare un grave malcontento popolare a causa della ritirata e dell'abbandono delle antiche città russe; la nobiltà e gli emigrati premevano per affrontare Napoleone in campo aperto. Alessandro preferì aderire alle pressioni esterne e decise il 20 agosto 1812 di nominare comandante supremo dell'esercito l'anziano, esperto e prestigioso generale Michail Kutuzov. Costui, prudente e accorto, accentuò subito il carattere religioso e nazionale della resistenza contro l'invasore. In realtà Kutuzov non era molto apprezzato dallo zar e anche alcuni generali lo consideravano ormai vecchio e stanco; Alessandro gli affiancò come capo di stato maggiore il generale Levin von Bennigsen per controllarlo. Il generale Kutuzov, che era popolare tra le truppe, raggiunse l'esercito il 29 agosto; egli probabilmente avrebbe preferito continuare una tattica prudente e attendere un ulteriore logoramento dell'invasore, ma preferì piegarsi alle richieste dei generali, della nobiltà e del popolo decidendo di affrontare una grande battaglia difensiva davanti a Mosca per proteggere l'antica capitale.

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Generale Jean Baptiste Eble, (ritratto di Jean-Baptiste Paulin Guérin); si comportò da eroe nella campagna di Russia. Morì a Königsberg poco dopo il ritorno dalla Russia.

Nel frattempo la ritirata continuava; le retroguardie russe del generale Konovnicyn rallentavano e intralciavano metodicamente le truppe di cavalleria di Murat che controllava anche il I corpo del maresciallo Davout; i metodi del re di Napoli erano aspramente criticati dal maresciallo e tra i due sorgevano continue dispute. Napoleone in generale appoggiava la temerarietà di Murat ed era ansioso di affrettare la marcia; decise di togliere la divisione del generale Jean Dominique Compans al I corpo e assegnarla direttamente al re di Napoli. Il 28 agosto, l'armata raggiunse e occupò Vjaz'ma, che i russi avevano già incendiato e distrutto; il 1º settembre i francesi entrarono a Gžansk.
Le notizie portate da un informatore e l'interrogatorio di prigionieri permisero a Napoleone di venire a conoscenza della sostituzione del comandante in capo russo e dell'intenzione del nemico di fermarsi a combattere una grande battaglia campale davanti a Mosca; l'imperatore fu contento di queste notizie, annunciò ai suoi soldati la prossima battaglia e concesse due giorni di riposo per riorganizzare le truppe e portare avanti materiali e munizioni.
Il 4 settembre 1812 la Grande Armata riprese l'avanzata preceduta dall'avanguardia di cavalleria di Murat; reparti di cosacchi ostacolarono la marcia ma furono rapidamente dispersi dalle truppe del re di Napoli che ben presto incontrarono, davanti al villaggio di Gredneva, lungo la strada nuova di Smolensk, lo sbarramento russo organizzato dalla retroguardia comandata dal generale Konovnicyn. Si accese un grosso scontro e i russi sostennero i primi assalti francesi delle truppe di Murat, mentre i cosacchi del generale Matvei Platov contennero le cariche dei cacciatori a cavallo italiani; con l'arrivo sul fianco destro dei russi dei reparti del IV corpo d'armata del principe Eugenio la situazione del generale Konovnicyn divenne critica ed egli dovette ripiegare. I russi non riuscirono a difendere i villaggi di Kolockoj e Golovino e, aggirati sui fianchi, continuarono a ritirarsi inseguiti dai francesi. Il 5 settembre il grosso della Grande Armata, avanzando a nord e a sud della strada maestra, sbucò sulla pianura a est di Golovino e raggiunse finalmente il terreno su cui il generale Kutuzov aveva deciso di combattere la battaglia in difesa di Mosca. La posizione era stata scelta su proposta del capo di stato maggiore russo, generale Bennigsen, che aveva convinto il generale Kutuzov, grazie anche al consenso del generale Karl von Toll. Napoleone raggiunse un'altura e poté osservare la pianura che si estendeva verso est e valutarne le caratteristiche.
Studiando le caratteristiche orografiche del terreno, l'imperatore ritenne che i russi fossero fortemente protetti sul fianco destro dal fiume Koloca, affluente della Moscova, e dalle colline sulla riva meridionale, e che invece l'ala sinistra nemica, a sud del fiume, fosse vulnerabile. La presenza di una fortificazione russa, individuata dalle avanguardie francesi a Ševardino, villaggio posto su una modesta collina a nord della strada vecchia di Smolensk, sembrò confermare le valutazioni tattiche di Napoleone: il terreno sul fianco sinistro russo era favorevole ad un attacco in forze francese ed il nemico stava costruendo trinceramenti proprio per rafforzare questo settore esposto del suo schieramento. Napoleone diede quindi subito ordine di attaccare il ridotto che appariva troppo isolato sull'ala sinistra russa e che poteva costituire una favorevole base di partenza per l'assalto generale.
Il generale Kutuzov aveva rafforzato il ridotto di Ševardino con una batteria di dodici cannoni e le truppe di fanteria del generale Andrej Gorcakov e intendeva difendere la posizione per guadagnare tempo per rinforzare il suo schieramento nell'ala sinistra. In realtà rimane non del tutto chiaro se la ridotta costituisse il vero fianco sinistro del fronte russo come previsto in origine, come riteneva Lev Tolstoj, o se venisse considerata solo un avamposto da difendere a oltranza in attesa del completamento delle fortificazioni più arretrate. È possibile che i comandi russi siano stati colti di sorpresa dalla decisione di Napoleone di spostare tutto il campo di battaglia principale sull'ala meridionale e dall'avanzata francese a sud della strada nuova di Smolensk, che quindi la ridotta fosse parte fondamentale delle linee principali e che la sua prematura caduta abbia sconvolto il piano generale del maresciallo Kutuzov.
L'esercito francese quindi, secondo gli ordini di Napoleone, marciò subito in avanti il 5 settembre su ampio fronte sia a nord che a sud della strada maestra con le truppe del principe Eugenio sulla sinistra, il V corpo del principe Józef Antoni Poniatowski sulla destra e al centro, contro il ridotto di Ševardino, Murat con la cavalleria e la divisione del generale Jean Dominique Compans; le avanguardie russe furono respinte e il terreno occupato, la battaglia si accese invece violenta a Ševardino che i russi difesero con valore.
L'attacco francese venne sferrato dal generale Compans che, dopo aver schierato la sua artiglieria su alcuni rilievi del terreno, prese d'assalto il ridotto con la fanteria in colonne; il 61º reggimento di linea conquistò la fortificazione, ma i russi non rinunciarono alla lotta, contrattaccarono subito e ripresero la posizione. Dopo tre tentativi e combattimenti molto duri, infine il 61º reggimento, pur fortemente provato dalle perdite, conquistò definitivamente il ridotto.

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Generale Charles Antoine Louis Alexis Morand; fu aiutante di campo di Napoleone

La battaglia di Ševardino non era ancora finita, altri reparti russi si difesero nel vicino villaggio di Ševardino e nei boschi a sud; in questa fase presero parte agli scontri anche la divisione del generale Charles Antoine Morand che occupò il villaggio, alcuni reparti del principe Poniatowski che rastrellarono i boschi e la cavalleria di Murat; un reggimento di fanteria spagnolo respinse un ultimo assalto del nemico. I combattimenti di Ševardino durarono fino alla sera e costarono tra 5.000 e 6.000 perdite ai russi, che si batterono con grande coraggio e in grande maggioranza preferirono la morte alla resa; i francesi, che avevano perso 2.000 uomini, occuparono un importante posizione strategica da cui attaccare le forze principali del maresciallo Kutuzov.

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Principe Józef Antoni Poniatowski, grande eroe in molte battaglie napoleoniche. Morì a Lipsia.

Anche dopo la perdita del ridotto di Ševardino, la posizione scelta dal generale Kutuzov appariva solida e si imperniava sulla copertura fornita dal corso della Moscova sul fianco destro e sul corso della Koloca che proteggeva le linee russe che sbarravano la strada nuova di Smolensk all'altezza del villaggio di Borodino; in realtà la posizione aveva un punto debole sull'ala sinistra che forse in origine avrebbe dovuto imperniarsi sulla posizione fortificata di Ševardino e che era aggirabile lungo la cosiddetta strada vecchia di Smolensk. Dietro il villaggio di Borodino si estendeva, a sud della Koloca una vasta area pianeggiante scoperta, favorevole alle tattiche francesi e all'impiego in massa dell'artiglieria.
Inizialmente lo schieramento previsto dal generale Kutuzov e dal suo principale collaboratore, il generale Karl von Toll, da Gorki sulla Koloca fino a Ševardino e poi, dopo la caduta di questa posizione, fino a Utiža, era molto esteso, misurando oltre otto chilometri, ma la dislocazione delle forze si sarebbe presto rivelata errata. Le fortificazioni più solide erano state costituite sul fianco destro a nord-est di Borodino dove evidentemente il comando russo si attendeva l'attacco lungo la strada nuova di Smolensk. In questo settore, che invece non sarebbe stato attaccato dai francesi, il generale Kutuzov, che organizzò il suo quartier generale a Gorki, aveva schierato la 1ª armata del generale Michail Barclay de Tolly con il 2º corpo d'armata del generale Karl Gustav von Baggovut, il 4º corpo del generale Aleksandr Ostermann-Tolstoj, un corpo di cavalleria regolare, e il corpo dei cosacchi del generale Platov. Napoleone invece, avendo lasciato solo deboli forze di copertura lungo la Koloca, poté concentrare la massa delle sue forze a sud del fiume in uno spazio ristretto di soli tre chilometri.
A sud di Borodino il comando russo aveva posizionato il 6º corpo del generale Dmitrij Dochturov, mentre sull'ala sinistra il generale Pëtr Bagration, comandante della 2ª armata, disponeva del 7º corpo del generale Nikolaj Raevskij e dell'8º corpo del generale Andrej Borozdin. Quindi, a causa della inattesa direzione dell'attacco francese lungo la strada vecchia di Smolensk, il comando russo si trovò nella necessità durante la battaglia di impiegare prematuramente una parte della riserva e di spostare frettolosamente le sue forze del fianco destro a sud per contenere gli attacchi francesi tra Borodino e Utiža. Il generale Kutuzov prima dell'inizio della battaglia decise di rafforzare il settore del villaggio e del bosco di Utiža, trasferendo nell'area il 3º corpo del generale Nikolaj Alekseevic Tuckov, ma il grosso dell'armata del generale Barclay rimase schierata a nord. Lev Tolstoj critica severamente le disposizioni iniziali del comando russo e afferma che le difese furono improvvisate all'ultimo momento dopo aver constatato che invece i francesi avanzavano in massa a sud della Koloca lungo la strada vecchia.
In realtà sembra che il generale Bagration, comandante della seconda armata russa, abbia rilevato la debolezza della posizione a sud del fiume, affidata dal generale Kutuzov alle sue truppe; quindi, dopo aver lasciato un forte presidio a Ševardino, l'esercito russo ripiegò ad angolo retto con l'ala sinistra per coprire la strada vecchia di Smolensk e occupare il terreno scoperto tra Borodino e il villaggio di Utiža. In questo modo durante la battaglia l'esercito russo si trovò progressivamente sempre più ammassato in uno spazio ristretto e privo di difese naturali sull'ala sinistra dove, quando divenne evidente la direzione dell'attacco francese, vennero concentrati gran parte dei corpi d'armata, comprese le riserve e le forze del generale Barclay trasferite dall'ala destra; oltre 90.000 soldati furono distribuiti in un settore di pochi chilometri. Schierati in formazione serrata su sei o sette file, queste truppe furono sottoposte al continuo fuoco dell'artiglieria francese.
Il generale Kutuzov aveva previsto di rinforzare la sua posizione con fortificazioni campali che però inizialmente furono costruite, a partire dal 4 settembre, sull'ala destra, coperta dal Koloca, su cui si attendeva l'attacco; solo la vigilia della battaglia si intraprese la frettolosa organizzazione di postazioni difensive nel vulnerabile settore meridionale e vennero quindi costruite la cosiddetta "Grande Ridotta", a sud di Borodino, e le "frecce di Bagration", tra la ridotta e la strada vecchia di Smolensk. Nonostante i resoconti di parte francese, si trattava in realtà di fortificazioni deboli, solo parzialmente completate e con gravi carenze tattiche. Affidata all'opera del colonnello Ivan Liprandi, quartiermastro del 6º corpo d'armata, la "Grande Ridotta", dotata di un terrapieno piccolo e basso, era di modeste dimensioni e poteva ospitare solo diciotto cannoni e un battaglione di fanteria; il resto delle truppe e dell'artiglieria dovette schierarsi allo scoperto, il fossato scavato davanti al ridotto era assolutamente insufficiente.
Più a sud erano state costruite le "frecce di Bagration", tre terrapieni a forma di V, aperti posteriormente, deboli e mediocremente riparati con sbarramenti di terra; nelle retrovie dove si ammassarono le altre forze russe e le riserve del 5º corpo della Guardia imperiale del granduca Costantino, i soldati erano ancora a tiro dei cannoni pesanti francesi e, essendo privi di ripari naturali, rimasero per tutta la battaglia in piedi e a ranghi serrati sotto il fuoco. Anche i villaggi, costruiti in legno, furono di scarsa utilità per i difensori; i russi preferirono infatti distruggere il villaggio di Semenovskoe, situato subito a sud-est della "Grande Ridotta", per evitare che prendesse fuoco e divenisse una trappola per le truppe.
Alla vigilia della battaglia il morale dei soldati russi era elevato; le truppe, relativamente riposate, erano fortemente motivate dai richiami patriottici; alla vigilia il generale Kutuzov diramò un proclama efficace in cui esortava a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli", confidando nell'aiuto di Dio; l'icona della Vergine Nera di Smolensk venne portata in processione in mezzo ai soldati, esaltandone la religiosità patriottica.
Le forze russe dell'esercito campale erano state recentemente rafforzate da 13.500 reclute del generale Michail Miloradovic, provenienti dai depositi, che furono distribuiti tra i reggimenti; nel complesso il generale Kutuzov disponeva di 125.000 soldati e 624 cannoni, compresi i prestigiosi reggimenti della Guardia imperiale; erano presenti anche 31.000 miliziani di Mosca e Smolensk che tuttavia, armati solo di picche e asce e non addestrati, non parteciparono alla battaglia.
La sera del 5 settembre Napoleone pose il suo quartier generale dietro il settore del IV corpo del principe Eugenio; l'imperatore parve turbato dai resoconti della battaglia di Ševardino ; i russi sembravano decisi a farsi uccidere in massa sul posto piuttosto che cadere prigionieri; nella notte dormì poco, egli, come anche i suoi generali e Murat, continuavano a temere che i russi potessero decidere di riprendere la ritirata, sfruttando le tenebre, e rifiutare di battersi. Al mattino le truppe francesi poterono vedere invece che il nemico era ancora nelle sue posizioni; i soldati accolsero con entusiasmo questa notizia, si presentava finalmente l'opportunità di cambiare il corso dell'interminabile e sfibrante campagna.
Napoleone trascorse il 6 settembre effettuando accuratamente due ispezioni a distanza ravvicinata del terreno e delle posizioni nemiche di cui valutò lo schieramento; egli ritenne impraticabile ogni manovra di aggiramento del fianco destro russo a causa della presenza del fiume Koloca e di vasti terreni paludosi; l'imperatore valutò l'importanza della "Grande Ridotta" che considerò il punto decisivo da attaccare. Napoleone apprezzò anche la relativa debolezza del fianco sinistro russo che sembrava vulnerabile ad una vasta manovra aggirante attraverso i boschi a sud di Utiža. Il maresciallo Louis-Nicolas Davout propose quindi pressantemente di organizzare un ampio movimento di aggiramento notturno del fianco sinistro con le cinque divisioni del I corpo e le truppe del V corpo, circa 40.000 soldati in totale, allo scopo di portarsi all'alba alle spalle delle forze nemiche e raggiungere un decisivo vantaggio tattico. L'imperatore non fu convinto dalle argomentazioni del maresciallo; egli era apparentemente scettico sulla possibilità di intimorire le solide truppe russe con minacce strategiche alle loro retrovie e alle vie di comunicazione; riteneva inoltre pericoloso privarsi anche temporaneamente di un così rilevante massa di truppe al cospetto del grande esercito nemico, e difficile marciare di notte su un terreno poco conosciuto. Soprattutto Napoleone temeva che i comandanti russi, dopo aver individuato il movimento aggirante, avrebbero immediatamente ordinato una nuova ritirata, privando così ancora una volta l'esercito francese della grande battaglia decisiva che avrebbe potuto finalmente mettere termine vittoriosamente alla difficile ed estenuante campagna.
Avendo scartato l'audace ma problematica manovra di aggiramento del fianco sinistro dell'esercito russo proposta dal maresciallo Davout, Napoleone si risolse quindi ad adottare un piano più semplice, basato sullo sfruttamento dell'evidente debolezza dell'ala sinistra nemica che, ripiegata ad angolo retto dopo la perdita della posizione di Ševardino, era ora schierata, con forze insufficienti, su un'ampia distesa quasi pianeggiante a sud del Koloca. Lo schieramento russo assumeva una forma a saliente con una pericolosa testa di ponte centrale a nord del fiume nel villaggio di Borodino ed era vulnerabile sui due fianchi su cui i francesi avrebbero potuto concentrare potenti masse di artiglieria per indebolire con il fuoco le difese. L'imperatore intendeva ingannare il nemico con due manovre diversive, una a nord lungo il corso del Koloca con una parte del IV corpo del principe Eugenio ed una a sud nell'area di Utiža con i soldati polacchi del V corpo del principe Poniatowski.
L'attacco principale sarebbe stato effettuato a sud del fiume contro l'ala sinistra russa da due divisioni del I corpo del maresciallo Davout e dalle tre divisioni del III corpo del maresciallo Ney, rinforzate dalla cavalleria di Murat e dall'VIII corpo del generale Jean-Andoche Junot; dopo essere avanzata sotto la copertura dei boschi, l'ala destra francese avrebbe sfondato le fortificazioni russe e poi avrebbe effettuato una manovra di conversione verso sinistra per respingere il resto delle truppe nemiche verso il fiume e distruggerle. Il principe Eugenio con il IV corpo, rinforzato da due divisioni prese dal I corpo del maresciallo Davout e dalla cavalleria del generale Emmanuel de Grouchy, avrebbe coperto la linea di operazioni della Grande Armata attraverso la strada maestra e costituito il perno della manovra dell'ala destra; in un secondo momento sarebbe passato in parte a sud del Koloca e avrebbe partecipato all'assalto finale. Sull'ala sinistra francese lungo la Koloca sarebbero rimasti sulla difensiva solo 10.000 uomini della divisione italiana del generale Teodoro Lechi, della cavalleria bavarese e delle truppe di cavalleria del generale Philippe Antoine d'Ornano.
Napoleone avrebbe mantenuto disponibili consistenti forze di riserva costituite dalla Guardia imperiale, da una parte della cavalleria e dalla divisione del generale Louis Friant. Gli ordini vennero diramati la sera del 6 settembre e prevedevano anche la costruzione di cinque ponti sul Koloca e grandi piazzole per l'artiglieria. Si trattava di un piano semplice che si fondava principalmente sugli attacchi frontali senza complesse e audaci manovre a sorpresa; Napoleone riteneva indispensabile accelerare i tempi e ottenere una rapida vittoria sul nemico che aveva finalmente deciso di affrontare una battaglia campale.
Napoleone, afflitto da un forte raffreddore e da disturbi urinari, non era in buone condizioni di salute; apparve apprensivo e impaziente di combattere, egli era consapevole che sarebbe stata una battaglia sanguinosa; alla vigilia aveva appreso della sconfitta a Salamanca del maresciallo Auguste Marmont, a cui non diede molta importanza, mentre sembrò compiaciuto dal ritratto, appena arrivato da Parigi,raffigurante il figlio. Il proclama che l'imperatore diramò alle truppe riprendeva vecchi motivi della retorica napoleonica, esortava le truppe a battersi per la vittoria che avrebbe garantito concreti vantaggi materiali e "un pronto ritorno in patria". Dopo aver ricordato le passate vittorie, il proclama faceva appello alla posterità per esaltare il desiderio di gloria delle truppe nella "grande battaglia sotto le mura di Mosca.

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Generale Horace Sébastiani con la decorazione dell'Ordine della mezza luna; entrò fra i primi a Mosca alla testa del II Corpo d'armata di cavalleria.

Tra le truppe francesi, veterane, indurite dalla guerra, combattive ma stanche, non erano presenti manifestazioni di tipo religioso, l'esercito era completamente laico e conservava ancora alcune delle tradizioni rivoluzionarie; i soldati erano decisi a battersi e apparvero altrettanto motivati dei russi dalle virtù della gloria e del ricordo, esaltate dal proclama, e dal desiderio di ottenere i concreti vantaggi materiali e finire la guerra; i veterani erano consapevoli della difficoltà del loro compito di sconfiggere un nemico tenace e solido, descritto come "una muraglia". Napoleone disponeva in complesso di circa 130.000 soldati e 587 cannoni; erano presenti sul campo di battaglia i migliori reparti dell'esercito francese: la Guardia imperiale, il I corpo d'armata del maresciallo Davout e i reparti della cavalleria pesante.
L'imperatore era preoccupato per le condizioni dell'armata; gli parve stanca e silenziosa, ritenne che avesse bisogno di riposo che avrebbe potuto ottenere solo dopo una vittoria decisiva; in realtà le truppe, pur non essendo entusiaste, conservavano grande fiducia nell'imperatore. Napoleone contava sul loro orgoglio, sulla loro temerarietà, sulla ferma coscienza della loro superiorità sul nemico. Durante la notte Napoleone fu nuovamente preda di dubbi: temette che i russi si ritirassero, chiese ripetutamente informazioni e inviò a controllare; poi si preoccupò per le condizioni dell'armata e soprattutto volle essere tranquillizzato sull'efficienza della Guardia imperiale. Alternò pensieri negativi sulla fortuna e sul destino con rassicuranti considerazioni sulla mediocrità del generale Kutuzov; non riuscì a riposare bene: la sua salute peggiorò, lamentò tosse, febbre, disuria.
Tuttavia alle ore 05.00 del mattino del 7 settembre Napoleone, informato dal maresciallo Ney che i russi erano sempre fermi sulle loro posizioni e che quindi si doveva dare inizio alla battaglia, sembrò di nuovo energico, sicuro e ottimista; parlò ai suoi ufficiali di "avere la vittoria in pugno" e di "aprirci le porte di Mosca"; alle 05.30 raggiunse i pressi della ridotta conquistata di Ševardino da dove aveva deciso di dirigere il combattimento. In realtà il piano iniziale di Napoleone prevedeva di impiegare anche la potenza di fuoco per superare la resistenza nemica; egli dispose quindi di concentrare una grande massa di artiglieria di fronte alle "frecce" per devastare quelle fortificazioni prima dell'attacco che sarebbe stato sferrato del I corpo del maresciallo Davout con le divisioni del generale Jean Dominique Compans e del generale Joseph Marie Dessaix. Sarebbero stati raggruppati, sotto il comando del generale Pernetti, capo dell'artiglieria del I corpo, 24 cannoni dell'artiglieria della Guardia, 30 cannoni della divisione del generale Compans, 8 mortai delle divisioni dei generali Dessaix e Louis Friant; inoltre avrebbero partecipato, al comando del generale Fouché, anche i cannoni campali del III corpo, rinforzati con 16 mortai pesanti del III e del VIII corpo; infine il generale Jean-Barthélemot Sorbier avrebbe tenuto pronti altri cannoni della Guardia per potenziare il bombardamento. Il generale Jean Dominique Compans guidò il primo attacco alle "frecce di Bagration" e rimase seriamente ferito durante i combattimenti.

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Generale Joseph Marie Dessaix; si distinse alla battaglia di Wagram.

Difficoltà sorsero immediatamente; dopo l'apertura del fuoco alle ore 06.00 del mattino, il comando francese rilevò che l'artiglieria era stata piazzata in modo errato e che i tiri, essendo troppo corti, non raggiungevano il bersaglio, si dovette quindi procedere a spostare i cannoni più avanti prima di colpire le fortificazioni russe; inoltre ben presto l'artiglieria russa rispose al fuoco. Nonostante questo errore, l'attacco francese iniziò con successo; il comando russo, apparentemente per contrasti tra il generale Barclay e il maresciallo Kutuzov, aveva lasciato in una posizione molto esposta un reggimento di cacciatori della Guardia a nord del Koloca a difesa del villaggio di Borodino, che nella nebbia del mattino venne attaccato di sorpresa dalla divisione del generale Alexis Delzons, appartenente al IV corpo del principe Eugenio. In quindici minuti i francesi sbaragliarono i difensori e conquistarono il villaggio, i cacciatori della Guardia subirono pesanti perdite e ripiegarono a sud del fiume, inseguiti da alcuni reparti francesi che superarono a loro volta il Koloca e si avvicinarono alla "Grande Ridotta" da nord; ma le riserve russe, costituite da un reggimento di cacciatori, contrattaccarono, sorpresero il 106º reggimento di linea che si era spinto a sud del Koloca e lo respinsero con perdite di nuovo a nord del fiume; il 92º reggimento coprì il ripiegamento, ma il generale Louis-Auguste Plauzonne, comandante della brigata, rimase ucciso mentre cercava di radunare le truppe. Tuttavia i francesi avevano ora occupato il villaggio di Borodino e soprattutto avevano raggiunto posizioni molto favorevoli dove piazzare l'artiglieria che poté quindi colpire d'infilata con un fuoco micidiale i difensori della "Grande Ridotta"; il principe Eugenio schierò una batteria di 28 cannoni per bersagliare la fortificazione, lasciò la divisione del generale Delzons a Borodino per controllare la situazione sulla linea del fiume e ricevette ordine da Napoleone di far attraversare sui ponti costruiti più a sud le divisioni del generale Jean-Baptiste Broussier, del generale Charles Antoine Morand e del generale Étienne Maurice Gérard per preparare un attacco da ovest alla "Grande Ridotta".
L'attacco del I corpo del maresciallo Davout contro le tre "frecce di Bagration" ebbe inizio poco dopo l'assalto del generale Delzons a Borodino e, preceduto da trenta minuti di fuoco dell'artiglieria, venne condotto da destra in direzione nord-orientale contro la più meridionale delle fortificazioni russe; la divisione del generale Compans avanzò mascherata dal terreno boscoso, coperta sul fianco sinistro dalla divisione del generale Dessaix. Alcuni battaglioni avanzarono attraverso il bosco a nord di Utiža, mentre il famoso 57º reggimento di linea attaccò la fortificazione. Le "frecce" erano difese dalla 2ª divisione granatieri composita del generale Michail Voroncov, dipendenti, insieme alla 27ª divisione e alla 2ª divisione granatieri, dall'VIII corpo d'armata del generale Nikolaj Borodzin; si trattava di truppe scelte che si batterono duramente; l'artiglieria russa della 11ª e 32ª batteria aprì il fuoco contro le colonne compatte della fanteria francese in avanzata, che subì pesanti perdite. In questa fase dell'attacco venne ferito il generale Compans, e lo stesso maresciallo Davout rimase contuso dopo l'uccisione del suo cavallo; le prime notizie riferite a Napoleone parlavano di morte del maresciallo che invece si riprese e volle mantenere il comando del I corpo.
L'attacco del 57º reggimento di linea in un primo momento raggiunse e conquistò, nonostante l'aspra resistenza, la fortificazione più meridionale, ma il successo fu di breve durata; dopo circa trenta minuti il generale Voroncov guidò personalmente il contrattacco delle riserve che riuscirono a riconquistare la posizione, costringendo i francesi a ripiegare. La divisione del generale Compans era in forte difficoltà, disorganizzata tra i boschi e indebolita dalla perdite, molti ufficiali erano stati feriti. Ben presto, sotto i ripetuti attacchi francesi, anche la divisione del generale Voroncov sarebbe stata decimata; alla fine dei combattimenti per le "frecce" il reparto era ormai distrutto e il suo comandante gravemente ferito.
Napoleone aveva inviato nel settore delle "frecce" il generale Jean Rapp per informarsi della situazione che appariva confusa e ordinare un nuovo attacco con il concorso della divisione del generale Dessaix; un nuovo raggruppamento di artiglieria fu portato avanti per indebolire le difese nemiche e il maresciallo Ney ricevette gli ordini di prepararsi ad attaccare a sua volta con il III corpo. Il generale Rapp prese il comando della divisione del generale Compans e ottenne qualche successo ma venne a sua volta ferito. La divisione del generale Dessaix disponeva di soli otto battaglioni ed era molto più debole numericamente della divisione del generale Compans, costituita da diciotto battaglioni; il generale venne ferito al braccio sinistro da una granata e i suoi attacchi contro le "frecce" si infransero contro le difese, nonostante la potenza del fuoco dell'artiglieria francese che progressivamente distrusse i terrapieni delle fortificazioni.
Nel frattempo il comando russo, preoccupato dalla crescente pressione nemica contro l'armata del generale Bragration, stava procedendo a inviare rinforzi per evitare un crollo delle difese nel settore; senza avvertire il generale Barclay, il generale Kutuzov e i generali Toll e Bennigsen presero la decisione di portare avanti a sostegno della posizione delle "frecce", una parte delle riserve della Guardia. In questa fase si verificarono scontri di competenza e disaccordi tattici tra i generali russi: il generale Barclay protestò per il prematuro impiego delle riserve, mentre il generale Bagration, sottoposto a violenti attacchi, deplorò il ritardato movimento verso il suo settore dei corpi d'armata dei generali Baggovut e Ostermann-Tolstoj. Il generale Kutuzov, preoccupato per l'attacco del principe Eugenio a Borodino e lungo la Koloca, si decise solo dopo molte esitazioni ad ordinare il trasferimento verso sud dei due corpi d'armata dell'ala destra.
Il generale Bagration, in attesa dell'arrivo delle truppe di riserva e dei corpi d'armata in movimento dal settore settentrionale, prese la decisione di trasferire nel settore delle "frecce" parte delle forze di fanteria di seconda linea del 7º corpo del generale Raevskij che difendeva la "Grande ridotta" e inoltre richiese al generale Tuckov, comandante del 3º corpo schierato nell'area di Utiža, l'invio della divisione di fanteria del generale Konovnicyn.

