Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, mi dedico ora al Protagora.
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Protagora biografia
COMMENTO
Il Protagora è un dialogo dedicato al tema della possibilità di insegnare la virtù, teso in particolare a dimostrare l'inconsistenza dalla prassi educativa dei sofisti.[1 - Vedi note alla fine del commento]. Nel dialogo si ha una descrizione dettagliata, e in certi casi anche ironica, dei sofisti. Nonostante ciò, Socrate considera l’interlocutore una persona del tutto degna di rispetto e ne ammira l’erudizione; ugualmente Protagora stima Socrate “degno di eccellere tra i suoi coetanei”.
È interessante come tocchi proprio a Socrate dimostrare la tesi iniziale di Protagora, che il sofista, il quale ha mutato più volte opinione nel corso del dibattito, non era stato in grado di sostenere, e quindi appare inferiore a Socrate sul piano della capacità argomentativa.
Tra le opere meglio riuscite del filosofo per la sua ricercatezza stilistica, questo dialogo viene sovente accostato al Gorgia, che ha per protagonista l'altro padre della Sofistica: entrambi si collocano infatti nella fase di transizione dai dialoghi aporetici giovanili a quelli della maturità, e la loro data di composizione pertanto dovrebbe essere successiva al 388 a.C.[2]
Per quanto riguarda la struttura, il Protagora si presenta nella forma del dialogo riportato: Socrate, incontrato un amico anonimo, sfugge alle domande sulla sua relazione con Alcibiade proponendo al suo interlocutore il resoconto del dialogo avuto poco prima con Protagora alla presenza di altri importanti sofisti, oltre a Callia e allo stesso Alcibiade.
Non è ancora l'alba, quando Socrate viene svegliato dalla voce del giovane Ippocrate. Il motivo della visita è presto detto: Protagora, il celebre sofista, è giunto ad Atene[3] e Ippocrate vorrebbe diventare suo allievo. Tuttavia, per essere accettato, questi necessita che qualcuno lo presenti al sofista Ovviamente, Socrate acconsente ad accompagnare il giovane, desideroso di poter discutere con il celebre «maestro di virtù».
È però troppo presto per recarsi alla casa di Callia, il celebre mecenate ateniese che ospita Protagora,[4] e pertanto Socrate propone di spostarsi nel cortile, dove passerà il tempo discutendo con il giovane amico sulle aspettative che ha nei confronti del sofista. Ippocrate spera di poter ricevere una buona formazione, poiché il maestro a cui si sta per rivolgere ha fama di essere «un esperto della sapienza»; tuttavia non sa dire di quale sapienza sia esperto: anche affermando che il sofista insegna a tenere discorsi, resta aperto il problema del loro argomento. Non sapendo darsi una risposta, Ippocrate può solo ascoltare il monito di Socrate, che lo mette in guardia dall'affidare la propria formazione a persone che, come i sofisti, non danno garanzie sulla validità o meno dei propri insegnamenti. Essi sono infatti paragonabili a mercanti che cercano di vendere la propria merce; pertanto, se bisogna stare attenti a non farsi raggirare quando si acquistano beni che riguardano il corpo, a maggior ragione si dovrà stare attenti per ciò che riguarda l'anima, poiché è molto facile ricavarne dei danni irreversibili.
Continuando a discutere, Socrate e Ippocrate giungono infine alla meta: la casa di Callia. Tuttavia, una volta arrivati il portiere che sta di guardia all'ingresso, infastidito dall'andirivieni di sofisti, si rifiuta di lasciarli passare, e solo dopo molte insistenze i due riescono a entrare. Nel cortile interno alla casa scorgono subito Protagora che passeggia discutendo con i suoi seguaci, mentre, più discosti, Socrate individua i sofisti Ippia di Elide e Prodico di Ceo. Inoltre, poco dopo fanno il loro ingresso Alcibiade e Crizia.
È su questo sfondo che Socrate e Protagora terranno la loro discussione, una vera e propria assemblea a cui parteciperanno anche gli altri personaggi presenti. Il filosofo non perde tempo, e domanda subito al sofista quale guadagno avrà Ippocrate dalla sua frequentazione: Protagora infatti si propone di insegnare ai propri allievi una condotta assennata, in modo che diventino buoni cittadini.[5] Ma, domanda Socrate, è veramente possibile insegnare la virtù come si fa con le tecniche? Mentre per queste ultime si prende per valido solo il consiglio degli esperti, così non è per la virtù, riguardo alla quale si tiene conto dell'opinione di chiunque. Né d'altra parte esistono veri e propri esperti in materia e anzi, capita spesso che chi è virtuoso non sia poi in grado di insegnare ad esserlo ai propri figli. A queste obiezioni, Protagora decide di rispondere con un lungo discorso, a sua volta composto di due parti: un mythos e un logos.[6]
Il mythos racconta della creazione degli esseri umani a opera dei due titani Prometeo ed Epimeteo. Allorché i due fratelli furono incaricati di dare forma agli esseri che avrebbero popolato la terra, Epimeteo si mise all'opera per plasmare in modo armonioso i vari animali, facendo sì che nessuna specie sopraffacesse o annientasse un'altra: diede dunque velocità, zanne e artigli ai predatori (limitandone però il numero), forza, corna e zoccoli per difendersi agli erbivori, e così via. Tuttavia, quando Prometeo venne a controllare l'operato del fratello, vide che tra tutte le creature solo l'uomo era rimasto privo di difese, nudo e inerme di fronte a qualsiasi pericolo. Mosso a compassione, il titano rubò allora il fuoco a Efesto e la sapienza tecnica ad Atena, per donarli all'uomo. Forniti così di mezzi per sopravvivere, gli uomini rischiavano però di estinguersi a causa della diffidenza reciproca, che impediva la formazione di gruppi stabili e relegava gli individui alla solitudine. Preoccupato dalla sorte dei mortali, Zeus inviò allora Ermes sulla Terra affinché distribuisse pudore e giustizia a tutti gli uomini, di modo che tutti possedessero queste virtù. Quindi, mentre per le tecniche vi sono pochi esperti a cui gli altri si devono rivolgere in caso di bisogno, per la virtù ciò non accade, poiché tutti ne sono provvisti.[7]
La narrazione mitica permette a Protagora di svolgere alcune considerazioni nel lungo logos che segue. È infatti grazie al dono di Zeus che sono nate le città e i mortali sono usciti dalla condizione ferina; e proprio per mantenere questo status, i genitori educano fin dall'infanzia i figli alla virtù. La virtù umana è dunque insegnabile, e chiunque è in grado di apprenderla. Certo, qualcuno si dimostrerà meno virtuoso degli altri, ma d'altra parte ciò avviene anche nelle altre tecniche: tra gli allievi di un citaredo accade che qualcuno superi gli altri, eppure tutti, a loro modo, hanno appreso a suonare la cetra. E così, anche per la virtù, qualsiasi individuo che abbia ricevuto un'educazione sarà senz'altro più virtuoso di un primitivo o di un animale. Ulteriore dimostrazione che la virtù è insegnabile sono le leggi, che puniscono chi le viola: scopo della pena è infatti quello di evitare che il colpevole reiteri il reato, e ciò le attribuisce un valore correttivo difficilmente sostenibile se si ritiene che la virtù non sia insegnabile.
Il discorso di Protagora lascia senza parole Socrate, che solo a fatica riesce a riaversi dalla meraviglia. Ripresosi, interroga il sofista in merito a una lacuna del suo ragionamento: Protagora ha infatti parlato di santità, temperanza e coraggio come di parti di un'unica virtù. Ma queste parti come si articolano all'interno della virtù?
Il sofista accetta il paragone proposto da Socrate tra la virtù e il volto: coraggio, temperanza, santità, giustizia sono come occhi, naso, orecchi e le varie parti di un volto, distinte le une dalle altre ma in stretta relazione tra di loro. Tuttavia, lo stesso filosofo dimostra che non è possibile sostenere una distinzione netta tra le varie virtù, poiché, mentre gli uomini possono essere coraggiosi ma non santi, o giusti ma non temperanti, nel caso delle virtù prese in sé ciò non accade: la giustizia in sé è sempre santa, come la santità è giusta. Il bene, poi, ha come contrario il male, il giusto l'ingiusto, la sapienza l'ignoranza e, così, ogni cosa ha un solo contrario: non è dunque possibile che l'ignoranza sia allo stesso tempo contraria alla sapienza e alla saggezza, a meno che non si ammetta - appunto - che queste ultime siano la stessa cosa.
Dal canto suo, però, Protagora non è d'accordo e, irritato dalle domande di Socrate, propone una visione relativista della virtù, coerente con la sua dottrina dell’homo mensura ("Di tutte le cose misura è l'uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono").[8] Molte cose, afferma, sono buone e utili in certe circostanze, e in altre risultano dannose - così, certi farmaci sono utili all'uomo ma letali per alcuni animali, l'olio è dannoso per le piante ma ottimo per le pelli degli uomini, e via dicendo. Il bene è dunque qualcosa di vario e multiforme, e una stessa cosa può essere consigliabile a taluni e vietata ad altri.[9]
Le parole di Protagora ottengono l'approvazione dei presenti e l'indignazione di Socrate, che minaccia di lasciare la discussione qualora il sofista non lo accontenti abbandonando i lunghi discorsi e ricorrendo invece alla brachilogia (il termine "brachilogia", derivato dalle parole greche, brachys, breve e logos, discorso, indica un parlare conciso). Socrate dice infatti di essere smemorato, e di faticare a seguire un discorso troppo lungo: meglio allora procedere adagio con domande e risposte brevi.[10] Inoltre, aggiunge di doversi sbrigare, per via di una commissione che non può rimandare.[11] Protagora è però sprezzante a una simile proposta, e per calmare gli animi deve intervenire Callia, il padrone di casa, che insiste affinché Socrate non se ne vada. Intervengono così anche Alcibiade e Crizia, e quest'ultimo chiama in causa Prodico e Ippia. Unica via di soluzione è che Protagora interroghi Socrate, ponendogli delle domande. Pur contro voglia, Protagora accetta la proposta e inizia a interrogare Socrate sulla poesia. L'analisi letteraria dei carmi più importanti e diffusi, in cui venivano trattati temi etici, era infatti una prassi educativa tipica della Sofistica.[12]
Nello specifico, Protagora decide di partire dal carme A Skopas di Simonide di Ceo, in cui il poeta critica un'affermazione di Pittaco secondo cui sarebbe «difficile» mantenersi onesti: ciò sembra agli occhi di Protagora una contraddizione, poiché nello stesso carme Simonide aveva affermato in precedenza che «difficile» era diventare buoni. Socrate, tuttavia, è di avviso contrario e, chiamando in causa Prodico, concittadino di Simonide, ricorre alla sua dottrina della sinonimica[13] per svelare quello che sarebbe il genuino significato del carme. La parola «difficile», infatti, implica un riferimento al male, per cui Pittaco verrebbe criticato da Simonide per il semplice fatto che sembra ritenere un male il mantenersi buoni e onesti. Tralasciando poi questo tipo di analisi e rivolgendo l'attenzione all'intero carme, Socrate dimostra che anche Simonide era dell'idea che si compie il male non deliberatamente, per propria volontà, ma solo per ignoranza. Pittaco aveva sbagliato nel dire che mantenersi buoni è difficile: difficile è infatti divenire buoni, ma mantenere se stessi in tale condizione non è difficile, semmai divino! Solo chi è in piedi può cadere, e allo stesso modo, colto da sventura, potrà divenire malvagio solo chi è buono, e non chi lo è già. Il cattivo medico non è qualcuno che non conosce la medicina (non sarebbe nemmeno un medico), ma piuttosto un medico che ha studiato l'arte e opera male; e così, malvagio può esserlo solo un uomo buono divenuto cattivo per lo sciagurato evento di perderne la scienza.[14] Simonide, conclude Socrate, sembra dunque dire che nessuno compie il male volontariamente, ma perché costrettovi da eventi contingenti - ovvero, perché sottoposto alla volontà altrui o perché ha perso la conoscenza del bene.
Terminata la sua analisi del carme di Simonide, Socrate decide di tornare a discutere con Protagora sugli argomenti poc'anzi abbandonati, questa volta, però, ricorrendo alla brachilogia. Dopo aver richiamato l'attenzione sui punti lasciati in sospeso, Protagora dichiara che il coraggio è diverso dalle altre quattro virtù citate da Socrate (sapienza, temperanza, giustizia, santità), poiché capita spesso che uomini vili e malvagi abbiano in realtà coraggio. Protagora sembra intendere il coraggio nel senso di «audacia», la quale, osserva Socrate, nel caso degli ignoranti non è una virtù, ma follia: un soldato che non conosce le tecniche di lotta e si butta ugualmente nella battaglia non è coraggioso, semmai è pazzo.[15]
Protagora è però un interlocutore attento, e smaschera la strategia di Socrate: audacia e coraggio non sono la stessa cosa, anche se capita che gli audaci siano coraggiosi, poiché l'audacia è frutto sia di scienza che di follia, mentre il coraggio dipende dalla disposizione dell'animo. Il dialogo si sposta così sul rapporto bene-piacere e sull'opinione diffusa secondo cui è possibile compiere il male perché sopraffatti da piacere o dolore. Capita sovente, afferma Socrate con l'approvazione di Protagora, che ciò che al momento provoca piacere con l'andare del tempo sia causa di dolore, mentre altre cose che provocano dolore (come le cure mediche) in seguito diano effetti piacevoli: ora, se tutti riconoscono che i farmaci sono un bene, pur dando dolore in un primo momento, se ne deve dedurre che i beni e i mali si devono distinguere non per il loro effetto immediato, ma per l'effetto futuro. Ciò che dà effetti piacevoli è dunque un bene, mentre i mali provocano sofferenza (è la cosiddetta «tesi edonistica» del Protagora).[16] Pertanto, il bene coincide col piacere, il male con la sofferenza, e a chi obietta che il piacere immediato è da preferire a quello futuro si può rispondere che, come le grandezze lontane possono sembrare a uno spettatore più piccole di quanto non siano, allo stesso modo i piaceri futuri possono sembrare inferiori a quelli immediati, pur essendo in realtà superiori. La «salvezza della vita» sarà dunque raggiungibile con un'arte in grado di valutare i piaceri e i dolori in modo equilibrato, detta appunto «arte della misura».[17] Ma, se di tecnica si tratta, essa deve essere insegnabile, anche perché, d'altro canto, la sua ignoranza è causa di male - e quindi di dolore.
Da tutto questo Protagora esce di fatto confutato, poiché nello sviluppo della discussione ha negato la sua affermazione iniziale, e cioè che la virtù è un'arte. Socrate, al contrario, avendola spuntata sul sofista, può abbandonare la riunione e dedicarsi al suo improrogabile impegno - qualunque esso sia.
NOTE
1.^ Il Protagora ha per sottotitolo I sofisti, dialogo d'accusa (Diogene Laerzio III, 59).
2.^ In realtà la datazione relativa di Gorgia e Protagora è assai controversa, e non è facile stabilire quale dei due dialoghi sia stato scritto prima. Talvolta viene fatta valere la ricercatezza stilistica per sostenere la posteriorità del Protagora, mentre altri studiosi ritengono che il Gorgia presupponga il Protagora e quindi gli sia successivo. C. Kahn addirittura colloca la composizione del Gorgia ai primi anni dopo la morte di Socrate. Per approfondire si rimanda a: Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. XVIII-XX. Per la datazione del Protagora, si veda anche la cronologia riportata in: Platone, Protagora, a cura di F. Adorno, Bari 1996, p. XXXI.
3.^ Il soggiorno ateniese di Protagora a cui si fa riferimento, non è il primo (444 a.C.), ma il secondo, del 433 a.C. circa. Cfr. Platone, Protagora, a cura di F. Adorno, Bari 1996, p. 121, nota 11; Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, p. 64.
4.^ Callia era famoso in tutta Atene come protettore di artisti e sofisti. Si vedano ad esempio anche Apologia 20a e Cratilo 391b.
5.^ Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, p. 71.
6.^ Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, p. 76.
7.^ Non è da escludersi che il mito riportato da Platone segua le tesi che Protagora proponeva in una sua opera, intitolata Sulla costituzione originaria (DK 80 A1). Cfr. Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. 78ss.
8.^ DK 80A1; Teeteto 152a.
9.^ Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. 132-135.
10.^ Protagora è un campione nei discorsi lunghi (macrologia), mentre Socrate preferisce i discorsi brevi (brachilogia). Nei discorsi troppo lunghi, infatti, è possibile che passi di mente l'argomento della discussione, cosa che non accade se il discorso è breve. Ma poi Socrate è realmente così smemorato?
11.^ Quale sia l'impegno di Socrate non è dato sapersi. È però probabile che si tratti di un trucco per spuntarla sul riluttante sofista, inducendolo ad accettare la brachilogia e quindi permettere a Socrate di fare uso dell’elenchos. D'altra parte, si tenga presente che all'inizio si dice che l'intero dialogo viene narrato da Socrate ad alcuni amici, incontrati pochi attimi dopo avere lasciato il consesso in casa di Callia. Cfr. A. Capra, Agon logon: il Protagora di Platone tra eristica e commedia, Milano 2001, pp. 163-165.
12.^ W. Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze 1959, vol. 1, pp. 439ss.
13.^ La sinonimica di Prodico è la scienza del corretto uso delle parole. Prodico, allievo di Protagora, vantava di saper definire in modo univoco qualsiasi vocabolo, e il Protagora è la principale testimonianza attraverso cui siamo in grado di ricostruire questa dottrina. Cfr. W. Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze 1959, vol. 1, p. 465.
14.^ Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. 141-146.
15.^ Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. 149ss.
16.^ La tesi edonistica del Protagora ha sollevato non pochi problemi agli studiosi, considerando che l'edonismo viene svalutato in dialoghi come il Gorgia e il Filebo. Per approfondire: Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. pp. 161ss.
17.^ Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, p. 195.
VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=20CZFLsuSCU
TESTO
AMICO: Da dove salti fuori, o Socrate? Ma è chiaro, sicuramente torni dalla caccia al bell'Alcibiade!(1) L'ho visto ieri
l'altro, e mi è parso ancora un bell'uomo, e tuttavia ormai uomo, sia detto fra noi, o Socrate, che si è già quasi coperto di
barba!
SOCRATE: E con questo, allora? Non sei ammiratore di Omero, il quale sosteneva che l'età più grata è quella di
colui al quale spunta la prima barba,(2) appunto l'età che ha ora Alcibiade? (3) AMICO: E ora che fai? è veramente da
lui che vieni? E in che disposizione d'animo è, il giovanotto, nei tuoi riguardi?
SOCRATE: Buona, almeno mi è sembrato; anzi, oggi in modo particolare!
Ha fatto molte affermazioni in mio favore, per aiutarmi, ed è proprio da lui che vengo adesso. Ma voglio confidarti
una cosa ben strana: benché egli fosse lì, io non gli prestavo attenzione, e più di una volta mi dimenticai della sua
presenza.
AMICO: E che potrebbe mai esser successo di tanto grave fra te e lui?
Dì certo non avrai incontrato qualcun altro più bello di lui, non in questa città, almeno!(4) SOCRATE: E molto più
bello, per giunta!
AMICO: Che dici? Un cittadino o uno da fuori?
SOCRATE: Uno da fuori!
AMICO: Di dove?
SOCRATE: Di Abdera.(5) AMICO: E un forestiero ti è sembrato essere così bello da apparire ai tuoi occhi
addirittura più bello del figlio di Clinia? (6) SOCRATE: E come potrebbe, o carissimo, non apparire più bello il più
sapiente?
AMICO: Ma allora, o Socrate, è dall'incontro con un sapiente che sei di ritorno da noi?
SOCRATE: E col più sapiente dei nostri giorni, se anche tu stimi Protagora il più sapiente! (7) AMICO: Oh! Che
dici? Protagora è in città?
SOCRATE: Sono ormai tre giorni che è qui!
AMICO: Ed è proprio dall'incontro con lui che vieni?
SOCRATE: Certo! E dopo aver detto e ascoltato molte cose.
AMICO: Perché, allora, non ci racconti di quest'incontro, se non c'è nulla che te lo impedisca? Siediti qui! Fa' alzare
questo schiavo!
SOCRATE: Sicuro! Anzi, vi sarò grato se mi ascolterete.
AMICO: E noi saremo grati a te, se parlerai.
SOCRATE: La gratitudine sarebbe allora reciproca. State a sentire.
La notte scorsa, quando non era ancora l'alba, Ippocrate, figlio di Apollodoro e fratello di Fasone,(8) bussò a gran
forza, col bastone, alla mia porta; e, non appena qualcuno gli aprì , subito entrò, in gran fretta, e chiamando a gran voce:
«O Socrate!», disse.
«Sei sveglio o dormi?». Ed io, riconosciuta la sua voce: «Ippocrate», dissi, «sei tu? Mi porti forse qualche novità?»
«Nessuna», disse, «se non buone novità!». «Faresti bene a parlare, allora!», dissi. «Che c'è? Perché sei venuto a
quest'ora?» «Protagora è qui!», disse stando in piedi accanto a me. «Già da ieri l'altro», dissi.
«E tu l'hai saputo solo ora?» «Per gli dèi», disse, «l'ho saputo ieri sera!».
E intanto, cercato a tastoni il mio letto, si sedette ai miei piedi e disse: «Proprio ieri sera, sul tardi, quand'ero appena
rincasato da Enoè;(9) m'era scappato uno schiavo, Satiro. Stavo proprio per venire a dirti che gli avrei dato la caccia,
quando qualche altra cosa me ne fece dimenticare. Quando fui rincasato, dunque, e dopo che avevamo cenato, quando
stavamo ormai per andare a dormire, proprio allora mio fratello mi disse che era arrivato Protagora. Sul momento mi
accinsi a venire dritto da te, poi mi parve che fosse notte troppo inoltrata.
Ma, non appena il sonno mi lasciò libero dalla stanchezza, subito mi levai e venni qui». Ed io, conoscendo la sua
indole ardente ed impulsiva, gli dissi: «E che te ne importa? Ti ha forse fatto qualche torto Protagora?». Ed egli,
scoppiando a ridere, disse: «Sì , per gli dèi, o Socrate! Il torto che lui è il solo ad essere sapiente e non rende tale anche
me». «Ma sì , per Zeus», dissi io, «che renderà anche te sapiente, se gli darai denaro (10) e lo convincerai!». «Per Zeus e
per tutti gli dèi!», disse. «Magari dipendesse da questo! Non risparmierei un soldo né del mio denaro né dì quello degli
amici! Ma è proprio per questo che ora sono venuto da te, perché tu interceda presso di lui in mio favore: io sono troppo
giovane e per di più non ho mai visto Protagora, né l'ho mai sentito parlare. Ero ancora un ragazzino quando venne in
città la prima volta.(11) Ma tutti, o Socrate, elogiano quest'uomo e dicono che sia grande intenditore di eloquenza.
Perché, dunque, non andiamo da lui, per poterlo trovare in casa? Egli alloggia, come ho sentito dire, in casa di Callia,
figlio di Ipponico.(12) Su, andiamo!». Ed io gli dissi: «Non è ancora il momento di andare, o mio caro; è troppo presto.
Alziamoci, piuttosto, e andiamo qui, in cortile: passeremo il tempo a passeggiarvi aspettando che si faccia giorno; poi
andremo. Protagora, infatti, passa la maggior parte del tempo in casa. Sicché abbi fiducia, che, com'è probabile. lo
troveremo in casa».
Dopodiché, alzatici, andammo a passeggiare in cortile. Ed io, per mettere alla prova la forza d'animo di Ippocrate, lo
esaminai e gli feci queste domande: «Dimmi, Ippocrate», gli chiesi: «ora tu ti appresti ad andare da Protagora a pagargli
un compenso in denaro perché ti prenda sotto le sue cure; ebbene, da chi ti aspetti di andare e che cosa intendi
diventare? Mettiamo, ad esempio, che tu ti fossi messo in mente di andare dal tuo omonimo Ippocrate di Cos,(13)
l'Asclepiade, a dargli del denaro come compenso perché si prenda cura di te; ebbene, se qualcuno ti chiedesse: "Dimmi,
Ippocrate, tu stai per pagare a Ippocrate un compenso; chi sei convinto che egli sia, per farlo?", tu, allora, che cosa gli
risponderesti?» «Gli risponderei», disse, «che lo pagherei perché lo considero un medico». «E con l'intenzione di
diventare che cosa?» «Di diventare medico», disse. «E supponiamo, invece, che tu ti fossi messo in mente di andare da
Policleto di Argo (14) o da Fidia di Atene,(15) a pagare loro un compenso perché si prendano cura di te, e che qualcuno
ti chiedesse: "Tu hai in mente di pagare questa somma di denaro a Policleto e a Fidia; ebbene, chi sei convinto che essi
siano, per farlo?", che cosa risponderesti?» «Risponderei che lo farei perché li considero scultori». «E nella speranza di
diventare che cosa?» «Sperando, ovviamente, di diventare scultore!». «E sia», dissi. «Ora tu ed io, giunti da Protagora,
saremo disposti a pagargli un compenso in denaro perché ti prenda sotto le sue cure, spendendo tutto i nostri averi, se
questi basteranno a convincerlo, altrimenti, spendendo anche quelli degli amici; ebbene, se uno, vedendoci prendere la
cosa tanto seriamente, ci chiedesse: "Ditemi, o Socrate e Ippocrate, chi vi aspettate che sia Protagora per pensare di
spendere da lui il vostro denaro?", noi che cosa gli risponderemmo? Quale altro nome sentiamo dire riferito a
Protagora?