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Generale Louis-Nicolas de Razout. Si comportò eroicamente durante la campagna di Russia

Il secondo attacco francese contro le "frecce" venne sferrato da ovest dal maresciallo Ney con la divisione del generale Jean Nicolas Razout e la divisione del generale François Ledru del III corpo, sostenute in seconda linea dalla divisione del generale Jean Gabriel Marchand, costituita da truppe del Württemberg; questi reparti attaccarono frontalmente a ranghi serrati le due fortificazioni settentrionali, mentre quella meridionale subì l'attacco dalla divisione del generale Compans, appartenente al I corpo del maresciallo Davout, che tornò all'attacco da sud-ovest. Napoleone aveva ulteriormente rinforzato queste forze inviando il corpo di cavalleria del generale Louis Pierre de Montbrun al maresciallo Ney e la cavalleria dei generali Étienne Nansouty e Marie Victor Latour-Maubourg al maresciallo Davout.
Il maresciallo Ney condusse personalmente l'attacco dei suoi uomini; l'assalto venne contrastato dal fuoco dell'artiglieria russa che decimò le file compatte della fanteria francese; i testimoni rimasero impressionati dalla violenza dei combattimenti e dall'entità delle perdite; con grandi sforzi le divisioni francesi guidate dal maresciallo Ney raggiunsero e conquistarono, dopo scontri a distanza ravvicinata, due fortificazioni. I combattimenti furono molto duri ed entrambe le parti subirono sanguinose perdite; l'ammassamento dei reparti, l'intervento della cavalleria, il terreno difficile, la presenza dei terrapieni, trasformarono la battaglia in una mischia confusa spesso all'arma bianca, combattuta nel frastuono, la polvere, le urla dei soldati. Durante la mattinata si succedettero continui attacchi frontali francesi seguiti da altri contrattacchi dei reparti russi. La divisione del generale Razout si spinse con il 18º reggimento anche verso il villaggio distrutto di Semenovskoe da dove però dovette presto ripiegare. La fortificazione meridionale venne conquistata dal 57º reggimento di linea della divisione del generale Compans e da elementi della divisione del generale Ledru, i russi contrattaccarono subito in questo settore e cercarono ancora di riconquistare la posizione.

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Ritratto del generale Jean Ernest de Beurmann, eroe della campagna di Russia. (Pastello di Paul Emmanuel Curel).

Il III corpo del maresciallo Ney uscì decimato da questi scontri ma dovette continuare a battersi contro gli ultimi resti della divisione del generale Voroncov e contro la 27ª divisione fanteria del generale Neverovskij che a sua volta subì perdite debilitanti; il generale Bagration decise di far intervenire, oltre alle riserve provenienti dal 7º corpo del generale Raevskij, la 2ª divisione granatieri, unità scelta composta anche dai regimenti granatieri di Mosca e di Kiev. Dopo un nuovo contrattacco che permise di riconquistare la seconda fortificazione, intervennero nella battaglia i reggimenti di ussari e dragoni russi al comando del generale Sievers che attaccarono la fanteria francese; alcuni reparti riuscirono ad organizzarsi in quadrati e respinsero la cavalleria, mentre altre formazioni francesi del generale Razout subirono gravi perdite. Nonostante i contrattacchi sferrati dalla brigata di cavalleria del generale Beurmann, costituita da reparti leggeri del Württemberg e cacciatori a cavallo francesi, i granatieri russi riuscirono a mantenere il possesso delle due "frecce" settentrionali.
Gli scontri di cavalleria ripresero con l'arrivo di due reggimenti di ulani polacchi che in un primo momento respinsero con successo i cavalleggeri del generale Sievers; ma ben presto gli ulani incapparono nella divisione di cavalleria pesante russa del generale Duka; i corazzieri respinsero i polacchi e poi attaccarono i reparti leggeri del Württemberg, appartenenti alla divisione del generale Marchand. I reparti delle divisioni del generale Dessaix e del generale Razout, esposti allo scoperto alle cariche della cavalleria pesante, si trovarono in grave difficoltà e dovettero in parte ripiegare, perdendo anche la fortificazione meridionale che venne poi riconquistata da un attacco sferrato da un battaglione di cacciatori del Württemberg e da fanteria francese del 72º reggimento di linea della divisione del generale Ledru.
In questa fase Joachim Murat intervenne personalmente con la cavalleria che respinse gli avversari e raggiunse le fortificazioni, ma ben presto anche l'audace re di Napoli si trovò a sua volta in difficoltà e rischiò di essere catturato o ucciso; il re di Napoli riuscì a radunare i superstiti francesi e tedeschi all'interno della ridotta e resistette fino all'intervento di reparti del maresciallo Ney che respinsero i corazzieri russi e trassero in salvo Murat. Il re di Napoli rientrò subito in azione e guidò le cariche della cavalleria pesante francese del generale Nansouty e del generale Bruyères che inseguì i nemici fino alle posizioni della fanteria russa, riguadagnando una parte del terreno perduto. Dopo aver inflitto pesanti perdite alla cavalleria leggera tedesca e aver messo in pericolo la vita di Murat, i corazzieri russi dovettero infine ritirarsi.

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Generale Marie Victor Nicolas de Fay de La Tour-Maubourg si coprì di gloria a Dresda e a Lipsia

Dopo questi confusi combattimenti di cavalleria, il generale Bagration decise di guidare personalmente un contrattacco con la 2ª divisione granatieri; i soldati russi avanzarono con grande coraggio in formazione compatta e nonostante il fuoco dell'artiglieria francese, riconquistarono una delle frecce. Attacchi e contrattacchi si susseguirono: il maresciallo Davout richiese all'imperatore nuove riserve e Napoleone dopo qualche incertezza fece intervenire la esperta divisione del generale Louis Friant che, costituita da tredici battaglioni, riconquistò a sua volta le fortificazioni; i russi ripartirono al contrattacco con i granatieri e i resti della 27ª divisione, infine un nuovo assalto dei soldati del generale Friant assicurò temporaneamente il possesso delle frecce, ormai demolite e piene di cadaveri.
La sanguinosa battaglia per il possesso delle "frecce" non era ancora finita; il generale Bagration aveva finalmente ricevuto di rinforzo la 3ª divisione fanteria del generale Pëtr Konovnicyn, distaccata dal III corpo del generale Tuckov, e sferrò l'ennesimo contrattacco per riconquistare la posizione; l'assalto venne condotto in direzione convergente da questi reparti freschi supportati dai resti della 2ª divisione granatieri, della 27ª divisione e da alcuni reparti di cacciatori. Ancora una volta i russi riconquistarono le fortificazioni respingendo i soldati del generale Friant, ma il fuoco dell'artiglieria francese era intensissimo e inflisse perdite debilitanti alle truppe di fanteria. I cannoni francesi disgregarono la coesione dei granatieri e dei fanti russi e inoltre colpirono ufficiali e stati maggiori: caddero feriti il generale Borozdin, comandante dell'VIII corpo, il generale Emmanul de Saint-Priest, del comando della 2ª Armata russa, e soprattutto alle ore 10.00 venne gravemente ferito lo stesso generale Bagration che nonostante un coraggioso tentativo di rimanere al comando dovette essere evacuato nelle retrovie.
La notizia del ferimento del generale Bagration incise sul morale dei soldati russi che diedero segno di indebolimento della resistenza e scosse la risolutezza dei comandanti; il generale Konovnicyn decise di interrompere la cruenta lotta e abbandonare le "frecce" ripiegando verso le alture e il villaggio di Semenovskoe, e il generale Dochturov, inviato dal generale Kutuzov a prendere il comando in sostituzione del principe Bagration, confermò la ritirata che si effettuò ordinatamente, dopo aver lasciato le fortificazioni. L'artiglieria russa, posizionata su una linea di creste, colpì con efficacia le truppe francesi che Murat e il maresciallo Ney avevano radunato nelle "frecce" per un nuovo assalto; le alture di Semenovskoe furono infine attaccate dalla cavalleria sassone e francese del generale Latour-Marbourg, dal corpo di cavalleria pesante del generale Nansouty e poi dalla fanteria della divisione del generale Friant.

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Generale Étienne Marie Antoine Champion de Nansouty, eroe di tutte le guerre napoleoniche

A nord del villaggio di Semenovskoe i cavalieri del generale Latour-Marbourg si spinsero fino nelle retrovie e attaccarono i quadrati della fanteria russa; contrattaccati dalla cavalleria del generale Sievers, riuscirono, dopo l'arrivo dei corazzieri della Westfalia, a respingere il nemico. A sud invece la cavalleria del generale Nansouty non riuscì a rompere le formazioni della Guardia imperiale russa e il reggimento Lituania passò al contrattacco; la cavalleria russa caricò con successo. Dopo questi violenti scontri di cavalleria, i soldati francesi della divisione del generale Friant sferrarono l'attacco al centro delle nuove linee russe intorno a Semenovskoe; nonostante il ferimento dello stesso generale, le truppe del 15º reggimento leggero, condotte al fuoco dal generale François-Bertrand Dufour, riuscirono a superare la scarpata delle alture, sopraffare la resistenza, raggiungere il villaggio di Semenovskoe e consolidare la posizione. I soldati francesi di Murat, del maresciallo Davout e del maresciallo Ney occupavano finalmente le fortificazioni nemiche al centro e sembravano vicini alla vittoria, ma avevano subito perdite durissime; le richieste di rinforzi non furono esaudite da Napoleone che dopo aver ipotizzato di inviare la Giovane Guardia, ritenne prematuro l'impiego delle sue riserve strategiche.

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Generale François-Bertrand Dufour, non ci sono sue immagini

Il generale Kutuzov si era preoccupato di rafforzare la nuova posizione della 2ª armata a nord e a sud del villaggio distrutto di Semenovskoe e ordinò all'energico generale Aleksej Ermolov e al generale Aleksandr Kutajsov, comandante superiore dell'artiglieria, di recarsi sul posto per organizzare la resistenza. Una parte della Guardia imperiale, schierata di riserva, era stata portata avanti insieme ad una brigata di granatieri, per rafforzare le difese dei resti delle truppe del generale Bagration. L'artiglieria russa intervenne in massa per sostenere le difese intorno a Semenovskoe; i comandanti francesi erano impressionati dalla violenza dei combattimenti e dalle perdite; la divisione del generale Friant diede segni di cedimento e Murat dovette intervenire personalmente per sostenere il morale del colonnello Galichet che in un primo momento intendeva ripiegare.
Alle ore 08.00 del mattino anche il principe Poniatowski aveva iniziato il suo attacco con il V corpo polacco, costituito dopo le perdite subite a Ševardino da circa 10.000 uomini, contro le posizioni russe a ovest del villaggio di Utiža; i polacchi avevano avuto forti difficoltà a raggiungere le posizioni stabilite lungo la strada vecchia di Smolensk deviando a sud per evitare l'impervio territorio boscoso. Le difese russe erano costituite dal 3º corpo d'armata del generale Nikolaj Tuckov che in origine disponeva di 8.000 fanti, 1.500 cosacchi e 7.000 miliziani, ma a causa della difficile situazione del principe Bagration sottoposto ai pesanti attacchi alle "frecce", aveva dovuto distaccare a nord la divisione del generale Konovnicyn.
Quindi il generale Tuckov venne messo in difficoltà dall'attacco dei polacchi del principe Poniatowski; la divisione d'avanguardia del generale P.G.Stroganov venne costretta a ripiegare all'interno del villaggio di Utiža da dove si ritirò ulteriormente, dopo aver incendiato le case, su forti posizioni nell'alture a est, dove erano state schierate le artiglierie. I polacchi attaccarono anche la collina ma i primi assalti furono respinti; i cannoni russi colpirono duramente le truppe allo scoperto e dai boschi sul fianco sinistro del V corpo, reparti di fanteria leggera russa inflissero dure perdite, il principe Poniatowski decise quindi di sospendere gli attacchi alle collina, portare avanti la sua artiglieria e richiedere rinforzi per sferrare un assalto decisivo.
Nelle ore successive affluirono a sostegno dei polacchi reparti tedeschi della Westfalia, appartenenti al VIII corpo del generale Jean-Andoche Junot che impegnarono aspri scontri con i cacciatori russi nella boscaglia a nord della strada vecchia, mentre il principe Poniatowski posizionò le sue batterie che bombardarono la collina. Il generale Kutuzov si era allarmato per l'attacco sul suo fianco sinistro e quindi aveva deciso di inviare di rinforzo al generale Tuckov l'intero 2º corpo d'armata del generale Baggovut che tuttavia doveva percorrere un lungo cammino, essendo schierato sull'altro lato del fronte russo. Alle ore 12.00, mentre a nord le posizioni delle "frecce" stavano cedendo, il principe Poniatowski attaccò in forze la collina di Utiža ma si trovò di fronte ad una dura resistenza; per molte ore mentre i soldati tedeschi del generale Junot affrontavano il combattimento contro gli abili cacciatori russi del generale Ivan Šuhovskoj nei boschi a nord di Utiža, i polacchi attaccarono senza risultato la collina. I reggimenti russi Belozersk e Wilmanstrand della 17ª divisione appena arrivati, contribuirono a difendere le posizioni sull'altura.
Il principe Poniatowski organizzò un attacco combinato a tenaglia da due direzioni ma, dopo qualche successo, il generale Baggovut contrattaccò con due divisioni e reparti di cosacchi e respinse dal declivio dell'altura i polacchi; durante questa fase il generale Tuckov venne gravemente ferito mentre guidava i granatieri della divisione del generale Stroganov. Nel primo pomeriggio il V corpo era esausto e non aveva ottenuto alcun successo importante. L'azione del V corpo aveva attratto le forze russe lungo la strada vecchia di Smolensk ma non era riuscita ad aggirare il fianco nemico né a costringerlo alla ritirata; gli scontri di Utiža rimasero secondari e di minore importanza rispetto alle azioni decisive in corso più a nord.
Mentre si succedevano i sanguinosi attacchi della fanteria francese contro le "frecce di Bagration", la situazione dei russi stava divenendo critica anche nel settore della "Grande Ridotta", difesa dal corpo d'armata del generale Nikolaj Raevskij; un crollo in questo settore poteva essere decisivo e aprire alle truppe francesi la strada nuova per Smolensk, tagliando la via di comunicazione principale del nemico. Il generale Raevskij, sofferente di una recente ferita da baionetta, era presente all'interno del ridotto, mentre tre battaglioni di cacciatori coprivano le vie di accesso; le difese principali erano costituite dalla 26ª divisione del generale Ivan Paskevic sulla destra, dalla 12ª divisione del generale Vasil'cikov sulla sinistra e da un altro battaglione di cacciatori; la fortificazione era costituita da un fossato e da terrapieni con una palizzata posteriore e disponeva inoltre di dodici cannoni pesanti e sei cannoni leggeri della 26ª brigata d'artiglieria.
Inizialmente i piani di Napoleone non prevedevano di attaccare in forze con le truppe del principe Eugenio che avrebbero dovuto invece costituire il perno su cui avrebbe dovuto appoggiarsi l'ala destra francese durante l'assalto principale; tuttavia ben presto l'imperatore mutò parere e sollecitò ripetutamente il comandante del IV corpo d'armata di dare inizio all'attacco a sud della Koloca contro la "Grande Ridotta". Il principe Eugenio sottopose la fortificazione ad un pesante fuoco di artiglieria per oltre due ore, mentre le divisioni del generale Morand, del generale Jean-Baptiste Broussier e del generale Gérard effettuavano il passaggio del fiume sui ponti predisposti e si portavano in posizione d'attacco. I russi, nonostante il vantaggio del terreno irregolare e paludoso, erano in difficoltà: le munizioni per i cannoni erano insufficienti ed era presente nel ridotto un denso fumo che ostacolava l'osservazione.

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Generale Jean-Baptiste Broussier, si distinse a Wagram e alla campagna di Russia

Il generale Auguste Caulaincourt venne ucciso nella Grande Ridotta mentre era alla guida della sua cavalleria. L'assalto francese, sferrato con grande slancio, fu effettuato, a causa del ritardo delle altre formazioni, dalla sola divisione del generale Morand ma raggiunse un rapido successo: i difensori russi furono colti di sorpresa dall'improvviso assalto dei francesi che erano rimasti nascosti dal fumo, non riuscirono ad organizzare una resistenza efficace e ripiegarono, abbandonando il ridotto; il generale Raevskij riuscì a lasciare in tempo la fortificazione. Alle ore 10.00 del mattino i soldati francesi del 30º reggimento, guidati dal generale Charles Bonamy, occuparono la fortificazione. Il successo dei francesi fu solo momentaneo, il generale Morand aveva attaccato isolatamente senza coordinarsi con le altre divisioni; la presenza di difficoltà del terreno irregolare rallentarono o bloccarono l'afflusso di nuovi reparti verso la posizione conquistata; i fianchi delle truppe che avevano occupato la ridotta erano scoperti perché sulla destra il generale Friant non aveva ancora attaccato Semenovskoe e sulla sinistra i generali Gérard e Broussier erano in ritardo.

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Generale Étienne Maurice Gérard, (ritratto di Jacques-Louis David - 1816). Si distinse nella campagna di Russia

Inoltre i comandanti russi organizzarono subito un contrattacco grazie all'iniziativa e alla risolutezza del generale Raevskij e dei generali Aleksej Ermolov e Aleksandr Kutajsov che, giunti sul posto mentre si stavano recando nel settore delle "frecce" secondo gli ordini del maresciallo Kutuzov, decisero invece di rimanere nel settore in difficoltà e di radunare tutte le forze disponibili per assaltare subito le truppe francesi nel ridotto. Il generale Ermolov, ufficiale energico e combattivo, guidò i soldati del reggimento Ufa, mentre l'aiutante di campo del generale Barclay Vladimir Löwenstern e il generale Paškevic attaccavano a loro volta con altre truppe sul lato sinistro della ridotta. Il 30º reggimento francese, isolato all'interno della fortificazione, era in forte inferiorità numerica ma si batté con grande coraggio affrontando i contrattacchi nemici; dopo violenti scontri a distanza ravvicinata divenne impossibile resistere. Il generale Bonamy ricevette venti ferite e cadde sul campo dove venne catturato dai russi, un terzo del reggimento venne distrutto e i superstiti dovettero ritirarsi e abbandonare la Grande Ridotta. I russi cercarono di sfruttare il momento favorevole e continuarono a contrattaccare con reparti della 12ª, 24ª e 26ª divisione; per alcune ore si prolungarono accesi scontri sul declivio a sud della ridotta, il generale Kutajsov, comandante dell'artiglieria russa, venne ucciso nella ridotta; il principe Eugenio, che aveva avvertito l'imperatore della situazione, fece intervenire altre forze del IV corpo. Il generale Emmanuel de Grouchy guidò una carica del suo corpo di cavalleria contro le retrovie russe dove erano in marcia di trasferimento le truppe della divisione del principe di Württemberg; i russi si schierarono in quadrati e riuscirono a resistere malgrado le forti perdite; i generali Barclay e Raevskij ripararono nei quadrati, mentre il generale Ermolov fu ferito da un colpo di mitraglia. Il principe Eugenio intendeva riorganizzare le sue divisioni e sferrare al più presto un attacco generale alla Grande Ridotta ma nuovi sviluppi a nord della Koloca crearono altri problemi e ritardarono i suoi piani.
Fin dal mattino le pattuglie di cosacchi del generale Matvei Plavov avevano rilevato la debolezza delle linee francesi lungo il corso del fiume Koloca, sul fianco destro dei russi; era quindi possibile superare il fiume e attaccare sul fianco e alle spalle le deboli forze del principe Eugenio rimaste sulla riva settentrionale intorno al villaggio di Borodino. Il generale Platov inviò un corriere al comando del generale Kutuzov per proporre di effettuare un'incursione e il generale Toll autorizzò la manovra. L'incursione venne effettuata più tardi nella giornata, oltre che dai 5.500 cosacchi del generale Platov, soprattutto dai due reggimenti di cavalleria del generale Fëdor Uvarov con altri 2.500 cavalieri. Dopo aver guadato il fiume alle ore 11.00 i cavalieri russi, senza il sostegno della fanteria e con solo due batterie di artiglieria ippotrainata, sferrarono una serie di attacchi di limitata efficacia. I cosacchi raggiunsero il traino del IV corpo, disorganizzando in parte le salmerie, mentre i cavalieri del generale Uvarov attaccarono senza molto successo i reparti di rincalzo del principe Eugenio. Alle ore 15.00 la cavalleria russa, contrastata dalla fanteria e dalla cavalleria francese, ricevette l'ordine di ripiegare e tra le ore 16 e le ore 17, i reparti dei generali Uvarov e Platov ritornarono nelle retrovie senza aver ottenuto alcun risultato. Nonostante i modesti risultati di questa incursione di cavalleria che venne criticata dallo stesso generale Kutuzov, il principe Eugenio in realtà si preoccupò per la minaccia alle sue retrovie; egli sospese l'attacco generale contro la Grande Ridotta e diresse personalmente l'intervento dei reparti del generale Delzons e del generale Ornano che contrattaccarono e respinsero la cavalleria nemica.

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Generale Alexis Joseph Delzons, eroe della campagna di Russia, morì a Maloyaroslavets

A causa di queste momentanee difficoltà nelle sue retrovie, il principe Eugenio non poté passare all'attacco generale della Grande Ridotta prima delle ore 15.00 e quindi il generale Barclay ebbe tempo per rioganizzare il suo schieramento. La divisione del generale Paškevic, molto provata dalle perdite, venne trasferita nelle retrovie, la 24ª divisione del generale Pëtr Lihacev prese il suo posto nelle fortificazioni mentre sulla sinistra si schierò il 4º corpo del generale Ostermann-Tolstoj, proveniente dall'ala destra russa. Nonostante il pesante fuoco dell'artiglieria francese contro il ridotto, i russi poterono rinforzare le loro difese.

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Generale Philippe Antoine d'Ornano. Diventò comandante della cavalleria della Vecchia Guardia nel 1813, alla morte del maresciallo Jean-Baptiste Bessières.

Mentre il principe Eugenio, dopo aver superato la crisi a nord del Koloca, ritornava a sud del fiume e preparava le sue forze per un assalto generale alla ridotta, Murat organizzò un nuovo attacco di cavalleria per contribuire all'offensiva della fanteria. In precedenza le forze di cavalleria del re di Napoli avevano subito un pesante fuoco di artiglieria che aveva provocato dure perdite, tra cui il capace comandante del II corpo di cavalleria, generale Montbrun, mortalmente ferito da una scheggia di granata. Dopo la morte del generale Montbrun, il generale Auguste Caulaincourt, fratello dell'ex ambasciatore e collaboratore di Napoleone Armand Caulaincourt, prese la guida dei reparti a cavallo, egli, dopo aver ricevuto gli ordini e le indicazioni tattiche da Murat, mostrò grande determinazione e promise di raggiungere e conquistare ad ogni costo la fortificazione. Murat aveva previsto che la cavalleria del II corpo, raffrozata da parte del IV corpo del generale Latour-Maubourg, attaccasse sul fianco sinistro russo, quindi, dopo aver penetrato le linee, avrebbe aggirato e preso alle spalle i difensori della Grande Ridotta.
L'attacco venne finalmente sferrato alle ore 15.00 dalle divisioni del IV corpo del principe Eugenio guidate dal generale Morand, dal generale Broussier e dal generale Gérard; quasi 20.000 soldati francesi assaltarono frontalmente la ridotta mentre la cavalleria pesante iniziava la sua manovra sul fianco. Il generale Caulaincourt guidò con grande slancio i suoi cavalleggeri; dopo l'irruzione nelle retrovie russe i reggimenti corazzieri girarono a sinistra e attaccarono alle spalle la grande ridotta; la divisione corazzieri del generale Pierre Watier, guidata personalmente dal generale Caulaincourt, subì forti perdite sotto il fuoco della 7ª e 24ª divisione russa, ma i corazzieri sassoni e polacchi della divisione del generale Jean Thomas Lorge riuscirono a irrompere nella ridotta, mentre il principe Eugenio alla vista dell'arrivo della cavalleria affrettava l'avanzata della fanteria. I soldati del generale Broussier guidarono l'assalto, supportati dalle truppe del generale Morand. I difensori russi si difesero disperatamente, gli artiglieri non abbandonarono i loro cannoni e vennero quasi tutti abbattuti sul posto, violenti scontri all'arma bianca si accesero all'interno della fortificazione dopo l'arrivo dei corazzieri e della fanteria francesi. Alla fine i russi vennero sopraffatti e in maggioranza uccisi; la divisione del generale Lihacev venne distrutta, il comandante ferito e catturato; la Grande Ridotta cadde alle ore 15.30. Nel momento culminante il generale Caulaincourt era stato mortalmente ferito; il fratello, presente accanto all'imperatore, sopportò la luttuosa notizia e rifiutò di ritirarsi dal campo di battaglia come suggeritogli dall'imperatore.
Mentre si combatteva per la Grande Ridotta, il centro dei combattimenti si era spostato nel settore di Semenovskoe dove i russi schierarono oltre ai resti delle forze del generale Bagration, la divisione di fanteria del generale Konoviczyn e soprattutto tre reggimenti della Guardia; "Izmajlovskij", "Lituania" e "Finlandia". Queste truppe scelte erano estremamente esposte al fuoco dell'artiglieria francese e subirono perdite elevatissime, anche il generale Ostermann-Tolstoj e numerosi ufficiali rimasero feriti. Anche Murat e il maresciallo Ney tuttavia erano in difficoltà e inviarono nuove richieste di rinforzi a Napoleone; egli aveva osservato le nuvole della polvere sollevata dalle cariche della cavalleria russa e alcune palle di cannone erano giunte nelle vicinanze del suo posto di comando. L'imperatore tuttavia rifiutò ancora, dopo averlo inizialmente autorizzato, l'impiego della Giovane Guardia; egli invece, irritato dalla tenace resistenza nemica e dall'assenza di segni di cedimento, decise soprattutto di rafforzare ulteriormente lo schieramento d'artiglieria del generale Jean-Barthélemot Sorbier inviando altri cannoni e ordinando di schiacciare con il fuoco i reparti avversari. Napoleone non riteneva ancora giunto il momento decisivo della battaglia ed inoltre era preoccupato per l'esito incerto dei combattimenti del principe Poniatowski e del principe Eugenio sui fianchi dell'armata.
Le batterie d'artiglieria dei marescialli Ney e Davout, posizionate a distanza ravvicinata e su favorevoli posizioni dominanti, colpirono con effetti devastanti le file della Guardia ed i cannoni russi inferiori di numero; alcuni reparti dell'"Izmajlovskij" e del "Lituania", sottoposti al bombardamento allo scoperto, vennero decimati. Un tentativo di contrattacco dei russi venne schiacciato dal fuoco di trenta cannoni concentrati al comando del generale Augustin Daniel Belliard. Tuttavia i soldati russi della Guardia non diedero segno di collasso, subirono le perdite, respinsero gli attacchi della cavalleria francese e alla fine abbandonarono il settore di Semenovskoe e ripiegarono senza disgregarsi di alcune centinaia di metri più indietro.
Nuovi attacchi della cavalleria francese si dimostrarono inefficaci e vennero respinti dai corazzieri e dalla cavalleria del generale Sievers, quindi Murat, il maresciallo Davout e il maresciallo Ney richiesero ancora una volta all'imperatore di far intervenire la Guardia imperiale per sferrare l'attacco finale e mettere in rotta il nemico; dopo alcune incertezze tuttavia Napoleone preferì evitare gravi perdite alle sue truppe migliori e, informato dal maresciallo Jean-Baptiste Bessières che la resistenza russa era ancora solida, rifiutò di far intervenire la Guardia, ritenendo indispensabile salvaguardarla in vista delle ulteriori fasi della campagna. Il maresciallo Ney si mostrò molto irritato per il rifiuto di Napoleone, mentre Murat mantenne la calma e parve consapevole delle precarie condizioni fisiche dell'imperatore.
Secondo alcuni storici e memorialisti, un intervento della Guardia imperiale in questa fase avrebbe potuto essere risolutivo e concludere con una vittoria schiacciante francese la battaglia; Napoleone ritenne troppo arrischiato impegnare anche le sue ultime riserve. Inoltre i russi disponevano ancora di sei battaglioni dei reggimenti scelti della Guardia "Preobrazenskij" e "Semenovskij", che erano quasi intatti e secondo altri autori sarebbero verosimilmente stati ancora in grado di organizzare una ritirata ordinata senza crollare.
La battaglia di Borodino ebbe quindi termine lentamente con il trascorrere delle ore; a est di Semenovskoe i russi mantennero le posizioni arretrate e non vennero più attaccati, mentre a oriente della "Grande Ridotta" il generale Barclay organizzò un nuovo schieramento a un chilometro di distanza con fanteria e artiglieria e fece intervenire le sue ultime riserve di cavalleria, tra cui i chevaliers gardes della Guardia a cavallo e il II e III corpo di cavalleria, che riuscirono a respingere l'esausta cavalleria francese protagonista della conquista della ridotta. Anche l'arrivo dei cavalieri del generale Grouchy non ottenne risultati; dopo due ore di scontri tra le opposte cavallerie, i francesi non riuscirono ad infrangere la resistenza e i quadrati della fanteria russa respinsero le cariche. I russi consolidarono quindi le loro posizioni e sottoposero le truppe del principe Eugenio ad un intenso fuoco costringendole a fermarsi e trovare un precario riparo nei resti dei terrapieni. Anche in questa occasione Napoleone rifiutò di impiegare la Guardia come richiesto dal principe Eugenio, e Murat e il maresciallo Berthier convennero, in considerazione anche della tarda ora, con la decisione dell'imperatore.
Le operazioni terminarono con un'ultima azione del V corpo d'armata del principe Poniatowski lungo la strada vecchia di Smolensk per cercare di mettere in rotta il fianco sinistro russo; dopo qualche successo iniziale, i polacchi vennero fermati da un contrattacco sferrato dal generale Baggovut con la 17ª divisione fanteria. Il generale russo decise tuttavia di ripiegare lungo la strada vecchia di Smolensk e intorno alla ore 18.00, i russi iniziarono una ordinata ritirata fino a posizioni più arretrate per raccordare il loro fronte con lo schieramento principale a est di Semenovskoe; i polacchi del V corpo riuscirono a occupare finalmente l'importante collina a est di Utiža ma i russi non diedero segni di cedimento, sembrarono pronti a continuare la battaglia ed anche contrattaccare.
Napoleone aveva raggiunto la vittoria nel "combattimento di giganti" che aveva cercato per oltre due mesi, ma non si era trattato dell'atteso grande successo strategico decisivo, militarmente e politicamente, in grado di frantumare la volontà di resistenza delle truppe russe e la determinazione dello zar. Ad un costo molto elevato in perdite umane ed in consumo di munizioni e materiali, l'imperatore aveva conquistato le posizioni del nemico e si era aperto la strada per Mosca, ma senza disgregare la coesione dell'esercito russo e senza catturare bottino e prigionieri. Napoleone ammise il coraggio del nemico e la sua capacità di subire perdite elevatissime; i soldati russi erano stati falcidiati sul posto, sotto il fuoco francese, ma non si erano arresi. In una lettera alla moglie l'imperatore scrisse di avere "sconfitto i russi", ma anche di "battaglia dura" e di aver "perso molti soldati, uccisi e feriti".
Il piano architettato da Napoleone prevedeva di sfruttare soprattutto la debolezza dell'ala meridionale russa e nel complesso era valido; le ragioni addotte dall'imperatore per rifiutare la proposta di manovra aggirante del maresciallo Davout e per evitare un impiego finale della Guardia imperiale erano fondate su concezioni strategico-tattiche corrette, tuttavia di fronte alla tenacia e alla capacita di resistenza fisica e morale delle truppe russe, i progetti di Napoleone non poterono conseguire la vittoria totale né provocare un crollo dell'avversario. La condotta dell'imperatore durante la battaglia invece fu più incerta; egli, in non buone condizioni di salute e non privo di nervosismo, preferì rimanere per gran parte del tempo nel suo quartier generale nelle retrovie, dove non poté dirigere la battaglia in modo tempestivo ed efficace; l'imperatore si limitò a distribuire le sue riserve e a organizzare successivi nuovi attacchi con il concorso di sempre più potenti concentramenti di artiglieria. Egli si recò infine verso la fine della battaglia a Semenovskoe dove osservò le linee russe e ne valutò la ancora valida resistenza.
Al termine della battaglia apparve cupo e prostrato, respinse le audaci proposte di Murat che chiedeva di inseguire il nemico con la cavalleria, sottolineò di nuovo l'importanza di salvaguardare la Guardia e di evitare movimenti intempestivi; le gravi perdite subite che egli controllò direttamente percorrendo nella notte il campo di battaglia lo colpirono e lo rattristarono; il maresciallo Ney giunse al punto di consigliare la ritirata. Tra le truppe l'entusiasmo per la vittoria era modesto; stanchi e sorpresi dalla durezza dei combattimenti, dalle sanguinose perdite e dalla resistenza dei russi, i soldati francesi comprendevano di aver conquistato il campo di battaglia ma di non aver spezzato la capacità combattiva del nemico; erano stati catturati solo ottocento prigionieri e pochi cannoni inservibili.
Le perdite subite dai russi erano state ancor più pesanti; ammontarono verosimilmente a 45-50.000 morti e feriti, comprese le perdite del 5 settembre a Ševardino; alcuni reparti vennero totalmente distrutti dagli ostinati attacchi francesi e dal fuoco della loro artiglieria che dimostrò una chiara superiorità; in particolare l'armata del principe Bagration uscì decimata. Il generale Kutuzov non sembrò inizialmente consapevole delle perdite e della precarie condizioni dell'esercito che aveva perso tutte le fortificazioni; egli durante la battaglia era rimasto sempre fermo al suo quartier generale di Gorki, lontano dal centro dell'azione; non aveva dato prova di grande iniziativa e, dimostrando un sereno distacco, aveva delegato il comando ai suoi più giovani luogotenenti. Durante il consiglio di guerra parlò di successo, considerò possibile una ripresa dei combattimenti il giorno successivo e manifestò anche la volontà di attaccare; egli sembrò deciso a non ripiegare verso Mosca.
Tuttavia durante la notte il generale comprese la realtà delle perdite subite: l'armata era esausta, le truppe ancora disponibili non erano sufficienti per un'altra battaglia, le munizioni erano scarse; il generale Barclay escluse la possibilità di resistere ad un altro attacco[123]. Alle ore 03.00 dell'8 settembre quindi il generale Kutuzov dovette rassegnarsi ad ordinare la ritirata oltre Možajsk lungo la strada di Mosca, manovra che venne effettuata con qualche difficoltà sotto la copertura prima del generale Platov e poi del generale Miloradovic. Entro sei giorni l'esercito russo si sarebbe trovato respinto nei pressi di Mosca e, dopo una nuovo drammatico consiglio di guerra, il maresciallo Kutuzov avrebbe deciso di rinunciare a difendere la città, ripiegando inizialmente verso sud-est.
Napoleone accolse con sollievo la notizia della ritirata dei russi che sembrava confermare la sua vittoria; Murat venne incaricato di guidare l'avanguardia all'inseguimento del nemico e ben presto la vista di Mosca rianimò lo spirito dell'imperatore che apparve meno preoccupato per le perdite subite e per la mancata distruzione dell'esercito russo; il mattino del 15 settembre l'imperatore fece il suo ingresso nella città.
Tuttavia nonostante la vittoria tattica sul campo di battaglia e il successo strategico rappresentato dalla conquista dell'antica capitale russa, la battaglia di Borodino, che nella storiografia francese viene considerata il "successo della Moscova", non fu per Napoleone lo scontro decisivo tanto ricercato e nella storiografia russa e sovietica è stata considerata fin dall'inizio una "grande vittoria strategica russa" e, soprattutto a partire dal giudizio di Tolstoj, una vittoria morale che scosse la sicurezza francese e dimostrò la inesauribile tenacia, il patriottismo e la capacità di resistenza dell'esercito russo. Tolstoj parla di "vittoria che costringe il nemico a riconoscere la superiorità morale dell'avversario". In effetti, a costo di gravi perdite e nonostante gli errori dei comandanti che avevano schierato in modo errato l'esercito, avevano portato troppo avanti le riserve e ritardato lo spostamento dei reparti inutilizzati sull'ala destra, il coraggio e la solidità morale degli ufficiali e dei soldati russi permise di evitare una sconfitta rovinosa e rafforzò lo spirito di resistenza della nazione russa contro l'invasore.
Stabilitosi nel Cremlino, Napoleone non poteva immaginare che la città completamente vuota nascondesse in realtà un'insidia: nella notte Mosca cominciò a bruciare, essendo state appiccate le fiamme da alcuni russi nascosti nelle case. Napoleone, che aveva tentato a più riprese di venire a un accordo con Alessandro I senza riuscire neanche a far ricevere i propri messi, si rese conto della necessità di ritirarsi visto l'approssimarsi dell'inverno. Diede perciò ordine di cominciare la ritirata: era rimasto a Mosca non più di trentacinque giorni.
La Grande Armata francese soffrì gravi perdite nel corso della rovinosa ritirata; la spedizione era cominciata con circa 700.000 uomini (di cui poco meno della metà erano francesi) e 200.000 cavalli, alla fine della campagna poco più di 18.000 uomini raggiunsero Vilna rimanendo nei ranghi; a questi si aggiunsero poi quarantamila isolati nei giorni successivi. In totale più di 400.000 furono i morti e 100.000 i prigionieri. Sopravvissero inoltre solo 10.000 cavalli. Tra il 25 e il 29 novembre, infatti, i resti dell'armata, distrutta prima dal caldo e poi dal freddo (il cosiddetto "generale Inverno") vennero in gran parte annientati dai russi durante il passaggio della Beresina. Intanto, Napoleone era stato raggiunto dalla notizia che a Parigi il generale Malet aveva diffuso la notizia della morte dell'imperatore e tentato un colpo di Stato. Angosciato delle notizie di tradimento (Talleyrand e Fouché stavano ormai tramando col nemico), Napoleone abbandonò precipitosamente la Russia lasciando il comando a Gioacchino Murat e a Eugenio di Beauharnais e tornando nella capitale, dove cominciava a ricostruire un nuovo esercito di 400.000 uomini, in realtà giovanissimi e male addestrati. Le potenze europee, conscie dell'atroce disfatta di Russia, sollevarono la testa e formarono una nuova coalizione.
La prima a unirsi alla vittoriosa Russia fu la Prussia che, abbandonando l'alleanza con Napoleone, si schierò a fianco dello zar e della Gran Bretagna. Era la sesta coalizione. Napoleone dopo essere rientrato a Parigi organizzò in fretta, con l'afflusso di giovani reclute, un nuovo esercito e sconfisse i prussiani prima a Lützen e poi a Bautzen nel maggio 1813. Ma l'insidia più grande era l'Austria, la quale - non rispettosa dei patti - era pronta a scavalcare anche un matrimonio di stato come quello di Napoleone con Maria Luisa pur di sconfiggere l'odiato nemico. Nel corso di un memorabile e burrascoso incontro bilaterale a Dresda, Napoleone e Metternich non riuscirono a giungere a un accordo, e il 12 agosto l'Austria si univa alla coalizione antifrancese.
Dopo un'ultima importante vittoria francese nella battaglia di Dresda, le forze napoleoniche furono costrette lentamente a ripiegare sotto la pressione congiunta degli eserciti di Austria, Russia, Prussia e Svezia; l'esercito svedese era comandato dall'ex maresciallo francese Jean-Baptiste Jules Bernadotte. Nella decisiva battaglia di Lipsia, detta Battaglia delle Nazioni perché vi parteciparono eserciti di tutta Europa, l'inesperienza dell'esercito francese, la defezione dei contingenti tedeschi e la superiorità numerica delle forze nemiche furono i fattori che determinarono la sconfitta di Napoleone. L'esercito francese fu costretto a ritirarsi attraverso la Germania in piena insurrezione contro l'occupazione napoleonica, mentre anche i Paesi Bassi si rivoltava e la Spagna era ormai persa.
La battaglia di Lipsia
Dopo la disastrosa campagna di Russia, Napoleone si trovò a fronteggiare la sesta coalizione, della quale facevano parte la Gran Bretagna, la Russia, la Spagna, il Portogallo, la Prussia, l'Austria, la Svezia e vari piccoli Stati tedeschi e italiani. Napoleone tentò infatti di ristabilire il suo dominio sulla Germania grazie alle vittorie conseguite sulle forze russo-prussiane presso Lützen e Bautzen.
Ne seguì un breve armistizio (da Napoleone indicato in seguito come "la più grande sciocchezza della sua vita"), dopo il quale gli Alleati si riunirono sotto il comando di Gebhard Leberecht von Blücher, Carlo XIV di Svezia (Jean-Baptiste Jules Bernadotte) e Carlo Filippo Principe di Schwarzenberg. Il piano alleato era stato discusso il 12 luglio a Trachenberg, oggi Zmigród in Polonia, dove lo zar Alessandro aveva riunito gli altri sovrani e i comandanti degli eserciti: in un primo momento si progettò di costituire due masse a nord, con Blücher e Bernadotte, e a sud, al comando di Schwarzenberg, per sbucare in Sassonia da due direzioni e prendere alle spalle Napoleone. Alla fine fu concordato di organizzare tre armate separate integrando reparti dei quattro eserciti principali dei coalizzati.
La tattica degli Alleati, come appare chiaro dal Piano Trachenberg, consisteva nell'evitare lo scontro diretto con Napoleone, cercando invece di affrontare i suoi marescialli. In tal modo gli Alleati arrivarono alle vittorie di Grossbeeren, Kulm, Katzbach e Dennewitz. Il maresciallo Nicolas Oudinot fallì nel suo tentativo di prendere Berlino con un esercito di 120.000 uomini.
Dopo la vittoria di Dresda Napoleone aveva rinunciato a organizzare personalmente l'inseguimento dell'armata dei coalizzati che stava ripiegando lungo le pericolose e disagevoli strade che attraversavano i monti Metalliferi della Boemia; l'imperatore, in non buone condizioni di salute, aveva preferito tornare nella capitale sassone affidando al generale Dominique Vandamme il compito di intercettare le vie di comunicazione nemiche a Teplitz. Senza la direzione dell'imperatore, l'inseguimento non proseguì e il generale Vandamme si trovò improvvisamente attaccato da forze preponderanti russe e prussiane; accerchiato, venne costretto alla resa nella battaglia di Kulm. Contemporaneamente anche gli altri luogotenenti di Napoleone erano in difficoltà; la loro sconfitta in una serie di battaglie modificò completamente la situazione strategica, logorò lentamente le forze francesi e costrinse progressivamente l'imperatore a rinunciare all'offensiva ed a retrocedere per contrastare le minacce nemiche provenienti da sud, da nord e da est.
Fu così che, a settembre inoltrato, Napoleone si vide costretto a ritirarsi ad ovest, attraversando l'Elba e organizzando le sue forze intorno a Lipsia. Napoleone schierò il suo esercito da Taucha a Lindenau, passando per Stötteritz (dove collocò il suo comando). Nel frattempo, i prussiani avanzarono da Wartenburg, gli austriaci e i russi da Dresda, mentre gli svedesi calarono da nord. In totale, Napoleone poteva contare su 190.000 soldati, mentre gli Alleati ne schieravano 330.000. Entrambe le parti disponevano di una folta artiglieria (si calcola circa 2.500 pezzi).
La battaglia cominciò il 16 ottobre con un attacco - subito respinto - sferrato da sud da 78.000 soldati alleati e da altri 54.000 dal nord. Il giorno seguente si ebbero solo piccole schermaglie, con entrambe le parti che si rafforzavano organizzando i loro rinforzi appena sopraggiunti. Tuttavia, mentre i francesi ricevettero soltanto 14.000 uomini, gli Alleati poterono contare su rinforzi per un totale di ben 145.000 soldati (il che determinò con tutta probabilità lo sviluppo successivo dello scontro).

reynier

Generale Jean Reynier; comandante del corpo d'armata sassone. A Lipsia i suoi soldati passarono al nemico.

Fin dalla sera del 16 ottobre Napoleone era consapevole che la sua situazione si stava aggravando e certamente ipotizzò una ritirata; infatti al generale Bertrand disse di tenersi pronto a partire verso ovest con il IV corpo d'armata, lasciando Lindenau, per proteggere i ponti sulla Saale indispensabili per ripiegare verso il Reno; a Murat l'imperatore disse esplicitamente che "bisognava pensare ad una ritirata". Napoleone decise tuttavia di rimanere ed attendere l'attacco degli alleati, che si stavano continuamente rafforzando, nel timore che il suo esercito si disgregasse nel corso di una ritirata e per evitare la defezione dei suoi alleati tedeschi, probabile nel caso di sconfitta; inoltre l'imperatore non poté risolversi ad abbandonare gli oltre 140.000 soldati francesi che erano ancora bloccati nelle fortezze tedesche; egli tentò anche di trarre in inganno i suoi avversari rilasciando, dopo una conversazione in cui aveva mostrato sicurezza e ventilato una riconciliazione con l'Austria, il generale austriaco Merveldt caduto prigioniero, per trattare un armistizio, ma non ottenne alcun risultato, al contrario diede impressione di debolezza e rafforzò la determinazione degli alleati.
Dopo aver atteso l'attacco il 17 ottobre, nella notte del 18 decise di concentrare le sue truppe ritirando intorno a Lipsia le sue formazioni più esposte; il movimento si svolse sotto una fitta pioggia a partire dalle ore 02.00 del mattino. Il quartier generale imperiale venne trasferito a Stotteritz e vennero diramati ordini tardivi di costruire altri ponti a Lindenau, da utilizzare in caso di ritirata. L'imperatore per la battaglia del 18 ottobre assegnò il lato destro del suo schieramento a Murat con i corpi d'armata di Poniatowski (VIII corpo), Augereau (IX corpo) e Victor (II corpo), posizionati tra Connewitz e Probstheida e rinforzati in seconda linea dalla Guardia imperiale e dal grosso della cavalleria al comando di Latour-Marbourg (I corpo di cavalleria) e Pajol (V corpo di cavalleria)[10]. Al centro, sotto il controllo del maresciallo Macdonald, schierò da Zuckelhausen a Steinberg l'XI corpo, rinforzato dal V corpo di Lauriston e dal II corpo di cavalleria di Sebastiani; sul lato sinistro il maresciallo Ney difendeva il settore di Paunsdorf e Schönfeld con il contingente sassone e la divisione Durutte del VII corpo di Reynier, il VI corpo di Marmont, il III corpo di Souham e una parte del III corpo di cavalleria di Arrighi. A Lipsia rimasero la divisione polacca Dombrowski, e la divisione cavalleria Longe, a Lindenau era raggruppata la Giovane Guardia del maresciallo Mortier, il IV corpo di Bertrand era a ovest di Lindenau.
Napoleone disponeva ancora di circa 160.000 soldati con 630 cannoni, ma le truppe erano esauste, i corpi di Augereau, Marmont, Macdonald, Bertrand e Poniatowski avevano subito gravi perdite negli scontri dei giorni precedenti e le munizioni d'artiglieria erano pericolosamente ridotte. Intorno alle truppe francesi si stringeva la manovra dei coalizzati; i soldati dell'imperatore videro nella notte il grande cerchio dei fuochi di bivacco dei nemici che quasi li accerchiavano; mentre i feriti si trascinavano a piedi o in misere carrette nelle retrovie, i villaggi bruciavano e i resti della battaglia precedente erano disseminati sul campo; anche alcuni reparti francesi erano in movimento, le divisioni di Reynier erano appena arrivate mentre le truppe di Bertrand marciavano verso ovest per proteggere le spalle dell'armata.
L'attacco dei coalizzati si sviluppò a partire dalle ore 08.00 piuttosto lentamente e con una mancanza di coesione; frazionato in sei colonne d'attacco separate l'enorme esercito alleato disperse in parte la sua forza d'urto. Al mattino lo scontro principale si accese sul fianco destro francese dove la colonna guidata da Hessen-Homburg, composta principalmente da soldati austriaci, si spinse in avanti ed in un primo momento conquistò Dosen e Dölitz, minacciando Connewitz, Lösnig e la fondamentale strada per Lipsia. Le forze francesi e polacche di Augereau e Poniatowksi contrattaccarono con efficacia, sostenute da una parte della Giovane Guardia e dalla cavalleria, l'artiglieria francese intervenne sotto la direzione del generale Drouot e decimò i ranghi serrati nel nemico; i coalizzati vennero respinti. Hessen-Homburg rimase ferito e venne sostituito da Colloredo, Schwanzerberg, preoccupato dal contrattacco francese, portò avanti le riserve russe del generale Raevskij e una divisione di corazzieri. I francesi di Augereau riconquistarono Dölitz ma poi vennero a loro volta fermati.
Al centro le grandi forze russo-prussiane al comando di Barclay de Tolly avanzarono molto lentamente nella mattinata e si fermarono senza attaccare Probstheida in attesa dell'arrivo delle altre colonne di Bennigsen e Bernadotte per concertare un attacco combinato, in questo settore i corpi di Macdonald e Sebastiani raggiunsero le nuove posizioni con ordine, mentre Bennigsen si avvicinò sulla sinistra raggiungendo le posizioni di attacco intorno alle ore 10.00. L'attacco dei russi si sviluppò inizialmente con successo, Holzhausen e Zuckelhausen vennero conquistate dopo duri scontri, la divisione Gerard fu costretta a cedere Steinmberg e l'XI corpo di Macdonad e la cavalleria di Sebastiani furono messi in difficoltà. La resistenza francese tuttavia fu tenace: Zweinaundorf e Stotteritz erano fortemente difesi dai corpi di Reynier e Sebastiani e gli attacchi furono respinti fino alle ore 14.00, costringendo anche Bennigsen ad interrompere gli assalti in attesa dell'arrivo a nord dell'armata di Bernadotte e Blücher.
I francesi mantennero il controllo della situazione anche a nord dove si avvicinava in modo aggressivo l'armata del feldmaresciallo Blücher: Marmont, al comando del VI corpo, trattenne l'avanzata del corpo russo di Langeron che marciava verso la linea del fiume Parthe e il villaggio di Schönfeld; la divisione polacca di Dombrowski venne rafforzata da Napoleone con una divisione della Giovane Guardia e riuscì per il momento a controllare il pericoloso avvicinamento del corpo prussiano di Sacken verso i sobborghi di Lipsia. A ovest Bertrand con il IV corpo non ebbe difficoltà a respingere ancora una volta gli austriaci di Gyulai e quindi mantenne libera la strada per Weissenfels. Alle ore 14.00 la situazione di Napoleone era difficile in ragione dell'inevitabile rafforzamento dello schieramento nemico, ma l'imperatore aveva respinto con facilità i primi attacchi, il suo schieramento a semicerchio era solido e i soldati francesi occupavano ancora le posizioni più importanti, la strada per l'ovest era libera e quindi una ritirata organizzata era possibile e poteva permettere ancora a Napoleone di evitare una disfatta campale.
La battaglia divenne sempre più aspra e sanguinosa a partire dal primo pomeriggio: sulla destra francese Colloredo con il I ed il II corpo d'armata austriaco, rinforzati dal corpo russo di Raevskij e dalle divisioni Bianchi e Weissenwolf, ripresero ad attaccare per occupare l'importante villaggio di Connewitz, ma Augereau e Poniatowski organizzarono una dura resistenza e gli scontri, molto cruenti e dall'esito alterno, si prolungarono fino alla serata. Gli austro-russi riuscirono a conquistare Lösnig dopo combattimenti violentissimi, ma fallirono tutti gli attacchi a Connewitz e nella notte il villaggio era ancora tenuto dai francesi che in questo modo mantenevano il controllo della strada per Lipsia.
Gli scontri più cruenti si accesero al centro intorno al villaggio di Probstheida, trasformato in una fortezza dai soldati francesi; Murat organizzò un'accanita difesa con i corpi di Victor (II) e Lauriston (V) ed il generale Drouot ammassò numerose batterie di cannoni che disgregarono ripetutamente le file della fanteria nemica che avanzava in massa. Il raggruppamento russo-prussiano di Barclay sferrò una serie di attacchi con i corpi d'armata di Wittgenstein e Kleist e con la Guardia russo-prussiana di Ermolov, ma venne decimato dal fuoco dell'artiglieria francese e subì 12.000 perdite in tre ore; il principe Schwarzenberg, presente insieme allo zar, all'imperatore d'Austria e al re di Prussia in questo settore del campo di battaglia, rimase impressionato dalla carneficina e ordinò un temporaneo ripiegamento di alcune centinaia di passi per portare avanti a sua volta l'artiglieria e battere le linee francesi. Il villaggio di Probstheida venne ridotto in rovina e incendiato e cambiò di mano più volte durante il pomeriggio, ma nella notte era ancora in possesso dei soldati francesi.
Mentre i francesi si battevano aspramente a sud, la situazione lentamente si stava aggravando a nord e nord-est; i soldati dell'imperatore avvertirono l'avvicinarsi del cannoneggiamento e della battaglia alle loro spalle; il feldmaresciallo Blücher aveva infatti attraversato in forze il fiume Parthe con i corpi russi Langeron, Sacken e St.Priest e stava marciando energicamente in direzione dell'armata del Nord che, al comando del principe di Svezia Bernadotte, stava finalmente entrando in campo con il corpo prussiano di Bülow all'avanguardia. Anche i russi di Bennigsen ripresero i loro attacchi contro Zweinaunsdorf e Stotteritz; il maresciallo Macdonald con l'XI corpo e la cavalleria di Sebastiani dovette cedere Zweinaunsdorf ma riuscì a resistere duramente a Stotteritz mentre il maresciallo Ney che difendeva gli importanti villaggi di Paunsdorf, Schönfeld e Molkau con i corpi di Reynier, Souham e Marmont venne attaccato da tre direzioni e la sua situazione divenne critica.
I russi di Bennigsen riuscirono ad avanzare e occuparono Molkau, mentre il corpo prussiano di Bülow, precedendo il resto dell'armata del Nord, attaccò in forze, nonostante le incertezze dell'esitante Bernadotte, il villaggio di Paunsdorf che dopo aspra lotta le truppe di Reynier dovettero abbandonare. Napoleone, molto preoccupato per il cedimento in questo settore, inviò subito in soccorso la Giovane e la Vecchia Guardia che contrattaccarono e riconquistarono Paunsdorf. Ma il successo fu di breve durata; a metà pomeriggio il maresciallo Ney fu costretto a ripiegare su una linea più arretrata tra Sellerhausen e Schönfeld, e Paunsdorf venne di nuovo occupata dai prussiani di Bülow. La ritirata francese venne affrettata dalla defezione improvvisa di due brigate di fanteria sassone e da reparti di cavalleria sassone e wurttenburghese del corpo di Reynier che intorno alle ore 16.00 passarono nelle file nemiche e attaccarono la divisione Durutte. L'importanza di questo cambio di campo durante la battaglia è enfatizzata dallo storico francese Jean Tulard che parla di "avvenimento decisivo", mentre lo storico Georges Lefebvre scrive di evento che avrebbe "affrettato la disfatta"; altri autori minimizzano l'importanza della defezione. In ogni caso Napoleone si mantenne calmo anche di fronte a questo eventi imprevedibili, anche se manifestò qualche segno di scoraggiamento. I soldati francesi, malgrado la defezione, mantennero la coesione e il morale e si batterono ancor più accanitamente; dopo aver ripiegato si fortificarono a Sellerhausen e soprattutto a Schönfeld dove il maresciallo Marmont organizzò una difesa disperata con il VI corpo d'armata.
La battaglia per Schönfeld continuò fino al tramonto, oltre 90.000 russi dei corpi di Langeron e St.Priest dell'armata del feldmaresciallo Blücher e gli svedesi del corpo di Stedingk attaccarono ostinatamente, con l'appoggio di un potente schieramento di artiglieria, i 28.000 francesi del corpo di ; il maresciallo disponeva di pochi cannoni e di munizioni insufficienti, ma i soldati francesi delle divisioni Compans, Lagrange e Friedrichs si batterono disperatamente e inflissero con il fuoco di fucileria perdite elevatissime alle file compatte nemiche.