Ad esempio, riferito a Fidia sentiamo dire "scultore", e riferito ad Omero "poeta"; ebbene, quale nome di questo tipo
sentiamo dire riferito a Protagora?» «Sofista, o Socrate! Almeno, così chiamano quest'uomo», disse. «In quanto è
sofista, allora, andiamo a spendervi i nostri denai».
«Certo!». «E se qualcuno ti facesse quest'altra domanda: "E nella speranza di diventare che cosa tu vai da
Protagora?"». Ed egli, arrossendo (c'era già un po' di luce, sicché lo si poteva vedere), disse: «Se questo caso somiglia ai
casi precedenti, ovviamente sperando di diventare sofista».
«Ma tu, in nome degli dèi», dissi, «non proveresti vergogna a presentarti ai Greci in veste di sofista?» «Sì , per Zeus,
o Socrate, se bisogna proprio ch'io dica quello che penso!». «Ma forse, o Ippocrate, tu non pensi che l'istruzione che ti
verrà data da Protagora sarà qualcosa di questo tipo, ma che sarà piuttosto un'istruzione del tipo di quella che hai
ricevuto dal maestro di grammatica, dal maestro di musica e dal maestro di ginnastica: tu imparasti ciascuna di queste
discipline non in funzione dell'arte, per diventare cioè professionista in esse, ma solo in funzione della tua educazione
spirituale, come si addice al cittadino privato e libero». «è proprio questo», disse, «il tipo di istruzione che mi aspetto di
ricevere da Protagora».
«Sai, dunque, che cosa stai per fare ora, o questo ti sfugge?», continuai.
«Di che cosa stai parlando?» «Parlo del fatto che tu stai per affidare la tua anima alle cure di un uomo, che, come tu
dici, è un sofista. Che cosa poi sia un sofista, mi stupirei se tu lo sapessi. E se ignori questo, allora ignori pure a chi
affidi la tua anima, e se questo si risolverà in un fine buono o cattivo».
«Ma io penso di saperlo», disse. «Dimmi, allora: che cosa pensi che sia un sofista?» «Penso», rispose, «che, come
dice il nome stesso, egli sia l'esperto della sapienza». «Ma questo», dissi io, «lo si può dire anche dei pittori e degli
architetti, vale a dire che costoro sono gli esperti della sapienza. Ma se qualcuno ci chiedesse: "Di quale tipo di sapienza
sono esperti i pittori?", noi potremmo rispondergli che sono esperti di quel tipo di sapienza che mira alla realizzazione
di immagini; e anche negli altri casi potremmo ripondere nello stesso modo. Se qualcuno poi ci facesse questa
domanda: "Di quale tipo di sapienza è esperto il sofista?", noi che cosa potremmo rispondergli? Di produrre che cosa è
egli esperto?» «Che altro potremmo dire che egli è, o Socrate, se non esperto nel rendere abili a parlare?» «Forse»,
dissi, «la nostra definizione potrebbe anche essere vera; tuttavia non è sufficiente. Questa risposta, infatti, chiama
un'ulteriore domanda: su che cosa il sofista rende abili a parlare? Ad esempio, il maestro di cetra rende abili a parlare
della stessa cosa di cui rende anche esperti, ossia dell'arte di suonare la cetra.
Non è così ?» «Sì ». «E sia. Ma il sofista, di che cosa rende abili a parlare?» «Non è evidente che egli rende abili a
parlare proprio della cosa di cui rende anche esperti?» «è naturale. Ma che cos'è, allora, ciò di cui il sofista è esperto e
su cui rende esperto il suo discepolo?» «Per Zeus!», disse. Non so più che cosa risponderti».
Ed io, a questo punto, gli dissi: «E allora? Sai in quale pericolo vai a mettere la tua anima? Se tu dovessi affidare a
qualcuno il tuo corpo correndo il rischio che diventi buono o cattivo, faresti molte considerazioni sull'opportunità di
affidarlo o no, e cercheresti consiglio dagli amici e dai parenti, riflettendovi molti giorni. Invece, quando è in gioco ciò
che tu consideri più prezioso del corpo, vale a dire l'anima, dalla quale dipende la buona o cattiva riuscita di tutte le tue
azioni, a seconda che essa sia, rispettivamente, buona o cattiva, in questo caso non ti sei consigliato né con tuo padre, né
con tuo fratello, né con alcuno dei tuoi amici sull'opportunità di affidare o no la tua anima a questo forestiero appena
arrivato da fuori; ma, saputo del suo arrivo la sera, come tu racconti, di primo mattino sei già qui, senza far parola né
chiedere consiglio se tu debba o no affidarti a costui, e sei pronto a spendere il tuo denaro e quello degli amici, come se
già avessi deciso che a tutti i costi bisogna frequentare la scuola di Protagora, che del resto tu non conosci, come tu
stesso riconosci, e con cui non hai mai conversato; che tu chiami sofista e hai tutta l'aria di ignorare che cosa mai sia
questo sofista al quale tu stai per affidare te stesso». Ed egli, dopo avermi ascoltato, disse: «Così pare, o Socrate, da
quanto tu dici». «Dunque, o Ippocrate, il sofista non è forse una specie di mercante all'ingrosso (16) o rivenditore al
minuto di quelle merci di cui l'anima si nutre? A me, almeno, pare che sia qualcosa del genere». «Ma di che cosa si
nutre l'anima, o Socrate?» «Di conoscenze, non c'è dubbio», risposi io. E bisogna tenere gli occhi bene aperti, amico
mio, che il sofista, lodando la sua mercanzia, non ci inganni, come fanno quelli che vendono il cibo del corpo, cioè il
mercante e il bottegaio. Costoro, infatti, delle merci che trattano, non sanno neppur essi quale sia buona e quale sia
cattiva per il corpo, ma le lodano tutte pur di venderle.
E non lo sanno neppure quelli che da loro le comprano, a meno che uno non sia maestro di ginnastica o medico.
Così anche coloro che trafficano in conoscenze, portandole in giro di città in città, per smerciarle all'ingrosso o
rivenderle al minuto a chi di volta in volta le desidera, lodano tutto ciò che hanno da vendere. Ma forse, o carissimo,
anche fra costoro ci sono alcuni che ignorano, delle merci che trattano, quale è buona e quale è cattiva per l'anima.
E allo stesso modo lo ignorano anche quelli che da loro le comprano, a meno che uno non sia medico dell'anima. Se
tu, dunque, te ne intendi di quale di queste conoscenze sia buona e quale cattiva, allora per te è un acquisto sicuro
comprarle da Protagora e da chiunque altro. Altrimenti, bada, o carissimo, di non giocarti e di non mettere a repentaglio
quanto hai di più caro. Infatti, c'è un pericolo ben più grande nell'acquisto di conoscenze che nell'acquisto di cibi, perché
quando si comprano cibi e bevande dal bottegaio o dal mercante li si può portar via in altri recipienti, e, prima di
assumerli nel proprio corpo, bevendoli o mangiandoli, dopo averli riposti in casa, si può chiedere consiglio,
domandando a chi se ne intende, su quale vada mangiato o bevuto e quale no, e in che quantità e quando. Sicché
nell'acquisto non c'è grande pericolo.
Conoscenze, invece, non se ne possono portar via in un altro recipiente; ma, necessariamente, una volta saldato il
conto, e assunta e imparata quella conoscenza proprio nell'anima, si va via o danneggiati o beneficati. Queste faccende,
dunque, esaminiamole anche con quelli più vecchi di noi, perché noi siamo ancora troppo giovani per risolvere
questioni di tale importanza. Ora però, visto che ormai siamo in ballo, andiamo a sentire quest'uomo e poi, dopo che
l'avremo ascoltato, ci consulteremo anche con altri.
Là, infatti, non c'è solo Protagora, ma anche Ippia di Elide, (17) e, penso, Prodico di Ceo (18) e molti altri sapienti».
Presa questa decisione, ci incamminammo e, una volta giunti nel vestibolo, fermati i nostri passi, discutemmo di una
questione su cui la conversazione, lungo la strada, era caduta. Dunque, per non lasciarla in sospeso ma portarla a una
conclusione e solo allora entrare, poi, in casa, continuammo a discutere stando in piedi nel vestibolo, finché arrivammo
ad un accordo. Ebbene, ho l'impressione che il portinaio, un eunuco, ci abbia sentiti, e può darsi che, a causa della gran
folla di sofisti, fosse irritato con quelli che venivano in visita a quella casa. Certo è che, quando bussammo alla porta,
dopo averci aperto e averci visti, disse: «Ahimè! Sofisti!
Non ha tempo!». E intanto, con entrambe le mani, con tutta la forza di cui era capace sbatté la porta. Noi, allora,
tornammo a bussare, ed egli, senza aprire la porta, per tutta risposta ci disse: «Gente! Non avete sentito che non ha
tempo?» «Ma, buon uomo», dissi io, «non è da Callia che veniamo, nè siamo sofisti. Fatti animo! Siamo venuti perché
abbiamo bisogno di vedere Protagora. Annunciaci, dunque!». A quel punto, dì mala voglia, l'uomo ci aprì la porta.
Una volta entrati, trovammo Protagora che passeggiava sul lato anteriore del portico. Accanto a lui passeggiavano,
in ordine di posto, da una parte Callia figlio di Ipponico e il suo fratello uterino, Paralo figlio di Pericle, (19) e Carmide
figlio di Glaucone; (20) dall'altra parte, l'altro figlio di Pericle, Santippo, (21) Filippide figlio di Filomelo (22) e
Antimero di Mende,(23) che fra i discepoli di Protagora è quello che si fa più onore e che impara il mestiere, per
diventare a sua volta sofista. Quelli, poi, che seguivano costoro da dietro per ascoltare ciò che si diceva, per la maggior
parte avevano l'aria dì essere gente da fuori, di quella gente che Protagora si tira dietro da ciascuna delle città per cui
passa, incantandoli con la voce come Orfeo,(24) e quelli seguono la sua voce ammaliati.
E in quel coro c'erano anche alcuni del posto. Ed io, alla vista di questo coro, fui deliziato a vedere con che cautela
stavano attenti a non venire a trovarsi davanti a Protagora e a non essergli d'intralcio, e a vedere come, quando lui sì
girava, e con lui si giravano quelli che camminavano al suo fianco, in bell'ordine questi uditori si dividevano facendo
ala da una parte e dall'altra e, girando in circolo, tornavano a disporsi alle loro spalle in bel modo davvero.
E dopo di lui conobbi, come dice Omero,(25) Ippia di Elide, seduto su un seggio sul lato opposto del portico;
intorno a lui sedevano su panche Erissimaco figlio di Acumeno,(26) Fedro del demo di Mirrinunte, (27) Androne figlio
di Androzione (28) e, tra i forestieri, alcuni suoi concittadini, e altra gente ancora. Mi parve che stessero interrogando
Ippia su questioni astronomiche, a proposito della natura e dei fenomeni celesti, e lui, dall'alto del suo seggio, risolveva
e spiegava quanto gli veniva chiesto.
E poi vidi anche Tantalo. (29) C'era, infatti, anche Prodico di Ceo: (30) stava in una stanza che Ipponico prima
usava come dispensa; ma ora, visto il gran numero di quelli che avevano preso alloggio lì , Callia aveva sgomberato
anche quella e ne aveva fatto un quartiere per gli ospiti. Ebbene, Prodico era ancora a letto, avvolto in certe pelli e
coperte, che erano davvero molte, a quanto sembrava.
Vicino a lui sedevano, sui letti lì accanto, Pausania del Ceramico (31) e, con Pausania, un giovane, ancora
adolescente, a mio giudizio di indole buona e onesta, e senza dubbio di gran bell'aspetto.
Mi parve di sentire che il suo nome fosse Agatone, (32) e non sarei meravigliato se fosse l'amato di Pausania. C'era,
dunque, questo giovanotto e i due Adimanto, il figlio di Cepide e il figlio di Leucolofide, (33) e si vedeva altra gente
ancora. Di che cosa parlassero, non potevo capirlo dal di fuori, per quanto ardessi dal desiderio di sentire Prodico,
perché lo considero uomo sapientissimo e divino; ma la sua voce profonda rimbombava nella stanza e rendeva
incomprensibili le parole.
Eravamo appena entrati, quando dietro di noi entrarono Alcibiade il bello, (34) come tu dici, e io te ne do ragione, e
Crizia figlio di Callescro.(35) Entrati che fummo, passato ancora qualche tempo a osservare quello spettacolo, ci
avvicinammo a Protagora, e io dissi: «O Protagora, è per te che siamo venuti io e questo Ippocrate».
«Per parlarmi da solo», disse, «o anche davanti agli altri?» «Per noi», risposi, «non fa alcuna differenza; piuttosto,
quando avrai udito il motivo per cui siamo giunti, sarai tu a decidere».
«Qual è, dunque», disse, «il motivo per cui siete giunti?» «Questo Ippocrate è uno di qui, figlio di Apollodoro, di
famiglia importante e ricca, e lui stesso per natura, mi sembra, può competere coi suoi coetanei. Ha l'ambizione, mi
pare, di diventare persona di spicco in questa città, ed è convinto che questo gli riuscirebbe con particolare successo se
solo potesse frequentarti.
Ora vedi tu, se pensi che di queste cose si debba discutere da solo a solo, o in presenza di altri».
«è giusto, o Socrate», disse, «che tu ti prenda di questi riguardi nel mio interesse. Per un forestiero, infatti, che va
nelle grandi città e in esse convince il fiore della gioventù a lasciare la compagnia degli altri, sia dei familiari sia degli
estranei, sia dei più vecchi sia dei più giovani, e a frequentare lui nella speranza di diventare migliori per effetto della
sua compagnia; ebbene, per chi fa questo è necessario esser molto cauti, perché non piccole invidie nascono intorno a
queste cose, per non dire di altri rancori e insidie.
Io affermo che la sofistica è un'arte antica, ma che quegli antichi che la praticavano, nel timore dell'odiosità che essa
suscita, si sono costruiti un paravento e ce l'hanno nascosta dietro, alcuni il paravento della poesia, come Omero,(36)
Esiodo (37) e Simonide; (38) altri quello dei riti e dei vaticini, come Orfeo, (39) Museo (40) e i loro adepti; mi sono
accorto poi di alcuni che perfino della ginnastica si sono fatti paravento, come Icco di Taranto (41) e colui che è tuttora
sofista a nessuno inferiore, Erodico di Selimbria, nativo di Megara.(42) Si servì , invece, della musica come paravento il
vostro Agatocle,(43) che fu grande sofista, e come lui Pitoclide di Ceo (44) e molti altri. Tutti costoro, come dicevo, per
paura dell'invidia si servirono di queste arti come coperture. Io, invece, dissento in questo da tutti costoro: non credo,
infatti, che abbiano ottenuto ciò che speravano. In effetti, agli uomini che hanno potere nelle città non passano
inosservati gli scopi che questi paraventi hanno.
Certo, la maggior parte della gente non si accorge, diciamo, di niente, ma ripete come un ritornello le dichiarazioni
di costoro. Ora, se uno, mentre tenta di sfuggire, non la fa franca, ma la sua fuga viene scoperta, è gran follia anche il
solo averla tentata, e, di necessità, questo rende gli uomini molto più ostili, perché pensano che una persona del genere
sia, oltre al resto, anche un truffatore. Io, quindi, ho imboccato la strada opposta alla loro: ammetto di essere un sofista e
di educare gli uomini, e ritengo che questo, cioè ammetterlo anziché negarlo, sia una cautela più efficace dell'altra. E
oltre a questa ho escogitato altre precauzioni, in modo che, con l'aiuto di un dio, non mi capiti alcun guaio per il fatto di
ammettere che sono un sofista. Eppure, sono anni ormai che pratico quest'arte, e certo, mettendo insieme i miei anni,
molti ne ho: non c'è nessuno fra tutti voi di cui io, per età, non possa essere padre. Sicché, se avete qualche richiesta,
preferisco di gran lunga che ne parliate di fronte a tutti i presenti».
Ed io, sospettando che egli volesse farsi bello di fronte a Prodico e a Ippia e pavoneggiarsi del fatto che noi eravamo
arrivati lì perché suoi ammiratori, dissi: «Perché, allora, non chiamiamo anche Prodico e Ippia e quelli che sono con
loro, affinché possano stare ad ascoltare?» «Sicuro!», disse Protagora.
«Volete, allora», chiese Callia, «che faccia preparare una sala coi seggi, perché possiate discutere stando seduti?».
Parve che così si dovesse fare, e noi tutti, contenti al pensiero che avremmo ascoltato quei sapienti, presi da noi gli
scanni e le panche, li sistemammo vicino ad Ippia, perché lì c'erano già altri scanni.
In quella giunsero Callia e Alcibiade, portandosi dietro Prodico, che avevano fatto alzare dal letto, e quelli che si
trovavano insieme a Prodico.
Come ci fummo tutti seduti, Protagora disse: «Ora che anche costoro sono presenti, o Socrate, dimmi pure ciò a cui
prima accennavi a proposito di questo giovanotto».
Ed io dissi: «Il motivo principale che ci ha spinti qui, o Protagora, è lo stesso di cui poco fa ti dicevo. Questo
Ippocrate desidera frequentare la tua compagnia. Che cosa gliene verrà, frequentandoti, sarebbe contento, lui dice, di
saperlo. Questo è quanto avevamo da dirti».
Protagora, allora, prese la parola e disse: «Giovanotto, se mi frequenterai, sin dal giorno medesimo che comincerai a
frequentarmi, potrai tornartene a casa migliore di prima, e il giorno successivo la stessa cosa. E di giorno in giorno farai
continui progressi verso il meglio».
Ed io, udito ciò, dissi: «O Protagora, questo che dici non è nulla di stupefacente, ma è normale, dal momento che
anche tu, benché così avanti negli anni e così sapiente, se qualcuno ti insegnasse qualcosa che tu avessi la ventura di
ignorare, diventeresti migliore. Ma la questione non va posta in questi termini: piuttosto, supponiamo che Ippocrate,
mutando improvvisamente desiderio, volesse frequentare quel giovane che è da poco in città, Zeusippo di Eraclea, (45)
e che, andato da lui, come ora è venuto da te, si sentisse dare da lui la stessa risposta che ora sente da te, e cioè che ogni
giorno, a frequentare lui, diventerebbe migliore e farebbe progressi.
Ora, se gli facesse quest'altra domanda: "In che cosa mi assicuri che sarò migliore e farò progressi?", Zeusippo gli
risponderebbe che questo accadrebbe nella pittura. E supponiamo che, andato a trovare Ortagora di Tebe, (46) dopo
aver sentito da lui le stesse cose che ora ha sentito da te, gli chiedesse in che cosa diventerebbe di giorno in giorno
migliore frequentandolo, quello gli risponderebbe che diventerebbe migliore nell'arte di suonare il flauto. Ebbene, è in
questi termini che anche tu devi rispondere a questo giovane e a me che ti interrogo per suo conto: "Questo nostro
Ippocrate, frequentando Protagora, fin dal giorno stesso in cui prenderà a frequentarlo se ne andrà migliore di come è
venuto, e così continuerà a fare progressi per ciascuno dei giorni successivi: ma progressi verso che cosa, o Protagora, e
in quale campo?"».
E Protagora, udite queste mie domande, rispose: «Le tue domande sono a proposito, o Socrate, ed io rispondo
volentieri a chi fa domande appropriate. Se Ippocrate verrà da me, non gli capiterà quello che gli accadrebbe
frequentando un altro sofista, perché gli altri sofisti rovinano i giovani; infatti, mentre costoro sono fuggiti dalle arti,
quelli tornano a gettarli nelle arti, trascinandoveli contro voglia, insegnando loro calcolo, astronomia, geometria e
musica», e intanto gettò un'occhiata verso Ippia. «Frequentando me, invece, non imparerà altro se non ciò per cui è
venuto. E il mio insegnamento ha come oggetto il buon senso, (47) sia nelle faccende private, ossia come amministrare
al meglio la propria casa, sia negli affari della città, ossia come diventare abilissimo nel curare gli interessi della città,
nell'agire e nel parlare».
«Dimmi», dissi allora, «se riesco a seguire il tuo ragionamento: mi pare che tu stia parlando dell'arte politica e che
prometta di fare degli uomini dei buoni cittadini».
«è proprio questa, o Socrate», rispose, «la professione che io professo!».
«Bell'acquisto davvero», dissi, «quest'arte che possiedi, ammesso che tu la possieda! Non ti dirò altro se non quello
che penso. Non credevo, Protagora, che questo si potesse insegnare, ma, visto che tu lo sostieni, non ho motivo di non
crederti. è giusto, però, che io spieghi l'origine della mia convinzione che questo non si potesse insegnare né procurare
da uomo a uomo. Io sostengo, come del resto anche gli altri Elleni sostengono, che gli Ateniesi sono molto sapienti.
Ebbene, io vedo che, quando ci raduniamo in assemblea, se la città ha a che fare con questioni che riguardano la
costruzione di edifici, si fanno intervenire in veste di consiglieri in materia di costruzioni gli architetti; se, invece, deve
prendere qualche decisione circa la costruzione di navi, si mandano a chiamare i costruttori di navi, ed è lo stesso il
criterio seguito quando si tratta di tutte le altre cose che, essi ritengono, si possano imparare ed insegnare. Ma se prova a
dar loro consigli qualcun altro che essi non stimano pratico dì quel dato mestiere, per quanto sia bello, ricco e nobile,
non per questo lo ascoltano, ma lo deridono ed esprimono il proprio malcontento levando un gran baccano, finché colui
che ha tentato di parlare, interrotto da quel baccano, non desista per conto suo, o gli arcieri non lo tirino via e lo caccino
fuori per ordine dei Pritani. (48) Così agiscono, dunque, in quelle questioni che essi ritengono dipendere da un'arte.
Quando invece si tratta di decidere circa l'amministrazione della città, allora si leva a dar loro consigli su tali questioni,
indifferentemente, l'architetto, il fabbro, il calzolaio, il mercante, l'armatore, il ricco, il povero, il nobile e il plebeo, e a
costoro nessuno rinfaccia, come invece si rinfaccia a quelli del caso precedente, di mettersi a dar consigli senza aver
prima imparato da qualche parte e senza aver avuto alcun maestro. è chiaro che questo accade perché non la
considerano cosa che si possa insegnare. E bada che questo non accade solo nella vita pubblica della città, ma che anche
nella vita privata i più sapienti e i migliori cittadini non sono capaci di trasmettere ad altri quella virtù che essi
possiedono.
Pericle, ad esempio, padre di questi giovani, (49) diede loro un'educazione ineccepibile in quelle cose che dipendono
dai maestri, mentre in quelle cose in cui è egli stesso sapiente, né li educa personalmente, né li affida ad altri, ma lascia
che pascolino circolando liberamente come animali sacri, affinché possano, in qualche posto, imbattersi da soli nella
virtù. E se vuoi un altro caso, lo stesso Pericle, avendo la tutela di Clinia, (50) fratello minore del nostro Alcibiade, e
nutrendo per lui il timore che venisse corrotto da Alcibiade, lo staccò da costui e lo mise in casa di Arifrone,(51) perché
lo educasse; ebbene, prima che fossero passati sei mesi, quello glielo restituì , non sapendo farne nulla di buono. E potrei
farti il nome di moltissimi altri uomini, che, per quanto buoni fossero essi stessi, non riuscirono mai a rendere migliore
nessun altro, né dei familiari né degli estranei. Se io, dunque, guardo a questi casi, o Protagora, non penso che la virtù
sia insegnabile. Ma adesso che ti sento fare queste affermazioni, mi lascio piegare e penso che quello che dici deve pur
valere qualcosa, perché credo che tu abbia esperienza di molte cose, che molte le abbia imparate e molte le abbia
scoperte per conto tuo. Perciò, se hai modo di mostrarci con maggiore evidenza che la virtù è insegnabile, non rifiutarci
questa dimostrazione».
«Ma io, o Socrate», disse, «non mi rifiuterò! Preferite, invece, che io, come anziano che si rivolge a gente giovane,
ve lo dimostri raccontando un mito o analizzandolo col ragionamento?».
Molti dei presenti gli risposero che lo dimostrasse pure come voleva.
«Allora», diss'egli, «a me pare che sarebbe più gradito se io vi raccontassi un mito.
C'era un tempo in cui esistevano gli dèi, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando poi anche per queste venne il
tempo destinato per la loro creazione, furono dèi a foggiarle, nell'interno della terra, mescolando terra e fuoco e quelle
sostanze che si fondono con fuoco e terra. E quando era destino che dovessero portarle alla luce, assegnarono a
Prometeo e ad Epimeteo (52) l'incarico di fornire e di distribuire facoltà a ciascuna razza come si conviene. Ma
Epimeteo chiese a Prometeo di lasciar fare a lui la distribuzione: "Quando le avrò distribuite", gli disse, "tu verrai a
controllare". E, dopo averlo così persuaso, mise mano alla distribuzione.
Nel corso della distribuzione, ad alcune razze assegnò la forza senza la velocità, mentre fornì le razze più deboli di
velocità. Certe razze le provvide di armi di difesa, per altre, invece, cui aveva conferito una natura inerme, escogitò
qualche altra facoltà che assicurasse loro la salvezza. Infatti, quelle razze che rivestì di piccolezza, le provvide della
capacità di fuggire con le ali, o di rifugiarsi in tane sotterranee; a quelle che invece fece crescere in grandezza, garantì la
salvezza proprio con questo mezzo. E le altre facoltà le distribuì cercando di compensarle in questo modo. Ed escogitò
questo avendo la cautela che nessuna specie potesse estinguersi. Dopo che le ebbe provviste di vie di scampo dalla
distruzione reciproca, escogitò un efficace espediente perché si proteggessero contro le stagioni mandate da Zeus,
vestendole di peli folti e di pelli spesse, adatte a proteggerle dal freddo e capaci di difenderle anche dalla calura, e tali
che, quando si mettono a dormire, ciascuna specie trovi in esse le sue coltri personali e naturali. E alcune le calzò di
zoccoli, altre invece le provvide di pelli spesse e senza sangue. In seguito, procacciò certi cibi per certe specie, altri per
altre: ad alcune specie riservò le erbe della terra, ad altre i frutti degli alberi, ad altre le radici.
E vi sono specie cui concesse di trovare il loro nutrimento predando altre specie animali. E fece in modo che le une
fossero poco feconde, e che quelle destinate a esser preda di queste fossero invece molto prolifiche, al fine di assicurare
la conservazione della specie. Se non che, non essendo un tipo molto accorto, Epimeteo non s'avvide di aver speso tutte
le facoltà con gli animali: gli restava ancora sprovvista la razza umana, e non sapeva trovare una soluzione. Mentre si
trovava impacciato in quest'inghippo, Prometeo viene a controllare il risultato della distribuzione, e vede che le altre
specie animali erano ben provviste di tutto, mentre l'uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. Ed era ormai vicino il
giorno predestinato in cui bisognava che anche l'uomo uscisse dalla terra alla luce. Prometeo, allora, trovandosi in
difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l'uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza
tecnica insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all'uomo.
Grazie ad essa l'uomo possedeva la sapienza necessaria a sopravvivere, ma gli mancava ancora la sapienza politica,
perché questa era in mano a Zeus. Prometeo poi non aveva più accesso all'acropoli, dimora di Zeus; per di più, c'erano
anche le terribili guardie di Zeus. Egli allora s'introduce furtivamente nell'officina che Atena ed Efesto avevano in
comune, in cui essi lavoravano insieme, e, rubata l'arte del fuoco di Efesto e quell'altra arte che apparteneva ad Atena, la
dona all'uomo: di qui vennero all'uomo i mezzi per vivere. Ma in seguito, come si racconta, Prometeo, per colpa di
Epimeteo, venne punito per quel furto.
E, poiché l'uomo venne ad aver parte di un destino divino, innanzi tutto, per via di questa sua parentela col dio, solo
fra gli animali credette negli dèi, e si mise a innalzare altari e statue di dèi.
In seguito, con l'arte presto articolò voce e parole, inventò dimore, vesti, calzari, giacigli e scoprì i cibi che venivano
dalla terra.
Così provvisti, all'inizio gli uomini abitavano in insediamenti sparsi, e non esistevano città. Perciò morivano uccisi
dalle fiere, poiché erano sotto ogni rispetto più deboli di esse, e l'arte artigiana che essi possedevano bastava loro a
procurarsi cibo, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, non possedevano ancora l'arte politica, di cui
l'arte della guerra è parte. Cercavano quindi di unirsi e di salvarsi fondando città. Ma, una volta che si erano uniti, si
facevano torti l'un l'altro, perché non possedevano l'arte politica, sicché, tornando a disperdersi, morivano. Zeus, allora,
temendo che la nostra specie si estinguesse, manda Ermes a portare agli uomini rispetto e giustizia, perché fossero
regole ordinatrici di città e legami che uniscono in amicizia. Ermes chiede a Zeus in quale modo dovesse dare agli
uomini giustizia e rispetto: "Devo distribuirli seguendo lo stesso criterio con cui si sono distribuite le arti? Perché quelle
vennero distribuite in questo modo: uno solo che possieda l'arte medica basta per molti che di quell'arte sono profani, e
così per gli altri specialisti.
Ebbene, giustizia e rispetto devo distribuirli fra gli uomini con questo criterio, o devo distribuirne a tutti?" "A tutti",
disse Zeus, "che tutti ne diventino partecipi. Perché non potrebbero nascere città, se solo pochi di loro ne avessero parte,
come accade per le altre arti. Istituisci, anzi, una legge per conto mio: chi è incapace di partecipare di rispetto e giustizia
sia messo a morte come flagello della città". Così stanno le cose, Socrate, e queste sono le ragioni per cui gli Ateniesi, e
gli altri, quando si tratta della competenza nell'arte di costruire o di qualunque altra competenza artigiana, credono che
solo a pochi spetti il diritto di partecipare alle decisioni, e se uno, che sia al di fuori di quei pochi, si mette a dare
consigli, non lo tollerano, come tu dici: e con ragione, dico io. Quando invece si riuniscono in assemblea su questioni
che hanno a che fare con la virtù politica, questioni che vanno trattate interamente con giustizia e temperanza, allora,
giustamente, lasciano che chiunque dia il proprio parere, nella convinzione, appunto, che a tutti spetti di partecipare di
questa virtù, o non esisterebbero città. Questa, Socrate, ne è la ragione.
Ma perché tu non creda di essere ingannato circa la mia affermazione che tutti ritengono che ogni uomo partecipi
della giustizia e di ogni altra virtù politica, eccotene la prova. In tutte le altre competenze, come dici, se qualcuno
afferma di essere, ad esempio, un abile suonatore di flauto, o di essere abile in qualsiasi altra arte in cui invece non lo
sia, o ridono di lui o gli si adirano contro, ed i suoi di casa vanno da lui e cercano di farlo tornare in sé dandogli del
pazzo. Quando si tratta invece di giustizia o di qualsiasi altra virtù politica, anche se tutti sanno che uno è ingiusto,
quando costui dica contro il proprio interesse la verità di fronte a molta gente, la stessa cosa che nel caso precedente
veniva considerata saggezza, cioè il dire la verità, in questo caso viene considerata segno di pazzia; e sostengono che
tutti devono dichiarare di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di esserlo. E questo accade perché
sono convinti che ognuno debba necessariamente, in un modo o nell'altro, partecipare di questa virtù, o che, nel caso
contrario, non debba vivere fra gli uomini.
Il concetto che ti ho ora espresso7 dunque, è che gli Ateniesi accettano con ragione che ogni uomo dia consigli
quando si tratta di virtù politica, per il fatto che sono convinti che ognuno partecipa di essa. E il prossimo concetto che
tenterò di dimostrarti è che questa virtù non è un dono di natura né del caso, ma che è insegnabile e che chi la possiede
la raggiunge grazie all'impegno. Nel caso di quei mali, infatti, che gli uomini credono, gli uni degli altri, di avere per
natura o per caso, nessuno si sdegna, né ammonisce o ammaestra o rimprovera quelli che li hanno, perché smettano di
essere tali, ma ne provano pietà. Chi potrebbe, ad esempio, essere così insensato da mettersi a fare una cosa del genere
coi brutti, coi piccoli o coi deboli? Tutti sanno infatti, ne sono convinto, che queste cose vengono agli uomini perché
portate dalla natura o dal caso, ossia le belle qualità e i difetti corrispondenti.
Nel caso, invece, di quelle qualità che si considerano essere per gli uomini frutto di impegno, di esercizio e di
insegnamento, quando uno non le abbia, ed abbia invece i difetti opposti a quelle qualità, su costui e su quelli come lui
cadono collere, rimproveri e ammonimenti. E uno di questi mali è l'ingiustizia, l'empietà, e, in somma, tutto ciò che è
contrario alla virtù politica. è per questo che tutti si sdegnano contro tutti e a tutti dispensano le proprie esortazioni,
evidentemente perché sono persuasi che la virtù politica è frutto di impegno e di studio. Se tu, o Socrate, vorrai
considerare quale effetto può avere il punire coloro che commettono ingiustizia, questo basterà ad insegnarti che gli
uomini considerano la virtù cosa che possa essere trasmessa. Nessuno, infatti, punisce i colpevoli di ingiustizie in
considerazione del fatto che commisero ingiustizia e per questo motivo, a meno che uno, come una belva, non cerchi
irrazionale vendetta. Ma chi tenta di punire razionalmente, non punisce per l'ingiustizia passata, perché non potrebbe far
sì che ciò che è stato fatto non sia accaduto, ma punisce pensando al futuro, perché non torni a compiere ingiustizie né
quello stesso individuo né altri che lo veda punito.
E chi ha una tale opinione, pensa che la virtù possa essere oggetto di educazione: è per prevenzione, dunque, che
punisce. E quest'opinione è condivisa da tutti coloro che puniscono, e nella vita privata e in quella pubblica. E così gli
altri popoli puniscono e castigano coloro che essi ritengono colpevoli di ingiustizia, e non meno degli altri gli Ateniesi
tuoi concittadini. Sicché, secondo questo ragionamento, anche gli Ateniesi rientrano fra quelli che credono che la virtù
possa essere trasmessa ed insegnata.
Che, dunque, a ragione i tuoi concittadini ammettano anche un fabbro o un calzolaio a dar consigli negli affari
politici, e che ritengano che la virtù si possa insegnare e trasmettere, o Socrate, ti è stato dimostrato a sufficienza,
almeno a mio giudizio.
Resta quindi ancora una difficoltà che tu non sapevi risolvere a proposito degli uomini valenti: perché mai quegli
uomini che sono valenti insegnano ai propri figli quelle altre cose che dipendono dai maestri e in queste cose li rendono
sapienti, mentre in quella virtù in cui essi stessi sono valenti non sono capaci di renderli migliori di nessun altro. Su
questo punto, Socrate, non ti racconterò più un mito, ma ti farò un ragionamento. Prova a considerare la questione in
questo modo: esiste o non esiste una cosa unica, di cui è necessario che tutti i cittadini partecipino, perché possa esserci
una città? Qui sta infatti la soluzione della difficoltà che tu poni e da nessun'altra parte. Se dunque questa cosa esiste, e
se questa cosa unica non è né l'arte del costruttore né quella del fabbro né quella del vasaio, ma è la giustizia, la
temperanza e la santità, e quella che, per chiamarla con un nome solo, io chiamo virtù dell'uomo; ebbene, se è questa la
cosa di cui tutti gli uomini devono partecipare e con cui ogni uomo deve imparare e fare ogni altra cosa che voglia
imparare o fare, e senza la quale non deve fare nulla; se chi non ne partecipa va istruito e punito, si tratti di fanciullo,
uomo o donna, finché non diventi migliore attraverso la punizione; se chi non si sottomette alle punizioni e agli
insegnamenti, va considerato inguaribile e cacciato dalla città o ucciso; se, dunque, le cose stanno così , e se, pur
essendo questa la sua natura, gli uomini valenti insegnassero ai propri figli tutte le altre cose tranne questa, considera
quanto sarebbero strani questi valentuomini!
Ora, che essi la considerino cosa che possa essere insegnata, e nella vita privata e in quella pubblica, lo abbiamo già
dimostrato. Ed essi, mentre essa è insegnabile e coltivabile, insegnano ai figli le altre cose, per le quali, nel caso le
ignorassero, non esiste la pena di morte, e quella cosa invece per la quale, nel caso non l'imparassero e non la
coltivassero fino a diventarne valenti, li attende la pena di morte e l'esilio, e, oltre alla morte, la confisca dei beni e, in
una parola, la rovina della casa; ebbene, proprio questa cosa non l'insegnano e non se ne curano con tutto l'impegno?
Bisogna proprio crederlo, Socrate! Cominciando fin dalla più tenera infanzia dei figli fino a che vivano, continuano a
dar loro insegnamenti e ammonimenti. E, non appena uno comincia ad intendere il senso di quanto gli vien detto, la
nutrice, la madre, il precettore e il padre stesso si danno un gran da fare perché il bambino diventi quanto possibile
migliore, ad ogni sua azione o parola insegnandogli e mostrandogli: "Questo è giusto e questo ingiusto; questo è bello e
questo brutto; questo è santo e questo empio; queste cose falle e queste altre non farle". E questo se egli obbedisce di
sua spontanea volontà. Altrimenti, come si fa con un legno storto e piegato, lo raddrizzano a colpi di minacce e botte.
Più tardi, poi, quando lo mandano alla scuola dei maestri, raccomandano loro di curare molto di più la buona condotta
dei ragazzi che non l'insegnamento delle lettere e dell'arte di suonar la cetra. I maestri, dunque, li prendono sotto le
proprie cure, e, quando sanno ormai leggere e possono capire il senso degli scritti come prima capivano il senso di
quanto veniva detto, danno loro da leggere, sui banchi, opere di validi poeti, e li costringono a imparare a memoria
quelle opere in cui abbondano ammonimenti, narrazioni, elogi ed encomi di virtuosi uomini del passato, perché il
ragazzo, mosso da spirito di emulazione, li imiti e desideri diventare tale e quale. I maestri di cetra, a loro volta, fanno la
stessa cosa: si prendono cura della loro temperanza, e badano che i giovani non facciano nulla di male. Poi, una volta
che abbiano imparato a suonare la cetra, insegnano loro le opere di altri validi poeti lirici, facendole eseguire
coll'accompagnamento della cetra, e fan sì che i ritmi e le armonie diventino familiari alle anime dei fanciulli, perché
siano più mansueti, e, trovato maggior equilibrio e maggiore armonia, siano capaci di parlare e di agire in modo
benefico. Tutta la vita dell'uomo, infatti, richiede equilibrio ed armonia. Ed ancora, oltre a ciò, li mandano anche dal
maestro di ginnastica, affinché abbiano corpi migliori da mettere al servizio di una mente sana, e perché il cattivo stato
del corpo non li metta nella condizione di cedere alla paura in guerra e in altre imprese. E queste cose le fanno coloro
che hanno maggiori possibilità, e ad avere maggiori possibilità sono i più ricchi: i loro figli, mentre cominciano a
frequentare le scuole dei maestri in età più giovane rispetto agli altri, più tardi degli altri le lasciano.
E quando hanno lasciato la scuola, la città a sua volta li costringe ad imparare le leggi ed a vivere tenendole come
modello, affinché non possano agire a proprio arbitrio ed a caso. E, in tutto e per tutto come fanno i maestri di
grammatica con quei fanciulli che non sono ancora capaci di scrivere, che, solo dopo aver abbozzato con lo stilo le
tracce delle lettere, danno loro la tavoletta e li fanno scrivere seguendo le linee tracciate, così anche la città, dopo aver
segnato il tracciato delle leggi, scoperte da antichi e valenti legislatori, costringe a governare e ad obbedire
conformandosi a quelle, e punisce chi si muova al di fuori di esse. E a questa punizione, qui da voi come in molti altri
luoghi, si dà il nome di "raddrizzare", significando con questo che la pena raddrizza.
Ora, benché vi sia tutta questa cura della virtù in privato e in pubblico, tu ti stupisci, o Socrate, e non sai capire se la
virtù sia insegnabile? Ma non bisogna stupirsene, e anzi bisognerebbe stupirsi molto di più se essa non fosse
insegnabile!
Ma perché, allora, da padri valenti nascono figli buoni a nulla?
Eccotene la ragione: non c'è nulla di sorprendente in questo, se nelle mie precedenti affermazioni dicevo il vero,
quando cioè sostenevo che di questa cosa, ossia della virtù, nessuno deve esserne all'oscuro, perché una città possa
esistere. Ebbene, se quello che dico è vero, e lo è al di sopra di ogni altra cosa, scegli una qualsiasi altra occupazione o
scienza e rifletti. Se ad esempio non fosse possibile che una città esistesse, a meno che non fossimo tutti suonatori di
flauto, ognuno come ne fosse capace, e a meno che tutti non insegnassero a tutti quest'arte, e in privato e in pubblico, e
non coprissero di biasimo chi non suonasse bene, e se non si tenesse gelosamente per sé la conoscenza di quest'arte,
come ora nessuno tiene gelosamente per sé la conoscenza del diritto e delle leggi, né la tiene nascosta, come si fa invece
con la conoscenza delle altre arti (e questo avviene, io credo, perché la giustizia reciproca e la virtù è per noi un
guadagno: è per questo che tutti sono pronti a dire e ad insegnare a tutti ciò che è giusto e conforme alla legge); se,
dunque, questa fosse la situazione e noi avessimo tutto questo zelo e tutta questa generosità nell'insegnarci l'un l'altro
l'arte di suonare il flauto, pensi forse, o Socrate, che i figli di flautisti eccellenti avrebbero maggiori probabilità di
diventare a loro volta eccellenti flautisti rispetto ai figli di flautisti mediocri?
Io credo di no! Credo invece che diventerebbe famoso chi nascesse con le più favorevoli disposizioni naturali all'arte
di suonare il flauto, di chiunque egli fosse figlio, e che, d'altra parte, resterebbe senza gloria chi nascesse senza naturali
disposizioni per quell'arte, di chiunque egli fosse figlio. E spesso, anzi, da un grande flautista può nascerne uno
mediocre, e, al contrario, da un flautista mediocre può nascerne uno eccellente. Tutti, però, sarebbero flautisti
abbastanza abili, se paragonati a coloro che di quest'arte sono profani e che non s'intendono per nulla di flauto. E così
anche in questo caso, credilo pure, quell'uomo che ti sembra essere un campione di ingiustizia fra quanti sono stati
allevati nelle leggi e nel consorzio umano, costui ti darebbe l'impressione di essere uomo giusto e anzi maestro in questo
campo, se ti trovassi a giudicarlo in confronto a uomini che non avessero avuto né un'educazione spirituale, né tribunali,
né leggi, né alcuna forma di costrizione che li obbligasse, in ogni circostanza, a tener conto della virtù, ma fossero
selvaggi del tipo di quelli che l'anno scorso il poeta Ferecrate (53) portò in scena nel Leneo. (54) Certo, se tu ti trovassi
fra uomini del genere, come i misantropi in quel coro, saresti ben contento di poter incontrare Euribate e Frinonda, (55)
e ti lagneresti rimpiangendo la malvagità degli uomini di qui. Ora invece, Socrate, fai il delicato, perché tutti sono
maestri di virtù, nella misura in cui ciascuno ne è capace, e quindi nessuno ti sembra essere tale. E come se tu, per fare
un esempio, cercassi chi è maestro del parlar greco: non ce ne sarebbe uno che ti parrebbe tale! Né, credo, ci sarebbe
qualcuno che ti parrebbe tale, se tu cercassi chi ha insegnato ai figli dei nostri artigiani quell'arte, appunto, che essi
hanno imparato dal padre, nella misura in cui il padre e gli amici del padre che facevano lo stesso mestiere ne erano
capaci. Ebbene, chi altri abbia insegnato loro l'arte e risulti quindi loro maestro, non credo sia facile stabilirlo, o Socrate,
mentre è senz'altro facile stabilire chi sia stato il maestro di chi era del tutto all'oscuro di una data arte. E così accade nel
caso della virtù e di tutte le altre cose. Se poi c'è qualcuno che ci superi anche di poco nella capacità di farci strada verso
la virtù, c'è di che esserne contenti. E io penso di essere precisamente uno di questi, e di poter essere utile, più di ogni
altro uomo, a far diventare altri gente per bene, e di farlo in un modo che vale ben il compenso che io esigo, e anche di
più, tanto che lo stesso discepolo è di quest'opinione. Per questo ho dato disposizioni che la riscossione del mio
compenso avvenga nel seguente modo: una volta che uno ha imparato da me, se vuole, mi paga il prezzo che io
stabilisco altrimenti, entrato in un tempio, dichiara sotto giuramento quanto, a suo giudizio, valgono gli insegnamenti
ricevuti, e quel tanto poi mi paga.
E con questo, Socrate, ti ho narrato un mito ed esposto un ragionamento che ti dimostrano come la virtù si possa
insegnare e come gli Ateniesi siano di quest'opinione, e che non è cosa di cui stupirsi che da padri eccellenti nascano
figli buoni a nulla, e da padri mediocri figli eccellenti: anche i figli di Policleto, (56) coetanei di Paralo e Santippo (57)
qui presenti, non sono niente, se paragonati al padre, e così accade per i figli di altri artefici.
Ma su costoro non è ancora il caso di emettere questa sentenza: in loro, infatti, vi sono ancora speranze, poiché sono
giovani».
Dopo essersi esibito in tante e tali dimostrazioni, Protagora smise di parlare. Ed io, per molto tempo ancora, rimasi
incantato a guardarlo, nella speranza che dicesse ancora qualcosa, tanto grande era il mio desiderio di starlo a sentire.
Ma quando mi resi conto che aveva veramente smesso, allora, con l'aria di essermi a stento riavuto, dissi, rivolgendomi
a Ippocrate «Figlio di Apollodoro, quanto ti sono grato per avermi spinto a venire qui! Considero infatti cosa di grande
valore l'avere udito ciò che ho appena udito da Protagora. In passato non ritenevo che i buoni fossero tali in virtù di
un'umana cura; ora, invece, ne sono persuaso.
Se non fosse per un dettaglio che mi mette in difficoltà, che, com'è chiaro, Protagora saprà risolvere facilmente,
visto che ha saputo spiegare a fondo tutto il resto. Se uno, infatti, s'intrattenesse su tali argomenti con uno qualsiasi
degli oratori politici, probabilmente sentirebbe fare discorsi di questo tipo anche da Pericle o da chiunque altro abbia il
dono dell'eloquenza. Ma se poi si facesse a qualcuno di loro qualche altra domanda, essi, come libri scritti, (58) non
avrebbero nulla da rispondere, né da chiedere a loro volta. E se uno tornasse a chiedere chiarimenti anche su un
particolare di ciò che da loro è stato detto, allora, come fanno i vasi di bronzo, che, percossi, continuano per lungo
tempo a risuonare finché qualcuno non li prenda in mano, così anche i retori, interrogati circa piccole questioni,
tirerebbero avanti un discorso lungo un dolico. Il nostro Protagora, invece, è capace di fare lunghi e bei discorsi, come
mostrano questi che ha appena fatto, ma è anche capace, quando lo si interroghi, di rispondere brevemente, e, quand'è
lui a interrogare, di aspettare e di ricevere la risposta: cosa, questa, che a pochi riesce. Ebbene, ora, Protagora, mi manca
un particolare per avere un quadro completo, cioè che tu risponda a questa mia domanda. Tu sostieni che la virtù è
insegnabile, e se c'è uno fra gli uomini a cui posso credere, quello sei tu. C'è una cosa, però, che mi sono meravigliato di
sentirti dire, ed è questo il bisogno che devi appagare nella mia anima. A tuo dire, Zeus avrebbe mandato agli uomini la
giustizia e il rispetto, e, del resto, più volte nel corso del tuo ragionamento hai parlato di giustizia, di temperanza, di
santità e di tutte queste cose come se nell'insieme fossero una cosa sola, vale a dire la virtù. Ed è proprio questo quello
che vorrei tu mi spiegassi in modo preciso, col ragionamento, cioè se la virtù è una cosa sola e la giustizia, la
temperanza e la santità sono parti di essa, oppure se questi che io ora ho menzionato sono tutti nomi del medesimo ed
unico essere. Questo è ciò che ancora mi preme capire».