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Generale Jean Dominique Compans. Nel processo contro Ney votò per la pena di morte.

Le perdite furono pesanti anche per i francesi, la cavalleria russa e svedese venne respinta più volte, lo stato maggiore di fu decimato, le rovine di Schönfeld cambiarono di mano per sette volte. Bernadotte comparve finalmente sul campo di battaglia, mentre Napoleone preoccupato per l'avanzata nemica che minacciava Reudnitz fece portare avanti una divisione della Guardia che trattenne gli svedesi e i russi e stabilizzò la situazione proteggendo il quartier generale dell'armata. Ma Schönfeld dovette essere infine abbandonata. I francesi di affrontarono il settimo assalto dei russi del corpo di Langeron e si batterono in ritirata nelle case, nei giardini, nel cimitero; nella notte ripiegarono, molto provati dai sanguinosi scontri fino ai sobborghi nord-orientali di Lipsia dove non furono inseguiti dal nemico.
Alla fine della giornata del 18 ottobre quindi i francesi mantenevano ancora le posizioni più importanti a sud della città a Connewitz, Probstheida e Stotteritz, dove Murat e Macdonald erano ancora solidamente schierati, ma le formazioni dell'Imperatore avevano dovuto ripiegare soprattutto a nord e nord-est sotto la pressione di Blücher, Bennigsen e Bernadotte. Dopo aver perduto Paunsdorf e Schönfeld, i francesi si erano organizzati su una linea alla periferia di Lipsia tra Sellerhausen e Reudnitz; la ritirata dei corpi decimati di , Souham e Reynier si svolse nella notte alla luce delle case in fiamme, in mezzo ai cadaveri e ad equipaggiamenti e cannoni distrutti, mentre gruppi di sbandati entravano nella città alla ricerca di cibo e bottino.
Fin dalle ore 19.00 del 18 ottobre Napoleone aveva deciso, dopo un rapporto dei generali Sorbier e Dulauloy, i comandanti dell'artiglieria, sulla scarsezza delle munizioni rimaste sufficienti solo per due ore di fuoco, di rinunciare alla battaglia e iniziare a ripiegare in direzione di Erfurt; durante la notte l'Imperatore, stabilitosi a Lipsia nell'albergo "Alle armi di Prussia", diramò gli ordini di marcia per la difficile manovra al cospetto del nemico. Il traino dell'armata, le munizioni e l'artiglieria, che avevano già iniziato a ripiegare, dovevano subito attraversare l'Elster, seguiti dai corpi di Victor, Augereau, dai corpi di cavalleria di Arrighi e Sebastiani e dalla Guardia di Oudinot e Mortier; messaggeri furono inviati alle truppe bloccate nelle fortezze tedesche con l'ordine di abbandonare le piazzeforti e cercare di raggiungere la Francia.
La manovra di ripiegamento attraverso l'abitato urbano di Lipsia si presentava difficile; quattro porte davano accesso alla città da est su cui potevano transitare le colonne in ritirata, ma solo una via di uscita era disponibile ad ovest; nonostante il rischio di confusione e ingorghi, inizialmente la manovra, durante la notte e nella nebbia del primo mattino, si effettuò con notevole abilità. Le truppe del settore meridionale iniziarono a muovere nelle prime ore del 19 ottobre, e, mantenendo all'oscuro il nemico, marciarono senza difficoltà verso ovest, mentre i corpi di Reynier, Poniatowski e Macdonald, con circa 30.000 soldati, avrebbero dovuto tenere le posizioni e coprire la manovra del grosso dell'armata verso il ponte di Lindenau. I coalizzati non organizzarono in tempo un servizio di esplorazione e quindi solo alle ore 07.00 alcune pattuglie rilevarono i movimenti francesi. In realtà anche le truppe alleate erano esauste dopo i durissimi scontri del giorno precedente e i comandanti supremi erano seriamente preoccupati per un eventuale terzo giorno di battaglia. I movimenti delle truppe furono lenti; alcuni abboccamenti per discutere una tregua fecero guadagnare ulteriore tempo ai francesi, e quindi solo alle ore 10.30 la massa degli eserciti coalizzati passò all'offensiva per irrompere dentro Lipsia.
In quel momento due terzi dell'armata francese avevano già ripiegato e attraversato il fiume Elster; Napoleone si trattenne ancora a Lipsia e prima di partire incontrò Poniatowski a cui aveva conferito il grado di maresciallo per il valore dimostrato nella battaglia e a cui ora affidò l'incarico di difendere i sobborghi meridionali della città; quindi l'imperatore si congedò dal re di Sassonia, Federico Augusto, che apparve dispiaciuto per la defezione delle sue truppe. Dopo l'incontro con il re di Sassonia Napoleone lasciò la città e attraversò il fiume intorno alle ore 11.00 a Lindenau; nelle strade era ora presente tra le truppe ansietà e confusione e il disordine stava aumentando. Napoleone era esausto e si ritirò in un mulino vicino al fiume dove si addormentò nonostante il frastuono dei cannoni e il rumore delle truppe in ritirata.
L'assalto finale dei coalizzati a Lipsia, che aveva avuto inizio alle ore 10.30, venne organizzato da Schwarzenberg su cinque colonne separate ma progredì lentamente di fronte alla ostinata resistenza della retroguardia francese di Reynier, Macdonald e Poniatowski; inoltre i tentativi dei corpo austriaco di Giulay e del corpo prussiano di Yorck di intercettare la ritirata vennero facilmente contenuti. I soldati francesi difesero accanitamente le strade, gli accessi e gli edifici principali della città e guadagnarono tempo costringendo il nemico a un combattimento all'interno dell'area urbana; i cavalieri polacchi di Poniatowski si batterono con grande valore. A nord i corpi russi di Sacken, St. Priest e Kapzevic, dell'armata di Blücher, attaccarono attraverso la Halle Tor ma incontrarono una resistenza molto dura di francesi e polacchi delle divisioni Durutte e Dombrowski e i primi tre assalti furono respinti; a sud l'armata russa di Bennigsen attaccò la Spital Tor e la Sand Tor; ad est il corpo prussiano di Bülow irruppe attraverso la Grimma Tor, difesa dalle divisioni Marchand e Friedrichs, e riuscì a entrare in città. Infine fu un battaglione prussiano del corpo di Bülow, guidato dal maggiore Friccius che riuscì a irrompere nel centro di Lipsia; venne contrattaccato ma riuscì a mantenere le posizioni raggiunte grazie anche all'intervento di un reparto di fanteria leggera svedese.
Nel frattempo il disordine delle truppe della retroguardia in ritirata stava inevitabilmente crescendo; dovendo tutte concentrarsi nella sola uscita disponibile verso ovest da Lipsia alla Ranstadter Tor e, dovendo attraversare un primo ponte sulla Pleisse poi il terrapieno sulle paludi e quindi un secondo ponte a Lindenau sull'Elster, era quasi inevitabile che le truppe francesi, sempre più schiacciate dalla pressione nemica proveniente da differenti direzioni e concentrate in un solo luogo, si sarebbero progressivamente frammischiate e disorganizzate. La confusione divenne incontrollabile dopo che alle ore 13.00 venne fatto saltare prematuramente il ponte sull'Elster; l'incarico, assegnato al generale Dulauloy e da questo a sua volta affidato al colonnello Monfort, ricadde alla fine su un caporale e quattro zappatori francesi che, alla vista dell'avvicinarsi dei prussiani, fecero esplodere le mine quando molti reparti di truppa stavano ancora attraversando o erano in combattimento nella città.
Da quel momento molti reparti francesi si disgregarono; alcuni soldati ricordarono l'avvenimento come una "Beresina senza il freddo"; molti soldati caddero in acqua, altri cercarono di attraversare a nuoto con tutto l'equipaggiamento, si diffusero voci di tradimenti. Alcuni ufficiali entrarono nel fiume con i cavalli sperando di riuscire a risalire sulla sponda occidentale; in questo modo annegò Poniatowski, la cui cavalcatura non riuscì a risalire la ripida sponda e lo trascinò nella corrente, Macdonald invece scampò a nuoto dopo aver assistito a scene drammatiche di disperazione tra i soldati abbandonati sulla riva occidentale, anche il maresciallo Oudinot riuscì ad attraversare il fiume a nuoto. I combattimenti dentro Lipsia continuarono fino al tardo pomeriggio; infine i reparti francesi rimasti tagliati fuori si arresero dopo gli ultimi scontri; caddero prigionieri anche Lauriston e Reynier e il generale polacco Dombrowski; lo zar Alessandro e il re di Prussia poterono raggiungere finalmente la piazza del mercato al centro della città dove si incontrarono con Bernadotte, Blücher, Bennigsen e Gneisenau; la battaglia era finita.
Non si conoscono le perdite totali. Le stime oscillano tra gli 80.000-110.000 morti e feriti da entrambe le parti. Supponendo che si tratti di 95.000 uomini, si ritiene che gli Alleati persero 55.000 uomini e i francesi 40.000, con 30.000 francesi fatti prigionieri. Tra i caduti vi fu il maresciallo polacco Józef Antoni Poniatowski, che aveva ricevuto tale distinzione soltanto il giorno precedente. La battaglia costò all'Impero francese la perdita dei territori tedeschi a est del Reno e portò vari stati tedeschi dalla parte degli Alleati. Si ricorda anche un particolare avvenimento nella battaglia: reparti sassoni, dalla parte dei francesi, mentre andavano all'attacco si girarono all'improvviso e fecero fuoco sui soldati di Napoleone Bonaparte. Gli avvenimenti della battaglia sono ricordati grazie a 45 cippi commissionati a Theodor Apel di Lipsia e che servono a ricordare gli avvenimenti legati alla battaglia e a segnare le posizioni sul terreno delle linee francesi e alleate. In commemorazione della battaglia venne edificato il Völkerschlachtdenkmal.

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Battaglia di Lipsia, terzo giorno

Rientrato precipitosamente a Parigi, Napoleone doveva subire ora l'insubordinazione di tutti i corpi politici: le Camere denunciarono solo ora la sua tirannia, la nuova nobiltà da lui creata gli girò le spalle, il popolo ormai stanco della guerra rimase freddo, i marescialli dell'Impero cominciarono a defezionare: tra i principali, Gioacchino Murat che passò al nemico per conservare il regno di Napoli.
Il giorno di Natale del 1813 la Francia veniva invasa dagli eserciti della coalizione. Un mese dopo, il 25 gennaio 1814, consegnato al fratello Giuseppe il controllo di Parigi e alla moglie Maria Luisa la reggenza, salutato il piccolo figlio che non avrebbe mai più rivisto, Napoleone si metteva al comando di un esercito di 60.000 veterani della Vecchia Guardia. Per due mesi, Napoleone tenne testa al nemico in quella che sarà definita da alcuni la sua campagna più brillante, vincendo a Brienne (proprio dove aveva studiato l'arte militare), a Champaubert, Montmirail, Château-Thierry, Vauchamps, Mormant, Montereau, Craonne, Laon.
Sconfitto infine dalle forze prussiane del feldmaresciallo von Blücher, da quelle austriache e da quelle russe di Wintzingerode, consapevole di non poter anticipare le truppe nemiche in marcia su Parigi, Napoleone ripiegò su Fontainebleau ove, appresa la notizia del tradimento del generale Marmont che si era arreso con le sue truppe agli alleati, e scoraggiato dall'atteggiamento rinunciatario del maresciallo Michel Ney, il 4 aprile annunciò ufficialmente la sua intenzione di chiedere la pace.

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Auguste Marmont, ritratto da Jean-Baptiste Paulin Guérin. Con il suo tradimento accelerò la fine dell'impero

Intanto il fratello Giuseppe aveva capitolato e il nemico era entrato vittorioso in Parigi il 31 marzo con alla testa lo zar Alessandro I, che il giorno successivo aveva già fatto affiggere sui muri di Parigi il suo proclama indirizzato al popolo francese.
A Fontainebleau Napoleone passò giorni duri e difficili. Gli giunse notizia che il nemico aveva rigettato la sua proposta di pace che stabiliva il ritorno ai «confini naturali» della Francia. Lo zar Alessandro I gli impose l'abdicazione. Egli, dopo aver più volte tentennato, decise di abdicare in favore del figlio e della reggenza di Maria Luisa il 6 aprile. Ma il nemico decise per un'abdicazione totale, poiché Talleyrand aveva già preso accordi per restaurare sul trono i Borbone. Napoleone, indignato, minacciò di rimettersi alla testa dei suoi eserciti e marciare su Parigi, ma i marescialli lo costrinsero a cedere. L'abdicazione divenne effettiva con la firma del trattato di Fontainebleau da parte delle potenze alleate l'11 aprile.
Resosi ormai conto dell'evolversi della sua caduta, con inoltre l'aggravarsi dei cosacchi entrati in Parigi, il 12 aprile, presso il Castello di Fontainebleau, Napoleone tentò il suicidio ingerendo una forte dose di arsenico, conservato in una fialetta che l'imperatore si era procurato dopo la sconfitta in Russia, ma miracolosamente venne soccorso e salvato dai suoi collaboratori che chiamarono i medici in tempo.
Dopo un memorabile addio alla Vecchia Guardia, Napoleone subì il dramma della fuga quando, attraversando la Francia del sud, fu costretto a indossare un'uniforme austriaca per non finire linciato dalla folla. Imbarcatosi precipitosamente a Marsiglia sulla fregata inglese HMS Undaunted comandata da Thomas Ussher, il 4 maggio 1814 sbarcò all'isola d'Elba, dove il nemico aveva deciso di esiliarlo, pur riconoscendogli la sovranità sull'isola con il rango di principe e la conservazione del titolo di imperatore.
Stabilitosi a Portoferraio volle abitare presso la Palazzina dei Mulini alla quale fece aggiungere un piano e che dominava la suggestiva rada ove poteva osservare le navi in entrata e uscita dal porto. A Portoferraio volle raggiungerlo la madre che prese dimora in una piccola abitazione nel centro storico. Soggiornò inoltre presso il romitorio annesso al Santuario della Madonna del Monte (Marciana) dove lo raggiunse la contessa Maria Walewska insieme al loro figlioletto Alexandre.
Nei dieci mesi di esilio Napoleone non rimase inoperoso ma costruì infrastrutture, miniere, strade, difese, mentre il Congresso di Vienna che doveva disegnare la nuova Europa della Restaurazione ipotizzava di esiliarlo nell'oceano. Furono mesi febbrili, che trasformarono un'isola assonnata nel centro culturale e politico del tempo: poeti, artisti, spie e uomini di mondo accorsero nella speranza di visitare quello che era stato l'uomo che aveva tenuto l'Europa in pugno. Molti trovavano ospitalità nelle residenze signorili della città e altri all'Auberge Bonroux, luogo di ritrovo della Guardia. Non vennero mai invece a trovarlo, la moglie e il figlio: il piccolo Re di Roma.

francesco ii bis

Stampa satirica d'epoca raffigurante il Congresso di Vienna: Francesco II (al centro, vestito in uniforme bianca) danza con gli altri sovrani delle potenze vincitrici, Alessandro I di Russia e Federico Guglielmo III di Prussia

Anche se impegnato nei lavori all'Elba, Napoleone continuava a ricevere segretamente notizie della situazione francese tramite alcuni telegrafi ottici dislocati sulle alture dell'isola. Il nuovo sovrano, Luigi XVIII Borbone, era inviso alla popolazione: nel solco della Restaurazione, Luigi stava lentamente smantellando tutte le conquiste della Rivoluzione legittimate da Napoleone. Queste notizie, aggiunte alla voce ormai certa che i nemici fossero prossimi a trasferirlo lontano dall'Europa, portarono Napoleone ad agire. Approfittando dell'assenza del commissario inglese sir Neil Campbell, recatosi a Livorno, Napoleone lasciò l'Elba il 26 febbraio 1815, salutato dalla popolazione di Portoferraio, con una flotta di sette bastimenti e circa mille uomini al seguito.
L'imperatore eluse la sorveglianza della flotta inglese e il 1º marzo 1815 sbarcò in Francia nel golfo di Cannes, a Golfe Juan, vicino ad Antibes: cominciavano i leggendari «Cento giorni». La popolazione lo accolse con un entusiasmo sorprendente e gli eserciti inviatigli contro da Luigi, invece di fermarlo, si unirono a lui. Fu prima la volta del 5° di linea di Grenoble: Napoleone mosse incontro ai soldati dell'esercito borbonico e gridò «Chi vuole sparare al suo Imperatore è libero di farlo». Successivamente passarono dalla sua parte gli eserciti guidati da Charles de la Bédoyère e dal maresciallo Ney, che in precedenza aveva promesso enfaticamente a Luigi XVIII che avrebbe condotto Napoleone a Parigi «in una gabbia di ferro». Entrambi i generali avrebbero pagato con la fucilazione la defezione. Il 20 marzo Napoleone entrò trionfalmente a Parigi, mentre Luigi era fuggito in gran fretta verso Gand su suggerimento di Talleyrand, il quale al Congresso di Vienna spinse le teste coronate a riprendere la spada contro l'imperatore.

 Bédoyère

Charles de la Bédoyère. Fu fucilato il 19 agosto 1815 a Parigi. Lo stesso destino toccò al maresciallo Ney, eroe della campagna di Russia, che fu fucilato nel mese di dicembre dando egli stesso l'ordine di fare fuoco al plotone d'esecuzione.

Riorganizzato rapidamente l'esercito, Napoleone chiese ai nemici nuovamente coalizzatisi la pace alla sola condizione di mantenere il trono di Francia: non venne ascoltato. Intanto, in campo politico, l'imperatore aveva ben compreso i limiti del suo governo precedente e aveva promulgato una costituzione maggiormente liberale, l'Atto addizionale, che concedeva maggiori poteri alle camere e la libertà di stampa. Per evitare una nuova invasione del suolo patrio, Napoleone fece la prima mossa entrando di sorpresa in Belgio, dove erano schierati l'esercito britannico e l'esercito prussiano.
La battaglia di Waterloo
La notizia del ritorno in Francia di Napoleone non sembrò inizialmente allarmare il re e i monarchici francesi; i marescialli che avevano tradito l'imperatore in un primo momento rimasero fedeli a Luigi XVIII, compreso il maresciallo Michel Ney. Nei fatti, tuttavia, le truppe inviate a sbarrare il passo a Napoleone si unirono al loro vecchio Empereur, e il 18 marzo anche Ney defezionò. Il giorno successivo, 19 marzo, Luigi XVIII abbandonò il trono diretto in Belgio (allora parte del Regno Unito dei Paesi Bassi) e Napoleone fece il suo ingresso a Parigi, riprendendo il governo della Francia.
Napoleone apparentemente era ritornato animato da propositi pacifici e forse sperò in un primo tempo di poter tranquillizzare le grandi potenze europee con dichiarazioni di pacifismo e con l'invio di lettere rassicuranti ai sovrani. In realtà i rappresentanti delle grandi potenze della coalizione, riuniti in quel momento nel congresso di Vienna, fin dal 13 marzo 1815, dopo aver ricevuto la clamorosa notizia del ritorno dell'imperatore, avevano deciso di rifiutare ogni colloquio con Napoleone che avevano messo ufficialmente al "bando dall'Europa" e dichiarato "nemico pubblico" e perturbatore della pace europea. Il 25 marzo 1815 l'Impero austriaco, l'Impero russo, il Regno di Prussia e il Regno Unito confermarono ufficialmente l'alleanza di Chaumont del 1814 e costituirono, insieme ad altri Stati minori, la settima coalizione.
Mentre Austria, Prussia e Russia iniziavano a mobilitare i loro eserciti, il Regno Unito stanziò immediatamente cinque milioni di sterline; le grandi potenze si impegnarono a mettere in campo ognuna almeno 150.000 soldati. In attesa dell'arrivo sul fronte del Reno delle armate russe e austriache, le truppe britanniche presenti in Belgio vennero riunite, sotto il comando del Duca di Wellington, con i contingenti belga-olandesi; tra Liegi e Namur era già accantonata anche una parte dell'esercito prussiano guidato dal feldmaresciallo Gebhard Leberecht von Blücher. Di fronte alle mosse minacciose dei coalizzati, Napoleone, efficacemente coadiuvato dal ministro della Guerra, maresciallo Louis Nicolas Davout, dovette rapidamente organizzare le sue forze militari. L'esercito lasciato dai Borbone era costituito da 200.000 uomini, in gran parte veterani delle guerre napoleoniche; l'imperatore decise il 9 aprile 1815 il richiamo dei soldati in congedo e questo provvedimento permise di incorporare 76.000 militari esperti; si mobilitarono le guardie nazionali per compiti di presidio; infine ai primi di giugno Napoleone decise di reintrodurre la coscrizione obbligatoria, giustificata con la necessità di difendere la patria. Napoleone tuttavia riteneva pericoloso attendere i coscritti per accrescere numericamente le sue forze; considerò decisivo prendere subito l'iniziativa e attaccare le unità alleate e prussiane ammassate alla frontiera nord-orientale francese, invece di mantenersi sulla difensiva intorno Parigi. Egli quindi concentrò gran parte delle truppe già disponibili nell'Armata del nord. L'imperatore sperava di infliggere una rapida e schiacciante sconfitta agli eserciti nemici colti di sorpresa in Belgio; con una vittoria di prestigio avrebbe dato fiducia ai francesi e forse scosso la solidarietà tra i coalizzati. Napoleone inoltre riteneva che la popolazione belga si sarebbe sollevata a suo favore alla notizia dell'avanzata francese e che lo stesso governo britannico sarebbe entrato in crisi dopo la disfatta del Duca di Wellington. L'imperatore decise che i 124.000 soldati dell'Armée du Nord avrebbero dovuto riunirsi attorno Beaumont agli inizi di giugno per passare all'offensiva.
I comandanti alleati invece ritenevano necessario concentrare i loro enormi eserciti e preparare un accurato piano di operazioni prima di attaccare Napoleone. Soprattutto per impulso del comandante in capo austriaco principe Schwarzenberg, si decise di rinviare ogni operazione alla fine del giugno 1815. Blücher, assistito dal suo capo di stato maggiore August Neidhardt von Gneisenau e dall'ufficiale di collegamento con l'esercito britannico, generale Karl von Müffling, non perse tempo a rafforzare la sua armata con le riserve. La strategia alleata prevedeva un'offensiva combinata degli eserciti del Duca di Wellington, del feldmaresciallo Blücher e del principe Schwarzenberg, rafforzati alle spalle dell'armata russa del maresciallo Michael Andreas Barclay de Tolly. Negli alti comandi alleati peraltro era presente un forte ottimismo; Wellington e Blücher avevano stabilito il 3 maggio di coordinare le loro operazioni in caso di attacco nemico, ma in realtà non si temevano improvvise iniziative di Napoleone. Il 15 giugno, alla vigilia dell'attacco francese, il Duca di Wellington in una lettera allo zar manifestava una tranquilla sicurezza e prevedeva di prendere l'iniziativa alla fine del mese di giugno; mentre Blücher scrisse alla moglie che «Bonaparte non ci attaccherà» e che gli eserciti coalizzati «sarebbero entrati presto in Francia».
Nelle prime ore del 15 giugno i vari corpi d'armata francesi iniziarono a marciare in territorio belga; secondo gli ordini dell'imperatore l'armata avrebbe dovuto avanzare rapidamente e di sorpresa su Charleroi dove avrebbe attraversato la Sambre, irrompendo al centro dello schieramento nemico. Napoleone aveva impostato infatti la campagna del 1815 sulla "strategia delle posizione centrale" per compensare lo svantaggio di affrontare un avversario numericamente superiore. Napoleone riteneva possibile, sfruttando la sua abilità di manovra e la prevista scarsa coesione del nemico, battere uno dopo l'altro i due eserciti avversari prima che si fossero concentrati.