«è facile, o Socrate», disse, «rispondere a questa domanda: essendo la virtù un'unica cosa, quelle di cui tu mi
domandi sono parti di essa».
«E in che modo», gli chiesi, «sono parti di essa? Nel modo in cui bocca, naso, occhi e orecchi sono parti del volto, o
nel modo in cui le parti dell'oro non differiscono in nulla le une dalle altre, fra di loro e in rapporto al tutto, se non in
grandezza o in piccolezza?» «Io direi nel primo modo, Socrate, ossia nel modo in cui le parti del volto stanno in
rapporto all'intero volto». «E gli uomini», dissi, «partecipano chi di una chi di un'altra di queste parti della virtù, o è
necessario che, quando se ne abbia acquistata una, le si possieda, per questo, tutte?» «Non è affatto necessario», rispose,
«visto che molti sono coraggiosi ma ingiusti; oppure sono giusti ma non saggi». «Anche queste, dunque», dissi, «sono
parti della virtù, ossia la sapienza e il coraggio?» «Al di sopra di tutto», rispose. «Anzi, la sapienza ne è la parte più
importante». «E ciascuna di esse», dissi, «è diversa dalle altre parti?» «Sì ». «E ciascuna di esse ha una sua particolare
funzione? Per esempio, nel caso delle parti del volto, l'occhio non è come l'orecchio, né la sua funzione è la stessa, e
nessuna delle altre parti è uguale all'altra, né nella funzione che le è propria né nel resto. Forse è così anche per le parti
della virtù, che l'una non è uguale all'altra, né in se stessa né nella funzione che le è propria? Non è forse evidente che le
cose stanno così , se il caso in questione somiglia all'esempio?» «Ma le cose stanno proprio così , Socrate!», rispose.
Allora dissi: «Dunque nessun'altra parte della virtù è come la conoscenza, né come la giustizia, né come il coraggio, né
come la temperanza, né come la santità». «Non lo è», disse. «Su, allora», dissi, «esaminiamo insieme quale sia la natura
di ciascuna di esse. Prima di tutto, esaminiamo questo: la giustizia è una cosa reale o non lo è? A me, infatti, pare che lo
sia. E a te, che te ne pare?» «Anche a me pare che lo sia», disse. «E allora, se qualcuno chiedesse a me e a te: "O
Protagora e Socrate, ditemi: questa cosa che avete appena nominato, ossia la giustizia, è essa stessa giusta o ingiusta?",
io gli risponderei che è giusta. E tu che voto daresti? Il mio stesso voto, o un voto diverso?» «Il tuo stesso voto»,
rispose.
«La giustizia, dunque, si identifica con l'essere cosa giusta, direi io in risposta a chi me lo chiedesse. Diresti così
anche tu?» «Sì », disse. «E se allora, dopo questa, ci facesse quest'altra domanda: "Non dite che esiste anche una certa
cosa detta santità?"; noi risponderemmo che esiste, almeno credo». «Sì », disse. «"E non dite che anche questa è una
cosa reale?"; noi risponderemmo che lo è. O no?». Anche su questo si disse d'accordo. «"E dite che questa stessa cosa si
identifica con l'essere, per natura, cosa empia o cosa santa?". Io a questa domanda andrei in collera», dissi, «e
risponderei: "Bada a come parli, o uomo! A stento, infatti, potrebbe esserci qualcos'altro di santo, se la santità stessa
non fosse santa". Ma tu che ne dici? Non risponderesti anche tu così ?» «Certamente», disse.
«Se poi costui ci chiedesse: "Come dicevate poco fa? Forse allora non vi ho capito bene! Mi è parso che voi
sostenevate che le parti della virtù stanno, le une rispetto alle altre, in un rapporto tale che l'una non è come l'altra"; io
gli risponderei: "Il resto l'hai capito bene; quanto al fatto invece che anch'io avrei affermato questo, hai frainteso: è stato
infatti il nostro Protagora a dare questa risposta, mentre io glielo stavo solo domandando". Se quindi domandasse: "Dice
la verità costui, o Protagora? Sei tu a sostenere che le parti della virtù sono una diversa dall'altra? E tua questa
affermazione?", tu che cosa gli risponderesti?» «Dovrei necessariamente ammetterlo, o Socrate», disse.
«Ebbene, Protagora, fatta questa ammissione, che cosa gli risponderemmo, se ci chiedesse: "La santità, allora, non è
tale da esser cosa santa, e la giustizia non è tale da esser cosa santa, ma è tale, invece, da esser cosa non santa? E la
santità è tale da esser cosa non giusta, ma ingiusta, e l'altra, vale a dire la giustizia, tale da esser cosa empia?". Che cosa
gli risponderemmo? Io, per me almeno, gli risponderei che sia la giustizia è cosa santa, sia la santità è cosa giusta. E
anche per te, se tu mi lasciassi fare, darei questa stessa risposta, vale a dire che la giustizia si identifica con la santità, o
che almeno le è molto simile, e che la giustizia è uguale alla santità e la santità alla giustizia più di quanto non lo siano
fra loro tutte le altre parti. Vedi, dunque, se non mi lasci dare questa risposta, o se anche tu sei di quest'opinione». «Non
mi pare affatto, Socrate», disse, «che la questione sia così semplice da riconoscere che la giustizia è cosa santa e la
santità cosa giusta; piuttosto, mi pare che vi sia una certa differenza. Ma che importa?», proseguì . «Se vuoi,
ammettiamo pure che la giustizia sia cosa santa e la santità cosa giusta». «Non mi va bene!», dissi. «Non ho alcun
bisogno che questo "se vuoi" e quel "se ti pare" sia oggetto di confutazione, ma che nella confutazione ci si riferisca a
"me e te".
E questo "me e te" lo dico nella convinzione che il miglior modo di sottoporre il ragionamento a confutazione è
quello di togliere via quel "se"». «Ma del resto», disse, «la giustizia ha qualche somiglianza con la santità: qualsiasi
cosa assomiglia, per un verso o per l'altro, a qualsiasi cosa! Il bianco, infatti, in un certo senso, assomiglia al nero, il
duro al molle, e così le altre cose che pure sembrano all'apparenza le più contrarie fra loro. Anche quelle cose che prima
dicevamo avere una diversa funzione ed essere l'una diversa dall'altra, ossia le parti del volto, per un certo verso si
assomigliano e sono l'una uguale all'altra. Sicché, in questo modo almeno, se tu volessi, potresti dimostrare anche
l'ipotesi contraria, cioè che tutte le cose sono simili fra loro. Ma non è giusto chiamare simili le cose che hanno qualcosa
in comune, come non lo è chiamare dissimili le cose che hanno qualcosa di dissimile, se quello che hanno in comune è
ben poca cosa». Ed io, stupito, gli dissi: «Per te, allora, il giusto e il santo stanno fra loro in termini tali da avere in
comune ben poca cosa?» «Non è precisamente così », rispose, «ma nemmeno come tu mi sembri pensare che sia!».
«Allora», dissi, «visto che mi sembri avere una certa avversione per quest'argomento, lasciamolo perdere ed
esaminiamo quest'altra tua affermazione. C'è qualcosa che tu chiami stoltezza?». Disse di sì . «E la saggezza non è
l'esatto contrario di questa cosa?» «Mi pare di sì », disse. «E quando gli uomini compiono azioni corrette e utili, ti pare
che siano temperanti ad agire così , o ti pare il contrario?» «Che siano temperanti», disse. «E non sono forse temperanti
in virtù della temperanza?» «Necessariamente».
«E quelli che compiono azioni non corrette, non si comportano forse stoltamente? E non è forse vero che non sono
temperanti se così si comportano?» «Pare anche a me», disse. «Il comportarsi stoltamente non è allora il contrario del
comportarsi in modo temperato?».
Disse che lo era. «E le azioni compiute stoltamente non sono forse compiute per effetto di stoltezza, mentre quelle
compiute in modo temperato lo sono per effetto di temperanza?» Lo ammise. «E se un'azione è compiuta con forza, non
è forse compiuta fortemente, mentre se è compiuta con debolezza è compiuta debolmente?» Gli parve che fosse così . «E
se è compiuta con velocità, velocemente, e se è compiuta con lentezza, lentamente?». Disse di sì . «E quando un'azione è
compiuta in un certo modo, è compiuta per effetto di quella certa cosa, e se è compiuta in modo contrario, per effetto
della cosa contraria?».
Si disse d'accordo. «Su, allora», dissi, «c'è qualcosa che sia il bello?».
Lo ammise. «E c'è qualcosa che sia a questo opposto e che non sia il brutto?» «Non c'è». «Ed esiste il bene?»
«Esiste». «Ed esiste qualcosa che sia a questo opposto e che non sia il male?» «Non esiste». «Ed esiste una qualità nella
voce che sia l'acuto?».
Disse di sì . «Ed esiste una qualità che sia a questa opposta e che non sia il grave?». Disse di no. «Allora», dissi io,
«per ciascuna cosa esiste un solo contrario e non molti». Riconobbe che era così .
«Su allora», dissi, «riepiloghiamo quanto abbiamo insieme convenuto.
Abbiamo convenuto che per ogni singola cosa esiste un solo contrario e non più di uno?» «Lo abbiamo convenuto».
«E che l'azione compiuta in un dato modo contrario è compiuta per effetto di quella data cosa contraria?». Disse di
sì . «Abbiamo convenuto che l'azione compiuta stoltamente è compiuta in modo contrario all'azione compiuta in maniera
temperata?».
Disse di sì . «E che l'azione compiuta in modo temperato è compiuta per effetto di temperanza, mentre quella
compiuta stoltamente è compiuta per effetto di stoltezza?» «Sì ». «E se quest'azione è compiuta in modo contrario a
quella, non dovrebbe allora esser compiuta per effetto di una cosa contraria?» «Sì ». «E l'una è compiuta per effetto di
stoltezza, mentre l'altra lo è per effetto di temperanza?» «Sì ». «In modo contrario?» «Certo». «Dunque, per effetto di
cose contrarie?» «Sì ». «La stoltezza non è allora il contrario della temperanza?» «Così pare!». «Ti ricordi, dunque, che
nel precedente ragionamento abbiamo convenuto che la stoltezza è contraria alla saggezza?» Lo ammise. «E che per
ogni singola cosa esiste un solo contrario?» «Sì ». «Allora, Protagora, quale di queste due affermazioni dobbiamo lasciar
cadere: l'affermazione che per ogni singola cosa esiste un solo contrario, o quella con cui si sosteneva che la saggezza è
diversa dalla temperanza, e che l'una e l'altra sono parti della virtù, e che, oltre a essere diverse, sono anche dissimili, e
in se stesse e nelle loro funzioni, come accade per le parti del volto? Quale delle due affermazioni lasciar cadere? A
sostenerle entrambe, infatti, queste due affermazioni non sono fra loro in sintonia, perché non si accordano né si
armonizzano fra loro. Come potrebbero, del resto, accordarsi se, per necessità, per ogni singola cosa esiste un solo
contrario, e non più di uno, mentre alla stoltezza, che è una cosa sola, appaiono contrarie saggezza e temperanza? E
così , Protagora, o le cose stanno in qualche altro modo?». Lo ammise anche se piuttosto malvolentieri. «Non
dovrebbero allora essere una cosa sola la saggezza e la temperanza? Del resto, prima ci è parso che la giustizia e la
santità fossero quasi la stessa cosa! Su, Protagora», continuai, «non facciamoci prendere dalla stanchezza ed
esaminiamo anche il resto.
Un uomo che commetta ingiustizia, ti pare che agisca con temperanza nel commettere ingiustizia?» «Mi
vergognerei, o Socrate», rispose, «ad ammettere questo, benché molti uomini lo sostengano». «A costoro, dunque,
dovrò rivolgere il mio ragionamento», dissi, «o a te?» «Se vuoi», rispose, «discuti prima contro quest'affermazione, che
rappresenta l'opinione della maggior parte della gente». «Ma per me non fa alcuna differenza se questa sia o non sia la
tua opinione, purché tu mi risponda, almeno. Infatti, è l'opinione in se cio che innanzi tutto esamino, anche se forse poi
accade che ad essere esaminati siamo tanto io che interrogo quanto colui che risponde».
Sulle prime Protagora fece il ritroso con noi, e adduceva la scusa che l'argomento era scabroso; ma poi accettò di
rispondere.
«Su», dissi, «rispondimi da capo: esistono uomini che ti sembrano agire con temperanza pur commettendo
ingiustizia?» «E sia», rispose. «Ma tu dici che essere temperante equivalga ad essere assennato?». Disse di sì . «E dici
che l'essere assennato consiste nel prendere la giusta decisione, quando si commette ingiustizia?» «E sia», disse. «E in
quale dei due casi?», dissi io. «Quando, commettendo ingiustizia, si riesce bene, o quando si falliscono i propri intenti?»
«Quando si riesce bene». «E ci sono cose che definisci buone?» «Ce ne sono». «E sono buone», dissi, «le cose che sono
utili agli uomini?» «Sì , per Zeus!», rispose. «E ci sono cose che io chiamo buone anche se non sono utili agli uomini».
Avevo l'impressione che Protagora fosse ormai irritato, agitato e in allarme nel dare le sue risposte. Poiché lo vedevo in
questo stato, con molta cautela delicatamente gli chiesi: «Stai parlando, Protagora, di cose che non sono utili agli
uomini, o di cose che non sono utili in generale? Anche cose di questo genere tu le definisci buone?» «Niente affatto»,
rispose. «Ma conosco molte cose che per gli uomini sono nocive, cibi, bevande, farmaci e infinite altre cose; altre che
invece sono utili; altre che per gli uomini non sono né nocive né utili, ma lo sono per i cavalli; altre poi che lo sono solo
per le vacche, altre per i cani; altre ancora che non lo sono per nessuna specie animale, ma per le piante. E, fra queste,
alcune fanno bene alle radici della pianta, ma sono dannose ai germogli: per fare un esempio, il letame è buono se viene
gettato alle radici di tutte le piante, ma, se si volesse spargerlo sui rami giovani e sui germogli, manderebbe tutto in
rovina. E anche l'olio è dannosissimo per tutte le piante e grande nemico dei peli di tutte le bestie, eccetto i peli
dell'uomo; per i peli dell'uomo, come per il resto del corpo, è invece benefico. Il bene è una cosa tanto varia e
multiforme che, anche nel caso dell'olio, una data cosa è buona, per l'uomo, per le parti esterne del corpo, e quella stessa
cosa è invece dannosissima per le parti interne. Perciò tutti i medici proibiscono ai malati di far uso di olio, se non in
minima quantità mescolato alle cose che il malato deve mangiare, quel tanto che basta a cancellare la sensazione di
nausea che essi provano all'odore dei cibi e delle vivande».
Quand'ebbe detto ciò, i presenti applaudirono fragorosamente, significando, con questo, che a loro giudizio aveva
parlato bene.
Allora dissi: «Protagora, si dà il caso che io sia uomo di poca memoria, e se uno mi fa lunghi discorsi, dimentico
l'argomento di cui si parlava. Ebbene, se mi accadesse di essere un po' sordo, penseresti, trovandoti a dover discutere
con me, che con me bisogna parlare a voce più alta che con gli altri. Così anche ora, visto che ti sei imbattuto in uno che
ha poca memoria, per me tieni pure corte le tue risposte e falle più brevi, se vuoi che ti segua».
«E come pretendi che io ti dia brevi risposte? Devo forse risponderti più in breve del dovuto?», disse.
«Niente affatto», risposi io.
«Devo allora darti risposte lunghe quanto occorre?», chiese.
«Sì », risposi.
«Ma dovrò darti risposte lunghe quanto sembra a me che debbano esserlo, o quanto sembra a te?» «Ho sentito dire»,
dissi allora, «che tu, sugli stessi argomenti, sei capace, sia tu per tuo conto sia di insegnare ad altri a farlo, di tenere,
quando vuoi, lunghi discorsi, in modo tale che la parola non ti viene mai a mancare, e che d'altra parte sai anche tenere
discorsi tanto brevi, che nessuno potrebbe parlarne più in breve di te.
Se, quindi, vuoi discutere con me, serviti di questo secondo modo nel rivolgerti a me, ossia del parlare in modo
conciso».
«Socrate», rispose, «sono ormai molti gli uomini con cui sono arrivato a contesa verbale, e se avessi fatto allora
quello che tu ora pretendi che io faccia, vale a dire se avessi discusso nella maniera in cui l'avversario pretendeva che io
discutessi, non avrei avuto la meglio su nessuno, né si farebbe il nome di Protagora fra i Greci».
Ed io, sapendo che non era soddisfatto delle risposte che mi aveva dato prima e che non avrebbe acconsentito di
buon grado a dialogare nella parte di chi risponde, pensai che non potevo più cavarne nulla a restare in quella
compagnia e dissi: «Protagora, neppure io muoio dalla voglia che questa nostra conversazione si svolga in modo
contrario al tuo parere, ma quando tu vorrai discutere in modo che io possa seguirti, allora io discuterò con te.
Tu, infatti, a quel che si dice di te, e come tu stesso sostieni, sai reggere il dialogo sia coi lunghi discorsi che coi
discorsi concisi, perché sei sapiente. Io, invece, sono incapace di questi lunghi discorsi, per quanto vorrei esserne
capace. Bisognerebbe che fossi tu ad adattarti a me, visto che sei capace di entrambi, perché la nostra discussione
potesse aver luogo. Ma ora, visto che non sei disposto a farlo e io ho un impegno e non posso star qui con te che tiri i
tuoi discorsi per le lunghe, perché bisogna che io vada in un posto, vado, anche se forse non senza piacere starei a
sentirti».
E nel dire ciò, mi alzai e feci per andarmene. Ma, mentre mi alzavo, Callia mi afferrò per la mano con la destra, e
con la sinistra mi prese per questo mantello, e disse: «Non lasceremo che tu te ne vada, Socrate, perché se tu te ne vai,
la nostra discussione non sarà più la stessa. Ti chiedo dunque di restare fra noi: non c'è nulla che starei a sentire con un
piacere maggiore di quanto ne provo a sentir discutere te e Protagora. Fa' un favore a tutti noi!».
Ed io dissi, quando ormai mi ero già alzato con l'intenzione di uscire: «O figlio di Ipponico, da sempre ammiro il tuo
amore per la sapienza, ma ora lo lodo e lo apprezzo in modo particolare, al punto che davvero vorrei farti questo
favore, se solo tu mi chiedessi cosa che potessi fare. Ma ora è come se tu mi chiedessi di tenere il passo col corridore
Crisone d'Imera (59) quand'è al meglio della sua forma, o di gareggiare nella corsa e tener dietro a uno di quei corridori
di lunghe distanze (60) o a uno di quei corrieri che corrono un giorno intero: (61) io ti risponderei che sono io a
domandare a me stesso, molto più di quanto tu non faccia, di tener dietro alla loro corsa, ma non ne sono capace, e se la
tua richiesta è proprio quella di vedere me e Crisone correre insieme, chiedi a lui di rallentare, perché io non so correre
veloce, mentre egli sa correre lentamente. Se, dunque, desideri ascoltare me e Protagora, pregalo che, come prima dava
risposte brevi e pertinenti alle domande che gli venivano rivolte, così anche ora risponda.
Altrimenti, che genere di metodo avranno mai i nostri dialoghi?
Io, infatti, ho sempre considerato cose diverse il trovarsi insieme a discutere e il tenere discorsi in piazza».
«Ma vedi, Socrate», disse Callia, «a me pare che Protagora dica cose giuste, reclamando il suo diritto di discutere
nel modo in cui vuole lui, e, d'altro canto, il tuo diritto di discutere come vuoi tu».
Allora Alcibiade, (62) presa la parola, disse: «Non dici bene, o Callia.
Il nostro Socrate, infatti, ammette che non è da lui parlare in modo prolisso e si arrende a Protagora. Quanto, però, al
saper sostenere una discussione, e al sapersi destreggiare nel dare e ricevere risposte, mi stupirei se fosse secondo a
qualcuno. Se, dunque, anche Protagora ammette di essere inferiore a Socrate nel sostenere una discussione, Socrate è
soddisfatto. Se invece s'impunta a far valere i suoi diritti, allora accetti di discutere facendo domande e dando risposte,
senza sviluppare un lungo discorso ad ogni domanda, eludendo le obiezioni e rifiutandosi di giustificare le proprie
affermazioni, ma tirando la cosa per le lunghe finché la maggior parte degli ascoltatori non abbia dimenticato qual era
l'oggetto della domanda. Quanto a Socrate, infatti, vi garantisco io che non se ne dimenticherebbe, e che scherza,
quando dice di aver poca memoria. A me pare, quindi, che le pretese di Socrate siano, più ragionevoli, dato che
ciascuno deve esprimere la propria opinione».
Dopo Alcibiade, mi pare fu Crizia (63) a parlare: «O Prodico e Ippia, mi sembra che Callia sia in tutto e per tutto
dalla parte di Protagora; Alcibiade, poi, è il solito attaccabrighe in ogni cosa in cui si mette. Ma noi non dobbiamo
schierarci né dalla parte di Socrate né dalla parte di Protagora, bensì stare uniti a pregare l'uno e l'altro di non disfare nel
bel mezzo la riunione».
Com'egli ebbe detto ciò, Prodico (64) disse: «Mi pare che tu dica bene, o Crizia bisogna, infatti, che coloro che sono
presenti a questo genere di discussioni, siano uditori imparziali di entrambi coloro che discutono, ma non equanimi.
Non è la stessa cosa, infatti: bisogna stare a sentire entrambi in modo imparziale, ma non dare uguale importanza all'uno
e all'altro, bensì darne di più al più sapiente e meno al meno sapiente. Io, per conto mio, o Protagora e Socrate, vi
domando di mettervi d'accordo e di sostenere, sì , tesi opposte sugli argomenti in discussione, ma di non entrare in
contesa. Anche fra amici, infatti, ci si contraddice l'un l'altro per benevolenza, mentre a contendere fra loro sono gli
avversari e i nemici. E in questo modo la nostra discussione sarebbe bellissima: voi che discutete, così facendo, avreste
in sommo grado la stima di noi ascoltatori, senza venire lodati; la stima, infatti, ha sede nell'anima degli ascoltatori
senza inganno, mentre la lode si trova spesso nelle parole di gente che mente contro quello che pensa. Quanto a noi
ascoltatori, poi, se le cose avvenissero in questo modo, proveremmo il massimo della gioia, senza provare piacere: si
prova gioia, infatti, quando s'impara qualcosa e si attinge al sapere proprio con la mente, mentre si prova piacere quando
si mangia o quando si sperimenta qualche altra sensazione piacevole proprio con il corpo».
Come Prodico ebbe detto ciò, molti dei presenti espressero la loro approvazione. Dopo Prodico fu Ippia il sapiente
(65) a parlare, e disse: «Uomini qui presenti, io considero voi tutti consanguinei, imparentati e concittadini per natura,
non per legge: il simile è infatti per natura imparentato al simile, mentre la legge, che è tiranna degli uomini, forza
contro la natura molte cose.
è quindi vergognoso che noi, mentre conosciamo la natura delle cose, e siamo i più sapienti dei Greci e proprio per
questo siamo oggi convenuti in quello che è il pritaneo (66) della sapienza della Grecia, e nella casa più illustre e più
ricca di questa città, diamo tuttavia a vedere di non essere per niente degni di questo nostro prestigio, ma ci
comportiamo fra di noi come i più volgari degli uomini.
Io vi prego e vi esorto, dunque, o Protagora e Socrate, a venirvi incontro metà strada dando retta a noi che facciamo
da arbitri conciliatori tu, Socrate, non impuntarti a ottenere a tutti i costi quella concisa forma di dialogo che si svolge
per brevi battute, se questa non piace a Protagora, ma dà corda e allenta le redini ai discorsi, perché ci appaiano più
solenni e più eleganti; e tu, Protagora, a tua volta, spiegando tutte le vele, abbandonandoti al vento favorevole, non
fuggire nel mare aperto dei discorsi, perdendo di vista la terra; piuttosto, tenete entrambi una via di mezzo. Così dovete
fare, datemi retta e sceglietevi un arbitro, un sovrintendente e un presidente, che sorvegli per voi la giusta lunghezza dei
discorsi di ciascuno».
Queste parole piacquero ai presenti e tutti le elogiarono. Quanto a me, Callia disse che non mi avrebbe lasciato
andar via e mi fu chiesto di scegliere un sovrintendente. Io, allora, dissi che sarebbe stato offensivo scegliere qualcuno
che facesse da arbitro ai nostri discorsi: «Se il prescelto sarà inferiore a noi, non sarà giusto che l'inferiore presieda ai
migliori; se sarà nostro pari, nemmeno così andrà bene, perché uno che sia nostro pari farà anche cose uguali a noi,
sicché sceglierlo sarà inutile. Ma allora dovrete scegliere uno migliore di noi! In verità, secondo me, sarà impossibile
per voi scegliere qualcuno che sia più sapiente del nostro Protagora.
Se poi ne sceglierete uno per niente migliore, e sosterrete tuttavia che lo è, anche questo sarà offensivo nei suoi
confronti, il scegliere cioè per lui un sovrintendente, come se lui fosse uomo da poco. Quanto a me, poi, non me ne
importa nulla. Sono però disposto a fare così , perché la nostra riunione e i nostri discorsi possano avere lo sviluppo che
voi desiderate: se Protagora non vuole rispondere, faccia pure lui le domande ed io risponderò, e nello stesso tempo
tenterò di mostrargli come io sostengo debba rispondere colui che risponde. Quando, però, io avrò risposto a tutto
quello che lui vorrà domandarmi, prometta, a sua volta, di rispondermi allo stesso modo. E se non sembrerà disposto a
rispondere proprio alla domanda che gli vien fatta, allora io e voi, insieme, lo pregheremo delle stesse cose di cui ora
voi pregate me, vale a dire di non rovinare la riunione. E non ci sarà alcun bisogno, per fare questo, che qualcuno sia
nominato sovrintendente, ma sarete voi, tutti insieme, a fare da arbitri». A tutti parve che così si dovesse fare. Quanto a
Protagora, la cosa non gli andava proprio a genio, ma fu tuttavia costretto ad acconsentire a fare lui le domande, e,
quando ne avesse fatte abbastanza, a giustificare a sua volta le proprie affermazioni rispondendo con brevi risposte.
Iniziò, dunque, a interrogare press'a poco così : «Socrate, credo», disse, «che la parte più importante dell'educazione
spirituale di un uomo consista nell'essere esperto di poesie; e questo a sua volta consiste nel saper capire, fra quanto i
poeti hanno detto, quali opere siano state ben composte e quali no, nel saper fare distinzioni e, se interrogato, nel saperle
spiegare. Ebbene, la mia domanda, ora, riguarderà sempre lo stesso argomento su cui io e tu stiamo discutendo, vale a
dire la virtù, anche se riferita alla poesia.
Ad un certo punto, Simonide, (67) rivolgendosi a Scopa, figlio di Creonte il Tessalo, (68) dice: "Diventare uomo
buono veramente è difficile, di mani, di piede, di cuore tetragono, senza pecca costruito". Conosci questo carme, (69) o
devo recitartelo per intero?».
Allora risposi: «Non ce n'è alcun bisogno: conosco il carme, e anzi si dà il caso che mi sia interessato molto ad
esso».
«Dici bene», disse; «e ti pare che sia stato composto in modo bello e giusto?» «Bello e giusto davvero!», risposi. «E
penseresti che è stato composto in bel modo, se il poeta contraddicesse se stesso?» «Se così fosse, penserei che non è
stato composto in bel modo», dissi io.
«E allora», disse, «guarda meglio!». «Ma, amico mio, l'ho esaminato abbastanza!». «Allora tu sai», disse, «che,
andando avanti col carme, egli dice: "Né appropriato mi suona il detto di Pittaco, (70) benché proferito da uomo
sapiente: difficile, diceva, essere buono. Ti accorgi che è la stessa persona a fare queste affermazioni e quelle di
prima?» «Lo so», risposi. «Ebbene», disse, «ti sembra che queste concordino con quelle?» «A me pare di sì », risposi.
Ma intanto cominciavo a temere che in quello che diceva ci fosse qualcosa di vero. «Perché, a te pare di no?»,
soggiunsi. «E come potrebbe sembrare coerente con se stesso chi sostiene entrambe queste affermazioni? Prima pone la
premessa che è difficile diventare veramente uomo buono; poi, poco avanti nel carme, se ne dimentica e rimprovera
Pittaco che dice le stesse cose che diceva lui, e cioè che è difficile essere buono, e dice di non approvarlo, benché costui
faccia le sue stesse affermazioni! Ebbene, visto che rimprovera chi fa le sue stesse affermazioni, è chiaro che
rimprovera anche se stesso, sicché, o non è corretta la prima cosa che ha detto o non è corretta la seconda».
E con queste parole scatenò l'applauso e la lode di molti degli ascoltatori. Quanto a me, in un primo momento, come
se fossi stato colpito da un buon pugile, mi si oscurò la vista e fui preso da vertigini a queste sue parole e al frastuono
degli applausi.
Poi, a dirti la verità allo scopo di guadagnar tempo per riflettere su che cosa volesse dire il poeta, mi rivolsi verso
Prodico, e, chiamatolo, gli dissi: «O Prodico, Simonide è dopo tutto tuo concittadino: è giusto, quindi, che sia tu a
venire in suo aiuto.
Mi pare, dunque, di poterti chiamare in soccorso, come Omero narra che lo Scamandro, cinto d'assedio da Achille,
chiamasse in aiuto il Simoenta, dicendo: caro fratello, cerchiamo insieme di trattenere la forza di quest'eroe.(71) Così
anch'io ti chiamo in soccorso, perché Protagora non ci espugni Simonide. Per restaurare Simonide, infatti, c'è proprio
bisogno della tua arte, con cui distingui volere e desiderare dimostrando che non sono la stessa cosa, e con cui fai quelle
numerose e belle distinzioni di cui poco fa dicevi. E ora guarda se anche tu la pensi come me, perché a me non pare che
Simonide contraddica se stesso. Tocca a te, Prodico, esprimere la tua opinione: ti sembra che "diventare" ed "essere"
siano la stessa cosa, o cose diverse?» «Per Zeus, diverse!», rispose Prodico. «Ebbene», dissi, «nei primi versi Simonide
non ha forse espresso la propria opinione, sostenendo che diventare uomo buono è davvero difficile?» «Dici il vero»,
disse Prodico.
«E rimprovera, invece, Pittaco», dissi, «non, come pensa Protagora, perché dice le stesse cose che dice lui, ma
perché dice una cosa diversa. Non era questo, infatti, che Pittaco definiva difficile, ossia diventare buono, come invece
sosteneva Simonide, bensì esserlo.
Essere e divenire, Protagora, non sono la stessa cosa, come attesta il nostro Prodico. E se essere non ha lo stesso
significato di divenire, allora Simonide non si contraddice. E forse il nostro Prodico, e con lui molti altri, direbbero, con
le parole di Esiodo, che diventare buono è difficile perché davanti alla virtù gli dèi hanno posto sudore, ma che, giunto
che uno sia in cima ad essa, torna poi facile, per quanto ardua essa sia, conservarne il possesso». (72) Prodico, udito ciò,
si congratulò con me. Protagora invece disse: «La tua restaurazione, o Socrate, implica un errore più grande di quello
che intendevi risanare».
Ed io risposi: «A quanto pare, allora, ho fatto un cattivo lavoro, Protagora, e sono un medico ridicolo: curandolo,
rendo il male più grave».
«è proprio così », disse.
«E come?», gli chiesi.
«Ben grande», disse, «sarebbe l'ignoranza del poeta, se sostenesse che è cosa da poco conservare il possesso della
virtù, quand'essa è, di tutte le cose, la più difficile, come tutti pensano».
Ed io dissi: «Per Zeus! Prodico capita davvero a proposito nei nostri discorsi! Si dà il caso, infatti, Protagora, che
quella di Prodico sia un'antica sapienza di origine divina, sia che abbia preso inizio da Simonide, sia ancora più
anticamente. E tu, pur essendo al corrente di molte altre cose, è evidente che di questa sei all'oscuro, a differenza di me,
che ne sono invece esperto, per essere stato discepolo del nostro Prodico. E così , ora mi sembri non capire che, forse,
Simonide non dava alla parola "difficile" il significato che le dai tu. Lo stesso vale per la parola "terribile": ogni volta
che io, con l'intenzione di lodare te o qualcun altro, dico che Protagora è uomo sapiente e terribile, Prodico mi
rimprovera e mi chiede se io non provi vergogna a chiamare terribili le cose buone; ciò che è terribile, lui dice, è cattivo.
Nessuno, perciò, dice, di volta in volta, "terribile ricchezza", né "terribile pace", né "terribile salute", ma "terribile
malattia", "terribile guerra" e "terribile povertà", nella convinzione che ciò che è terribile sia cattivo.
Ebbene, forse anche alla parola "difficile" quelli di Ceo e Simonide attribuiscono il significato di "cattivo", o
qualche altro significato che tu non conosci. Chiediamolo dunque a Prodico, perché è giusto interrogare lui sulla lingua
di Simonide! Che voleva dire Simonide con la parola "difficile", Prodico?» «Cattivo», rispose.
«E per questo, allora», dissi io, «o Prodico, che rimprovera a Pittaco l'affermazione che "è difficile essere buono": è
come se l'avesse sentito dire che è cosa cattiva essere buono!».
«Ma, Socrate», disse, «cos'altro credi che Simonide abbia detto se non questo, e cos'altro credi che rimproveri a
Pittaco, se non la sua incapacità di distinguere correttamente le parole, da cittadino di Lesbo qual era, e perciò allevato
in una lingua barbara?» «Ebbene», dissi, «o Protagora, senti anche tu il nostro Prodico.
Hai qualcosa da obiettare a queste sue affermazioni?» E Protagora: «Ce ne vuole», disse, «a che le cose stiano così ,
o Prodico! So bene, invece, che anche Simonide usava la parola "difficile" nello stesso significato in cui la usiamo noi
altri, vale a dire non nel senso di "cosa cattiva", ma nel senso di "cosa che non è facile, e che si ottiene a prezzo di molte
fatiche"».
«Ma anch'io penso», dissi, «o Protagora, che Simonide intendesse dire questo, e che anche il nostro Prodico lo
sappia, ma che stia scherzando e voglia metterti alla prova, per vedere se sarai capace di sostenere il tuo ragionamento.
Del fatto, poi, che Simonide, con "difficile", non intendesse dire "cattivo", ne è prova evidente il verso a questo
successivo: un dio solamente potrebbe avere questo privilegio. Se egli intendesse dire questo, e cioè che è un male
essere buono, di certo poi non verrebbe a dire che solo il dio ha questa prerogativa e non attribuirebbe solo al dio questo
privilegio: se così fosse, Prodico direbbe che Simonide è un insolente e per nulla un cittadino di Ceo. Ma voglio dirti
qual è la mia interpretazione del pensiero di Simonide in questo carme, se vuoi mettere alla prova la mia competenza in
fatto di poesia, come tu la chiami. Ma, se vuoi, sarò io ad ascoltare te».
Protagora allora, uditomi dire ciò, disse: «Se vuoi, Socrate!». Prodico e Ippia, invece, mi pregarono con insistenza, e
così gli altri.
«Allora», dissi, «cercherò di esporvi la mia interpretazione di questo carme. L'amore per la sapienza è antichissimo e
fra i Greci fu coltivato, più che altrove, a Creta e a Sparta, e là i sapienti sono più numerosi che in qualsiasi altro posto
della terra.
Ma essi lo negano e fingono di essere ignoranti, perché non si scopra che sono superiori fra gli Elleni grazie alla
sapienza, come quei sofisti di cui parlava Protagora, e per dare a credere, invece, di essere superiori in guerra e in
coraggio, credendo che, se si venisse a conoscere la cosa che li rende superiori, ossia la sapienza, tutti si metterebbero a
coltivarla. Ora, invece, tenendo questa ben nascosta, hanno ingannato quelli che nelle altre città si atteggiano a Spartani
e che, per imitarli, si spaccano le orecchie e si fanno intorno ai pugni cinghie di cuoio, sono fanatici di ginnastica e
indossano mantelli corti, convinti che siano queste le fonti della superiorità degli Spartani sul resto dei Greci. Ma gli
Spartani, quando hanno voglia di frequentare liberamente i loro sofisti e sono ormai stanchi di farlo di nascosto,
bandiscono dalla città questi stranieri che si atteggiano a Spartani e qualunque altro straniero che soggiorni nella loro
città, e s'incontrano coi sofisti all'insaputa degli stranieri, e non permettono che nessuno dei loro giovani esca per recarsi
in altre città, cosa che neppure i Cretesi permettono, perché non disimparino quello che essi insegnano loro. E in questa
città non solo gli uomini sono orgogliosi della loro educazione spirituale, ma anche le donne. E potreste avere la
conferma che queste cose sono vere e che gli Spartani hanno avuto la migliore educazione all'amore per la sapienza e
all'arte dei discorsi, facendo questa considerazione: se uno volesse intrattenersi a discutere col più inetto degli Spartani,
troverà che costui nella maggior parte dei ragionamenti apparirebbe uno sciocco, ma poi, dove questo cade a proposito
nel corso del ragionamento, come un abile tiratore scaglierebbe un motto degno di considerazione breve e conciso, in
modo che l'interlocutore non farebbe miglior figura di quella che farebbe un bambino. Ci sono alcuni, fra i
contemporanei e fra gli antichi, che hanno capito proprio questo, cioè che imitare gli Spartani consiste molto più
nell'amare la sapienza che nell'amare la ginnastica, ben sapendo che l'essere capaci di pronunciare motti del genere è
caratteristica dell'uomo che ha avuto una perfetta educazione spirituale. Tra questi vi furono Talete di Mileto, (73)
Pittaco di Mitilene, (74) Biante di Priene, (75) il nostro Solone, (76) Cleobulo di Lindo, (77) Misone di Chene, (78) e
settimo tra questi si contava Chilone di Sparta.(79) Tutti costoro furono fautori, amanti e discepoli dell'educazione
spirituale spartana; e che la loro sapienza fosse di questa specie lo si può capire da quei motti brevi e memorabili
proferiti da ciascuno.
Costoro, poi, ritrovatisi insieme, li offrirono come primizie di sapienza ad Apollo, nel tempio di Delfi, mettendo per
iscritto le sentenze che sono sulla bocca di tutti: "Conosci te stesso" e "Nulla di troppo". Ma perché dico queste cose?
Per far vedere che proprio in questo consisteva il metodo della filosofia degli antichi, vale a dire in una sorta di
concisione spartana. E, in particolare, di Pittaco era noto il motto lodato dai sapienti: "Difficile è esser buono".
Simonide, dunque, ambizioso com'era di farsi onore nell'ambito della sapienza, capì che, se avesse atterrato questa
massima, come si atterra un atleta famoso, e l'avesse superata, si sarebbe fatto un nome fra i contemporanei. Contro
questa massima, dunque, e con questo scopo, con l'intento cioè di servirsene per abbatterla, compose, a mio avviso,
l'intero carme. Esaminiamolo, dunque, tutti insieme, per verificare se quello che dico è vero. Già l'inizio del carme
apparirebbe strano, se, volendo dire che è difficile diventare uomo buono, vi inserisse poi quel "bensì ". Questo "bensì ",
infatti, apparirebbe inserito senza ragione, a meno che non si supponga che Simonide parli contestando la massima di
Pittaco: mentre Pittaco afferma che è difficile essere buono, per contraddirlo lui dice che non lo è, "bensì , piuttosto, il
difficile è diventare uomo buono, o Pittaco, veramente". E non intende "veramente buono": non è su questo concetto
che egli parla di verità, come se ci fossero alcuni veramente buoni, e altri buoni, ma non veramente, perché questo
sarebbe sciocco e indegno di Simonide. Bisogna invece, nel carme, trasporre quel "veramente", premettendogli, in un
certo senso, la massima di Pittaco, come se immaginassimo che Pittaco in persona dicesse la sua e Simonide gli
rispondesse, l'uno dicendo: "O uomini, è difficile essere buono", e l'altro rispondendo: "O Pittaco, non è vero quello che
dici: non l'essere buono, bensì il diventare buono, di mani, di piedi e di cuore tetragono, costruito senza pecca, è
veramente difficile". In questo modo, il "bensì " appare inserito a proposito, e il "veramente" va correttamente posto alla
fine del verso.
E tutto quel che segue testimonia a favore di questa interpretazione, provando cioè che questo è il senso di ciò che si
dice nel carme. Ed è possibile, anche su ciascuna affermazione del carme, provare ampiamente che esso è ben fatto: è,
infatti, molto elegante ed accurato. Ma sarebbe troppo lungo analizzarlo in questo modo. Esaminiamo invece il suo
impianto generale e il suo intento, che, nel corso dell'intero carme, è soprattutto quello di confutare il detto di Pittaco.
Dice infatti, procedendo di pochi versi, per dire in forma di prosa quello che lui dice, che diventare uomo buono è
veramente difficile, ma che è tuttavia possibile, almeno per qualche tempo; ma, una volta divenuto tale, rimanere in
questo stato e essere uomo buono, come tu dici, o Pittaco, è impossibile e non umano, ma un dio soltanto potrebbe avere
questo privilegio: non può non essere cattivo l'uomo, che irrimediabile sventura abbia abbattuto.
Ebbene, chi è colui che viene abbattuto da irrimediabile sventura, al comando di una nave? è chiaro che non si tratta
del profano, perché il profano è sempre abbattuto. Infatti, come non si può gettare a terra chi è già steso a terra, ma si
può, prima o poi, gettare a terra chi invece è in piedi, in modo da stenderlo a terra, ma non lo si può fare, appunto, a chi
è già steso a terra, così anche un'irrimediabile sventura può, una volta o l'altra, abbattere chi sia ricco di risorse, ma non
chi sia, da sempre, povero di risorse.
E una violenta tempesta, abbattendosi sul nocchiero, può far sì che egli si trovi a corto di risorse, e una cattiva
stagione, colpendo il contadino, può metterlo in condizione di essere povero di risorse, e lo stesso accade per il medico.
All'uomo buono, infatti, è possibile diventare cattivo, com'è testimoniato anche da un altro poeta, che dice: "del resto,
l'uomo perbene talora è cattivo e talora è buono". Al cattivo, invece, non è possibile diventare cattivo: è necessario che
lo sia sempre. Sicché l'uomo ricco di risorse, che è sapiente e che è buono, quando venga travolto da una irrimediabile
sventura, non può non essere cattivo. Tu, Pittaco, affermi che è difficile essere buono: ma è il diventare buono che è
difficile, e tuttavia possibile, mentre essere buono è impossibile: "quando ha buona sorte ogni uomo è buono; è invece
cattivo quando ha cattiva sorte". Ma cosa porta, allora, al successo nelle lettere, e che cosa rende l'uomo abile nelle
lettere? è chiaro: la conoscenza di esse. E che cosa porta un bravo medico ad avere successo? è chiaro che si tratta della
conoscenza di come vadano curati i malati. è invece cattivo quando ha cattiva sorte. E chi può diventare cattivo medico?
Chiaramente chi, come prima condizione, sia medico; poi bisogna che sia un buon medico, perché costui potrebbe
diventare anche cattivo. Ma noi, che di medicina siamo profani, non potremmo mai, per quanto cattiva sia con noi la
sorte, diventare medici, né costruttori, né nulla di simile. E chi non può diventare medico, per quanto sfortunato sia, è
chiaro che non può diventare neppure cattivo medico. Così anche l'uomo buono può diventare un giorno o l'altro, anche
cattivo, per effetto del tempo, della fatica, di una malattia o di qualche altra circostanza.
Infatti, in questo solamente consiste l'avere cattiva sorte: nell'essere privato di conoscenza. L'uomo cattivo, quindi,
non potrebbe mai diventare cattivo, perché lo è sempre; ma, se si vuole che diventi cattivo, bisogna prima che diventi
buono. Sicché anche questo punto del carme mira a dimostrare che non è possibile essere uomo buono, mantenendosi
tale, che è invece possibile diventare buono, e da buono diventare cattivo, e che sono migliori e buoni più a lungo
coloro che gli dèi amano.
Tutte queste cose sono affermate contro Pittaco, e il seguito del carme lo fa vedere ancora meglio. Dice infatti:
"Perciò mai io, cercando quel che è impossibile, getterò via, vana, la mia parte di vita correndo dietro a una speranza
inutile, di trovare un uomo senza macchia tra quanti mangiamo il frutto dell'ampia terra, ma se dovessi trovarlo ve ne
informerò". E dice - tanta è la forza con cui attacca la massima di Pittaco! -: "io lodo e amo chiunque volontariamente
non compia nulla di male; ma contro la necessità neppure gli dèi combattono". Anche quest'affermazione mira allo
stesso scopo.
Simonide, infatti, non era così sprovveduto da dire che egli lodava chiunque non facesse di sua volontà nulla di
male, come se esistessero alcuni che fanno il male volontariamente. La mia opinione è, infatti, all'incirca questa: che
nessuno dei sapienti ritiene che qualcuno volontariamente sbagli e commetta azioni turpi e cattive, ma essi ben sanno
che tutti coloro che commettono azioni turpi e cattive, le commettono a dispetto della propria volontà; e, di certo, anche
Simonide non dice di lodare chi non compia il male di sua volontà, ma dice questo "volontariamente" riferendosi a se
stesso. Riteneva, infatti, che un uomo buono e onesto spesso costringe se stesso a diventare amico di qualcuno e a
lodarlo, come spesso accade a qualcuno di fare verso una madre, un padre, una patria ostili, o in qualche altro caso del
genere.
Ora, i malvagi, quando capita loro qualcosa del genere, guardano a questo come se ne fossero contenti e con
rimproveri mettono in evidenza e sotto accusa la cattiveria dei genitori o della patria, perché la gente non possa poi
accusarli se non si curano di loro né biasimarli del fatto di non prendersene cura, sicché li rimproverano ancora di più e
aggiungono rancori volontari a quelli che necessariamente esistono. I buoni, invece, si costringono a far finta di niente e
a lodarli, e anche se sono in collera coi genitori o con la patria per i torti ingiustamente ricevuti, s'impongono calma e si
riconciliano con loro, sforzandosi di amarli e di lodarli. Anche Simonide, credo, spesso ritenne di dover lodare ed
esaltare un tiranno o qualche altro individuo del genere non di sua volontà, ma costringendosi a farlo. E questo lo dice
anche a Pittaco "Io, Pittaco, non ti biasimo per questo, perché trovo soddisfazione nel biasimare, poiché, quanto a me,
mi basta chi non sia cattivo né troppo meschino, che conosca la giustizia utile alla città e sia uomo sano, e non lo
biasimerò, perché non sono portato al biasimo, ché infinita è la progenie degli stolti; sicché, se uno prova piacere a
biasimare, avrebbe di che saziarsi biasimando costoro". Belle sono tutte le cose che non hanno bruttura in sé mescolata.
E questo non lo dice come se dicesse che sono bianche tutte le cose alle quali non è mescolato il nero, perché una tale
affermazione sarebbe ridicola sotto vari aspetti, ma lo dice intendendo che egli accetta anche le vie di mezzo, al punto
di non biasimarle. "E non cerco", dice, "un uomo senza macchia tra quanti mangiamo il frutto dell'ampia terra, ma se
dovessi trovarlo, ve ne informerò; sicché non loderò nessuno per questa impeccabilità, ma mi basta che uno sia una via
di mezzo e non commetta nulla di male, visto che io amo e lodo tutti", e qui si serve della lingua degli abitanti di
Mitilene, come se si rivolgesse a Pittaco quando dice: "amo e lodo chiunque volontariamente" (e qui, sul
"volontariamente", bisogna fare una pausa) "non compia nulla di male, ma ce ne sono anche alcuni che io lodo e amo a
dispetto della mia volontà. Quanto a te, Pittaco, anche se tu avessi detto cose solo a metà giuste e vere, non ti avrei mai
rimproverato. Ma visto che ora ti pare di dire cose vere, pur ingannandoti in pieno e sulle questioni più importanti, per
questo io ti biasimo". Questo, secondo me, o Prodico e Protagora», dissi, «è quello che Simonide aveva in mente nel
comporre questo carme».