waterloo prima

Watwerloo prima della bataglia

Dopo il passaggio della Sambre, l'ala sinistra dell'Armée du Nord, comandata dal maresciallo Ney, doveva avanzare verso Quatre-Bras, mentre l'ala destra, sotto la guida del maresciallo Emmanuel de Grouchy, verso Fleurus e Sombreffe. Così Napoleone si sarebbe incuneato nella "posizione centrale" tra i due eserciti nemici, con la riserva a Charleroi pronta a intervenire. Il primo giorno di operazioni si concluse con pieno successo per i francesi. Wellington e Blücher avevano disseminato i loro eserciti su un ampio territorio tra Gand e Liegi senza collegamenti tra loro e furono colti impreparati dall'improvvisa avanzata di Napoleone da Charleroi: a destra i francesi avanzarono di circa 30 chilometri e, dopo aver sbaragliato alcune avanguardie prussiane, raggiunsero Fleurus, nonostante alcune ore di ritardo a causa dell'errata trasmissione degli ordini. A sinistra invece, nonostante che l'imperatore avesse personalmente indicato al maresciallo Ney l'importanza di occupare il crocevia di Quatre-Bras, il maresciallo fece fermare i suoi uomini nelle campagna di Frasnes-lez-Gosselies, 4 chilometri a sud dell'incrocio, convinto di avere davanti una consistente forza nemica, mentre in realtà le forze anglo-alleate erano costituite in quel momento solo da 4.000 soldati. In effetti Wellington, sorpreso dall'offensiva francese e impressionato dalla presenza di Napoleone, in un primo tempo non comprese il piano strategico dell'imperatore: all'inizio previde di concentrare le sue forze a Mons per coprire la sua linea di ritirata, quindi, decise di avvicinarsi ai prussiani marciando verso Nivelles ma senza preoccuparsi di raggiungere Quatre Bras, che invece fu occupato per iniziativa autonoma di un generale olandese subordinato. Wellington alla fine capì l'errore e nella notte del 16 giugno diede disposizioni urgenti ai suoi comandanti di procedere a marce forzate verso Quatre-Bras.
Il mattino del 16 giugno Napoleone si recò di persona nelle posizioni di prima linea a contatto con i prussiani; dopo una valutazione delle forze nemiche dal suo posto di comando posto nel mulino di Naveau, l'Imperatore si convinse di avere davanti il grosso dell'esercito nemico. In effetti, Blücher aveva deciso di affrontare una battaglia immediata e stava concentrando le sue forze senza coordinarsi con Wellington; Napoleone decise quindi di subordinare l'offensiva di Ney verso Bruxelles alla sconfitta dell'esercito prussiano a Ligny. In caso di vittoria francese, gran parte dell'esercito di Blücher sarebbe stato annientato e le rimanenti forze si sarebbero ritirate verso Namur e Liegi, allontanandosi da Wellington, che il 17 giugno sarebbe rimasto solo. La battaglia di Ligny e quella di Quatre-Bras iniziarono quasi contemporaneamente. A Ligny Napoleone riuscì a battere i prussiani, ma le difficoltà delle comunicazioni con l'ala sinistra di Ney impedirono il sopraggiungere di rinforzi che avrebbero trasformato il successo francese in una vittoria decisiva; Blücher invece riuscì a ritirare le sue forze durante la notte sotto una violenta pioggia. Napoleone, esausto e provato fisicamente, ritenne impossibile inseguire subito i prussiani e solo alle ore 9:00 del 17 giugno raggiunse il campo di battaglia e diede i primi ordini al maresciallo Grouchy. Il maresciallo doveva marciare con due corpi d'armata e tre reparti di cavalleria all'inseguimento dei prussiani e «incalzarli senza perderli di vista», mentre l'Imperatore avrebbe concentrato il grosso dell'armata contro l'esercito del Duca di Wellington.
Nel frattempo a Quatre Bras, il maresciallo Ney non era riuscito a sconfiggere le truppe britanniche anche a causa del mancato impiego di un corpo d'armata che trascorse la giornata in inutili movimenti tra i due campi di battaglia. In ogni caso la sconfitta e la ritirata prussiana aveva lasciato sguarnito il fianco sinistro di Wellington, per cui il comandante britannico ordinò la ritirata a Mont-Saint-Jean, sollecitando nel frattempo Blücher a sostenerlo. Sembra che il comandante britannico sperasse di resistere a Mont-Saint-Jean ma egli aveva anche predisposto ulteriori piani per ripiegare dietro la Schelda e per una evacuazione del suo esercito attraverso il porto di Anversa. Ney, incerto e prudente, non contrastò il movimento di ripiegamento britannico nonostante che alle ore 12:00 del 17 giugno Napoleone gli avesse ordinato di attaccare subito.
Napoleone arrivò a Quatre Bras alle ore 14:00 dove, dopo aver rimproverato il maresciallo Ney per la sua inazione, apprese che i britannici si erano ritirati; egli ordinò l'inseguimento immediato, reso difficoltoso dalla pioggia che rese campi e strade quasi impraticabili. Le retroguardie di Wellington si trovarono in difficoltà, la cavalleria rischiò di essere agganciata; a Genappe un tentativo di resistenza venne superato dai francesi; alle ore 19:30 l'avanguardia napoleonica raggiunse Plancenoit, sei chilometri a sud di Waterloo. Napoleone diresse personalmente l'inseguimento sperando di costringere il nemico a combattere immediatamente; alla fine, a causa del buio e della pioggia, dovette rassegnarsi con disappunto a rinviare la battaglia al giorno seguente. Egli si portò sulle prime linee e osservò le posizioni britanniche a Mont-Saint-Jean; alle ore 21:30 si recò alla fattoria di Le Caillou, sulla strada per Bruxelles, dove si sistemò con i suoi ufficiali per la notte; inviò subito una lettera a Grouchy in cui ordinava al maresciallo di «manovrare in conseguenza dei movimenti di Blücher» e in ogni caso di unirsi nella giornata del 18 giugno con l'ala destra dell'esercito francese.
Alle 04:00 del 18 giugno Napoleone venne raggiunto da un dispaccio inviato da Grouchy che il maresciallo aveva scritto alle ore 22:00 da Gembloux; Grouchy riferiva che i prussiani sembravano ripiegare in due colonne sia verso Wavre che verso Liegi e che egli intendeva «seguirle al fine di separarle da Wellington». Napoleone non sembrò preoccupato da queste notizie e per il momento non ritenne necessario inviare ulteriori istruzioni al suo subordinato. Effettivamente la notte dopo la disfatta a Ligny, il generale von Gneisenau, temporaneamente al comando in assenza di Blücher e pur dubbioso sull'effettiva volontà di Wellington di combattere, aveva deciso di non ripiegare verso Namur a est ma di marciare con l'esercito verso nord fino a Wavre dove era ancora possibile cooperare con i britannici. Di fatto l'esercito prussiano si stava riorganizzando; il feldmaresciallo Blücher riprese il comando e la sera del 17 giugno riuscì a convincere il generale von Gneisenau a muovere con almeno due corpi d'armata da Wavre in direzione dell'esercito britannico fermo a Mont-Saint-Jean; il comandante in capo prussiano nella notte inviò un messaggio a Wellington per informarlo di questa cruciale decisione. La lettera raggiunse alle ore 2:00 del mattino il comandante in capo britannico che, rassicurato dalla notizia che i prussiani marciavano in suo aiuto, confermò la sua decisione di combattere a Mont-Saint-Jean.
Contemporaneamente nella pianura i soldati dei due eserciti avversari passarono una notte di grande disagio; le truppe rimasero all'aperto, su un terreno fangoso, senza riparo dalla pioggia che continuava a cadere; pochi riuscirono a dormire. Al mattino i soldati francesi, bagnati e infreddoliti, cercarono di riorganizzarsi, fecero cuocere le zuppe e ricevettero il pane; le truppe impiegarono il tempo soprattutto ad asciugare e controllare le armi per l'attesa battaglia; poco dopo l'alba la pioggia iniziò a cadere con minore intensità. Il campo di battaglia di Waterloo è particolarmente uniforme: l'area in cui si svolsero i combattimenti misurava circa 5 chilometri da est a ovest e meno di 2,5 chilometri da nord a sud; in questo angusto spazio, separati da appena 800 metri, stavano i due eserciti per un totale di 140.000 uomini e oltre 400 cannoni, a cui si sarebbero aggiunti circa 48.000 soldati di Blücher. Parecchie aree erano coltivate a frumento non ancora mietuto, alternate a campi di foraggio senza ulteriori ostacoli. Inoltre, ampie porzioni di terreno erano zuppe d'acqua per via della pioggia caduta il 17 giugno.
Lo schieramento di Wellington, davanti la Foresta di Soignes, occupava l'intera lunghezza di un basso pendio, poco a sud dell'abitato di Mont-Saint-Jean. Una strada secondaria, lo Chemin d'Ohain, passava sulla cresta, affiancata a oriente da una fitta siepe e da macchie di alberi. Dietro questa linea, che formava la principale posizione difensiva dell'esercito alleato, il terreno era in leggero declivio, mentre in avanti era spezzato da alture e depressioni a est della strada maestra per Bruxelles, e sostanzialmente piatto a ovest della stessa strada. A sud della cresta gli alleati avevano occupato tre posizioni chiave: a ovest, circa 400 metri distante dall'ala destra di Wellington, c'era il castello di Hougoumont, circondato da un muraglione alto circa 1,80 metri, un frutteto sul lato orientale e una zona boscosa su quello meridionale; vicino al centro della linea alleata esiste ancora la fattoria di La Haye Sainte, poco distante da una cava di ghiaia ormai esaurita posta sul lato orientale della strada per Bruxelles, più vicino alla cima di Mont-Saint-Jean; infine, più a est, c'erano tra i boschi i tre casali di Papelotte, La Haie e Fichermont.
L'asse centrale che divideva i due eserciti contrapposti era marcato dalla strada in pavé per Bruxelles (allora fiancheggiata quasi per intero da pioppi), che scende a sud da La Haye Sainte toccando la locanda de La Belle Alliance. A est di questo punto il terreno sale leggermente e qui Napoleone sistemò gran parte della sua artiglieria, mentre a ovest, in direzione di Hougoumont, era più basso ma ondulato. I collegamenti con la strada per Nivelles erano costituiti da due viottoli: il primo correva dietro Hougoumont, il secondo si diramava più a sud, dalla fattoria di Rossomme. Continuando ancora più a sud, la strada arrivava fino a Charleroi passando per Maison du Roi, Le Caillou, Genappe e Quatre-Bras. Il villaggio di Plancenoit è situato circa 2,5 chilometri a nord-est di Maison du Roi, vicino al torrente Lasne.
Per andare da Waterloo a Wavre bisognava passare per la Selva di Parigi (bois de Paris), costellata da gole e torrenti che rendevano difficili i movimenti di truppe, già ostacolati dalle strade che in pratica erano sentieri fangosi di campagna. I centri più importanti ai fini delle vicende di Waterloo e Wavre sono Chapelle-Saint-Lambert, Ohain e Limale. La retroguardia prussiana che coprì il resto dell'esercito diretto a Waterloo si posizionò su una ripida collina prospiciente il fiume Dyle, ottima per coprire i guadi di Wavre.
Secondo David Chandler l'esercito del Duca di Wellington ammontava a 67.661 uomini, di cui 49.608 fanti, 12.408 a cavallo (ussari, lancieri, dragoni e altre specialità) e 5.645 artiglieri con 156 pezzi d'artiglieria. Il grosso di questi soldati era disposto su entrambi i pendii della cresta di Mont-Saint-Jean, in una posizione al riparo dell'artiglieria di Napoleone. Gran parte del II Corpo del tenente generale Rowland Hill, I visconte Hill, era schierato alla destra di Wellington, tra il villaggio di Merbraine e la strada per Nivelles; circa un chilometro e mezzo più a ovest la zona attorno Braine-l'Alleud era presidiata dalla divisione olandese del tenente generale David Hendrik Chassé; alla sinistra di questa formazione, in posizione più avanzata, stava la brigata britannica del generale Hugh Henry Mitchell, con in seconda linea le tre brigate della divisione anglo-tedesca del tenente generale Henry Clinton. Queste forze costituivano l'ala destra di Wellington. Inizialmente Hougoumont era presidiato da quattro compagnie britanniche della Guardia più altri reparti di hannoveriani e di Nassau.
Il centro era tenuto dal I Corpo d'armata del principe Guglielmo d'Orange, con una parte della riserva generale. Lungo la cresta, a ovest della strada per Bruxelles, era schierata la 1ª Divisione britannica del maggior generale George Cooke e, alla sua sinistra, la 3ª Divisione anglo-tedesca del tenente generale Charles Alten. Davanti alle linee venne fortificata la fattoria de La Haye Sainte e la vicina cava di ghiaia, difese dal 2º Battaglione leggero della King's German Legion e da un reggimento britannico. A est della strada maestra, sul fianco sinistro alleato, presero posizione le tre brigate della divisione anglo-tedesca del tenente generale Thomas Picton più una brigata hannoveriana e la brigata olandese del generale Willem Frederik van Bylandt, già indebolita dalla battaglia di Quatre-Bras. A questi furono affiancate le brigate di cavalleria dei generali Hussey Vivian, I barone Vivian e John Ormsby Vandeleur. L'ala poggiava nelle fattorie fortificate di Papelotte, La Haie e Frischermont, dove era di guardia la brigata di Nassau del colonnello Bernardo di Sassonia-Weimar-Eisenach.
La riserva fu posta dietro il centro dello schieramento, costituita da gran parte della cavalleria: a est della strada maestra attendevano le brigate di William Ponsonby e Charles Étienne de Ghigny; a ovest era appostata la brigata di cavalleria pesante del generale Edward Somerset, sostenuta dalle altre due brigate di cavalleria dei Paesi Bassi nonché dalla maggior parte della riserva di artiglieria e da una brigata di fanteria britannica. Più sulla destra venne ammassata la cavalleria leggera di Uxbridge, con alle spalle i reparti del Ducato di Brunswick.
Il Duca di Wellington peraltro continuava a essere molto preoccupato per la sicurezza delle sue linee di comunicazione con la costa e quindi mantenne una parte cospicua delle sue forze, 17.000 uomini e 30 cannoni al comando del principe Federico d'Orange-Nassau, tra Hal ed Enghien, a sedici chilometri a ovest di Mont-Saint-Jean. Queste truppe non parteciparono alla battaglia.
Il comandante in capo britannico aveva scelto accuratamente il campo di battaglia; egli conosceva molto bene il terreno che aveva osservato fin dal settembre dell'anno precedente giudicandolo molto favorevole per bloccare un'eventuale avanzata dell'esercito napoleonico verso Bruxelles. Napoleone criticò aspramente la decisione di Wellington di combattere con la foresta di Soignes alle spalle che, secondo l'imperatore, avrebbe potuto intralciare in modo catastrofico un'eventuale ritirata, ma in realtà questo settore boscoso non era intransitabile per colonne di truppe e al contrario era dotato di buone strade facilmente percorribili. L'aver messo gran parte delle truppe disponibili nella propria ala destra dimostra inoltre che Wellington contava sull'arrivo di almeno una parte dell'esercito prussiano per rinforzare la sua ala sinistra.
L'esercito prussiano impegnato nella campagna di Waterloo era stato costituito rimpolpando frettolosamente i reparti esperti rimasti tra Lussemburgo e Wesel dopo la guerra del 1814, con coscritti, richiamati alle armi dopo l'appello del Re di Prussia, e milizie territoriali della Landwehr; erano inoltre presenti truppe poco affidabili della Westfalia e della Sassonia. L'esercito affidato al comando dell'esperto e combattivo feldmaresciallo Blücher era quindi eterogeneo e complessivamente poco addestrato; le truppe tuttavia erano estremamente motivate, accanitamente anti-francesi e animate da un acceso nazionalismo patriottico. Il comandante in capo, nella notte tra il 17 e il 18 giugno, aveva già cominciato a far muovere due corpi d'armata. L'artiglieria era per lo più formata da cannoni da 6 libbre, pochi da 12 libbre e altrettanto pochi erano gli obici; l'equipaggiamento individuale era disparato e non sempre di prima qualità. L'esercito prussiano aveva uno stato maggiore molto ridotto ma era organizzato razionalmente in corpi d'armata e brigate che nei fatti equivalevano alle divisioni francesi. Blücher disponeva di un esercito più compatto e organizzato di quello del Duca, ma questo vantaggio era in parte vanificato dall'inesperienza dei soldati; altri punti deboli erano la carenza di artiglieria e cavalleria pesante, nonché l'assenza di una cavalleria e di un'artiglieria di riserva, dal momento che queste forze erano suddivise nei singoli corpi d'armata.
Per certi aspetti, per la campagna del 1815 Napoleone disponeva di uno degli eserciti più esperti ed efficienti che avesse mai comandato: la gran parte dei soldati erano veterani delle campagne vittoriose dell'Impero, giovani ormai esperti dopo le guerre del 1813 e 1814, oppure reduci dai campi di prigionia della Russia e dalle navi prigione in Spagna e in Inghilterra. L'armata francese rimaneva la più moderna dell'epoca; era sempre fondata sul sistema della coscrizione, dell'amalgama e soprattutto dell'uguaglianza e della promozione per merito dai ranghi; essa aveva mantenuto l'efficienza e la combattività che le avevano permesso per venti anni di dominare i campi di battaglia europei: la fanteria era rapida nei movimenti e animata dal consueto spirito offensivo, la cavalleria era preparata e guidata da comandanti particolarmente esperti e aggressivi, l'artiglieria, organizzata secondo il sistema Gribeauval, era considerata ancora la migliore del mondo; i cannonieri erano addestrati a sparare velocemente e con precisione.
Ogni singolo corpo d'armata era ben equilibrato, con contingenti di fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, servizi sanitari, addetti ai rifornimenti e un proprio quartier generale. Come capo di stato maggiore dell'Armée du Nord fu designato il maresciallo Nicolas Jean-de-Dieu Soult, un esperto e capace comandante sul campo non molto idoneo a compiti organizzativi; egli in effetti durante la campagna commise alcuni errori. L'armamento non era dei migliori e, come nel passato, anche nel 1815 l'organizzazione dei rifornimenti si rivelò inadeguata. Le strategie operative dell'Imperatore erano ormai ben conosciute dai generali alleati: in caso di superiorità numerica Napoleone in generale preferiva ampie manovre di aggiramento mentre, in caso di inferiorità numerica, egli adottava la cosiddetta "strategia delle posizione centrale". Nonostante le esperienze precedenti, peraltro, Wellington e Blücher furono sorpresi dalla rapidità e dalla potenza dell'attacco iniziale francese a nord della Sambre e la "strategia della posizione centrale" di Napoleone raggiunse in un primo momento vantaggi apparentemente decisivi che sembravano preludere a un disastro per i coalizzati.
Napoleone durante la breve campagna dimostrò in effetti ancora una volta la sua superiore abilità strategica; la sua salute tuttavia non era eccellente e in alcune occasioni egli avrebbe mostrato minore risolutezza e fiducia del passato. In generale l'Imperatore non temeva i suoi avversari; riteneva Wellington lento e passivo, troppo prudente ed egoista, mentre considerava Blücher eccessivamente avventato, ottuso e mediocre tattico; in complesso Napoleone aveva maggiore considerazione per i prussiani che per i britannici.
Lo spiegamento sul terreno dell'esercito napoleonico era più semplice di quello adottato da Wellington. A ovest della strada per Bruxelles, col fianco destro non troppo distante da La Belle Alliance, si trovava il II Corpo del generale di divisione Honoré Charles Reille a formare un lungo arco concavo attorno Hougoumont, oltrepassando a ovest la strada per Nivelles.

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Generale Honoré-Charles-Michel-Joseph Reille. Nel settembre 1809 fu nominato comandante del I Corpo d'armata dell'Armata del Nord e di Spagna

All'estrema sinistra venne messa la divisione di cavalleria di Hippolyte Piré a cui si affiancavano, da ovest a est, le tre divisioni di fanteria di Girolamo Bonaparte, Maximilien Sébastien Foy e Gilbert Desiree Joseph Bachelu, mentre la divisione di Jean-Baptiste Girard, indebolita a Ligny, rimase indietro.

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Generale Jean-Baptiste Drouet d'Erlon. Il suo corpo d'armata fu incaricato di condurre l'attacco principale a Waterloo il 18 giugno, senza successo; compì prodigi di valore.

Andando verso est da La Belle Alliance si incontravano le quattro divisioni di fanteria del I Corpo del generale Jean-Baptiste Drouet d'Erlon, guidate rispettivamente da Joachim Jérôme Quiot du Passage, François-Xavier Donzelot, Pierre-Louis Binet de Marcognet e Pierre François Joseph Durutte; gli undici squadroni di cavalleria del corpo d'armata si trovavano all'estrema destra, di fronte a La Haie e Frischermont, agli ordini di Charles-Claude Jaquinot. Questi due corpi d'armata andarono a costituire la prima linea dell'esercito francese, protette da uno schermo di cavalleria leggera.

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Generale Charles-Claude Jaquinot. Comandante a Waterloo del Corpo d'armata di cavalleria.

In seconda linea si trovava tutta la cavalleria di riserva: il generale François Étienne Kellermann con il suo III Corpo di cavalleria dietro Reille, a loro volta seguite dalla Divisione di cavalleria della Guardia di Claude-Étienne Guyot; allo stesso modo le spalle di d'Erlon erano guardate dal IV Corpo di cavalleria del generale Édouard Jean-Baptiste Milhaud, seguito dalla Divisione di cavalleria leggera della Guardia comandata da Charles Lefebvre-Desnouettes.
Napoleone dispose la riserva in colonna, in posizione centrale ai due lati della strada per Bruxelles: a est la cavalleria di Jean-Simon Domon, distaccata dal III Corpo che si trovava con Grouchy nei pressi di Wavre, e Jacques Gervais Subervie, distaccata dal I Corpo di cavalleria; a ovest le divisioni di fanteria di Francois-Martin-Valentin Simmer e Jean-Baptiste Jeanin del VI Corpo del generale Mouton, conte di Lobau. Infine c'era in terza linea la Guardia imperiale al comando del generale Antoine Drouot disposta a ranghi serrati.
Napoleone aveva mostrato forte nervosismo durante le ultime ore della notte soprattutto per il persistere della pioggia che sembrava rendere difficoltoso l'impiego dell'artiglieria; alcuni ufficiali affermarono che sarebbe stato impossibile iniziare la battaglia al mattino; l'imperatore tuttavia era risoluto a combattere e passò il tempo studiando accuratamente le mappe e predisponendo lo schieramento tattico del suo esercito. Alle ore 5:00 inviò un ordine al maresciallo Soult in cui disponeva che l'esercito fosse pronto alla battaglia per le ore 9:00. La situazione climatica migliorò poco dopo le ore 8:00; la pioggia cessò e il sole iniziò ad asciugare e consolidare il terreno; Napoleone fu sollevato dall'apprendere che gli ufficiali d'artiglieria ritenevano ora possibile manovrare le loro batterie. Napoleone, vecchio ufficiale d'artiglieria, faceva grande conto sull'apporto decisivo dei suoi cannoni, nettamente più numerosi di quelli dell'avversario, per frantumare progressivamente le linee britanniche.

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Generale Georges Mouton conte di Lobau. Capo del VI Corpo d'armata a Waterloo

Alle 08:00 lo Stato maggiore francese si riunì con Napoleone a Le Caillou, per le disposizioni relative all'imminente battaglia. L'imperatore apparve molto ottimista, affermò che le probabilità erano tutte a suo favore e che i britannici ormai, a differenza di quel che pensava il maresciallo Ney, che ipotizzava una nuova ritirata del nemico, non potevano più sfuggirgli. Wellington "aveva gettato i dadi". Il maresciallo Soult invece si mostrò preoccupato: egli temeva la solidità difensiva delle truppe britanniche e consigliò di richiamare subito almeno una parte delle forze del maresciallo Grouchy; Napoleone derise i timori di Soult e confermò la sua piena fiducia nella vittoria. Subito dopo l'imperatore reagì con irritazione anche alle valutazioni espresse dal generale Reille che consigliava di evitare attacchi frontali e manovrare per sloggiare i britannici dalle loro posizioni; è possibile che Napoleone esprimesse in pubblico grande sicurezza anche per non scoraggiare i suoi subordinati e sostenerne il morale.

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Generale François Gédéon Bailly de Monthion. Capo di stato maggiore generale a Waterloo.

Alle ore 10:00 Napoleone inviò da Le Caillou una lettera a Grouchy; egli non sembrava preoccupato e confermava in pratica gli ordini per il suo maresciallo; l'imperatore non richiedeva il suo ritorno sul campo di battaglia principale e invece incaricava Grouchy di inseguire da vicino i prussiani che sembravano essere in ritirata a nord verso Wavre. Napoleone non sospettava affatto una manovra del nemico da Wavre contro il suo fianco destro e quindi riteneva che sarebbe bastata la pressione diretta delle truppe di Grouchy per neutralizzare i prussiani; egli tuttavia richiedeva anche che Grouchy manovrasse in modo da avvicinarsi a lui.
Subito dopo Napoleone si portò con i suoi ufficiali sulla linea del fuoco per ispezionare ancora una volta il terreno e passare in rivista il suo schieramento; egli era accompagnato da un contadino del posto, De Coster, che era stato costretto a fornire informazioni; le truppe accolsero con frenetiche manifestazioni di entusiasmo l'arrivo dell'imperatore sul campo di battaglia. Dopo aver esaltato i soldati con la sua presenza, Napoleone ritornò indietro e si sistemò vicino alla fattoria di Rossomme, lasciando il maresciallo Ney sul posto.

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Generale Charles-Étienne-François de Ruty. Comandante in capo dell'artiglieria a Waterloo

Il piano di battaglia venne dettato poco dopo le 11:00 e prevedeva un attacco diversivo sull'ala destra britannica e un attacco principale al centro, preceduto dal fuoco di un grande raggruppamento di artiglieria con i cannoni da 12 libbre del II e VI Corpo uniti a quelli del I Corpo, per sfondare le linee nemiche e occupare rapidamente Mont-Saint-Jean; in questo modo Napoleone avrebbe frantumato il fronte nemico e raggiunto risultati decisivi. L'Imperatore quindi non tenne in alcun conto gli avvertimenti di Soult e Reille; trascurò di effettuare complesse manovre contro l'ala destra nemica e rinunciò anche ad aggirare l'ala sinistra britannica che era debole e priva di copertura sul fianco. Questa strategia semplice e brutale è stata criticata dallo storico britannico David Chandler; l'autore ritiene sorprendente anche la sua decisione di affidare il controllo diretto dell'attacco al maresciallo Ney, nonostante i gravi errori commessi da quest'ultimo nei giorni precedenti; Chandler ritiene che forse l'imperatore si aspettasse il riscatto dell'aggressivo maresciallo. Secondo gli storici francesi invece, Napoleone scelse il piano dell'attacco al centro soprattutto per motivi strategici: un aggiramento sulla sinistra britannica avrebbe indotto Wellington a ripiegare verso la costa, mentre un aggiramento sulla destra avrebbe favorito il congiungimento dei due eserciti nemici; l'imperatore aveva invece bisogno di una vittoria immediata e decisiva.
Alzatosi alle 06:00 anche Wellington si portò in prima linea per ispezionare le truppe. Verso le 11:00 stabilì il quartier generale presso un olmo isolato all'angolo sud-occidentale del crocevia sulla cresta di Mont-Saint-Jean. Forse per avere una via per ripiegare a occidente, forse perché sicuro dell'aiuto dei prussiani, Wellington non richiamò i 17.000 uomini del principe Federico. I prussiani nel frattempo si trovavano a una decina di chilometri di distanza, ritardati dal fango, presso Chapelle-Saint-Lambert.
Mentre Grouchy stava facendo colazione davanti Wavre, verso le 11:30 le prime salve d'artiglieria francese diedero inizio alla battaglia di Waterloo. L'ora esatta dell'inizio della battaglia è incerta: nella sua relazione finale, Wellington scrisse che erano «all'incirca le 10»; il capitano F. Powell di un reggimento della Guardia riferì nel 1834 allo storico William Siborne che «il primo colpo di cannone fu sparato alle 10:45 (secondo il mio orologio)». In base ad altre testimonianze e all'analisi di vari documenti, tuttavia, gran parte degli storici ritiene che il cannone sparò per la prima volta alle 11,30

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Mappa riassuntiva della battaglia. Le unità di Napoleone sono in blu, quelle di Wellington e dei suoi alleati tedesco-olandesi in rosso e quelle prussiane di Blücher in bianco (I e IV Corpo d'armata)

Ufficiali dell'armata edi Napoleone
Comandante supremo: Napoleone Bonaparte
Gran Maresciallo di Palazzo: generale Henri Gatien Bertrand
Aiutanti di campo: generali Charles de la Bédoyère, Lebrun, Drouot, Corbineau, de Flahaut, Dejean, Bernard
Capo di stato maggiore: maresciallo Nicolas Soult
Capo dello stato maggiore generale: generale François Gédéon Bailly de Monthion
Comandante dell'artiglieria: generale Charles-Étienne-François Ruty
Comandante dell'ala sinistra dell'armata: maresciallo Michel Ney (ai suoi molti errori è in parte dovuta la sconfitta).
Guardia Imperiale
Comandante: generale Antoine Drouot
I Corpo d'armata
Comandante: generale Jean-Baptiste Drouet d'Erlon
II Corpo d'armata
Comandante: generale Honoré Charles Reille
VI Corpo d'armata
Comandante: generale Georges Mouton conte di Lobau
Riserva
III Corpo
Comandante: generale François Étienne Kellermann
IV Corpo
Comandante: generale Édouard Jean-Baptiste Milhaud

Udito il cannone sparare, il generale Reille diede il via all'attacco contro il castello di Hougoumont. Napoleone non aveva diramato istruzioni dettagliate a Reille; in pratica il compito iniziale del II corpo era solo quello di occupare il bosco e il castello; i francesi non erano sicuri che la zona fosse difesa e mancavano di informazioni precise. Fu quindi ordinato alla 6ª Divisione di Girolamo Bonaparte di mandare avanti quattro reggimenti, supportati dalla cavalleria di Piré. Le truppe di Nassau e di Hannover nascoste nel bosco del castello respinsero due volte i francesi, ma alla fine furono costrette a indietreggiare fino al frutteto e agli edifici del castello. Avanzando sotto una pioggia di fuoco, i soldati francesi iniziarono uno scontro violentissimo con gli avversari. Anziché consolidare le posizioni come gli era stato ordinato, Girolamo Bonaparte si fece trascinare dai combattimenti e inviò nella mischia, uno dopo l'altro, tutti i suoi reggimenti che tuttavia, nonostante i ripetuti assalti, riuscirono solamente a conquistare parte del frutteto al prezzo di forti perdite.
I francesi fecero qualche temporaneo progresso a nord del castello, dove entrò in azione il 1º Reggimento leggero della brigata del generale Soye: guidati dall'imponente sottotenente Legros (chiamato l'Enfonceur, "lo sfondatore", perché brandiva una grande scure), una decina di francesi irruppero nel cortile di Hougoumont dopo che Legros ebbe distrutto a colpi d'ascia il portone del muro settentrionale, ma il successo fu di breve durata perché nella furibonda mischia che ne seguì i difensori, guidati dall'abile e aggressivo tenente colonnello James Macdonnell, richiusero il portone e uccisero tutti i francesi rimasti intrappolati all'interno; si salvò soltanto un tamburino, fatto prigioniero. Il sottotenente Legros si difese strenuamente da solo; ripetutamente ferito, riuscì a raggiungere la cappella all'interno del cortile dove, dopo una disperata resistenza, fu ucciso da un colpo di fucile. Il sopraggiungere di quattro compagnie di rinforzo e delle Coldstream Guards respinse del tutto i francesi dal muro settentrionale del castello.
Per le truppe napoleoniche, quello che doveva essere un attacco secondario aveva finito per coinvolgere, per colpa degli sconsiderati attacchi ordinati da Girolamo Bonaparte, tutta la 6ª e parte della 9ª Divisione del generale Foy. Per contro, Wellington fece arrivare a Hougoumont tutta la brigata di Guardie del generale Byng, arrivate percorrendo un avvallamento parzialmente nascosto del terreno che univa Hougoumont alla principale linea alleata.
Solo alle 15:30 Napoleone intervenne di persona ordinando un pesante bombardamento del castello, che comunque non cadde mai in mano francese. I combattimenti a Hougoumont erano ancora in corso dopo le 20:00, quando sul fronte principale la Guardia imperiale era già stata battuta. Circa 13.000 francesi erano stati bloccati e respinti dalle 2.000 guardie di Byng e da qualche centinaio di soldati di Nassau e di Hannover, che giustamente meritarono gli elogi di Wellington. Le perdite furono elevate da ambo le parti. La mancata presa di Hougoumont non solo impegnò una gran quantità di soldati francesi, ma impedì in seguito anche l'impiego in massa della cavalleria pesante napoleonica.

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Generale Claude-Étienne Michel; perì a Waterloo

Mentre a Hougoumont si era nel pieno dei combattimenti e d'Erlon doveva ancora iniziare l'attacco, intorno alle 12:00 gli ufficiali dello stato maggiore francese avvistarono tra la vegetazione a nord-est, in direzione di Chapelle-Saint-Lambert, dei movimenti di truppe non identificate. Napoleone apparve nervoso e dubbioso; egli inviò in quella direzione il generale Bernard per raccogliere informazioni; poco dopo l'aiutante di campo ritornò con pessime notizie: si trattava di truppe prussiane in avvicinamento appartenenti al IV corpo d'armata; l'informazione venne confermata dalla cattura di un prigioniero del 2º Reggimento ussari slesiani da parte di una pattuglia del 7º Reggimento ussari vicino Frischermont.
Effettivamente fin dalle ore 07:00 del 18 giugno, il feldmaresciallo Blücher aveva messo in movimento da Wavre il IV corpo del generale Bülow con l'ordine di raggiungere Chapelle-Saint-Lambert dove avrebbe dovuto fermarsi e raggrupparsi in attesa di nuove disposizioni; in caso di battaglia in corso a Mont-Sain-Jean, Bülow avrebbe dovuto attaccare il fianco destro francese. Blücher prevedeva di inviare subito dopo a Chapelle-Saint-Lambert anche il II corpo d'armata del generale Georg Dubislav Ludwig von Pirch; ansioso di prendere parte personalmente alla battaglia, il comandante in capo prussiano lasciò il generale von Gneisenau a Wavre e alle ore 11:00, nonostante le precarie condizioni di salute, partì con il suo stato maggiore verso Chapelle-Saint-Lambert per assumere il comando diretto delle truppe. Blücher avrebbe ricordato in seguito il suo ardente desiderio di combattere: "Malgrado tutto le sofferenze per la mia caduta [a Ligny]…mi sarei fatto legare al mio cavallo piuttosto che mancare alla battaglia".
A dispetto delle inquietanti notizie, Napoleone si mostrò ancora convinto di poter concludere vittoriosamente la giornata. Gli squadroni dei generali Domon e Subervie e il VI Corpo di Lobau vennero spostati a nord-est; in tal modo la metà delle riserve napoleoniche dovette essere impegnata ancora prima dell'inizio della battaglia per contrastare una possibile manovra sul fianco destro. Il maresciallo Soult scrisse a Grouchy una lettera che venne inviata poco prima delle ore 14:00; nella missiva il maresciallo si espresse in modo contraddittorio approvando i movimenti di Grouchy in direzione di Wavre ma affermando in un post scriptum che c'erano notizie della presenza di forze prussiane sul fianco destro dell'imperatore e che quindi Grouchy avrebbe dovuto anche "manovrare per raggiungere la nostra destra". Questo messaggio, peraltro poco chiaro, giunse al destinatario solamente dopo le 17:00, quando ormai era troppo tardi per fermare i prussiani. Senza ulteriori ordini, quindi, e dopo un alterco con il comandante del IV Corpo generale di divisione Étienne Maurice Gérard che voleva riunirsi a Napoleone, Grouchy si attenne alle disposizioni originarie di muovere verso Wavre, lasciando cadere definitivamente l'opportunità di intercettare i prussiani, cosa che in teoria sarebbe stata possibile se le sue truppe avessero iniziato l'inseguimento prima di mezzogiorno. Il generale Emmanuel de Grouchy da molti storici è indicato come uno dei responsabili della sconfitta, ma occorre dire che gli ordini ricevuti non furono mai chiari.
Napoleone quindi, nonostante il crescente pericolo di essere attaccato sul fianco dai prussiani, decise di continuare la battaglia; egli avrebbe potuto verosimilmente ripiegare senza difficoltà, ricongiungersi con Grouchy e studiare un nuovo piano di campagna; l'imperatore invece non prese affatto in considerazione questa possibilità e apparve determinato a battersi e vincere sul campo di Mont-Saint-Jean. Secondo gli storici francesi Henri Lachouque e Robert Margerit, Napoleone temeva le conseguenze politiche in Francia della notizia di una sua ritirata; preoccupato di sostenere il morale delle sue truppe e dei suoi simpatizzanti, egli ritenne indispensabile ottenere subito una schiacciante vittoria sui suoi nemici.
L'attacco principale francese procedette secondo i piani iniziali. A est della strada per Bruxelles, sulla cresta di Belle-Alliance, Napoleone fece entrare in azione la cosiddetta Grande batteria d'artiglieria; le batterie da 12 libbre del I, II e VI corpo, le batterie da 8 libbre del I corpo, e tre batterie della Guardia, per un totale di ottanta cannoni, aprirono il fuoco con un ritmo di 2-3 colpi al minuto per pezzo. Napoleone era sempre stato convinto dell'importanza di concentrare il fuoco di molte batterie nel settore dell'attacco per ottenere risultati decisivi e abbattere il morale dell'avversario. I generali Ruty e Desales schierarono i loro cannoni allo scoperto sul declivio e tra le ore 12 e le ore 13 aprirono il fuoco; i cannoni sparavano, su un fronte di circa due chilometri, 120 colpi al minuto in totale, con una media di un colpo al minuto ogni venti metri.
Il fuoco dell'artiglieria francese creò una cappa di fumo stagnante sulla piana ma non ottenne risultati decisivi: schierati a 1.100-1.400 metri dalle posizioni britanniche, i cannoni erano troppo lontani per poter colpire con efficacia le riserve del nemico. Subirono perdite l'artiglieria e i reparti esposti di Wellington, in particolare i fanti belgi e olandesi della brigata Bylandt, ma il grosso dell'esercito alleato era al riparo dietro la cresta del colle e non venne pesantemente colpito, considerato anche che il terreno ancora umido evitò il rimbalzo dei colpi che invece sprofondarono nel fango. In quel periodo era molto utilizzata la tecnica del "tiro di rimbalzo" o ricochet: le palle erano sparate in modo che non si conficcassero nel terreno, ma rimbalzassero diverse volte tra le linee nemiche, moltiplicando l'effetto devastante della cannonata.
Alle 13:30 i circa 14.000 francesi del I Corpo d'armata cominciarono a muovere in avanti, preceduti da una rete di tirailleurs; il generale d'Erlon aveva concentrato al massimo le sue forze, raggruppando in una formazione compatta ventotto battaglioni. I soldati francesi del I Corpo avevano il morale molto alto e, dopo aver mancato di partecipare alla battaglia di Ligny per gli errori dei generali, erano animati da forte spirito offensivo. La formazione tattica che venne effettivamente adottata dal I Corpo d'armata per l'attacco non è del tutto chiara: secondo David Chandler le divisioni, invece di disporsi in "colonne di divisione per battaglione" (una formazione flessibile con una prima linea di circa settecento uomini) si schierarono in "colonne di battaglione per divisione" (una formazione con duecento uomini in prima linea e molto profonda, molto limitante dal punto di vista tattico). Anche Henry Houssaye critica la formazione adottata apparentemente su iniziativa di d'Erlon o di Ney: lo storico francese afferma che le divisioni si schierarono in colonne di battaglione serrati e ammassati; Alessandro Barbero infine afferma che i francesi si schierarono con i battaglioni uno dietro l'altro ma disposti in formazione in linea invece che in colonna per assicurare una maggiore potenza di fuoco.
Alla sinistra degli attaccanti, la divisione di Quiot si allargò attorno alla fattoria de La Haye Sainte, dove era schierato un battaglione di fanteria leggera tedesco della King's German Legion al comando del maggiore Baring. Tre compagnie erano appostate nel frutteto, due nell'edificio e una in un orto vicino alla fattoria. Il maresciallo Ney trascurò di impiegare l'artiglieria per smantellare l'edificio e l'attacco della fanteria francese incontrò una tenace resistenza da parte dei soldati tedeschi. Gli uomini della King's German Legion nel frutteto e nel giardino furono alla fine sopraffatti dai soldati francesi della brigata Quiot ma il primo attacco all'edificio si concluse con un fallimento; alcuni reparti di rinforzo inviati dalle brigate di Ompteda e Kielmansegge furono respinte dal tempestivo intervento dei corazzieri del generale Travers.
Fu momentaneamente conquistata anche la cava di ghiaia, ritornata presto in mano alleata grazie al pronto intervento della brigata del generale Kempt; un reggimento francese che tentava di aggirare la posizione di La Haye Sainte passando dall'orto subì a sua volta forti perdite. Mentre erano in corso i combattimenti a La Haye Sainte, le altre tre divisioni francesi avanzarono in massa, nonostante le perdite causate dal fuoco dell'artiglieria e della fanteria anglo-alleata, e attaccarono la prima linea nemica costituita dalla debole brigata belga-olandese Bylandt che venne rapidamente sbaragliata dai reparti di Donzelot e Marcognet e ripiegò in disordine oltre la cresta; l'assalto francese sembrava procedere con successo: sulla destra la divisione Durutte conquistò la fattoria di Papelotte, respinse la fanteria leggera di Nassau e attaccò gli hannoveriani della brigata Best.
I francesi raggiunsero la cresta e oltrepassarono la siepe che bordeggiava la strada infossata dello chemin d'Ohain mentre gran parte della brigata Bylandt si disgregava; il generale Thomas Picton per evitare uno sfondamento decise di fare intervenire le due brigate britanniche Kempt e Pack, che erano schierate in seconda linea con i soldati sdraiati a terra al riparo dal fuoco d'artiglieria. Queste due formazioni si schierarono in linea e aprirono il fuoco di fila contro le masse compatte della fanteria francese delle divisioni Marcognet e Donzelot, che subirono forti perdite ma ben presto, dopo un momento di sbandamento, si spiegarono e risposero al fuoco con efficacia. Il generale Picton ordinò ai suoi soldati di caricare ma fu ucciso quasi subito, colpito da un proiettile alla testa, e i famosi reggimenti scozzesi della brigata Pack furono ben presto fermati e attaccati dalla fanteria francese di Marcognet, che riprese a guadagnare terreno oltre la strada infossata. La situazione del settore centrale delle linee di Wellington intorno alla ore 14:00 divenne molto critica.
I generali alleati Pack e Best erano in grave difficoltà di fronte all'attacco del corpo d'armata di d'Erlon, ma proprio In questa fase cruciale, Lord Uxbridge ordinò tempestivamente alle due brigate di cavalleria pesante di dare supporto alla fanteria in difficoltà; si trattava della 1ª Brigata, conosciuta come Household Brigade, comandata dal maggior generale lord Edward Somerset e della 2ª Brigata, conosciuta come Union Brigade, comandata dal maggior generale sir William Ponsonby e così chiamata perché era composta da un reggimento misto di inglesi, scozzesi (i famosi Scots Greys) e irlandesi. Le due brigate erano costituite da circa 2.000 cavalieri, montati su ottime cavalcature, superiori a quelle degli altri eserciti europei; si trattava di reparti combattivi e ben equipaggiati ma privi di esperienza, non molto addestrati e guidati da ufficiali entusiasti ma scarsamente preparati dal punto di vista tattico.
Lord Uxbridge decise di guidare personalmente l'attacco e quindi perse ogni possibilità di coordinare le operazioni: egli, dopo la battaglia, rimpianse apertamente di aver caricato alla testa dei suoi uomini, dicendo «Commisi un grave errore». La Household Brigade superò le posizioni della fanteria alleata e caricò giù dalla collina attaccando in un primo momento da due direzioni i corazzieri della brigata Travers, che coprivano il fianco sinistro del I Corpo; i cavalieri francesi si trovarono stretti tra i dragoni britannici e la strada infossata dello Chemin d'Ohain e cercarono di sfuggire deviando a destra verso la strada maestra di Bruxelles.
I corazzieri francesi, inseguiti e attaccati dalla cavalleria britannica, finirono in gran numero nella profonda scarpata della strada maestra che correva incassata e subirono perdite rovinose; i superstiti cercarono di contrattaccare ma alla fine si ritirarono verso sud-ovest mentre i dragoni britannici continuavano la carica. In questa occasione rimase ucciso il caporale John Shaw, il più famoso pugile della Gran Bretagna, raggiunto da un colpo di carabina di un corazziere francese. L'episodio della rovinosa caduta dei corazzieri nella scarpata della strada maestra ha probabilmente ispirato la celebre narrazione fittizia dello scrittore Victor Hugo della carica della cavalleria pesante francese contenuta nell'opera I Miserabili.
L'attacco degli squadroni britannici contro la fanteria del I Corpo d'armata ebbe effetti devastanti: le truppe francesi, colte allo scoperto, non riuscirono a organizzare la resistenza e vennero in gran parte disperse; i soldati fuggirono in rotta e subirono gravi perdite perdendo tutto il terreno guadagnato sulla cresta di Mont-Saint-Jean; vennero catturati numerosi prigionieri. La Household Brigade attaccò e sbaragliò la brigata Aulard della divisione Quiot; subito dopo tuttavia Lord Uxbridge perse il controllo dei suoi reparti e i cavalieri britannici continuarono incautamente la carica. Fermati a valle dalla brigata francese Schmitz, che era riuscita a disporsi in quadrati difensivi, i dragoni subirono anche sul fianco il fuoco della fanteria della divisione Bachelu del II Corpo d'armata, schierata a ovest della strada maestra.
I tre reggimenti della Union Brigade invece scompigliarono e disgregarono le quattro brigate delle divisioni Donzelot e Marcognet. Gli Scots Greys in particolare vennero in aiuto agli scozzesi della brigata Pack e distrussero le brigate Grenier e Nogues; vennero catturate le aquile del 105º Reggimento di linea e del 45º Reggimento di linea. L'aquila del 105º reggimento venne conquistata dal capitano Clark del 1° Dragoni, mentre il sergente Ewart degli Scots Greys si impossessò dell'aquila del 45º Reggimento. La fanteria delle brigate Kempt, Pack e Bylandt sfruttò la situazione e riconquistò il terreno perduto, rastrellando e catturando i soldati francesi dispersi. La divisione di Durutte invece, schierata all'estrema destra del fronte di Napoleone, venne attaccata dai dragoni della brigata britannica di Vandeleur e della brigata belga-olandese di Ghigny ma, dopo un momento critico iniziale, riuscì a formare i quadrati ed evitò una disastrosa sconfitta; dovette tuttavia ripiegare a sud della strada infossata.
Dopo il brillante successo contro la fanteria francese la Union Brigade tuttavia esaurì le sue forze continuando l'attacco in direzione dello schieramento di cannoni della Grande batterie; il comandante degli Scots Greys, colonnello James Hamilton, guidò personalmente i suoi uomini contro l'artiglieria francese. I dragoni britannici raggiunsero le batterie da 12 e da 6 pollici, scatenarono il panico tra gli artiglieri e misero temporaneamente fuori uso alcune decine di cannoni, ma i loro successi furono solo momentanei. Gli Scots Greys dovettero ben presto abbandonare le posizioni raggiunte e gran parte dei cannoni furono rimessi in funzione dai francesi; inoltre la cavalleria, esausta e disorganizzata, dovette subire il contrattacco della cavalleria napoleonica.
Per fronteggiare la minaccia della cavalleria nemica, Napoleone ordinò un pronto contrattacco con le due brigate di corazzieri della divisione di cavalleria pesante del generale Jean-François Delort de Gléon e con i temibili lancieri della divisione del generale Charles Claude Jacquinot. Due reggimenti di lancieri, al comando del colonnello Martigues e del colonnello Louis Bro, colpirono sul fianco gli Scots Greys con pieno successo, dimostrando la loro netta superiorità di armamento; gli Scots Greys vennero distrutti; il colonnello Hamilton venne ucciso insieme alla maggior parte dei suoi uomini. La Union Brigade perse anche il comandante William Ponsonby che, intralciato dal terreno fangoso, venne raggiunto e disarcionato dal sottufficiale francese Urban del 4° lancieri e quindi ucciso con un colpo di lancia al petto. Il colonnello Bro prestò aiuto anche ai soldati della divisione Durutte facilitando il loro disimpegno e attaccando i dragoni di Vandeleur. Contemporaneamente, i corazzieri della brigata Farine contribuirono alla distruzione degli Scots Greys e soprattutto inseguirono e attaccarono le altre formazioni della cavalleria britannica che, stanche e disorganizzate, subirono perdite elevatissime durante il ripiegamento; secondo il generale Milhaud i dragoni britannici vennero decimati, con «più di 800 dragoni morti».
Per affrontare il contrattacco francese, i britannici impiegarono i dragoni di Vandeleur, che tuttavia subirono pesanti perdite contro i lancieri di Bro, e la cavalleria dei Paesi Bassi del generale de Collaert; questi reparti, gli ussari del barone de Ghighy e i carabinieri del generale Trip van Zoudtlandt, si dimostrarono efficienti e combattivi riuscendo a respingere la cavalleria francese e facilitando la ritirata dei cavalieri britannici superstiti. La cavalleria pesante britannica uscì molto indebolita dopo questa fase della battaglia e non poté svolgere più un ruolo importante nel corso dei combattimenti successivi; tuttavia i reparti di cavalleria leggera anglo-alleati continuarono ad operare con efficacia, fornendo prezioso supporto alla fanteria nelle dure fasi finali dello scontro.
Nonostante le perdite subite, tuttavia l'azione della cavalleria pesante britannica ebbe grande importanza e permise di respingere l'attacco iniziale del corpo d'armata di d'Erlon che sembrava avere successo. Fu soprattutto grazie all'intervento della cavalleria britannica che questa mossa di Napoleone si risolse in un fallimento; la fanteria francese si disgregò e il I corpo d'armata perse circa 5.000 uomini, tra cui 2.000-3.000 prigionieri, e sedici cannoni, i britannici inoltre guadagnarono tempo prezioso in attesa dell'arrivo dei prussiani. L'opinione degli storici è dunque piuttosto favorevole, poiché «nel complesso l'azione ebbe un successo sbalorditivo e con ogni probabilità salvò Wellington dalla sconfitta».
Terminata la drammatica fase della carica della cavalleria alleata, verso le 15:00 i combattimenti calarono temporaneamente d'intensità, eccetto che a Hougoumont e a La Haye Sainte. Napoleone aveva appena ricevuto un messaggio di Grouchy, scritto alle 11:30; l'imperatore comprese da questa missiva che il maresciallo stava marciando molto lentamente, non si preoccupava di avvicinarsi a lui e contava di entrare in campo solo il giorno seguente. Nonostante queste pessime notizie, Napoleone non desistette; ritenendo che se avesse interrotto la battaglia in corso, la sua situazione non avrebbe potuto che peggiorare, egli sperava ancora di riuscire a battere Wellington prima dell'arrivo in forze dei prussiani. L'imperatore diede ordine al maresciallo Ney di sferrare un nuovo attacco contro La Haye Sainte; egli considerava essenziale conquistare quel caposaldo da cui intendeva lanciare l'attacco finale con i reparti di Reille e d'Erlon, rafforzati con la Guardia imperiale. Il maresciallo Ney quindi attaccò la fattoria difesa dai battaglioni della fanteria leggera tedesca della King's German Legion, con una brigata del generale Joachim Jérôme Quiot du Passage; contemporaneamente i cacciatori di una brigata della divisione di Donzelot tentarono una manovra aggirante a est della strada di Bruxelles. Il maggiore Baring che guidava la difesa de La Haye Sainte aveva ricevuto due compagnie di rinforzo e fu in grado di respingere l'attacco della brigata di Quiot; anche la brigata della divisione di Donzelot fu respinta.
Dopo il fallimento del secondo attacco francese, i combattimenti a La Haye Sainte continuarono senza risultati decisivi. I soldati tedeschi della King's German Legion continuarono a mantenere il controllo della fattoria ma si trovarono progressivamente in sempre maggiore difficoltà per la carenza di munizioni, richieste inutilmente dal maggiore Baring; Wellington si limitò a inviare invece altre due compagnie di rinforzo. Il secondo attacco francese contro il settore de La Haye Sainte fu supportato dal fuoco sempre più sostenuto della Grande batterie contro il centro-sinistra alleato; anche i cannoni del II Corpo erano intervenuti in modo massiccio, rinforzati da alcuni pezzi da 12 libbre della Guardia. In questa fase il tiro dell'artiglieria francese divenne particolarmente efficace e causò forti perdite alle prime linee nemiche; alcuni reparti ripiegarono di cento passi per trovare un maggior riparo. Questi movimenti e le notizie di convogli di feriti e sbandati che rifluivano verso la foresta di Soignes, trassero in inganno il maresciallo Ney che, ritenendo imminente la ritirata generale del nemico, ordinò a una brigata di corazzieri di attaccare subito. Sembra che Napoleone avesse assegnato al maresciallo il controllo dell'intero IV Corpo di cavalleria del generale Milhaud ma senza dargli l'ordine di caricare; l'attacco della cavalleria francese sarebbe stato sferrato su iniziativa di Ney; il maresciallo decise alla fine di impiegare l'intero IV corpo e inoltre riuscì a convincere a partecipare alla carica anche il generale Lefevbre-Desnuettes, comandante di una divisione di cavalleria della Guardia. Secondo Robert Margerit la carica della cavalleria francese avvenne prematuramente soprattutto per la disorganizzazione del comando e per una serie di equivoci: verosimilmente Ney era convinto che l'imperatore approvasse la sua iniziativa.
In realtà il Duca di Wellington non aveva affatto intenzione di ritirarsi, ma al contrario predispose accuratamente le sue truppe per affrontare la cavalleria francese: venti battaglioni vennero schierati in quadrati disposti a scacchiera su due linee sulla contropendenza della cresta di Mont-Saint-Jean. Ogni quadrato era organizzato su tre ranghi, con i soldati della prima fila con il ginocchio a terra e le baionette in posizione; davanti ai quadrati le batterie britanniche continuarono a fare fuoco fino all'ultimo momento; quindi gli artiglieri ripiegarono all'interno delle linee abbandonando temporaneamente i cannoni.
La cavalleria di Ney discese il declivio fino a La Haye Sainte dove i cavalieri riorganizzarono la formazione, quindi riprese l'avanzata risalendo il pendio: in prima linea i corazzieri, seguiti dai cacciatori e infine i lancieri della Guardia. L'attacco della cavalleria francese venne condotto, sotto il fuoco dell'artiglieria britannica, a "un trotto abbastanza lento", e venne intralciato dal terreno ancora melmoso. Nonostante le perdite, i cavalieri francesi superarono le batterie nemiche che erano state abbandonate dai serventi e attaccarono con grande determinazione i quadrati, ma si trovarono in grande difficoltà. I cavalli, sfiancati dall'avanzata nel fango in salita e privi di spazio per riprendere lo slancio, non furono in grado di superare la linea delle baionette; molti animali furono abbattuti davanti ai quadrati. Lord Uxbridge riunì la cavalleria che gli rimaneva e contrattaccò i francesi, che a loro volta si riorganizzarono e tornarono alla carica. La mischia divenne presto furibonda e le divisioni di cavalleria andarono una dopo l'altra all'attacco, qualcuna addirittura senza ordini precisi; poco dopo le 16:00 tutti i 5.000 cavalieri di Ney erano in azione contro il centro del fronte alleato.
Ney commise l'errore di lanciare l'attacco senza il sostegno della fanteria; migliaia di cavalieri rimasero uccisi sul campo senza conseguire la vittoria decisiva. Per disimpegnare i corazzieri, Napoleone fece entrare in azione gli squadroni di cavalleria di Kellermann, gli unici ancora disponibili; verso le 17:00 i dragoni e i carabinieri si unirono con i corazzieri superstiti e ripresero gli attacchi contro i quadrati britannici. L'attacco, condotto da 2.000 cavalieri, venne sferrato in formazione molto serrata su un fronte ristretto; gli ostinati assalti si susseguirono nonostante le perdite e la grande confusione; alcune formazioni britanniche subirono fino a tredici cariche. Nonostante l'impegno e il coraggio dei francesi, i fanti di Wellington conservarono la coesione e la disciplina e mantennero le posizioni senza retrocedere.
Le truppe britanniche uscirono tuttavia estremamente provate dalle ripetute, accanite cariche della cavalleria francese; soprattutto i corazzieri impressionarono i soldati britannici con la loro disperata combattività. La cavalleria pesante francese riuscì a conquistare sei bandiere al nemico e alcuni reparti raggiunsero temporaneamente le retrovie dell'esercito alleato. Secondo Victor Hugo, dopo la battaglia il cadavere di un corazziere francese fu trovato all'interno dell'abitato di Mont-Saint-Jean. Alcuni quadrati dell'esercito alleato effettivamente si disgregarono; il 69º Reggimento e le brigate di Alten e Hackett subirono pesanti perdite; anche molti ufficiali britannici furono feriti.
La fanteria anglo-alleata dovette rimanere quasi costantemente schierata in quadrati per respingere le cariche della cavalleria; all'interno dei quadrati la situazione in alcuni casi divenne drammatica; i reggimenti britannici 40°, 73°, 52°, 33° e i reggimenti hannoveriani e Nassau vennero particolarmente colpiti dal tiro delle batterie. Nel complesso tuttavia le cariche della cavalleria francese si conclusero con un fallimento; i reggimenti di corazzieri e la cavalleria della Guardia non ottennero risultati decisivi e, secondo alcuni storici, in realtà gli attacchi provocarono soprattutto la decimazione dei preziosi reparti francesi che subirono perdite debilitanti, in alcuni casi superiori ai due terzi degli effettivi. Ney, che nel frattempo era stato sbalzato di sella quattro volte, alle 17:30 fece finalmente intervenire gli 8.000 fanti del II Corpo di Reille in sosta attorno Hougoumont, ma questi, giunti dove più infuriava la battaglia, furono decimati dall'artiglieria e dalla fanteria alleate, tanto che persero circa 1.500 uomini in dieci minuti.
Alle ore 18:00 il maresciallo Ney ricevette da Napoleone l'ordine tassativo di conquistare la fattoria de La Haye Sainte «ad ogni costo»; il maresciallo quindi organizzò un nuovo attacco con il 13º Reggimento leggero della divisione di Donzelot e una parte del 1º Reggimento del genio[189]. La resistenza dei tedeschi della King's German Legion fu ancora molto efficace, settanta soldati francesi caddero all'esterno del muro di cinta; alla fine mentre una parte delle truppe cercava di scalare le mura, il gigantesco tenente Vieux dei genieri frantumò a colpi d'ascia la porta d'ingresso e i francesi irruppero all'interno de La Haye Sainte. I tedeschi ripiegarono all'interno degli edifici e continuarono a combattere; alla fine il maggiore Baring riuscì a fuggire dalla fattoria con quarantadue superstiti e tutti gli altri soldati della King's German Legion impegnati nella difesa furono uccisi o catturati dai francesi. I francesi cercarono di sfruttare la favorevole occasione: un reggimento occupò la cava di ghiaia costringendo a ripiegare il 95º Reggimento britannico, mentre i reparti ancora efficienti delle divisioni Quiot, Donzelot e Marcognet fecero progressi dai due lati della fattoria fino al vallone di Ohain. La brigata di Ompteda della King's German Legion, inviata per un contrattacco, si scontrò con i corazzieri francesi che la ricacciarono indietro: un reggimento venne sbaragliato, il suo stendardo cadde in mano francese e il suo comandante venne ucciso. La brigata venne definitivamente distrutta dal fuoco di una batteria di cannoni da 6 pollici che il maresciallo Ney mise in azione personalmente dopo averla schierata a 200 metri dalle linee della fanteria nemica; lo stesso Ompteda cadde mortalmente ferito e la maggior parte dei suoi reggimenti furono decimati.
Fu questa la fase della battaglia più critica per l'esercito di Wellington; numerose batterie dell'artiglieria francese furono portate audacemente in prima linea e, appoggiate anche dall'azione dei reparti di tirailleus, mantennero un fuoco micidiale contro le linee nemiche, infliggendo perdite elevatissime. Il 30º e il 73º Reggimento britannici e il 1º Reggimento Nassau subirono un fuoco distruttivo contro le loro fila e anche i cannoni britannici furono colpiti dalle batterie francesi; il 27º Reggimento (Inniskillings) venne quasi distrutto e subì le perdite più elevate dell'intero esercito alleato; numerosi ufficiali in comando furono uccisi o feriti. Apparentemente le truppe alleate, che pure mantenevano ancora le posizioni sotto il fuoco dei cannoni francesi, non sembravano in grado di resistere ancora a lungo.
Wellington, nervoso e preoccupato, cercò di sostenere il morale dei suoi soldati ma in realtà secondo le sue dichiarazioni successive alla battaglia, in quel momento era pessimista di fronte «al caso più disperato che avesse mai dovuto affrontare». Sembra che nonostante la sua determinazione esteriore, il duca avesse già inviato una serie di messaggi nelle retrovie per preparare la ritirata e l'evacuazione dell'esercito attraverso il porto di Ostenda; egli sul campo di battaglia avrebbe anche pronunciato in questa fase critica la famosa frase in cui invocava «l'arrivo della notte o di Blücher». Alle 18:30 Ney ritenne possibile raggiungere la vittoria finale e mandò subito un colonnello a chiedere a Napoleone di inviare la Guardia imperiale per lo sfondamento decisivo; tuttavia Napoleone, che in quel momento era soprattutto preoccupato per l'arrivo dei prussiani, respinse questa richiesta con la famosa frase: «Delle truppe? Dove dovrei prenderle? Credete che possa fabbricarne?». Sfumò così per i francesi la migliore occasione di vittoria sul fronte settentrionale.
Dopo le ripetute cariche della cavalleria pesante francese e la caduta del caposaldo di La Haye Sainte la battaglia sembrava volgere finalmente a favore di Napoleone, ma in realtà, nonostante i ricordi di alcuni ufficiali britannici che descrissero in termini drammatici la situazione del loro esercito in questa fase, la situazione dei francesi era pericolosa e incerta a causa delle perdite subite e della complessiva e crescente superiorità numerica del nemico grazie al continuo rafforzamento dell'esercito prussiano in arrivo. Il feldmaresciallo Blücher aveva raggiunto le truppe del IV Corpo d'armata di Bülow a Chapelle-Saint-Lambert alle ore 13:00 e aveva diretto con grande energia la marcia d'avvicinamento sollecitando i suoi soldati a «non farmi mancare la parola data al Duca!». Dopo alcune incertezze iniziali, divenne evidente che non c'erano truppe francesi in vista e che l'avanzata poteva procedere senza opposizione in direzione del villaggio di Plancenoit sul fianco dell'esercito nemico; alle ore 16:00 le brigate Losthin e Hiller raggiunsero il bois de Paris. La marcia era stata il più veloce possibile per minimizzare i ritardi accumulati in giornata: un incendio a Wavre, il fango nelle strade, alcuni ingorghi delle colonne in movimento.
Alle ore 16:30, consapevole della necessità di supportare rapidamente Wellington, Blücher diede inizio all'attacco dalle due parti di Plancenoit senza attendere le altre due brigate del IV Corpo. Napoleone aveva inviato per tempo sul suo fianco le divisioni di cavalleria di Domon e Subervie e il VI Corpo di Lobau con l'ordine di formare una nuova linea ad angolo retto rispetto al I Corpo d'armata, ma sembra che i suoi ordini non fossero stati eseguiti correttamente; Lobau e le divisioni di cavalleria infatti non coprirono gli accessi al bois de Paris e si limitarono a schierarsi a protezione di Plancenoit, cedendo subito molto terreno ai prussiani. La superiorità numerica dei prussiani era schiacciante: il corpo d'armata del generale Bülow contava 30.000 uomini con 80 cannoni e dietro si stava avvicinando anche il corpo d'armata del generale von Pirch con altri 20.000 soldati; il generale Lobau disponeva di 8 500 uomini e 16 cannoni. I prussiani attaccarono in direzione del villaggio di Plancenoit ma incontrarono l'accanita resistenza dei reparti del VI Corpo, formati da soldati veterani di molte battaglie; solo con una manovra di aggiramento sulla sinistra, i prussiani guadagnarono terreno; la brigata francese asserragliata nel villaggio alla fine, attaccata da tre direzione dalle brigate Hiller e Ryssel e dalla cavalleria del principe Guglielmo, abbandonò le sue posizioni. L'artiglieria prussiana iniziò a tirare contro la linea di ritirata nemica, alcuni colpi raggiunsero anche le posizioni della Guardia dove si trovava Napoleone. Verso le 17:30 i francesi ripiegarono all'interno del villaggio di Plancenoit dove i combattimenti divennero estremamente accaniti.
Napoleone doveva salvaguardare a ogni costo l'unica possibile via di ritirata; egli quindi fece intervenire la divisione della Giovane Guardia del generale Guillaume Philibert Duhesme sulla destra del VI Corpo del generale Lobau; i soldati della Giovane Guardia avanzarono senza sparare mentre i tamburi battevano la carica; i prussiani aprirono il fuoco dalle loro posizioni dietro le siepi e le mura. Dopo aspri scontri, i francesi riuscirono temporaneamente a stabilizzare la situazione e sloggiarono i prussiani da Plancenoit, ma il maresciallo Blücher concentrò il fuoco dell'artiglieria sulla città e per trenta minuti i soldati della Giovane Guardia subirono il bombardamento nemico; sei battaglioni prussiani attaccarono di nuovo Plancenoit dando inizio a un'altra serie di violentissimi combattimenti. Alle ore 18:30 il VI Corpo diede segni di cedimento e il generale Lobau iniziò a ripiegare sul fianco sinistro dello schieramento francese; alla fine Plancenoit venne occupata per la seconda volta dai prussiani e il generale Duhesme richiese con urgenza a Napoleone rinforzi per riguadagnare le posizioni perdute.
Napoleone ritenne molto critica la situazione del suo fianco destro sotto l'attacco dei prussiani e considerò essenziale riconquistare a tutti i costi Plancenoit; egli decise di ricorrere ad alcuni reparti della Vecchia Guardia e incaricò il generale Charles Antoine Morand di attaccare il villaggio. L'Imperatore parlò alle sue truppe scelte, il 1º Battaglione del 1º Reggimento granatieri e il 1º Battaglione del 2º Reggimento cacciatori, con accenti drammatici affermando che si era «arrivati al momento supremo», che bisognava «affrontare il nemico corpo a corpo» e sbaragliarlo «con la punta delle baionette» rigettandolo «nel vallone […] da dove minaccia l'armata, l'Impero e la Francia».
Il contrattacco dei due battaglioni della Vecchia Guardia venne sferrato sotto il comando del generale Jean-Jacques Germain Pelet-Clozeau: i veterani avanzarono in formazione serrata senza sparare e con le baionette innestate; la carica raggiunse immediato successo. Mentre il generale Duhesme radunava i soldati della Giovane Guardia per partecipare al contrattacco, i battaglioni del generale Pelet entrarono da due direzioni dentro Plancenoit e in venti minuti sbaragliarono i prussiani della brigata Hiller e riconquistarono il villaggio. I soldati della Vecchia Guardia quindi proseguirono l'avanzata per seicento metri e respinsero il nemico fino alle postazioni dell'artiglieria prussiana; la Giovane Guardia prese posizione dentro Plancenoit mentre sul fianco sinistro anche i reparti del VI Corpo del generale Lobau riguadagnarono terreno contro le brigate Hacke e Losthin del corpo d'armata del generale Bülow. Intorno alle 18:45 la situazione sul fianco destro napoleonico si era stabilizzata a favore dei francesi.