E Ippia disse: «Mi sembra, o Socrate, che anche tu abbia dato una buona interpretazione del carme. Anch'io, però,
ho su di esso un'analisi ben fatta, che, se volete, vi esporrò».
E Alcibiade disse: «Certo, Ippia! Un'altra volta, però! Ora, invece, è giusto, come Protagora e Socrate avevano di
comune accordo stabilito di fare, che sia Protagora a interrogare, se ancora lo vuole, e Socrate risponda, e se, invece,
vuole essere lui a rispondere a Socrate, che sia l'altro a interrogarlo».
Ed io dissi: «Mi rimetto a Protagora, che sia lui a scegliere ciò che più gli garba. Ma, se vuole, lasciamo stare carmi
e poesie.
Più volentieri, invece, o Protagora, cercherei di giungere a una conclusione circa le questioni su cui ti interrogai
all'inizio, esaminandole con te. Ho l'impressione, infatti, che le disquisizioni sulla poesia siano molto simili ai banchetti
di gente volgare e bassa.
Costoro, infatti, per la loro incapacità di fare conversazione, durante il banchetto, con risorse proprie e di
comunicare per mezzo della propria voce e dei propri discorsi, per effetto della loro mancata educazione, fanno
rincarare le suonatrici di flauto, pagando a caro prezzo una voce estranea, quella dei flauti, e attraverso la voce dei flauti
s'intrattengono fra di loro. Dove ci sono, invece, commensali virtuosi e perbene, ed educati nello spirito, non potresti
vedere né suonatrici di flauto, né danzatrici né citaredi, ma costoro bastano a se stessi per conversare, senza queste
frivolezze e senza questi trastulli, con la propria voce, parlando e ascoltando ciascuno al suo turno, con ordine, anche
quando bevano molto vino. Così , anche queste nostre riunioni, se davvero accolgono uomini quali la maggior parte di
noi afferma di essere, non hanno alcun bisogno di una voce estranea né della voce dei poeti, a cui non si possono fare
domande sulle cose che dicono. E i più, quando la discussione cade su un punto che non sono in grado di ribattere, essi,
citando a testimoni i poeti nel corso del ragionamento, danno, del pensiero del poeta, chi un'interpretazione, chi un'altra.
Ma gli uomini per bene lasciano stare gli intrattenimenti di questo tipo, e conversano fra di loro con risorse proprie,
mettendosi l'un l'altro alla prova nei loro discorsi. Sono costoro, a parer mio, che io e te dobbiamo piuttosto imitare, e
bisogna che, mettendo da parte i poeti, discutiamo tra noi coi nostri ragionamenti, mettendo alla prova la verità e noi
stessi. E se tu vuoi ancora interrogarmi, sono pronto a risponderti, oppure, se vuoi, concedimi di dare una conclusione a
quegli argomenti che abbiamo smesso di analizzare nel bel mezzo».
Al mio dire queste e altre cose di questo genere, Protagora non dava alcun chiaro segno da cui si potesse capire
quale delle due cose avrebbe fatto. Alcibiade, allora, rivolgendosi a Callia, disse: «Callia, ti pare anche adesso che
Protagora si comporti bene, non volendo dichiarare se è disposto oppure no a rendere conto delle proprie affermazioni?
A me non pare! Ma si metta a discutere, o dichiari di non voler discutere, in modo che anche noi possiamo saperlo e
Socrate possa discutere con qualcun altro, o chiunque ne abbia voglia con altri».
E Protagora, vergognandosi, almeno così parve a me, a queste parole di Alcibiade e alle preghiere di Callia e di
quasi tutti gli altri presenti, malvolentieri si decise a discutere e mi chiese di interrogarlo dichiarandosi disposto a
discutere.
Ed io, allora, dissi: «O Protagora, non pensare che io discuta con te con altro scopo che non sia quello di vedere
chiaro nelle cose su cui anch'io mi trovo, ogni volta, in difficoltà. Ritengo, infatti, che Omero dica una gran verità in
quel verso che recita: "quando due vanno insieme, uno vede prima dell'altro", (80) perché così noi tutti siamo, in un
certo senso, più ben disposti ad ogni azione, discorso e pensiero. Uno solo, invece, per quanto pensi, (81) va subito a
cercare qualcuno a cui possa mostrare il suo pensiero e con l'aiuto del quale possa consolidarlo, finché non lo trovi. Ed è
per questo che anch'io discuto più volentieri con te che con chiunque altro, perché penso che tu abbia già esaminato nel
migliore dei modi quelle altre questioni che sono il naturale campo di indagine dell'uomo per bene, e così la questione
della virtù. Del resto, chi altri se non te? Tu, infatti, non solo pensi di essere un uomo per bene, come certi altri che sono
sì , per quanto li riguarda, per bene, ma non sono capaci di rendere tali anche altri; tu, invece, sei personalmente uomo
buono e sei capace di rendere buoni anche altri, e hai tanta fiducia in te stesso che, mentre gli altri tengono nascosta
quest'arte, tu apertamente ti sei fatto annunciare, con tanto di banditore, a tutti i Greci, ti sei dato il nome di sofista, ti sei
presentato come maestro di educazione e di virtù, e sei stato il primo a pretendere il diritto di ricevere un compenso per
questo. Come si fa, dunque, a non chiamarti in aiuto quando si tratta di indagare su queste cose, a non interrogarti e a
non coinvolgerti? Non c'è modo di evitarlo. Ebbene io, ora, a proposito delle domande che all'inizio ti feci su questo
argomento, desidero che certune vengano da te richiamate alla memoria, cominciando dal principio, e che certe altre,
invece, vengano analizzate da noi due insieme. E la domanda, se non erro, era questa: sapienza, temperanza, coraggio,
giustizia e santità, essendo cinque diversi nomi, si riferiscono ad un'unica cosa, o a ciascuno di questi nomi corrisponde
un'entità particolare e una cosa avente, ciascuna, una funzione che le è propria, senza che l'una sia uguale all'altra? Tu
sostenevi che non si trattava di nomi riferiti ad un'unica cosa, ma che ciascuno di questi nomi corrispondeva a una cosa
particolare, e che tutte queste erano parti della virtù, non come le parti dell'oro che sono simili l'una all'altra e al tutto di
cui sono parti, ma come le parti del volto, che sono diverse l'una dall'altra e dal tutto di cui sono parti, ciascuna con una
sua particolare funzione. Ebbene, dimmi se su queste cose la pensi ancora come allora; se, invece, la pensi in qualche
altro modo, specifica in che modo, confidando che io non te ne farò un aggravio, se tu ora sosterrai qualche altra cosa:
non sarei affatto stupito, infatti, se tu avessi fatto, allora, queste affermazioni solo per mettermi alla prova».
«Ma io, o Socrate», rispose, «ti dico che tutte queste sono parti della virtù, e che quattro di esse sono abbastanza
simili fra loro, mentre il coraggio è affatto diverso da ciascuna di esse. E la prova che io dico il vero potrai averla da
questo: troverai, infatti, molti uomini che sono sommamente ingiusti, empi, dissoluti e ignoranti e che sono, nondimeno,
straordinariamente coraggiosi».
«Fermati qui», dissi. «Merita di essere analizzata questa tua affermazione. I coraggiosi tu li chiami audaci, o che
altro?» «E intrepidi, anche», rispose, «a gettarsi in quelle imprese che i più temono di affrontare». «Su, dimmi, tu
sostieni che la virtù è qualcosa di bello, e appunto nella convinzione che sia bella ti presenti come maestro di essa?»
«Bellissima davvero», rispose, «a meno che io non sia pazzo». «E credi», continuai, «che una parte di essa sia brutta e
un'altra bella, o che sia tutta bella?» «Tutta bella, e in sommo grado». «Sai chi sono coloro che si tuffano nei pozzi con
audacia?» «Sicuro! I palombari». «E lo fanno perché ne hanno conoscenza, o per qualche altro motivo?» «Perché ne
hanno conoscenza». «E chi sono coloro che combattono da cavallo con audacia? Sono coloro che hanno pratica di
cavalcare, o coloro che non ne hanno pratica alcuna?» «Quelli che hanno pratica di cavalcare».
«E chi sono coloro che combattono con audacia reggendo la pelta? Sono o non sono i peltasti?» (82) «I peltasti. E in
tutti gli altri casi, se è questo che cerchi di sapere», rispose, «coloro che hanno conoscenza sono più audaci di coloro
che non hanno conoscenza, ed essi stessi sono più audaci, dopo aver imparato, di quanto non fossero prima di
imparare».
«E ne hai già visti», dissi, «di quelli che, pur non avendo conoscenza di alcuna di queste cose, sono tuttavia audaci
nell'affrontare ciascuna di esse?» «Sì », rispose, «e fin troppo audaci!». «Questi audaci sono anche coraggiosi?» «Brutta
cosa davvero», rispose, «sarebbe allora il coraggio, visto che costoro sono fuori di senno!». «Come definisci, allora»,
dissi, «i coraggiosi? Non definivi coraggiosi gli audaci?» «E così li definisco tuttora», rispose. «Ma costoro», dissi,
«che sono audaci in questo modo, non danno l'impressione, forse, di non essere coraggiosi, bensì pazzi? E non si diceva
prima che coloro che ne sanno di più sono anche i più audaci, e che essendo i più audaci sono anche i più coraggiosi? E,
secondo questo ragionamento, la sapienza non si identifica forse col coraggio?» «Non ricordi bene, Socrate», disse,
«quello che dicevo e le risposte che ti davo. Alla tua domanda se i coraggiosi sono audaci, ammisi che era così ; ma non
mi è stato chiesto se anche gli audaci siano coraggiosi.
E se tu me l'avessi chiesto, ti avrei risposto che non tutti lo sono.
E, d'altra parte, non hai in alcun modo dimostrato che i coraggiosi non sono audaci, cosa che avevo ammesso, e che
la mia affermazione non è giusta. Poi, tu dichiari che coloro che hanno conoscenza sono più audaci rispetto a se stessi, a
com'erano cioè quando non avevano ancora conoscenza, e rispetto ad altri che non hanno conoscenza, e con questo
giungi a credere che il coraggio e la sapienza sono la stessa cosa. Procedendo in questo modo, però, potresti anche
arrivare a credere che forza e sapienza sono la stessa cosa. Infatti se, seguendo questo procedimento, mi domandassi,
come prima cosa, se i forti sono potenti, ti risponderei di sì ; poi, se tu mi domandassi se coloro che sanno combattere
sono più potenti di coloro che non sanno combattere, e se sono, rispetto a se stessi, più potenti, dopo aver imparato, di
quanto non fossero prima di imparare, io ti risponderei di sì ; e, una volta che io abbia ammesso queste cose, ti sarebbe
possibile, servendoti di queste stesse affermazioni come prove, sostenere che, per mia ammissione, la sapienza si
identifica con la forza. Ma io, né qui né altrove, ammetto che i potenti sono forti, bensì ammetto che i forti sono potenti.
Non sono infatti la stessa cosa potenza e forza: l'una, vale a dire la potenza, deriva dalla conoscenza, e anche dalla
pazzia e dall'avere un animo ardente, mentre l'altra, cioè la forza, deriva dalla natura e dall'avere un corpo ben nutrito.
Così , anche nel nostro caso, non sono la stessa cosa audacia e coraggio, sicché accade che i coraggiosi sono audaci, ma
non tutti gli audaci sono coraggiosi. L'audacia, infatti, come la potenza, deriva agli uomini da un'arte, dall'avere un
animo ardente e dalla pazzia, mentre il coraggio deriva dalla natura e dall'avere un'anima ben nutrita».
«Tu dici, Protagora», dissi, «che alcuni uomini vivono bene e altri male?». Disse di sì . «E ti pare forse che un uomo
viva bene, se vive nella sofferenza e nel dolore?». Disse di no. «E che ne dici, se uno arriva alla fine della sua vita, dopo
aver vissuto piacevolmente?
Non ti sembra che, in tal caso, abbia vissuto bene?» «Mi sembra di sì », disse. «E allora, vivere piacevolmente è un
bene, mentre vivere spiacevolmente è un male». «Sì », rispose, «purché si viva provando piacere alle cose belle». «Che
c'è, Protagora? Non chiamerai anche tu, come fa la maggior parte della gente, piacevoli certe cose che sono cattive, e
spiacevoli certe cose che sono buone? Infatti, io dico: le cose, in quanto sono piacevoli, non sono forse, proprio in virtù
di questo, buone, se non si considerano altri effetti che da esse potrebbero derivare? E, d'altra parte, le cose spiacevoli,
allo stesso modo, non sono forse cattive, in quanto sono spiacevoli?» «Non so, Socrate», rispose, «se ti debbo dare una
risposta tanto semplice quanto la domanda che tu poni, e dirti che le cose piacevoli sono tutte buone e quelle spiacevoli
tutte cattive. Mi pare che sia più saggio rispondere considerando non solo la risposta da dare ora, ma tenendo conto
anche di ciò che ho visto vivendo, e cioè che vi sono cose, fra quelle piacevoli, che non sono buone, e, d'altro canto,
cose, fra quelle spiacevoli, che non sono cattive, e altre, invece, che lo sono; e, come terza affermazione, che vi sono
cose che non sono né l'uno né l'altro, ossia né buone né cattive». «E non chiami piacevoli», dissi, «le cose che attingono
al piacere o procurano piacere?» «Certo», disse.
«Ebbene, è proprio questo quello che intendo dire, quando ti chiedo se le cose, in quanto sono piacevoli, non siano
buone: se il piacere non sia, in sé, un bene». «Come tu dici ogni volta, Socrate», disse, «esaminiamo la cosa; e, se il
risultato dell'indagine ci sembrerà conforme al ragionamento, e piacere e bene risulteranno essere la stessa cosa, allora
ci troveremo d'accordo ad ammetterlo, se no, continueremo ancora a sostenere tesi opposte».
«Preferisci», gli chiesi, «essere tu a guidare l'indagine, o vuoi che sia io a guidarla?» «è giusto», disse, «che sia tu a
guidarla, visto che sei stato tu a cominciare il discorso».
«Ebbene», dissi, «non potremmo chiarire la cosa in questo modo? Per fare un esempio, se si volesse stabilire,
dall'aspetto esterno di un uomo, il suo stato di salute o qualche altra cosa che abbia a che vedere col corpo, dopo avergli
guardato il volto e le estremità delle mani, gli si direbbe: "Su, ora spogliati e mostrami anche il petto e la schiena,
perché possa esaminarti meglio". Anch'io desidero fare qualcosa del genere nell'interesse della nostra indagine. Dopo
aver visto che la tua opinione sul bene e sul piacere è quella che tu dici, ho bisogno di dirti appunto una cosa di questo
genere. "Su, Protagora, scoprimi anche questa parte del tuo pensiero: che opinione hai della conoscenza? Hai anche su
questa la stessa opinione che ha la maggior parte della gente, o un'opinione diversa? La maggior parte della gente,
infatti, ha sulla conoscenza press'a poco quest'opinione: che essa non abbia forza, né autorità, né capacità di comando. E
non pensano ad essa come a una cosa che abbia queste caratteristiche, ma credono invece che, benché la conoscenza sia
spesso presente nell'uomo, non sia essa a comandarlo ma qualcos'altro: talora la rabbia, tal altra il piacere, tal altra
ancora il dolore, qualche volta l'amore, spesso la paura; insomma, considerano la conoscenza una sorta di schiava tirata
in giro da tutte le altre passioni. Ebbene, hai anche tu una siffatta opinione su di essa, o pensi che essa sia una cosa bella
e capace di comandare l'uomo; che, se uno ha conoscenza del bene e del male, non possa essere sopraffatto da alcunché,
in modo da fare cose diverse da quelle che tale conoscenza gli impone di fare; e che la conoscenza sia efficace aiuto per
l'uomo?"».
«La penso anch'io, o Socrate», rispose, «come hai appena detto; ma, al tempo stesso, per me più che per chiunque
altro, non sta bene sostenere che la sapienza e la conoscenza non sono, di tutte le cose umane, le più potenti».
«Parli bene», dissi, «ed è vero quello che dici. Sai, dunque, che la maggior parte della gente non crede né a me né a
te, ma sostiene che molti, pur avendo conoscenza di ciò che è meglio, non lo vogliono fare, anche se è in loro potere
farlo, ma fanno cose diverse.
E tutti coloro ai quali domandai quale ne sia la ragione, mi hanno detto che gli uomini che così si comportano, lo
fanno perché vinti dal piacere, dal dolore, o da qualcuna delle passioni di cui ho appena parlato».
«Io credo, o Socrate», disse, «che gli uomini facciano anche molte altre affermazioni errate».
«Su, allora, cerca insieme a me di convincere gli uomini e di insegnare loro che cosa sia questo che succede loro, e
che essi chiamano essere vinti dai piaceri e non fare, a causa di questo, ciò che è meglio, pur avendone conoscenza.
Forse, se noi dicessimo loro: "Quello che dite non è giusto, o uomini, ma vi ingannate", essi, allora, ci domanderebbero:
«O Protagora e Socrate, se questa cosa che ci succede non è l'essere vinti dal piacere, di che si tratta, allora, e che cosa
voi dite che sia? Ditecelo!"».
«Ma che bisogno c'è, o Socrate, di mettersi a considerare l'opinione della maggior parte della gente, che dice, a caso,
quello che le capita per la testa?» «Credo», risposi, «che questo in qualche modo ci servirà a scoprire che rapporto abbia
il coraggio con le altre parti della virtù.
Se pensi che sia giusto restare fedele a quello che abbiamo appena stabilito, che cioè sia io a guidare l'indagine nel
modo che, a mio giudizio, porti la massima chiarezza sulla questione, seguimi.
Se invece non vuoi, e se questo ti sta a cuore, lascerò stare».
«Dici bene», rispose, «continua come hai cominciato!».
«Se, allora», dissi, «essi tornassero a chiederci: "Che cosa dite voi che sia questa cosa che noi definivamo l'essere
vinti dai piaceri?", io darei loro questa risposta: "State a sentire! Io e Protagora cercheremo di spiegarvelo. Non dite
forse che vi accade proprio questo, e non altro, in questi casi, quando cioè spesso, sopraffatti dai cibi, dalle bevande e
dagli stimoli sessuali, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia le fate?» «Risponderebbero di sì ». «Se, allora, io e te
facessimo loro quest'altra domanda: "In che senso definite queste cose cattive? Perché sul momento procurano quel dato
piacere e ciascuna di esse è piacevole, o perché in un secondo tempo provocano malattie e portano povertà e molte altre
cose del genere? Oppure, se anche dopo non portassero con sé nessuna di queste conseguenze, e il loro effetto fosse
solo quello di procurare piacere, sarebbero ugualmente cattive, qualunque sia la ragione e il modo del piacere che
procurano?". Dobbiamo pensare, Protagora, che darebbero una risposta diversa da questa: che tali cose non sono mali
per la produzione di questo piacere momentaneo, ma per gli effetti che in un secondo tempo ne derivano, malattie e
tutto il resto?» «Penso», rispose Protagora, «che la maggior parte della gente darebbe questa risposta».
«"E portando malattie, non portano dolori, e, portando povertà, non portano dolori?". Si direbbero d'accordo,
penso».
Protagora ne convenne. «"Non sembra, dunque, anche a voi, o uomini, come io e Protagora sosteniamo, che queste
cose siano cattive non per altra ragione che perché vanno a finire in dolori e privano di altri piaceri?". Si direbbero
d'accordo?». Ne convenimmo entrambi.
«E se facessimo loro la domanda opposta: "O uomini, quando dite che esistono cose buone che sono dolorose, non
vi riferite forse a cose che, come gli esercizi ginnici, il servizio militare e le cure praticate dai medici con
cauterizzazioni, tagli, medicine e digiuni, sono buone, ma spiacevoli?". Direbbero di sì ?». Lo ammise. «"E chiamate
queste cose buone forse perché sul momento procurano dolori estremi e sofferenze, o perché in un secondo tempo da
esse derivano salute e benessere dei corpi, salvezza delle città, potere sugli altri e ricchezze?".
Risponderebbero che è così , penso». Lo ammise. «"E queste cose sono forse buone per altra ragione che perché
vanno a finire in piaceri, e liberano e difendono dai dolori? O potete citare qualche altro effetto, che non siano piaceri e
dolori, guardando al quale chiamate buone queste cose?". Risponderebbero di no, credo». «Pare anche a me», disse
Protagora, «che risponderebbero di no». «"E voi inseguite il piacere nella convinzione che sia un bene, e fuggite il
dolore nella convinzione che sia un male?"». Lo ammise. «"Allora voi ritenete che questo, il dolore, sia un male, e che il
piacere sia un bene, visto che dite che talora persino il godere è un male, quando privi di piaceri maggiori di quelli che
porta con sé, o procuri dolori maggiori dei piaceri che comporta? Diversamente, se chiamate male persino il godere in
qualche altro senso o guardando a qualche altro suo effetto, dovreste dircelo: ma non potreste farlo!"» «Anche a me
pare che non potrebbero»~ disse Protagora. «"E ancora, che altro accade a proposito del soffrire, se non la stessa cosa?
Non chiamate talora bene persino il soffrire, quando liberi da dolori maggiori di quelli che comporta, o procuri piaceri
maggiori di questi dolori? Altrimenti, se guardate a qualche altro suo effetto, diverso da quello che dico io, quando
chiamate bene persino il soffrire, dovete dircelo: ma non potrete farlo!"». «Quello che dici è vero», disse Protagora.
«E ancora, se voi, o uomini», dissi, «mi faceste quest'altra domanda: "Ma perché mai parli così a lungo, e
considerandone tutti questi aspetti, di questo argomento?", io risponderei "Perdonatemi! In primo luogo, non e facile
chiarire che cosa sia mai questa cosa che voi definite l'essere vinti dai piaceri; e poi da questo dipendono tutte le
dimostrazioni successive. Ma potete ancora ritrattare, e vedere se vi riesce di dare qualche altra definizione di bene che
non sia il piacere, e di male che non sia il dispiacere. O vi basta vivere piacevolmente la vita senza dolori? Se questo vi
basta, e non potete dare, di bene e di male, altra definizione che non sia ciò che va a finire in piaceri e in dolori, state a
sentire ciò che segue. Io vi dico che, se le cose stanno così , è un ragionamento ridicolo, il vostro, quando affermate che
l'uomo, pur avendo conoscenza del male come tale, tuttavia, spesso, lo compie, benché sia in suo potere non compierlo,
perché mosso e sopraffatto dai piaceri. E inoltre dite che l'uomo, pur avendo conoscenza del bene, non vuole compierlo,
per via del piacere del momento, perché da essi sopraffatto". Che queste affermazioni siano ridicole, risulterà chiaro, se
non ci serviremo di più nomi contemporaneamente: piacere e dolore, bene e male; ma, visto che le cose in questione
sono risultate essere due, dobbiamo riferirci ad esse pure con due soli nomi, prima con bene e male, poi con piacere e
dolore.
Stabilito dunque di fare così , diciamo che l'uomo, pur conoscendo il male come tale, tuttavia lo compie. E qualora
uno ci chieda: "Perché?", "Perché sopraffatto", risponderemo noi.
"E sopraffatto da che cosa?", costui allora ci chiederà. E noi non potremo più rispondere "dal piacere", perché la
cosa, al posto di piacere, ha preso un altro nome, vale a dire quello di bene. E allora gli dovremo rispondere e dire:
"Perché vinto...". "Vinto da che cosa?", chiederà. "Dal bene", dovremo dire, per Zeus! E allora, se ci capiterà, come
interlocutore, uno sfacciato, costui se la riderà e dirà: "Che cosa ridicola state dicendo: voi affermate che uno compie il
male, pur sapendo che è male, e senza che ci sia bisogno di farlo, perché sopraffatto dal bene! Lo affermate forse perché
il bene, in voi, non è all'altezza di vincere il male, o perché ne è all'altezza?". Ovviamente dovremo rispondergli che
questo accade perché il bene non ne è all'altezza! E infatti, se così non fosse, non avrebbe torto colui che noi diciamo
essere sopraffatto dai piaceri! "E in che senso", forse ci chiederà, "i beni non sono all'altezza dei mali, o i mali dei beni?
In che altro senso, se non quando gli uni siano più grandi degli altri e gli altri più piccoli, o gli uni più numerosi e gli
altri inferiori di numero?". Non potremo dargli altra risposta che questa. "E allora è evidente", dirà, "che questa cosa che
chiamate essere sopraffatti consiste nello scegliere mali più grandi invece di beni più piccoli". Così stanno le cose!