pelet

Generale Jean-Jacques Germain Pelet-Clozeau; eroe di Waterloo

Alle ore 19:30 Napoleone, rassicurato dal brillante successo della Vecchia Guardia a Plancenoit che aveva consolidato le posizioni sul fianco destro, ritenne possibile sferrare finalmente un attacco decisivo a Mont-Saint-Jean contro Wellington; in quel momento dal suo quartier generale era udibile il rumore dei cannoni del maresciallo Grouchy. Sembrava che il rombo dell'artiglieria fosse in avvicinamento e che il combattimento fosse in corso circa a due leghe e mezzo sulla destra della Belle-Alliance; questo fatto confortò ulteriormente l'imperatore; sembrava che finalmente Grouchy stesse arrivando sul campo di battaglia principale. La realtà era molto diversa dalle ottimistiche illusioni dei comandanti francesi; il maresciallo Grouchy, impegnato in confusi e inconcludenti combattimenti con le retroguardie prussiane del III corpo d'armata del generale Thielmann nel settore di Wavre, non giunse mai a Mont-Saint-Jean. Intorno alle 16:00, mentre a Waterloo la cavalleria francese stava caricando i quadrati di Wellington, Grouchy aveva inviato il corpo d'armata del generale Gérard verso il mulino di Bierge, poco a sud di Wavre, per passare in quel punto il fiume Dyle, mentre il III Corpo di Vandamme attaccò a Wavre. Entrambe le azioni non ottennero grandi successi contro le retroguardie prussiane e Grouchy, verso le 17:00, deviò parte delle truppe al ponte di Limal, ancora più a sud; alla fine giornata, la situazione era giunta a un punto di stallo. In quel momento Grouchy era ancora ignaro di quello che era successo a Mont-Saint-Jean.
Napoleone decise di attaccare lungo l'intera linea e di impiegare tutta la fanteria superstite. Da Hougoumont a Papelotte, i tirailleurs moltiplicarono la loro azione per aprire la strada alle colonne d'attacco; il generale d'Erlon portò avanti i reparti ancora efficienti delle divisioni Donzelot, Allix e Marcognet che attaccarono energicamente, mentre il generale Reille non riuscì a mandare in linea molte truppe. L'imperatore fece entrare in azione le ultime batterie della riserva d'artiglieria ancora disponibili e i cannoni continuarono a tirare fino alla fine contro la cresta. Lo sfondamento decisivo, cui l'imperatore mirava sin dal mattino, poteva tuttavia essere realizzato solamente impiegando contro il centro delle linee nemiche quei battaglioni della Guardia imperiale ancora disponibili, che costituivano l'ultima riserva fresca a disposizione.
Il periodo più favorevole per i francesi tuttavia era già passato; Wellington, informato dell'imminente attacco da un capitano di cavalleria francese disertore, aveva avuto il tempo di rafforzare il centro del suo schieramento facendo affluire tutte le riserve ancora disponibili e richiamando reparti dagli altri settori. Mentre le brigate britanniche Adam e Maitland venivano riportate in prima linea, giunsero sul posto le brigate tedesche du Plat e William Hackett e soprattutto l'intera divisione belga-olandese Chassè; anche la cavalleria di Vivian e Vandeleur dall'ala sinistra si trasferì verso la strada maestra.
Dei trentasette battaglioni di riserva disponibili, tolti quelli già impiegati contro i prussiani e i due battaglioni del 1º Reggimento granatieri lasciati a La Belle Alliance per garantire un estremo caposaldo, Napoleone aveva ancora disponibili per l'attacco finale undici battaglioni della Vecchia Guardia, poco più di seimila soldati veterani. L'imperatore in un primo tempo guidò personalmente la marcia di avvicinamento dei suoi reparti scelti, quindi affidò al maresciallo Ney la conduzione diretta dell'attacco che sarebbe stato sferrato in prima linea da sei battaglioni del 3º e 4º Reggimento cacciatori e del 3º e 4º Reggimento granatieri, la cosiddetta Moyenne Garde, a cui sarebbe seguito un secondo scaglione con altri tre battaglioni del 2º Reggimento granatieri e del 1º e 2º Reggimento cacciatori. La Vecchia Guardia avanzò lentamente in formazione a quadrato per poter respingere un eventuale attacco della cavalleria britannica; sembra tuttavia che Ney fece deviare erroneamente verso sinistra i battaglioni, esponendoli al fuoco laterale; inoltre i reparti della Vecchia Guardia, schierati a scaglioni e non in colonna, persero l'allineamento ed entrarono in combattimento separati perdendo parte della loro potenza d'urto.
L'avanzata della Vecchia Guardia avvenne sotto il fuoco a mitraglia dell'artiglieria britannica che colpì i quadrati di fronte e di fianco; nonostante le perdite, i francesi serrarono i ranghi e continuarono ad avanzare sotto la guida dei loro ufficiali; ogni battaglione era comandato da un generale: al 3° granatieri i generali Friant e Porret de Morvan, al 4° granatieri il generale Harlet, al 3° cacciatori i generali Michel e Mallet, al 4° cacciatori il generale Henrion; Ney si affiancò a piedi, dopo avere avuto il quinto cavallo della giornata abbattuto sotto di lui, al generale Friant.
I primi a venire a contatto con i difensori furono sulla destra i due battaglioni di granatieri; i francesi sembrarono inizialmente avere la meglio e, dopo aver superato la debole resistenza delle truppe di Brunswick, raggiunsero due batterie britanniche e quindi costrinsero alla ritirata due reggimenti della brigata Colin Halkett; il generale Friant, ferito ed evacuato nelle retrovie, riportò notizie ottimistiche all'imperatore. Gli anglo-alleati fecero intervenire tempestivamente le riserve: il principe d'Orange guidò personalmente un contrattacco con un battaglione del reggimento von Kruse; il principe cadde ferito ma l'assalto fermò l'avanzata dei granatieri; inoltre i reggimenti 30° e 73° britannici riuscirono a costituire un nuovo schieramento e, sostenuti dal fuoco di una batteria olandese, inflissero dure perdite ai francesi. Anche gli altri due reggimenti della brigata Colin Halkett, il 33° e il 69°, attaccati dal 4° granatieri rischiarono di crollare; il generale Halkett venne gravemente ferito, ma alla fine i britannici arrestarono l'avanzata nemica. Dopo alcuni minuti di fuoco di fucileria, i due reparti della Vecchia Guardia furono infine sconfitti e costretti alla ritirata dal decisivo intervento della brigata Ditmers della divisione belga-olandese Chassè, che contrattaccò alla baionetta sul fianco dei quadrati francesi.
Mentre avveniva questo combattimento, sulla sinistra, i due battaglioni del 3º Reggimento cacciatori risalirono il pendio in massa compatta e inizialmente non incontrarono ostacoli da parte della fanteria e giunsero fino al margine della strada infossata pur subendo perdite per il fuoco dei cannoni nemici. A questo punto tuttavia si trovarono improvvisamente di fronte circa 2.000 soldati britannici della brigata Guardie del generale Maitland che erano rimaste fino a quel momento al riparo sdraiati a terra. Al comando dei loro ufficiali, i soldati britannici scattarono in piedi e, schierati su quattro file, aprirono il fuoco che a distanza ravvicinata si rivelò devastante: il mito vuole che Wellington diede l'ordine gridando «Alla carica! – Guardie in piedi , dategli addosso!», ma in realtà il Duca disse «Avanti Maitland. Adesso tocca a voi!».
I cacciatori della Guardia subirono immediatamente circa trecento perdite sotto il fuoco della fanteria britannica e il generale Michel cadde mortalmente ferito. I francesi, sorpresi dall'improvvisa azione nemica e ridotti a poco più di un battaglione, non cercarono di proseguire l'avanzata e caricare, ma rimasero fermi sul posto per circa dieci minuti cercando di rispondere al fuoco e subendo nuove perdite. Sottoposti al tiro anche di due batterie di cannoni e caricati dalle truppe britanniche delle Guardie, i soldati del 3° cacciatori ben presto si disgregarono e ripiegarono nella confusione; i britannici tuttavia che erano scesi giù per il pendio, vennero minacciati sul fianco dall'arrivo del battaglione del 4° cacciatori che, schierato in quadrato, risaliva lentamente sull'estrema sinistra. Le truppe del generale Maitland ripiegarono verso la cresta dove si schierarono nuovamente in linea, mentre i cacciatori della Vecchia Guardia ripresero l'avanzata sotto il fuoco nemico. L'artiglieria britannica schierata nella zona colpì pesantemente le truppe francesi che riuscirono ugualmente a raggiungere la strada infossata e a superare le siepi; a questo punto tuttavia la situazione dell'ultimo quadrato della Vecchia Guardia divenne critica: le Guardie di Maitland ripresero un fitto fuoco di fila frontale, mentre sui fianchi francesi entrarono in azione la brigata Adam, i resti della brigata Colin Halkett e gli hannoveriani della brigata William Halkett.
I francesi cercarono di resistere sulle posizioni raggiunte e risposero al fuoco, ma subirono crescenti perdite e il generale Mallet venne gravemente ferito; sembra che l'intervento sul fianco sinistro francese da parte del 52º Reggimento fanteria dell'Oxfordshire guidato dall'energico colonnello Colborne abbia accelerato il crollo finale della Vecchia Guardia; entro pochi minuti anche l'ultimo quadrato francese si disgregò e ripiegò in rotta lungo il pendio. L'attacco finale francese era fallito con la perdita di 1.200 soldati tra morti e feriti, tra cui sessanta ufficiali; i resti della Vecchia Guardia cercarono in un primo momento di ritirarsi con ordine e ridiscesero dalla strada infossata, ma la vista della sconfitta di quelle truppe scelte, ritenute invincibili, scosse in modo decisivo il morale della fanteria francese; si diffuse rapidamente lo stupore e poi il panico; si udirono tra le file francesi le grida "La Garde recule", lo sbandamento si estese velocemente lungo tutto lo schieramento di Napoleone.
La situazione generale dei francesi si era già fortemente aggravata ancor prima del disperato attacco finale della Guardia a causa della comparsa e dell'attacco, nella zona di Papelotte, degli elementi di punta del I Corpo d'armata prussiano del generale Hans Ernst Karl von Zieten contro il precario fianco destro dello schieramento francese. Partite da Wavre alle ore 12:00, queste forze prussiane avevano incontrato grandi difficoltà durante la marcia per gli ingorghi con le altre colonne in movimento e per la mancanza di buone strade attraverso il bosco di Rixensart; di conseguenza il generale Zieten era arrivato con le avanguardie a Ohain solo alle ore 18:00. Inoltre, il generale Zieten ricevette notizie disastrose sull'andamento della battaglia e, temendo di rimanere isolato di fronte alla presunta ritirata dei britannici, in un primo momento decise di deviare verso sud per collegarsi con le truppe del generale Bülow verso Plancenoit. Fu il barone von Müffling che convinse Zieten a cambiare i suoi piani; egli affermò che «la battaglia è perduta se il I corpo non soccorre il Duca»; alle ore 19:30, proprio mentre la Guardia Imperiale incominciava il suo attacco finale, le truppe prussiane di testa del I Corpo sbucarono finalmente da Smohain e attaccarono il fianco destro francese a Papelotte.
Quando Napoleone vide le colonne di Zieten in arrivo, per non demoralizzare le truppe che stavano conducendo l'attacco finale, ordinò di diffondere la notizia che si trattava dei reparti di Grouchy, ma l'espediente fu di breve durata e non poté impedire che il panico, dopo che la Guardia era stata battuta, si propagasse in tutto l'esercito. In realtà le truppe prussiane del I Corpo d'armata che attaccarono da Smohain verso Papelotte erano numericamente deboli dopo le perdite nelle precedenti battaglie; si trattava solo della brigata Steinmetz e di una parte della cavalleria del generale Rödel; inoltre si verificarono alcuni incidenti con scontri a fuoco per errore tra prussiani e britannici. Nonostante queste difficoltà l'attacco prussiano raggiunse subito il successo: i reparti della divisione Durutte cedettero a Papelotte e La Haye. Tra le truppe francesi, stanche ed esasperate dalla lunga battaglia, sconvolte per la sconfitta della Vecchia Guardia e per l'arrivo dei prussiani da una direzione da cui attendevano gli aiuti di Grouchy, si diffusero voci di «tradimento»; le grida dei soldati «si salvi chi può!» e «sono troppi!», segnalarono l'inizio del disfacimento irreversibile dell'armata in rotta. I tentativi disperati del maresciallo Ney di radunare le truppe e organizzare la resistenza non ottennero alcun risultato.
Wellington colse l'occasione per mandare le brigate di cavalleria leggera di Vivian e Vandeleur a disperdere quello che rimaneva dei battaglioni della Guardia, poi l'intera linea alleata si gettò in avanti all'assalto, mentre i prussiani sempre più numerosi accorrevano sul campo di battaglia. Napoleone capì subito che la battaglia era persa. Egli, dopo aver cercato invano di impedire la fuga del suo esercito, non poté fare altro che rallentare l'avanzata nemica per proteggere la ritirata delle truppe in rotta; l'imperatore cercò di controllare la situazione con i tre battaglioni della Vecchia Guardia che erano stati tenuti in seconda linea al momento dell'attacco finale; il 2º Battaglione del 1º Reggimento cacciatori, del 2º Reggimento granatieri e del 2º Reggimento cacciatori, al comando dei generali Cambronne, Roguet e Christiani, vennero schierati rapidamente in quadrati e disposti circa cento metri a sud di La Haye Sainte. Gli squadroni di cavalleria di scorta all'imperatore operarono delle cariche disperate per frenare la cavalleria britannica del generale Vivian che, dopo aver evitato i quadrati, disgregò le colonne in fuga della fanteria francese. I quadrati della Vecchia Guardia riuscirono a respingere la cavalleria ma subirono pesanti perdite sotto il tiro della fanteria delle brigate Adam e William Hackett e dell'artiglieria; alla fine Napoleone ordinò la ritirata e i quadrati iniziarono a marciare verso le alture della Belle-Alliance.
La linea francese era crollata anche a nord di Plancenoit; le due divisioni del VI Corpo d'armata di Lobau furono attaccate di fronte dalle brigate Losthin e Hacke del IV Corpo prussiano, sostenute dalla cavalleria del principe Guglielmo, e vennero aggirate da nord dalla brigata Steinmetz e dai reparti a cavallo del generale Rödel che, dopo aver sbaragliato la divisione Durutte, avanzavano in massa verso sud. La Giovane Guardia e due battaglioni della Vecchia Guardia nel frattempo si erano asserragliati dentro Plancenoit al comando dei generali Morand, Pelet e Duhesme e si batterono con grande determinazione per coprire la linea di ritirata francese; le brigate prussiane Ryssel, Hiller e Tippelskirch non riuscirono al primo assalto a conquistare il villaggio, che si incendiò sotto i colpi dell'artiglieria. Il secondo assalto, diretto personalmente dal generale von Gneisenau, diede luogo a scontri sanguinosi e accaniti in mezzo agli incendi delle case; un battaglione della Giovane Guardia si difese dentro il cimitero a oltranza prima di essere totalmente distrutto; i soldati prussiani dimostrarono grande ostinazione e odio verso i francesi; il 25º Reggimento del maggiore von Witzleben riuscì ad aggirare le posizioni nemiche e penetrare nel villaggio da sud. Alla fine, alle ore 21:15, i prussiani in grande superiorità numerica ebbero la meglio conquistando Plancenoit ormai devastata dopo cruenti combattimenti ravvicinati nelle case, nelle strade e nei granai; i francesi superstiti ripiegarono in disordine verso Le Caillou dopo aver abbandonato l'artiglieria.
Mentre le masse sbandate francesi rifluivano in rotta lungo la strada maestra, la Vecchia Guardia svolse un'ottima azione di retroguardia, dimostrando grande valore in quei momenti di caos. I quattro battaglioni superstiti marciarono ordinatamente verso la Belle-Alliance, respingendo continui attacchi e sostenendo l'intenso fuoco del nemico; a causa delle continue perdite, si dovette riorganizzare lo schieramento su due ranghi in formazione triangolare e ogni cinquanta metri gli ufficiali fermavano la marcia per respingere le cariche nemiche e rettificare le file; la Vecchia Guardia si ritirava isolata, circondata dai nemici mentre il resto dell'armata si disgregava completamente. Il generale Pierre Cambronne, del 1º Reggimento cacciatori della Vecchia Guardia, entrò nella storia pronunciando la famosa parola «Merde!» alla richiesta di resa di un ufficiale britannico, prima di cadere gravemente ferito al viso ed essere catturato incosciente sul campo di battaglia.

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Generale di brigata Pierre Cambronne; l'ultimo ad arrendersi a Waterloo.

I soldati della Guardia cercarono di raggiungere la fattoria di Ronsomme, dove Napoleone aveva organizzato un punto di raduno con i soldati dei due battaglioni del 1° granatieri della Vecchia Guardia, che durante la battaglia erano rimasti come ultima riserva. Mentre l'imperatore e i suoi generali, tra cui Soult, Ney, Bertrand e La Bedoyere, entravano nel quadrato del 1º Battaglione, i veterani, al comando del generale Petit, respinsero tutti gli attacchi, coprirono il riflusso degli altri soldati della Guardia e impedirono anche con le armi che gli sbandati dell'esercito disgregassero quest'ultimo ridotto. Alle ore 21:30 Napoleone ordinò la ritirata e i due battaglioni ripiegarono ordinatamente ai due lati della strada maestra fino a Le Caillou dove si congiunsero con il 1º Battaglione dei cacciatori della Guardia, che aveva difeso questa posizione contro gli attacchi dei prussiani provenienti da Plancenoit.
L'esercito di Wellington partecipò inizialmente all'inseguimento dei francesi, ma furono i prussiani di von Gneisenau a proseguire fino oltre Frasnes-lez-Gosselies. Il bottino fino a quel momento comprendeva l'intera artiglieria napoleonica, più di mille carri e cassoni portamunizioni e un gran numero di prigionieri. I prussiani condussero l'inseguimento dell'esercito francese in rotta con grande accanimento, Blücher ordinò di non dare tregua; i soldati prussiani, estremamente ostili ai francesi, si abbandonarono a episodi di ferocia con eliminazione sommaria di prigionieri e il panico si diffuse tra i superstiti; anche Victor Hugo evidenzierà la spietatezza e l'implacabilità dei prussiani durante l'inseguimento. Ben presto le truppe prussiane fecero irruzione a Le Caillou; il villaggio venne incendiato e i feriti francesi morirono bruciati o uccisi a colpi di baionetta; anche il chirurgo capo dell'armata francese, il famoso Dominique-Jean Larrey, fu catturato e, scambiato erroneamente per Napoleone, rischiò di essere immediatamente fucilato dai prussiani.
Il generale von Gneisenau continuò l'inseguimento con grande determinazione durante tutta la notte successiva alla battaglia e fu in questa fase che i francesi in rotta nel panico abbandonarono la maggior parte dei loro cannoni che furono catturati dai prussiani. In un primo momento Napoleone, che a Le Caillou, completamente esausto era salito sulla carrozza imperiale, aveva sperato di radunare le truppe a Genappe, ma nell'abitato si diffuse subito la massima confusione tra i soldati sbandati che cercavano di passare l'unico ponte sul fiume Dyle; l'imperatore rischiò addirittura di essere catturato e dovette abbandonare in tutta fretta la carrozza imperiale e fuggire a cavallo con una piccola scorta. I prussiani del 15º reggimento, guidati dal maggiore von Keller, si impadronirono dell'intero corteo delle carrozze imperiali, del tesoro in oro e diamanti presente nelle vetture e di alcuni trofei dell'imperatore, tra cui una spada, vestiti e cappello di ricambio, e alcune medaglie.
Napoleone sperava ancora di incontrare a Quatre-Bras la divisione Girard, rimasta indietro a Ligny, per stabilire un punto di raduno generale; quando l'Imperatore giunse a Quatre-Bras le truppe della divisione non erano ancora arrivate, perciò la ritirata continuò fino al 19 giugno attraverso Charleroi e Philippeville; entro la mattina del 19 ogni contatto con gli inseguitori era stato finalmente interrotto e Napoleone, che ancora scriveva che «non è tutto perduto… c'è ancora tempo per rimediare la situazione», ordinò a Soult di far riposare e riorganizzare i superstiti mentre lui proseguiva per Parigi, dove sperava di organizzare una campagna difensiva.
A Wavre, Grouchy ricevette la notizia della sconfitta di Napoleone solamente alle 10:30 del 19 giugno. Durante la notte i francesi erano riusciti ad allargare la testa di ponte e, grazie alla netta superiorità numerica, avevano obbligato il III Corpo d'armata del generale prussiano Johann von Thielmann a ritirarsi dalla città. La vittoria fu inutile; Grouchy ordinò subito la ritirata e riuscì a ripiegare con abilità, rientrando in Francia il 21 giugno, dopo essere sfuggito all'inseguimento prussiano.
Nella relazione della battaglia che compilò la mattina del 19 giugno per Henry Bathurst, Segretario di Stato per la Guerra e le Colonie, Wellington lodò con misura l'operato dei suoi uomini e dei suoi ufficiali ed elogiò anche i prussiani. La notizia della vittoria arrivò a Londra la sera del 21 giugno, più o meno quando iniziò a diffondersi, con sentimenti ovviamente opposti, anche a Parigi. Nella capitale Napoleone era al lavoro per organizzare un nuovo esercito prendendo misure d'emergenza, ma il Parlamento francese gli era apertamente ostile e alla fine si risolse, il 23 giugno, a presentare un nuovo atto d'abdicazione, lasciando le sorti della Francia al governo provvisorio di Joseph Fouché.
Grouchy, dal 26 giugno nuovo comandante dell'esercito al posto di Soult, entrò a Parigi il 29 giugno con circa 50.000 superstiti, tallonato a breve distanza da Blücher e, più da lontano, da Wellington. La situazione militare della Francia non era del tutto disastrosa, come dimostrano i successi delle truppe dislocate lungo il Reno, nel Giura e presso le Alpi, nonché il successo del generale Exelmans nella battaglia di Rocquencourt contro i prussiani, ma alla lunga la superiorità numerica dei coalizzati fece il suo effetto e ogni resistenza armata cessò entro la fine di luglio. L'8 luglio, intanto, Luigi XVIII aveva fatto ritorno al Palazzo delle Tuileries, preceduto dai prussiani di Blücher che avevano varcato i confini parigini il 4 luglio. Napoleone, che il 29 giugno era partito per Rochefort nella speranza di trovare un veliero con cui fuggire in America, fu bloccato dalla Royal Navy e il 15 luglio si consegnò al capitano Frederick Maitland della marina britannica; fu infine deportato nella remota isola di Sant'Elena, dove morì sei anni dopo.
Impostagli dalla Camera la nuova abdicazione, sotto le pressioni del potente Fouché («Avrei dovuto farlo impiccare prima», sbottò Napoleone), egli dichiarò di immolarsi «in olocausto per la Francia» e chiese invano che venisse rispettata la sua volontà di porre sul trono all'età giusta suo figlio Napoleone II. Le forze nemiche, viceversa, entrarono a Parigi e rimisero sul trono Luigi XVIII. Napoleone si rifugiò al castello di Malmaison, la vecchia casa dove aveva abitato con la moglie Giuseppina, morta da poco. Condizione della consegna era la deportazione in Inghilterra o negli Stati Uniti, ove intendeva vivere soggetto al diritto comune e con lo status di privato cittadino. Il capitano Maitland, in rappresentanza del principe reggente, venne meno alla parola data e Napoleone venne tratto in arresto e condotto dal Northumberland a Sant'Elena, una piccola isola nel mezzo dell'oceano Atlantico, così remota e sperduta da rendere impossibile ogni tentativo di fuga.
Il 15 ottobre 1815 la nave da battaglia inglese HMS Northumberland giunse a Sant'Elena col prezioso carico. Con un piccolo seguito di fedelissimi, Napoleone fu trasferito nel villaggio interno di Longwood, dove rimase fino al decesso. Napoleone dettò le sue memorie ed espresse il suo disprezzo per gli inglesi, personificati nell'odiosa figura del "carceriere" di Napoleone sir Hudson Lowe (che dal trattamento duro riservato a Napoleone non trasse alcun vantaggio per la sua carriera, anzi fu accusato di essere stato troppo severo nei confronti dell'imperatore francese). Sulla base dei suoi ricordi, espressi in lunghe conversazioni quasi quotidiane, il conte de Las Cases scrisse Il Memoriale di Sant'Elena e nella seconda metà dell'aprile 1821 redasse egli stesso le sue ultime volontà, e molte note a margine (per un totale di 40 pagine).
I dolori allo stomaco di cui già soffriva da tempo, acuitisi nel clima inospitale dell'isola e con il duro regime impostogli, lo condussero alla morte il 5 maggio 1821 alle ore 17:49. Egli chiese di essere seppellito sulle sponde della Senna, ma fu invece seppellito a Sant'Elena, presso Sane Valley, come stabilito già l'anno prima dal governo inglese. Il governatore Lowe e i suoi uomini gli tributarono gli onori riservati ad un generale. L'autopsia accertò la causa di morte in un tumore dello stomaco.
Il 2 agosto 1830, nove anni dopo la morte di Napoleone, il re Carlo X di Borbone fu costretto ad abdicare e la corona venne concessa a Luigi Filippo d'Orléans di idee più liberali. La statua dell'imperatore fu restaurata sulla colonna di Place Vendôme e vi furono richieste del rientro in patria delle spoglie mortali. Il figlio cadetto del re, il Principe di Joinville, venne incaricato di riportare le spoglie dell'imperatore in Francia e questi, dopo aver ottenuto il permesso dei britannici, diresse una spedizione a Sant'Elena per riportare la salma a Parigi. Il 15 ottobre 1840, venne riesumata la salma che si rivelò intatta, vestita nell'uniforme di colonnello dei Cacciatori della Guardia. Ricomposto il corpo in una bara di ebano, l'imperatore cominciò il suo viaggio di ritorno in Francia sulla Belle-Poule, dove arrivò a Cherbourg il 2 dicembre, salutato dalle salve di cannone del forte e delle navi militari presenti.
Il 15 dicembre 1840 ebbe luogo il funerale solenne a Parigi celebrato con tutti gli onori del rango imperiale. Disposto il feretro su di un carro trainato da 16 cavalli, scortato dai Marescialli di Francia Oudinot e Molitor, l'ammiraglio Roussin e il generale Bertrand, a cavallo, sui quattro lati, il corteo funebre passò sotto l'arco di trionfo, tra due file di insegne con l'aquila imperiale, salutato dalle salve di cannone e accolto dalla famiglia regnante in nome della Francia. Il generale Bertrand, che aveva fedelmente accompagnato Napoleone all'Elba e a Sant'Elena, venne incaricato dal Re di porre la spada e il copricapo dell'imperatore sulla bara, ma non vi riuscì per l'emozione e fu sostituito dal generale Gourgaud. Più tardi, nel 1843 Giuseppe Bonaparte inviò il gran collare, il nastro, e le insegne della Legion d'onore che suo fratello aveva indossato.
I resti di Napoleone riposano in un monumento posto in una cripta a cielo aperto ricavata nel pavimento della chiesa di Saint-Louis des Invalides a Parigi, esattamente sotto la cupola dorata. Il monumento, concepito dall'architetto Louis Visconti, venne terminato nel 1861 e consiste in un grande sarcofago di porfido rosso della Finlandia, che contiene le 6 bare entro cui è stato chiuso il corpo di Napoleone: dalla più interna alla più esterna abbiamo una bara in lamiera e poi una in mogano, due bare in piombo, una di ebano e l'ultima in legno di quercia. Intorno al sarcofago c'è un loggiato circolare decorato con enormi statue raffiguranti dodici Vittorie.