Ebbene, cambiamo di nuovo i nomi, mettendo alle stesse cose i nomi di piacere e di dolore, e diciamo che l'uomo
compie ciò che è doloroso (prima dicevamo "il male", ora invece diciamo pure "ciò che è doloroso"), pur avendone
conoscenza come di cosa dolorosa, perché vinto dai piaceri, i quali, d'altro canto, è evidente che non sono all'altezza di
vincere. E in che altro può consistere l'inferiorità del piacere rispetto al dolore, se non in un eccesso o in difetto dell'uno
rispetto all'altro? E questo, poi, accade quando queste cose sono, le une rispetto alle altre, più grandi o più piccole, più
numerose o meno numerose, superiori o inferiori.
E se uno dicesse: "Ma c'è gran differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il piacere e il dolore futuri!", gli
risponderei: "Sta forse in qualcos'altro la differenza, che non sia piacere e dolore?
La differenza, infatti, non può consistere in altro! Tu, piuttosto, come uno abile a pesare, messi insieme i piaceri da
una parte e i dolori dall'altra, dopo aver posto sul piatto della bilancia anche la vicinanza e la lontananza, prova a dire
quale piatto è più pesante.
Se peserai piaceri con piaceri, dovrai sempre scegliere quelli più grandi e più numerosi; se peserai, invece, dolori
con dolori, dovrai sempre scegliere quelli meno numerosi e più piccoli; se, poi, peserai piaceri con dolori, qualora i
dolori siano superati dai piaceri, sia che i dolori vicini siano superati dai piaceri lontani, sia che i dolori lontani siano
superati dai piaceri vicini, l'azione in cui vi sia questa condizione di superiorità del piacere sul dolore va allora
compiuta. Quando, invece, siano i piaceri ad essere superati dai dolori, quelle azioni non le dovrai compiere. O le cose
stanno in altro modo, uomini?", domanderei. So bene che non potrebbero dire altrimenti!».
Anch'egli fu d'accordo.
«"E visto che le cose stanno così ", dirò, "rispondete a questa mia domanda: le medesime grandezze appaiono alla
vista maggiori da vicino, e minori da lontano. Non è così ?"» «Risponderanno di sì ».
«"E non accade lo stesso con le cose grosse e con le cose numerose?
E voci uguali non sembrano più forti da vicino, e più deboli da lontano?"» «Direbbero di sì ». «"Se, dunque, la nostra
felicità dipendesse dal fare e scegliere le cose di grandi dimensioni e dal fuggire ed evitare le cose di piccole
dimensioni, in che consisterebbe allora la salvezza della nostra vita? Nell'arte di misurare o nella forza dell'apparenza?
O quest'ultima non ci trarrebbe forse in inganno e non ci farebbe più volte mutare le stesse cose e pentirci, sia nel
compiere sia nello scegliere le cose grandi e le cose piccole, mentre l'arte dì misurare renderebbe impotente
quest'illusione, e, mostrando la verità, metterebbe l'anima in pace, saldamente fedele al vero, e salverebbe la nostra
vita?". Ebbene, non ammetterebbero gli uomini che, in questo senso, è l'arte di misurare che ci salva, o direbbero che si
tratta di un'altra arte?» «Ammetterebbero che si tratta dell'arte di misurare», riconobbe.
«"E che accadrebbe, se la salvezza della nostra vita dipendesse dalla scelta del dispari e del pari, quando, per
scegliere correttamente, dovessimo scegliere il più e quando il meno, sia valutando una data cosa rispetto a se stessa, sia
valutando le cose una rispetto all'altra, che sia vicina e che sia lontana? Che cosa salverebbe, allora, la nostra vita? Non
si tratterebbe forse di una data conoscenza? E non si tratterebbe di una conoscenza della misurazione, visto che si tratta
di un'arte dell'eccesso e del difetto? E visto che si tratta dell'arte del dispari e del pari, potrebbe forse essere arte diversa
dall'aritmetica?". Si direbbero d'accordo con noi, costoro, o no?». Anche Protagora fu dell'opinione che sarebbero stati
d'accordo. «"E sia, gente! Poiché la salvezza della nostra vita è risultata dipendere dalla corretta scelta del piacere e del
dolore, della quantità maggiore e minore, del più grande e del più piccolo, del più lontano e del più vicino, non vi pare
innanzi tutto che non può non essere un'abilità nel misurare, visto che si tratta di una ricerca dell'eccesso, del difetto e
dell'uguaglianza di una cosa rispetto ad un altra?"». «Per forza». «"E visto che si tratta di un'abilità nel misurare, deve
per forza trattarsi di un'arte e di una conoscenza"». «Si diranno d'accordo». «"Di quale arte e di quale conoscenza si
tratti, vedremo un'altra volta. Ma che si tratti di una conoscenza è quanto basta per la dimostrazione che io e Protagora
dobbiamo darvi circa le cose che ci domandaste.
Ci avete posto questa domanda, se ricordate, quando noi due sostenemmo di comune accordo che non esiste nulla di
più potente della conoscenza, e che essa sempre prevale, ovunque sia presente, sia sul piacere sia su tutte le altre
passioni. Ebbene, voi affermaste che spesso il piacere prevale anche sull'uomo che ha conoscenza, e, dato che non vi
demmo ragione, dopo questo ci chiedeste: "Protagora e Socrate, se questo che ci succede non è l'essere vinti dal piacere,
di che si tratta, allora, e cosa dite che sia?
Ditecelo!". Se allora vi avessimo subito risposto: "Ignoranza", ci avreste riso in faccia. Ora, invece, se rideste di noi,
ridereste anche di voi stessi, poiché anche voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta dei piaceri e dei dolori (cioè
dei beni e dei mali), sbaglia per difetto di conoscenza; e non solo di conoscenza in generale, ma di quella conoscenza
che, ancor prima, avete riconosciuto come conoscenza della misurazione. E l'azione errata commessa per difetto di
conoscenza, sapete anche voi che si commette per ignoranza. Sicché, in questo consiste l'essere succubi del piacere:
nella somma ignoranza, male di cui il nostro Protagora dice di essere medico, e così anche Prodico e Ippia. Ma voi,
convinti che si tratti di altro dall'ignoranza, non andate e non mandate i vostri figli da quelli che insegnano queste cose,
dai sofisti qui presenti, nella convinzione che esse non si possano insegnare: poiché vi preme il denaro e non lo volete
spendere con costoro, riuscite male e nella vita privata e in quella pubblica".
Questa è la risposta che noi daremmo alla gente. Quanto a voi, Prodico e Ippia, perché anche voi dovete prendere
parte alla discussione, insieme a Protagora vi domando se vi pare che le cose che dico siano vere o false». Tutti furono
del parere che ciò che si era detto fosse fin troppo vero. «Allora», dissi, «ammettete che il piacere sia bene, e il dolore
sia male. E scongiuro il nostro Prodico di risparmiarci la sua distinzione dei termini: sia che tu dica piacere, sia che tu
dica divertimento, sia che tu dica godimento, sia che tu lo chiami prendendo il nome da dove ti pare e come ti fa piacere
chiamarlo, caro Prodico, rispondimi sulla cosa che mi preme sapere». Ridendo, Prodico si disse d'accordo, e gli altri con
lui. «Ebbene, gente», dissi, «che ne dite di questo? Tutte le azioni che mirano a questo scopo, ossia a vivere senza
dolore e piacevolmente, non sono forse belle? E l'azione bella non è forse anche buona e utile?».
Ne convennero. «E allora», dissi, «se il piacere si identifica col bene, nessuno che sa o crede di sapere che altre cose
sono migliori di quelle che fa, e che è in suo potere farle, continua tuttavia a fare queste, pur potendo farne di migliori.
E l'essere succubi di se stessi non è altro che ignoranza, mentre il sapersi dominare non è altro che sapienza». Tutti ne
convennero. «Ebbene, non dite forse che l'ignoranza consiste proprio in una cosa del genere, nell'avere una falsa
opinione e nell'ingannarsi sulle cose di grande valore?». Anche su questo furono tutti d'accordo. «E non è forse vero»,
dissi, «che nessuno di sua volontà mira al male o a ciò che considera male, e che non è, a quanto pare, nella natura
umana tendere volontariamente a ciò che si considera male invece che al bene; e che, quando si fosse costretti a
scegliere fra due mali, nessuno sceglierà il male maggiore, se gli sarà possibile scegliere il minore?». Tutto ciò incontrò
unanime consenso. «Ora», dissi, «c'è qualcosa che chiamate timore e paura? è forse la stessa cosa che intendo io? Parlo
con te, Prodico! Intendo una sorta di aspettazione del male, che la chiamiate paura o la chiamiate timore». A Protagora e
a Ippia parve che timore e paura consistessero proprio in questo, mentre Prodico era del parere che in questo consistesse
il timore, ma non la paura. «Non ha nessuna importanza», dissi, «Prodico. Ciò che conta, piuttosto, è questo: se sono
vere le precedenti affermazioni, ci sarà forse qualcuno che di sua volontà muoverà verso ciò di cui ha timore, pur
essendogli possibile evitarlo? Non è forse impossibile, tenendo conto di quello che abbiamo prima convenuto? Si è
convenuto, infatti, che le cose di cui uno ha timore sono da lui considerate mali; e che nessuno di sua volontà prende di
mira o sceglie le cose che considera mali». Anche su questo furono tutti d'accordo. «Gettate queste fondamenta, o
Prodico e Ippia», dissi, «il nostro Protagora difenda, di fronte a noi, le sue precedenti risposte, provando che sono
corrette. Non le risposte che diede proprio all'inizio della discussione: allora, infatti, sostenne che, essendo cinque le
parti della virtù, nessuna di esse è uguale all'altra, e che ciascuna ha una sua particolare funzione. Ma non è questa la
risposta a cui mi riferisco, bensì alla sua affermazione successiva. Poco dopo, infatti, dichiarò che quattro di queste parti
sono abbastanza simili tra loro, ma che una, il coraggio, è molto diversa dalle altre, e che io avrei potuto capirlo da
questa prova: "Troverai, Socrate, molti uomini che sono sommamente empi, ingiusti, dissoluti e ignoranti, eppure dotati
di grande coraggio. E da questo capirai che il coraggio è molto diverso dalle altre parti della virtù".
E già allora, subito, rimasi molto stupito di quella risposta, ma ora che ho esaminato con voi la questione, ne sono
ancora più stupito.
Gli chiesi, allora, se definisse i coraggiosi "audaci", e mi rispose: "E intrepidi, anche". Ricordi, Protagora, di avermi
dato questa risposta?».
Lo ammise. «E dimmi», continuai, «verso che cosa tu dici che i coraggiosi sono intrepidi? Verso le stesse cose a cui
lo sono i vili?». Disse di no.
«Verso altre cose, allora!». «Sì », rispose. «E non accade forse che i vili affrontino imprese sicure, e i coraggiosi,
invece, imprese rischiose?» «Così dice la gente, Socrate!». «Quello che dici», dissi, «è vero, ma non era questa la mia
domanda, bensì che cosa sia, a tuo giudizio, ciò verso cui i coraggiosi sono intrepidi. Sono intrepidi verso le imprese
rischiose, pur considerandole rischiose, o verso quelle imprese che rischiose non sono?» «Ma questo», rispose, «nei
ragionamenti che hai appena fatto si è dimostrato impossibile!». «Anche in questo», dissi, «dici il vero. Sicché, se la
dimostrazione è corretta, nessuno affronta imprese che considera rischiose, visto che l'essere succubi di se stessi si è
scoperto essere ignoranza». Lo ammise. «Ma tutti, invece, vili e coraggiosi, affrontano le imprese sicure, e, almeno in
questo, vili e coraggiosi affrontano le stesse imprese». «Però, Socrate», rispose, «è del tutto opposto ciò che affrontano i
vili rispetto a ciò che affrontano i coraggiosi: per esempio alla guerra, questi vogliono andare, e quelli non vogliono».
«E andare alla guerra», domandai, «è un'azione bella o brutta?» «Bella», rispose. «E se è vero che è bella», dissi, «è
anche buona: così abbiamo convenuto nei precedenti ragionamenti». «è vero quello che dici, e io sono sempre della
stessa opinione». «Bene!», dissi. «Ma chi sono, secondo te, coloro che non vogliono andare alla guerra, benché essa sia
un'azione bella e buona?» «I vili», rispose. «E se è bella e buona», chiesi, «non è forse anche piacevole?» «Almeno così
si è stabilito», rispose. «E i vili non vogliono affrontare ciò che è più bello, più buono e più piacevole, nella
consapevolezza che è tale?» «Ma anche in questo caso, se ammettiamo ciò», rispose, «mandiamo in malora quello che
abbiamo prima convenuto!».
«E che dire del coraggioso? Non affronta forse ciò che è più bello, più buono e più piacevole?» «Bisogna
ammetterlo!», rispose. «In generale, allora, i coraggiosi, quando hanno paura, non hanno brutte paure, né, quando sono
audaci, hanno brutte audacie». «è vero», disse. «E se queste non sono brutte, non sono forse belle?». Lo ammise. «E se
sono belle, sono anche buone?» «Sì ». «E, al contrario, i vili, gli audaci e i pazzi, non hanno forse brutte paure e brutte
audacie?». Lo ammise.
«E sono audaci in cose brutte e cattive per altra ragione che non sia per incoscienza e per ignoranza?» «Così stanno
le cose», rispose. «E allora? Quello per cui i vili sono vili, lo chiami viltà o coraggio?» «Lo chiamo viltà», disse. «Ma i
vili non risultarono essere tali a causa della loro ignoranza delle cose che incutono timore?» «Certo», disse. «E allora a
causa di questa ignoranza che sono vili?».
Lo ammise. «Ma non hai già ammesso che ciò per cui sono vili è la viltà?».
Disse di sì . «E, allora, l'ignoranza delle cose temibili e delle cose non temibili non risulta identificarsi con la viltà?».
Annuì . «Ma il contrario della viltà è il coraggio», dissi. Consentì . «E la conoscenza delle cose temibili e delle cose non
temibili non è forse contraria all'ignoranza di esse?». Anche qui fece cenno di sì . «E l'ignoranza di queste cose non è la
viltà?». Qui annuì piuttosto a malincuore. «La conoscenza delle cose temibili e delle cose non temibili non è allora il
coraggio, essendo contraria all'ignoranza di esse?». Qui non volle più nemmeno annuire e restò in silenzio. Ed io: «Che
c'è, Protagora: non rispondi né sì né no alla mia domanda?» «Continua da solo», disse. «Sì », dissi, «ma dopo averti fatto
ancora una sola domanda, se cioè sei ancora del parere, come al principio della discussione, che esistano uomini in
sommo grado ignoranti, eppure coraggiosissimi». «Ho l'impressione, o Socrate», rispose, «che tu ti accanisca a farmi
rispondere. E allora ti faccio un favore e ti rispondo che, da quanto s'è convenuto, mi risulta che questo sia impossibile».
«Ma io», dissi, «non ti faccio tutte queste domande con altro scopo che quello di indagare come stiano le cose a
proposito della virtù e che cosa mai sia in sé la virtù. So, infatti, che, fatta luce su questo punto, si chiarirebbe anche la
questione su cui tu ed io abbiamo fatto ciascuno un gran parlare, io sostenendo che la virtù non è insegnabile, tu, invece,
che è insegnabile. E sono convinto che l'esito dei nostri discorsi di poco fa, se potesse prendere aspetto umano, ci
accuserebbe e si farebbe beffe di noi; e, se potesse parlare, immagino ci direbbe: "Siete ben strani, Socrate e Protagora:
tu, Socrate, che nei tuoi ragionamenti di prima sostenevi che la virtù non è insegnabile, ora ti impegni a sostenere la tesi
opposta, tentando di dimostrare che tutti i beni, giustizia, temperanza e coraggio, sono conoscenza, che è il modo
migliore per far apparire insegnabile la virtù.
Perché se la virtù fosse altro dalla conoscenza, come Protagora tenta di dimostrare, sarebbe evidente che non si può
insegnare. Ma se ora risultasse essere interamente costituita da conoscenza, come tu, Socrate, ti affanni a provare,
sarebbe ben strano che non potesse essere insegnata.
Protagora, dal canto suo, che partiva dal presupposto che essa fosse insegnabile, ora, al contrario, pare ansioso di
dimostrare che essa è tutto fuorché conoscenza; e, se così fosse, non risulterebbe affatto insegnabile". Ebbene,
Protagora, vedendo tutto questo in tremendo scompiglio, ho un gran desiderio che si faccia chiarezza in queste
questioni, e vorrei che, dopo averle esaminate, arrivassimo a capire che cosa sia la virtù, e che poi, di nuovo, tornassimo
ad esaminare, a proposito di essa, se sia insegnabile o non lo sia, perché non capiti che l'Epimeteo di cui si parlava,
ingannandoci, non ci mandi fuori strada anche nella nostra indagine, come già ci ha trascurati nella distribuzione, stando
al tuo racconto. A dire il vero, anche nel mito Prometeo mi è piaciuto più di Epimeteo, ed io, facendo tesoro del suo
caso e cercando di essere previdente (83) in tutti gli aspetti della mia vita, mi occupo appunto di tutte queste questioni;
e, se tu volessi, come ti dissi anche all'inizio, sarei ben contento di esaminarle con te».
E Protagora: «Socrate, lodo il tuo zelo e la tua maniera di sviluppare il ragionamento. Non credo, neppure nel resto,
di essere un cattivo uomo, ma penso di essere meno di ogni altro invidioso, visto che, anche di te, ho già detto a molti
che, fra quelli in cui mi accade d'imbattermi, tu sei quello che io stimo di gran lunga di più, e in modo particolare
rispetto ai tuoi coetanei. E dico, anzi, che non sarei affatto stupito se tu entrassi nel novero degli uomini illustri per
sapienza. Ma di questo ne parleremo un'altra volta, quando vorrai. Ora è ormai tempo che mi metta a fare altre cose».
«Ma via», dissi, «così bisogna fare, se così a te pare. Anche per me, del resto, è già da un pezzo ora di andare dove
dissi che dovevo andare, ma ero rimasto per fare un piacere al bel Callia».
Detto e udito ciò, ce ne andammo.
NOTE:
1) Alcibiade visse all'incirca fra il 450 e il 404 a.C., anno in cui, dietro istigazione dei Trenta Tiranni e dello
spartano Lisandro, venne assassinato in Frigia, dove si era rifugiato presso il satrapo Farnabazo dopo una vita
avventurosa, costellata di mutamenti di alleanze, viaggi, successi e rovesci di fortuna. Fu figlio di Clinia, ateniese, della
ricca e potente famiglia degli Eupatridi, e di Dinomache, appartenente anch'essa ad un'illustre stirpe ateniese, quella
degli Alcmeonidi. Quando il padre morì , nel 446 a.C., Alcibiade, che all'epoca aveva circa quattro anni, venne affidato
alla tutela di Pericle (cfr. Platone, Alcibiades 118c), con cui era imparentato.
Secondo quanto attesta Platone nei dialoghi, frequentò a lungo Socrate: si veda soprattutto il Simposio (215a-219e).
2) Cfr. Omero, Iliade libro 24, verso 348; Odissea, libro 10, verso 279. La formula omerica «cui fiorisce la prima
peluria, e la sua è la giovinezza più bella», da cui Platone prende gli elementi verbali senza citarla letteralmente, è
riferita ad Ermes, che viene detto, nel primo caso, «simile ad un giovane principe», e, nel secondo, «simile ad un
giovane eroe».
3) Alcibiade dovrebbe avere all'incirca 18 o 19 anni, se si suppone che l'azione del dialogo sia immaginata avvenire
all'epoca del secondo viaggio di Protagora ad Atene, forse nel 432/31 a.C.
4) Cfr. Platone, Symposium 217a-219e: Alcibiade confessa di avere avuto una considerazione straordinaria del fiore
della propria giovinezza e della propria bellezza e descrive i sentimenti che il fare sprezzante di Socrate agitava in lui: si
sentiva rifiutato e tuttavia non sapeva privarsi della sua compagnia, e, dopo aver fallito con la propria avvenenza, si
trovava privo di espedienti su come potesse conquistarlo.
5) Abdera è una città della Ionia, patria di Protagora, il cui nome verrà fatto fra poco. Di Abdera era anche
Democrito.
6) Clinia, padre di Alcibiade (cfr. la nota 1), è menzionato da Erodoto, libro 8, 17, per essersi fatto onore nella
battaglia navale dell'Artemisio contro i Persiani. E in battaglia morì , a Cheronea nel 446 a.C., quando Alcibiade aveva
circa quattro anni.
7) Protagora nacque verso gli inizi del quinto secolo ad Abdera. Come tutti i sofisti viaggiò molto e fra il 450 e il
444 a.C. soggiornò una prima volta ad Atene, dove ebbe da Pericle l'incarico di preparare la legislazione per la nuova
colonia panellenica di Turi; il secondo viaggio ad Atene è forse da collocare fra il 432 e il 431 a.C., epoca in cui
probabilmente si immagina che avvenga l'azione del dialogo; stando a quel che Platone dice (Protagoras 349a), egli fu il
primo a farsi pagare un compenso in denaro in cambio del sapere o di quell'arte "politica" di cui si professava maestro.
Il fondamento del suo pensiero, espresso nello scritto La verità, viene citato dallo stesso Platone, Theaetetus 166d:
«ciascuno di noi, in realtà, è misura delle cose che sono e di quelle che non sono, ma c'è una grande differenza tra l'uno
e l'altro, proprio per questo, perché per uno esistono e appaiono certe cose, per un altro esistono e appaiono cose
differenti».
Morì in naufragio nel 411 a.C., dopo aver lasciato Atene, dove era stato accusato di empietà per il suo libro Sugli
dèi.
8) Personaggi altrimenti ignoti. Di Ippocrate figlio di Apollodoro sappiamo solo quello che di lui Platone dirà (316bc)
per bocca di Socrate: ateniese, discendente di un casato potente e ricco, di buone doti naturali e ambizioso, e disposto
a pagare qualsiasi prezzo purché Protagora gli trasmetta la propria sapienza. Sappiamo inoltre che all'epoca del primo
soggiorno ad Atene di Protagora, fra il 450 e il 444 a.C., Ippocrate era, o si immagina che fosse, ancora un fanciullo
(cfr. 310e).
9) Enoè era il nome di due demi attici, uno a nord e uno a nord-ovest di Atene. Qui si tratterà più probabilmente del
secondo, essendo di lì più facile raggiungere la Beozia, probabile mèta di uno schiavo in fuga.
10) Sul tema dei sofisti "venditori" del loro sapere, cfr. più avanti 313c seguenti. e 328b-c.
11) Il primo viaggio di Protagora ad Atene è collocato intorno al 450-444 a.C.
12) Callia era uno dei più ricchi ateniesi, prima di dissipare il suo patrimonio col suo mecenatismo. La sua casa era
albergo per i sofisti di passaggio, di cui egli era fanatico ammiratore. Cfr. la nota 66.
13) Ippocrate di Cos visse tra il 460 e il 370 a.C. circa. Discendeva dalla corporazione medica degli Asclepiadi di
Cos. Sotto il suo nome è stata tramandata una raccolta di scritti medici in dialetto ionico, il Corpus Hippocraticum.
14) Policleto, nativo di Sicione ma chiamato argivo perché capo della scuola di scultura di Argo, visse ed operò
nella seconda metà del quinto secolo.
Ritraeva di preferenza giovani atleti, fra cui il Doriforo. il Diadumeno, l'Amazzone, ricostruendo il corpo umano
sulla base di proporzioni matematico-geometriche che egli stesso fissò nel suo scritto sulla scultura, Il canone.
15) Il più celebre scultore greco. Operò intorno alla metà del quinto secolo, e fu amico di Pericle che gli
commissionò le sculture per il Partenone, fra cui la statua crisoelefantina di Atena Parthenos, che nel 448 venne
collocata nella cella grande del tempio. Nel 442 venne accusato dagli Ateniesi di essersi appropriato di una parte
dell'oro destinato alla statua di Atena, e morì in carcere nel 431, vittima, come del resto anche Protagora e Anassagora,
degli avversari politici di Pericle, che per colpire costui miravano a quelli della sua cerchia. Nel Menone (91d), per dare
un'idea esagerata dei guadagni che Protagora traeva dall'arte sofistica, Platone fa dire a Socrate che Protagora, da solo,
ha guadagnato più denaro da questa sapienza che non Fidia ed altri dieci scultori insieme.