Considerazioni sull'uomo
Nel Memoriale di Sant'Elena Napoleone esprime le sue considerazioni sulla battaglia di Waterloo, confermando di aver ritenuto la situazione molto favorevole e di aver creduto in una facile vittoria. L'Imperatore critica aspramente i suoi avversari; Blücher e Wellington, sorpresi dalla sua strategia, avrebbero commesso gravi errori strategici e in particolare il generale britannico avrebbe, secondo Napoleone, disposto le sue truppe in una posizione pericolosa e non avrebbe mostrato alcuna abilità tattica; la sua sconfitta nella battaglia, senza l'arrivo dei prussiani sarebbe stata certa. Wellington «dovrebbe accendere un bel cero a Blücher», i suoi errori «furono enormi» e i suoi ordini «penosi», mentre «ammirevoli» furono le truppe britanniche. In conclusione, Napoleone nel memoriale loda le truppe francesi «che non si batterono mai meglio» e non ammette di aver commesso gravi errori tattici o strategici; in pratica la sconfitta sarebbe stata dovuta soprattutto all'incomprensibile comportamento dei suoi luogotenenti, in particolare i marescialli Ney e Grouchy.
Gli storici moderni non hanno accolto l'interpretazione napoleonica dell'esito della campagna di Waterloo e anche gli autori francesi non negano alcuni evidenti errori dell'imperatore; Jean Tulard afferma che gli errori di Napoleone sono innegabili, mentre Henri Lachouque, uno dei maggiori storici militari dell'epopea napoleonica, afferma che la responsabilità ultima della sconfitta non può che spettare al comandante supremo malgrado le deficienze esecutive dei suoi luogotenenti. Lo storico francese in particolare evidenzia come il comportamento di Napoleone nella sua ultima campagna fu spesso in contrasto con i suoi stessi principi strategici; egli perse tempo in alcune occasioni decisive, accettò di combattere sul campo di battaglia scelto dall'avversario, non concentrò tutte le forze disponibili. Secondo Lachouque, in realtà Napoleone mostrò esitazioni e compì errori soprattutto perché egli aveva ormai perso fiducia nella sua fortuna e nel suo destino; anche Georges Lefebvre rimarca, oltre al declino della salute fisica dell'imperatore, i suoi dubbi sul successo della sua ultima impresa. Jacques Bainville descrive il carattere disperato per i francesi della fase finale della battaglia, la loro «sepolcrale» disfatta nella «cupa pianura» di Waterloo, i loro drammatici eroismi e i cedimenti di fronte all'incolmabile superiorità del nemico; elenca «dimenticanze e distrazioni incredibili» che pregiudicarono l'esito della campagna che egli peraltro ritiene «persa in partenza»; lo storico francese descrive il comportamento di Napoleone oscillante tra temeraria sicurezza ed eccessiva prudenza. In conclusione Bainville ritiene che «niente riuscì perché niente doveva riuscire» a causa soprattutto della mutevolezza dello spirito dell'imperatore e per la sua «segreta disperazione».
Anche lo storico britannico David G. Chandler, che pure non esenta da colpe Grouchy, Ney e Soult, ritiene in ultima analisi che «fu Napoleone in persona a scegliere questi tre comandanti, nonché i componenti del suo stato maggiore, quindi la responsabilità globale va attribuita a lui» e, in relazione all'attacco a Hougoumont, all'avanzata del I Corpo d'armata in formazione tattica superata, alle deleterie cariche della cavalleria e al ritardato contrasto dell'attacco prussiano a Plancenoit, «lo si può criticare perché non intervenne subito al momento giusto per dare una svolta diversa alla battaglia».
Henry Houssaye, massimo storico francese della battaglia di Waterloo, fornisce un'interpretazione diversa del comportamento di Napoleone sul campo di battaglia: egli afferma che il piano dell'imperatore di massiccio attacco frontale al centro delle linee nemiche era in pratica il solo che garantisse, in caso di successo, una vittoria schiacciante e decisiva. Inoltre l'autore francese confuta la classica immagine di Napoleone a Waterloo, descritto come abulico, sofferente, confuso; al contrario, basando la sua analisi su un preciso riscontro cronologico delle disposizioni e dei movimenti dell'imperatore, Houssaye conclude affermando che in realtà Napoleone cercò disperatamente fino all'ultimo di raggiungere la vittoria, intervenendo costantemente nell'azione tattica per rimediare agli errori dei generali e controllando tutte le fasi della battaglia più strettamente che nelle precedenti campagne; egli lottò contro le crescenti difficoltà e tentò di fare fronte al progressivo fallimento di tutti i suoi piani, causato soprattutto dalla deplorevole azione esecutiva dei suoi subordinati.
Lo storico britannico Chandler afferma, ancora, che l'azione di comando di Wellington «nelle fasi decisive fu superiore a quello del suo avversario»; «il duca era inferiore a Bonaparte nelle scelte strategiche di fondo, ma superiore in alcuni accorgimenti tattici», inoltre «fu per tutto il giorno totalmente concentrato su quanto accadeva intorno a lui, senza mostrare un attimo di stanchezza, sempre straordinariamente attivo ed energico». L'autore britannico non trascura alcuni errori del comandante in capo alleato: la decisione di inviare una parte delle sue forze lontano dal campo di battaglia lo privò di parecchi uomini che avrebbero potuto rivelarsi utili in assenza dei prussiani. La cavalleria pesante britannica, impiegata incautamente, subì ingenti perdite, così come venne decimata la brigata di Bylandt, schierata in una posizione troppo esposta all'artiglieria francese; non rifornire di munizioni il maggiore Baring fu la causa principale della caduta di La Haye Sainte. Tuttavia, secondo Chandler, «il coraggio e la tenacia di Wellington – e delle truppe alleate di diverse nazionalità al suo comando […] – contribuirono in misura determinante alla vittoria».
Chandler, pur esaltando come la gran parte degli storici britannici, l'azione dei comandanti e delle truppe britanniche, ammette peraltro che la battaglia di Waterloo non sarebbe stata vinta dai coalizzati senza l'intervento dei prussiani. Per molti studiosi tedeschi l'esercito di Blücher sarebbe stato l'elemento decisivo della vittoria; alcuni storici britannici invece ne sminuiscono l'apporto dato alla battaglia; in realtà nessuno dei due comandanti avrebbe potuto prevalere da solo contro Napoleone. Secondo Chandler, Blücher «non valeva quanto Napoleone o Wellington, né per doti intellettuali né per competenza professionale», ma mantenne a ogni costo la promessa fatta a Wellington di inviare aiuti, inoltre fu di grande stimolo per i suoi uomini durante la marcia di avvicinamento. Il generale von Gneisenau, capo di stato maggiore, non nutriva invece altrettanta fiducia nei britannici; durante la marcia verso Mont-Saint-Jean, Gneisenau «impartì ordini vaghi, lasciando ai suoi generali ampi margini di discrezionalità». Chandler considera molto importante il ruolo del barone von Müffling.
Lo storico russo Evgenij Viktorovic Tàrle invece ha enfatizzato il ruolo dei prussiani che egli considera decisivo; l'autore afferma che le capacità militari di Napoleone si dimostrarono ancora superiori anche nel 1815 e ritiene che la sconfitta dell'esercito britannico sarebbe stata certa senza la «perseveranza di Blücher», che «salvò Wellington dall'imminente, terribile, disfatta». Il suo piano prevedeva una manovra su due ali che avrebbero diviso e sconfitto separatamente i prussiani e i britannici prima che, superiori di numero, potessero congiungersi. L'ala destra da lui comandata impegnò e sconfisse i prussiani del generale Blücher nella battaglia di Ligny, mentre il maresciallo Ney attaccò i britannici del duca di Wellington a Quatre-Bras, ma nessuno dei due combattimenti ebbe esito determinante. Così si giunse al 18 giugno 1815, la giornata della battaglia di Waterloo, descritta anche da Victor Hugo. Il piano strategico generale di Napoleone venne vanificato da alcuni errori dei suoi marescialli, principalmente Emmanuel de Grouchy, il quale, inviato a intercettare la colonna prussiana sfuggita a Ligny, in pratica si limitò solo a inseguire la retroguardia delle forze prussiane che si erano intanto riorganizzate e che, grazie alla loro determinazione, riuscirono a ricongiungersi con Wellington proprio nella fase decisiva della battaglia. Le forze britanniche del duca di Wellington e quelle prussiane di Blücher riuscirono a sconfiggere i francesi.

Al di là delle valutazioni dei vari storici sul perchè della sconfitta di Waterloo, e sui meriti di questo o quello, io ritengo che Napoleone fu sconfitto e come capo la responsabilità fu sua, se isuoi generali sbagliarono era stato lui a sceglierli, se Talleyrand, Fouchè e Bernadotte lo tradirono avrebbe dovuto prevederlo in tempo, che la Gran Bretagna fosse un pericolo serio avrebbe dovuto saperlo.
Ma giova ricordare che le sconfitte di Lipsia e Waterloo erano figlie di precedenti errori. La campagna del Portogallo e della Spagna furono i primi errori; la Francia era molto carente sul mare, mentre la Spagna era l'unica potenza che avrebbe potuto contrastare l'Inghilterra; pertanto un patto di alleanza e non di vassallaggio con la Spagna avrebbe potuto consentire alla Francia di non lasciare alla Gran Bretagna il predominio dei mari. E questo fu un altro errore esiziale. La guerra contro la Russia avrebbe dovuta essere condotta con veloci manovre ai suoi confini e non con l'attraversamento di un territorio enorme e pieno di insidie. Nella decisiva battaglia di Lipsia avrebbe dovuto chiamare una buona parte delle truppe dislocate in Spagna, Italia e Germania.

Ma occorre analizzare Napoleone in base a quello che ha fatto e per il retaggio che ha lasciato.
Quando si proclamò imperatore, Napoleone comprese che bisognava andare oltre la mera virtù repubblicana per creare lo spirito di corpo necessario a infiammare le sue truppe; perciò, con i suoi proclami e i suoi discorsi, gli ordini del giorno e soprattutto la Legion d’onore, fece appello al principio dell’onore militare per accendere ciò che lui stesso definiva il “sacro fuoco” del valore marziale. Napoleone riuscì a fondere insieme elementi dell’ancien régime e delle armate rivoluzionarie, e a creare una nuova cultura militare fondata sull’onore, il patriottismo e un’assoluta devozione personale a lui, che conduceva le truppe.
Comunque, anche se non fosse stato un grande conquistatore, Napoleone rimarrebbe uno dei giganti della storia moderna, perché i suoi risultati in ambito civile furono pari a quelli militari, ma ben più duraturi. Anche se il Terrore era terminato nel luglio 1794, i giacobini continuavano a essere potenti; ma quando, nell’ottobre del 1795, Napoleone li sbaragliò a colpi di cannone per le strade di Parigi insieme agli altri insorti di vendemmiaio, cessarono di esistere come forza politica. Dopo il Terrore e la decadenza e il caos del direttorio, la maggior parte dei francesi desiderava una repubblica di stampo conservatore, e la ottenne da un uomo il cui ideale di società era sostanzialmente una versione ingrandita dell’esercito, guidata sul piano politico e militare dal suo comandante in capo. «Abbiamo messo fine al romanzo della rivoluzione», proclamò Napoleone in una delle prime riunioni del consiglio di stato. Da molti punti di vista, fu l’ultimo e il più grande dei despoti illuminati dell’Europa del Settecento che avevano cominciato a introdurre il razionalismo nel sistema di governo e a impegnarsi per migliorare le condizioni di vita dei loro sudditi. Goethe disse che Napoleone era «sempre illuminato dalla ragione», «Viveva in uno stato costante di illuminazione. Napoleone era l’Illuminismo a cavallo».
Nel 1804 fu proclamato imperatore della repubblica francese: in apparenza è una contraddizione nei termini, ma in realtà una precisa definizione della natura del suo comando. Napoleone conservò e protesse gli aspetti migliori della rivoluzione francese (uguaglianza di fronte alla legge, razionalismo del governo, meritocrazia), sbarazzandosi dell’inutilizzabile calendario rivoluzionario con settimane di dieci giorni e del culto dell’Essere supremo, nonché della corruzione, della lottizzazione, e dell’iperinflazione che caratterizzarono gli ultimi giorni della repubblica. Nei 16 anni in cui rimase al potere, gran parte delle migliori idee su cui si fonda la moderna politica democratica (meritocrazia, uguaglianza di fronte alla legge, diritti di proprietà, tolleranza religiosa, educazione laica, finanze solide, amministrazione efficiente eccetera) vennero recuperate dal vortice rivoluzionario, protette, codificate e consolidate. Come quasi tutti i regimi europei dell’epoca, il regime di Napoleone esercitava la censura sulla stampa e manteneva una polizia segreta che applicava un sistema di sorveglianza abbastanza efficiente.
Pur avendo un potere eccezionale, non lo esercitava in modo spietato o vendicativo, trascinato dalla consuetudine còrsa delle faide. Se lo avesse fatto, uomini che continuavano a tradirlo, come Fouché, Murat e Talleyrand, non sarebbero stati tollerati così a lungo.
Anche se alla fine del 1815 la Francia fu costretta a tornare alle sue frontiere prenapoleoniche, la ristrutturazione del paese operata da Napoleone era ormai così radicata che i Borboni, quando ripresero il potere, non poterono annullarla. Di conseguenza, gran parte delle sue riforme civili rimasero in vigore per decenni, o persino per secoli. Il codice napoleonico sta alla base di gran parte dell’attuale legislazione europea, e diversi suoi elementi sono stati adottati da 40 paesi in tutti i continenti abitati. I ponti che fece costruire attraversano ancora la Senna, e i suoi bacini, i canali e le condotte fognarie sono ancora in uso. Il ministero degli esteri francesi si erge su parte dei 33 chilometri di banchine in pietra che fece costruire lungo il fiume, e la corte dei conti controlla ancora i rendiconti della spesa pubblica più di due secoli dopo la sua fondazione. I licei continuano a garantire un’ottima istruzione, e il consiglio di stato si riunisce ogni mercoledì per esaminare le nuove proposte di legge. Le “masse di granito” che Napoleone si vantava di gettare per ancorare la società francese resistono ancora oggi.
Nel 1792 la Francia divenne una nazione, decisa a esportare i valori e gli ideali della rivoluzione nel resto dell’Europa. Ma i sovrani d’Europa non ne volevano sapere, e formarono la prima di sette coalizioni per impedire quell’intromissione. Tali guerre furono ereditate da Napoleone che, grazie alla sua abilità militare, per un certo tempo riuscì a portarle a una trionfante conclusione. In Gran Bretagna, che aveva già avuto la propria rivoluzione politica 140 anni prima e quindi già godeva dei molti vantaggi che la rivoluzione aveva portato alla Francia, la minaccia napoleonica, prima di invasione e poi di sottomissione per strangolamento economico, spinse i diversi governi succedutisi al potere alla prevedibile determinazione di spodestarlo. Le dinastie regnanti di Austria, Prussia e Russia rifiutarono altrettanto prevedibilmente le sue offerte di pace a condizioni dettate dai francesi. Quindi gli giunsero ben più dichiarazioni di guerra di quante non ne inviò lui ad altri paesi; ma le ostilità del 1813, 1814 e 1815 non furono scatenate da Napoleone. Lui fece proposte di pace prima dello scoppio di ognuno di questi conflitti.
«Ci sono due modi per costruire un ordine internazionale», ha scritto Henry Kissinger a proposito dell’Europa postnapoleonica; «con la volontà o con la rinuncia; con la conquista o con la legittimazione.» Per Napoleone era percorribile soltanto la via della volontà e della conquista, e su quella si incamminò. Si vantava di appartenere «alla razza che fonda imperi», ma sapeva benissimo che la legittimità del suo regime dipendeva dal mantenimento della potenza francese in Europa, da ciò che lui stesso definiva il suo onore e l’onore della Francia. Per quanto nel 1810, o ancora nel 1812, avesse molto potere, sapeva che le sue conquiste non avevano avuto tempo sufficiente per legittimare il suo dominio.
Infine, c’è il fascino dell’uomo. Le 33.000 lettere presentate in splendida edizione dalla Fondation Napoléon, sono una straordinaria testimonianza della sua mente prodigiosa. La sua corrispondenza con astronomi, chimici, matematici e biologi rivela un profondo rispetto per il loro lavoro e una capacità di comprensione che si riscontra molto raramente negli uomini di stato. «Sono sempre al lavoro, e rifletto molto», disse l’imperatore a Roederer nel marzo del 1809; «se sono sempre pronto a rispondere su qualsiasi cosa, e capace di affrontare qualsiasi problema, è perché, prima di impegnarmi in qualcosa, rifletto a lungo e prevedo tutto quanto può accadere. Non è il genio a rivelarmi d’un tratto in modo misterioso che cosa devo dire in una circostanza imprevista da altri; è la riflessione, la meditazione, lo studio.» Quanto a pura capacità intellettuale e a costante applicazione nel governo, probabilmente non c’è mai stato in tutta la storia un governante che possa stargli alla pari.
Era mosso dall’ambizione, naturalmente; ma questa caratteristica, unita a una straordinaria energia, a una prodigiosa capacità amministrativa, a una memoria quasi fotografica delle cose e delle persone, a una mente acuta e disciplinata, nonché a una precisa idea di ciò che la Francia poteva ottenere e di come l’Europa poteva essere organizzata, non dovrebbe sorprenderci. Persino suo fratello Luigi, che Napoleone depose dal trono d’Olanda, alla fine giunse a dire: «Proviamo soltanto a pensare alle difficoltà affrontate da Napoleone, agli innumerevoli nemici, interni ed esterni, contro i quali dovette combattere, a tutte le trappole che gli furono tese, alla continua tensione a cui era sottoposta la sua mente, alla sua incessante attività o agli incredibili sforzi che dovette compiere, e le critiche verranno subito spente dall’ammirazione».
I familiari
Dopo Waterloo, gran parte della famiglia di Napoleone visse a Roma sotto protezione papale, compresa la madre, che vi si ritirò insieme al fratellastro, il cardinale Fesch. Madame Mère, ormai ottantacinquenne, cieca e relegata su una poltrona, dettava le sue memorie alla dama di compagnia Rosa Mellini: «Tutti mi definivano la madre più felice del mondo, ma la mia vita è stata una successione di dispiaceri e tormenti». Morì nel febbraio 1836. Anche Fesch morì a Roma tre anni dopo, circondato dalla sua favolosa collezione d’arte, che lasciò in larga parte alle città di Ajaccio e Lione. Luigi proseguì le sue ricerche letterarie a Roma, ma nel 1840 si recò in incognito in Olanda, dove tuttavia fu riconosciuto e acclamato dai suoi ex sudditi. Morì a Livorno nel luglio 1846. Sua moglie Ortensia, da tempo separata, acquistò nel 1817 il castello di Arenenberg, in Svizzera, dove visse fino alla morte, avvenuta nell’ottobre 1837, quando aveva 54 anni. Il figlio illegittimo che aveva avuto dal generale Flahaut in seguito fu nominato duca di Morny da Napoleone III. Eugenio di Beauharnais, duca di Leuchtenberg, visse senza clamore a Monaco con la moglie e i loro sette figli una delle sue figlie divenne imperatrice del Brasile. Morì nel febbraio 1824. Un’altra figlia, la principessa Josephine, sposò nel 1823 il principe Oscar, erede al trono svedese e figlio di Bernadotte: il loro figlio Massimiliano sposò la figlia dello zar Nicola I. Luciano venne arrestato dopo la sconfitta di Waterloo, ma gli fu permesso di ritirarsi negli Stati pontifici, dove morì nel giugno 1840, lasciando sette figli avuti da due matrimoni. Giuseppe rimase a Bordentown, nel New Jersey, si fregiò del titolo di conte di Survilliers per 16 anni, e nel 1820 ebbe il buon senso di rifiutare la corona del Messico. Per un breve periodo visse nella contea del Surrey, in Inghilterra. Difese con abilità la reputazione del fratello, e morì a Firenze nel luglio 1844. Nel 1816 Girolamo andò a vivere in esilio a Trieste e assunse il titolo di conte di Montfort, ma si considerò sempre un re. Ritornò in Francia nel 1847 e divenne governatore di Les Invalides nel 1850 e poi presidente del senato. Morì nel 1860. Carolina Murat si risposò dopo l’esecuzione del marito e visse a Firenze fino alla morte, nel maggio 1839, con il titolo da lei stessa inventato di contessa di Lipona (anagramma di Napoli). Paolina affermò che, quando le giunse la notizia della morte del fratello, stava per recarsi a Sant’Elena. Camillo Borghese, pur avendo un’amante da dieci anni, le consentì di tornare nella sua residenza fiorentina tre mesi prima che morisse, nel giugno del 1825. (Lui invece continuò a partecipare a complotti bonapartisti fino alla morte nel 1832.) Charles-Louis-Napoléon, il più giovane dei tre figli del re Luigi d’Olanda, partecipò alla rivoluzione italiana del 1831, cercò di invadere la Francia a Strasburgo nel 1836 e visitò gli Stati Uniti nel 1837. Nel 1840 cercò di nuovo di invadere la Francia e venne incarcerato, ma nel 1845 riuscì a evadere. Nel 1848 venne eletto presidente con 9,9 milioni di voti, e nel 1851 fece un colpo di stato, diventando l’anno seguente l’imperatore Napoleone III. Fu rovesciato dal trono dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871 e morì in esilio nel 1873. Così, l’epica imperiale iniziata ad Ajaccio nel 1769 si spegneva a Chislehurst, nel Kent, 104 anni dopo. Fino al termine della sua vita portò al dito l’anello nuziale dato da suo zio a sua nonna Giuseppina. Maria Luisa contrasse un matrimonio morganatico con Neipperg quattro mesi dopo la morte di Napoleone. Ebbero un figlio legittimo, dopo i primi due illegittimi. Neipperg morì nel 1829, e Maria Luisa si risposò con il conte di Bombelles e morì nel dicembre 1847; dal 1814 regnava su Parma, Piacenza e Guastalla.
I figli di Napoleone ebbero destini alquanto diversi. Napoleone II, Re di Roma e duca di Reichstadt, ebbe per breve tempo come tutore Marmont, che cercò invano di metterlo contro il padre. Entrò nell’esercito austriaco, ma morì di tubercolosi a Schönbrunn il 22 luglio 1832, a soli 21 anni; la sua maschera mortuaria è esposta nel museo napoleonico di Roma. I suoi resti vennero mandati a Les Invalides da Adolf Hitler nel 1940 per favorire l’amicizia tra l’Austria e il governo di Vichy in Francia. Il conte Alexandre Walewski aveva appena sette anni quando sua madre Maria Walewska morì, ma ricevette una buona educazione da suo zio, un ufficiale dell’esercito francese. Entrò nella legione straniera e combatté in Nord Africa; in seguito divenne ambasciatore a Londra, dove organizzò la visita di suo cugino Napoleone III in Inghilterra e anche quella della regina Vittoria in Francia. Fu eletto presidente del corpo legislativo e morì di infarto a Strasburgo nel 1868, a 58 anni. Charles Denuelle, conte Léon, figlio naturale di Napoleone ed Eléonore Denuelle de la Plaigne, somigliava così tanto al padre che per la strada la gente lo fissava. Nel 1832 sfidò duello un attendente di Wellington, e sostenne di essere stato salvato da un bottone della giacca che gli era stato regalato da Ortensia. Divenne un perdigiorno alcolizzato e litigioso che, sebbene Napoleone III pagasse i suoi debiti e gli versasse una pensione, morì in povertà di cancro allo stomaco nell’aprile 1881 a Pontoise. Sua madre era rimasta vedova nella campagna del 1812. Si risposò nel 1814 con il conte Charles-Émile-Auguste-Louis de Luxbourg, con cui rimase fino alla morte di lui, 35 anni dopo. Morì nel 1868.



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La tomba di Napoleone nella chiesa di Saint-Louis des Invalides

Bibliografia

Guido Gerosa, Napoleone, un rivoluzionario alla conquista di un impero, Milano, Mondadori, 1995
Sergio Valzania, Austerlitz, la più grande vittoria di Napoleone, Milano, Mondadori, 2005
Emil Ludwig, Napoleone. Voleva dominare il mondo ma fu sconfitto... Ma oggi tutti lo ricordano, mentre il nome dei vincitori è caduto nell'oblio, Milano, ed. BUR, 2000,
Emil Ludwig, Napoleone, il mondo era troppo piccolo per lui, Rizzoli, 1999
David G. Chandler, Le Campagne di Napoleone, Milano, RCS Libri - Superbur Saggi, 2002
Andrew Roberts, Napoleone il Grande,Utet, 2014

Eugenio Caruso 7 febbraio 2017


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