16) Nel Sofista (223c-224e), Platone dimostra come l'«arte sofistica» si possa a ragione definire come il mestiere di
compra e costruisce cognizioni e le scambia, da città a città, con denaro, traendo di che vivere da questa attività, e come
questo ci autorizzi a chiamare mercante chi faccia di questo commercio il suo mestiere.
17) Ippia di Elide visse verso la fine del quinto secolo. Platone lo ritrae come un erudito che non perde occasione di
sfoggiare il suo sapere enciclopedico (347a-b), e, facendolo zittire da Alcibiade, lascia intendere di non tenere in grande
considerazione le sue disquisizioni. Vedi anche l'allusione di Protagora al tipo di insegnamento impartito da Ippia e
dagli altri sofisti in 318e. Viaggiò molto ed ebbe un'intensa attività di poligrafo, letterato ed erudito. Platone lo
rappresenta vanitoso e avido (cfr. Hippias maior 282d-e), presuntuoso esegeta di Omero (cfr. Hippia minor 364b-365c),
e capace di fare di tutto. Sul paragone a Eracle, cfr. la nota 25.
18) Prodico di Ceo nacque fra il 470 e il 460 a.C. Fu ambasciatore in molte città, fra cui Atene, dove ottenne grande
successo con le sue lezioni e, pare, ricavò favolose ricchezze (cfr. Platone, Hippias maior 282b-c).
Scrisse le "Orai", che probabilmente contenevano l'apologo dì Eracle al bivio (riferito da Senofonte, Memorabilia
libro 2, 1,20-34) sul tema moralistico delle due vie, la via della Mollezza, piana e piacevole, e la via della Virtù, segnata
dal lavoro e dalla fatica (cfr. Esiodo, Opera et dies 286-92), e un trattato Sull'esattezza delle parole. Verrà rappresentato
come un accanito censore dell'uso lessicale, che si fa scrupolo di precisare, ad ogni parola, il suo esatto significato
(337a-c), e non resta per nulla soddisfatto da definizioni generali (358a). Socrate lo chiamerà ironicamente suo maestro
(341a), e prenderà in giro il suo modo puntiglioso di fare sottilissime distinzioni semantiche, raccontando come Prodico
lo rimproverava di usare a sproposito le parole (341a-b), e servendosi di lui per una assurda interpretazione della parola
«difficile» in Simonide di Ceo, prontamente smascherata da Protagora (341b-d).
19) Paralo era fratello uterino di Callia. La madre di Callia, dopo essersi divisa da Ipponico, aveva sposato in
seconde nozze Pericle, da cui ebbe i figli Paralo e Santippo, morti nella peste del 429 a.C. il fatto che Platone faccia
figurare questi due personaggi fra gli ospiti di Callia in occasione del soggiorno ateniese dì Protagora lascia intendere
che l'azione del dialogo era immaginata avvenire prima del 429 a.C., e che probabilmente va collocata nel 432/431 a.C.,
piuttosto che nel 423/422 a.C.
20) Carmide figlio di Glaucone era zio materno di Platone. Con il cugino Crizia aveva fatto parte dei trenta tiranni
ed era morto nella battaglia di Munichia nel 403 a.C., nello scontro fra aristocratici e democratici.
è il principale interlocutore nel dialogo omonimo.
21) Santippo era fratello di Paralo e fratello uterino di Callia (cfr. la nota 19).
22) Filippide figlio di Filomelo è un personaggio ignoto da altre fonti.
L'unica informazione è questa che ci viene data da Platone, ossia che anch'egli era discepolo di Protagora.
23) Antimero di Mende è un personaggio altrimenti sconosciuto. Ambiva a diventare sofista di mestiere, secondo
quanto ci viene detto qui da Platone.
24) Orfeo, mitico poeta della Tracia, figlio, secondo la leggenda, di Apollo e della Musa Calliope, col suo canto
ammaliava e trascinava uomini, animali, piante e pietre. Nello Ione (533d seguenti) Socrate chiarisce al rapsodo Ione
l'origine divina della forza della poesia: la Musa rende i poeti ispirati, e attraverso questi ispirati si crea una lunga catena
di altri che sono invasati dal dio; così i poeti poetano o i rapsodi dicono belle cose intorno ai poeti non per arte o per
conoscenza, ma per una forza divina che li possiede e che toglie loro il senno. Con questo parallelo, Platone intende dire
che anche l'arte della persuasione di Protagora seduce le anime, e le trascina per effetto di incantesimo, privandole di
senno.
25) Omero, Odyssea libro 11, verso 601. La formula «e dopo di lui conobbi» è usata da Omero per legare,
nell'evocazione dei morti di Odisseo, l'apparizione di un'ombra all'altra: dopo Sisifo, che appare penare nell'inutile fatica
di spingere un masso sulla cima di un colle, e rotolare ogni volta al piano senza poterla raggiungere, Odisseo riconosce
l'ombra di Eracle. Platone, usando come nesso fra un personaggio e l'altro questa formula omerica in questa forma (la
stessa formula si trova, scomposta, anche in Odyssea libro 11, verso 572), evidentemente vuole stabilire un parallelo fra
Protagora e Sisifo e fra Ippia ed Eracle, suggerendo così le caratteristiche che li accomunerebbero: la presunzione di
Protagora e di Sisifo (cfr. 348e-349a, sulla fiducia che Protagora ha in se stesso), e la pretesa di onniscienza e di saper
fare e parlare di tutto di Ippia di Elide, paragonata alla sconfinata forza di Eracle (su Ippia, cfr. la nota 17).
26) Erissimaco, come il padre Acumeno, fu un celebre medico. Figura come interlocutore nel Simposio (185d), ed è
nominato, insieme al padre Acumeno in Phaedrus 268a.
27) Fedro del demo di Mirrinunte è il personaggio protagonista dell'omonimo dialogo. Nel Fedro (227a), egli si dice
amico e medico Acumeno, e annuncia di voler andare a passeggiare per le strade all'aperto perché così gli ha consigliato
Acumeno. Compare anche nel Simposio (176d seguenti, dove dice di esser solito dare retta, in fatto di medicina. a
Erissimaco figlio di Acumeno, e 178a seguenti, dove pronuncia un elogio di Eros.
28) Androne di Androzione è menzionato anche nel Gorgia (487c), come uno dei tre «compagni di sapienza» di
Callicle. Prese parte alla rivolta oligarchica del 411 a.C.
29) Cfr. Omero, Odyssea libro 11, verso 583 e seguenti. Il verso omerico è: «e anche Tantalo vidi, che pene atroci
pativa»: Tantalo è ritto in piedi in uno stagno, assetato, e non può bere di quell'acqua, che sparisce, inghiottita, appena
egli si piega per prenderne; e, sulla sua testa, alberi piegano i loro rami carichi di frutti, ma il vento li alza appena
Tantalo si allunga per prenderne.
30) Su Prodico di Ceo, cfr. la nota 18.
31) Pausania del Ceramico è un retore. Nel Simposio (180c seguenti), dopo l'elogio di Eros fatto da Fedro, Platone
gli fa esprimere alcune delle idee allora in voga sulla questione d'amore: distinzione fra Eros celeste ed Eros volgare;
solo l'Eros celeste è degno dì essere elogiato, eccetera.
32) Agatone fu un poeta tragico, di cui si sono conservati solo pochi frammenti. Nacque intorno al 447 a.C. in casa
sua, per festeggiare la vittoria ottenuta con la sua prima tragedia nelle Lenee del 416 a.C., si svolge l'azione del
Simposio. In questo dialogo (193b-c) compare un'altra allusione all'amicizia intima fra Agatone e Pausania.
33) Adimanto figlio di Cepide non è noto da altre fonti. Su Adimanto figlio di Leucolofide, sappiamo da Senofonte,
Historia Graeca libro 1, 4, 21; libro 2, 1, 30. che fu stratega alla battaglia di Egospotami, e fu processato dagli Ateniesi
per tradimento.
34) Su Alcibiade, cfr. la nota 1.
35) Crizia figlio di Callescro, di famiglia aristocratica, era cugino di Perictione, madre di Platone. Divenne capo dei
trenta tiranni, e col cugino Carmide, zio di Platone (cfr. la nota 20), morì nella battaglia di Munichia nel 403 a.C..
combattendo contro i democratici insorti. Scrisse opere in versi e in prosa. In Filostrato, Vitae sophistarum libro 1,16, si
legge di Crizia che egli parteggiò per gli Spartani, minacciando guerra da parte degli Spartani a chi avesse dato asilo a
coloro che egli aveva esiliato da Atene, e collaborando con gli Spartani nel disegno di fare dell'Attica terra da pascolo
per le pecore. Il celebre opuscolo antidemocratico "Athenaíon politeia" giunto a noi tra le opere di Senofonte, ma
certamente non scritto da lui, potrebbe essere opera di Crizia.
36) Nell'interpretaziOne di Protagora, il "sofista" è colui che sa rendere gli uomini migliori. Omero, dunque, facendo
dei suoi eroi esempi di virtù, avrebbe i requisiti per essere definito sofista, nel senso appunto di "colui che educa alla
virtù".
37) Nelle Opere e i giorni anche Esiodo dava precetti di vita morale, servendosi dunque, a giudizio di Protagora,
della poesia come paravento per mascherare il vero scopo che gli stava a cuore, vale a dire educare alla virtù, e quindi
praticare l'arte sofistica nel senso in cui Protagora l'intendeva.
38) Simonide di Ceo nacque intorno alla metà del quinto secolo. Fu poeta corale, di inni, canzoni conviviali (scolia),
canti funebri, epitafi, elegie, ma soprattutto di epinici. e trascorse la maggior parte della sua vita alla corte di tiranni:
presso Ipparco ad Atene, presso gli Scopadi in Tessaglia, presso gli Alevadi a Larissa e alla corte di Ierone di Siracusa.
in Diodoro Siculo, libro 11, 11,4-12,1, ci è conservato un frammento dell'epitafio di Simonide per i caduti spartani alle
Termopili. Il tema della virtù, di come essa sia accessibile a pochi, e di come sia impossibile trovare un uomo senza
difetto, è ricorrente nella sua opera. Anch'egli, dunque, è "sofista" nel senso che intende Protagora ("maestro di virtù").
Più avanti, su invito di Protagora (339a seguenti), verrà analizzato il suo celebre carme A Scopa.
39) Su Orfeo, cfr. la nota 24.
40) Museo, mitico discepolo di Orfeo, autore, secondo la tradizione, di poemi cosmogonici e di inni sacri.
41) Icco di Taranto fu un famoso atleta, vincitore della gara del pentathlon ad Olimpia nel 470 a.C. Platone lo cita
(Leges libro 8, 840a) dicendo che egli, in vista delle gare, per amore della vittoria, sapeva rinunciare ai piaceri del sesso,
e che sue erano la virtù della temperanza e del coraggio.
Anche la ginnastica contribuiva alla paideia (cfr. Protagoras 312b), l'educazione spirituale del giovane di buone
speranze, e dal momento che anch'essa educava alla virtù senza professarlo apertamente, Protagora la considera "arte
sofistica" camuffata.
42) Erodico, nativo di Megara, era detto di Selimbria per essersi trasferito a Selimbria. Lasciata l'atletica, fu maestro
di ginnastica. è nominato nella Repubblica (libro 3, 406a-b), dove si racconta che, colpito da una malattia mortale,
lasciò ogni altro interesse per seguire attimo per attimo il decorso della malattia, senza essere capace di guarirsi, e che
così , vivendo solo per curarsi, tirò per le lunghe la sua morte, imprigionato nella sua "dieta", si tormentava se anche di
poco deviava da essa, e giunse ad un'età avanzata grazie alla moderna terapia di associare la ginnastica alla medicina. E
qui il caso di Erodico è citato in polemica contro il malcostume dei ricchi di curarsi con diete prolungate, prendendosi il
lusso di giacere a letto e diventando così un peso per la società, e precisando che ciò non ha nulla ha che fare con l'arte
medica di Asclepio.
43) Agatocle fu maestro di musica di Damone (cfr. Laches 180c-d) che a sua volta fu maestro di Pericle (cfr.
Alcibiades 118c). il suo discepolo viene citato nella Repubblica (libro 4, 424c), a proposito della necessità di mantenere
immutata l'educazione musicale, e di non introdurre nuovi generi musicali, perché questo scuoterebbe i fondamenti su
cui poggia la costituzione dello Stato. Nella Repubblica (libro 3, 400b-e), Socrate si richiama all'autorità di Damone per
giudicare quali siano i ritmi che traducono la volgarità, la violenza, la pazzia e ogni altro difetto, e quali siano invece i
ritmi che traducono le virtù opposte. è dunque chiara la ragione per cui Protagora chiama "sofista" il suo maestro.
44) Pitoclide di Ceo è citato, con Damone, come maestro di musica di Pericle, nell'Alcibiade secondo (118c).
45) Zeusippo di Eraclea è il famoso pittore del quinto secolo a.C., citato con il nome di Zeusi anche nel Gorgia
(453c-d), come pittore dì figure vive.
Cfr. Aristotele, Poetica 1461b 13.
46) Ortagora di Tebe fu un celebre flautista, maestro di flauto di Epaminonda.
47) Letteralmente "eúbolia" significa 'capacità di consigliarsi bene', 'di prendere giuste decisioni'.
48) Il Consiglio, il più importante organo politico di Atene, era composto di cinquecento membri, cinquanta per
ognuna delle dieci tribù. Era presieduto, a turno, dai cinquanta membri di una delle dieci tribù, per un uguale periodo di
tempo di 35/36 giorni, secondo un ordine stabilito a sorte. Questi cinquanta membri, per il periodo che presiedevano il
Consiglio, si chiamavano Pritani, e Pritania era la carica che essi ricoprivano. Gli arcieri di cui si parla erano guardie al
servizio dei Pritani.
49) Si tratta di Paralo e Santippo; cfr. la nota 19. Nell'Alcibiade secondo (118d-e) Socrate chiede ad Alcibiade chi
sia stato reso saggio da Pericle, a partire dai suoi due figli. e Alcibiade, cogliendo l'allusione, risponde lasciando
intendere che Paralo e Santippo erano considerati due sciocchi.
50) Clinia era fratello minore di Alcibiade, affidato anch'egli, dopo la morte del padre Clinia, alla tutela di Pericle.
Nell'Alcibiade secondo (118e), Alcibiade chiama il fratello «pazzo», e fa capire che neppure a costui Pericle seppe
trasmettere la propria sapienza.
51) Il nome Arifrone significa 'molto saggio': fu il nome del nonno e del fratello di Pericle.
52) Nel mito Prometeo è un gigante figlio di Giapeto e dell'oceanina Climene.
in Esiodo, Theogonia 507 seguenti, è detto versatile e astuto, ingannò Zeus una prima volta, quando, in occasione di
una contesa fra il re dell'Olimpo e i mortali, spartì un bue con arte ingannevole, nascondendo le carni e le interiora in
una pelle, nel ventre del bue, camuffando le ossa nel grasso, e invitando Zeus a scegliere. Questi, per vendetta, punì
Prometeo legandolo ad una colonna e mandando un'aquila a mangiargli il fegato (cfr. il Prometeo eschileo), e tolse ai
mortali il fuoco.
Prometeo venne liberato da Eracle, e tornò ad ingannare Zeus rubando il fuoco e facendone dono agli uomini. La
caratteristica di Prometeo è quella di «contendere contro i disegni di Zeus» (cfr. 5, 534). Nelle Opere e i giorni (versi,
42-57), Esiodo dice che, se Prometeo non avesse violato il divieto di Zeus, rubandogli il fuoco, l'uomo non sarebbe
condannato al lavoro e potrebbe senza fatica raccogliere in un solo giorno di che vivere un anno. Il nome Prometeo
significa 'colui che pensa prima', il 'previdente'.
Il fratello Epimeteo ('colui che pensa dopo', 'l'imprevidente'), già in Theogonia 511-513, è detto «malaccorto», per
aver accolto in casa il malefico dono di Zeus, Pandora. Si accorse del malanno che aveva, solo dopo averlo accettato
(cfr. Opera et dies 83-89). Il mito costruito da Platone si incentra sul dono del fuoco e della competenza artigiana, sugli
effetti che questo dono ebbe, e, soprattutto, sugli effetti che questo dono non ebbe: non bastò a rendere gli uomini
capaci di vita associata, e per questo fu necessaria l'arte politica.
53) Ferecrate era un poeta comico ateniese, contemporaneo di Aristofane.
La sua commedia I selvaggi, a cui qui si allude, doveva essere la satira della teoria di qualche sofista, allora in voga,
che sosteneva la superiorità dello stato di natura rispetto allo stato di diritto. I misantropi di cui si parla, disgustati dalla
vita civile, si rifugiarono fra gente selvaggia che fece loro rimpiangere la vita nella società e nelle leggi. La commedia
venne rappresentata nel 421/420 a.C., e se si colloca l'azione del Protagora nel 432/31 a.C., bisogna considerare questa
citazione un anacronismo. D'altra parte, se si immagina che il dialogo avesse luogo nel 423/422 a.C., risulta
anacronistica la presenza dei figli di Pericle, Paralo e Santippo, morti nella peste del 429 a.C. (cfr. la nota 19).
54) Il Leneo era il 'recinto del torchio' presso l'Acropoli di Atene, la piazza dove, nel mese di Leneone (dal 15
gennaio al 15 febbraio), si celebravano le Lenee, feste in onore di Dioniso Leneo ('protettore del torchio'), con
rappresentazioni teatrali.
55) Euribate e Frinonda erano due proverbiali malfattori (cfr. Aristofane, Thesmoforiazusae 861).
56) Su Policleto, cfr. la nota 14.
57) Su Paralo e Santippo, cfr. la nota 19.
58) Per questa polemica di Platone verso la scrittura - più precisamente: la scrittura filosofica - e il privilegio da lui
riconosciuto allo sviluppo della dialettica orale, cfr. Phaedrus 274b-278e.
59) Crisone di Imera era un famoso atleta, citato, con Icco di Taranto e altri atleti, nelle Leggi (libro 8, 840a-b; cfr.
la nota 41), come esempio di temperanza nell'astenersi dai piaceri sessuali per amore di una vittoria.
Vinse gare di corsa alle Olimpiadi del 448,444 e 440 a.C.
60) Il dolicodromo è l'atleta che gareggia in una corsa di resistenza, che consisteva nel percorrere dodici diauli, vale
a dire dodici volte la doppia lunghezza dello stadio, dal traguardo alla meta e, di ritorno, dalla mèta al traguardo (cfr.
Platone, Leges libro 7, 822a; libro 8, 833b).
61) In greco "emerodromos" era un corriere che doveva percorrere in un giorno grandi distanze.
62) Su Alcibiade e il suo atteggiamento verso Socrate, cfr. le note 1-4.
63) Su Crizia, cfr. la nota 35.
64) Su Prodico, e le sue ricerche di sinonimica, cfr. la nota 18.
65) Su Ippia e sulla sua "sapienza", cfr. la nota 17.
66) Il Pritaneo anticamente era la sede dei Pritani (cfr. la nota 48). Si trattava di un edificio pubblico che sorgeva ai
piedi dell'Acropoli, dove venivano mantenuti a spese pubbliche i cittadini da cui lo Stato aveva ricevuto particolari
benefici, atleti che con le loro vittorie avevano portato lustro alla città, e certi ospiti illustri. In Platone, Apologia
Socratis 36d, Socrate sostiene di essere benefattore della città, e di meritare, per questo e per la propria povertà, di
essere nutrito a spese pubbliche nel Pritaneo. In questa similitudine messa in bocca ad Ippia, potrebbe esserci, oltre al
senso apparente (l'enfatico elogio che Ippia fa della città di Atene e della casa di Callia), il doppio senso comico che fa
apparire Atene come il Paese della Cuccagna dei sofisti, e la casa di Callia come l'albergo dove questi "benefattori"
alloggiano e pasteggiano a spese del padrone. Del resto, sulla generosità e sul mecenatismo di Callia si è già ironizzato
sopra (cfr. 315d), dove si diceva che Callia, per far posto ai sofisti, aveva sgombrato persino la dispensa. Su Callia, cfr.
la nota 12.
67) Su Simonide, cfr. la nota 38.
68) Scopa figlio di Creonte era tiranno di Crannone in Tessaglia. Simonide fu accolto alla corte degli Scopadi dopo
l'assassinio di Ipparco, suo protettore ad Atene, nel 514 a.C.
69) Si tratta del carme A Scopa, frammento 542.
70) Pittaco di Mitilene visse tra la fine del settimo e l'inizio del sesto secolo. È tradizionalmente annoverato fra i
Sette Saggi.
71) Cfr. Omero, Ilias, libro 21, verso 308. Lo Scamandro, adirato con Achille perché massacra i Troiani in fuga
nelle sue correnti e le riempie di cadaveri, cerca di travolgere l'eroe con la piena delle sue acque; ma Achille, soccorso
da Atena, rimonta la corrente, che non riesce più a trattenerlo. Lo Scamandro allora chiama in aiuto il fratello Simoenta,
perché presto Achille espugnerà la rocca di Priamo. Socrate vuole impedire che Protagora=Achille espugni
Simonide=roccaforte della sapienza morale.
72) La citazione riprende Esiodo, Opera et dies 289-92, variandone leggermente la sintassi (dal discorso diretto è
volta al discorso indiretto e qualche congiunzione è cambiata), sostituendo l'originale «immortali» con «dèi», e saltando
parte del verso 290 e parte del verso 291, la frase che diceva: «lungo e ripido è il sentiero che porta ad essa, e aspro
all'inizio».
73) Talete di Mileto, nato probabilmente intorno al 640 a.C., "filosofo" fu il primo a cercare nella natura, e non nella
mitologia, un "arché", ossia un'"origine" delle cose e un 'principio' che spiegasse il reale, e lo individuò nell'acqua. Su
Talete circolavano aneddoti contraddittori, alcuni che lo presentano dedito alla vita contemplativa, come quelto
riportato da Platone (Theaetetus 174a), dove si dice che Talete, mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un
pozzo, e quelli che lo presentano invece come uomo di grande senso pratico, capace di trarre lauti guadagni dal
commercio. La tradizione gli attribuisce norme morali espresse in forma di brevi sentenze.
74) Su Pittaco di Mitilene, cfr. la nota 70.
75) Biante di Priene è citato con ammirazione da Eraclito di Efeso nel frammento 39 Diels-Kranz. Diogene Laerzio,
libro 1, 82-88, ha raccolto aneddoti sul suo conto e detti memorabili a lui attribuiti.
76) Solone fu "arconte" ad Atene nel 594/593 a.C., e legislatore grazie all'eccezionale potere che gli venne
attribuito. Diventato arbitro in seguito a una guerra civile fra nobili e popolo, «liberò il popolo» ordinando la
"seisáctheia", cioè lo 'scuotimento dei debiti', e vietando i prestiti su pegno della persona, e stabilì una costituzione, in
Aristotele, "Athenaíon politeía" 5-7, sono conservati frammenti di Solone. è celebre la sua elegia Alle Muse, ricca di
temi esiodei, quali l'ineluttabilità della vendetta di Zeus, gli inutili affanni degli uomini e le loro vane Speranze.
77) Di Cleobulo di Lindo si conservano aneddoti e detti memorabili in Diogene Laerzio, libri 1, 89-93.
78) Nella lista dei Sette Saggi al posto di Misone di Chene di solito si trova Periandro di Corinto. Di Misone parla
Diogene Laerzio, libro 1, 106-108.
79) Chilone di Sparta è anch'egli tradizionalmente annoverato fra i Sette Sapienti. Viene menzionato in Diogene
Laerzio, libro 1, 68-73.
80) Cfr. Omero, Ilias, libro 10, verso 224. A parlare così è Diomede, che si offre volontario ad entrare nel campo dei
nemici per indagare che cosa i Troiani meditavano fra loro, Il piano degli Achei era quello di informarsi, di cercare di
sapere, che è appunto il fine a cui mira la ricerca di Socrate.
81) Cfr. Omero, Ilias, libro 10, verso 225. Il seguito in Omero è:«la mente tuttavia è più corta, il pensiero è più
debole».
82) La pelta era uno scudo leggero. Arma tipica dei Traci, fu poi adottata da tutti i Greci.
83) Socrate gioca sul significato del nome Prometeo, che etimologicamente significa 'colui che pensa prima', il
'previdente'. Su Prometeo ed Epimeteo, cfr. la nota 52.
PROTAGORA BIOGRAFIA
Protagora (in greco anticoProtagóras; Abdera, 486 a.C. – mar Ionio, 411 a.C.) è considerato il padre della sofistica. Nasce ad Abdera, in Tracia, negli anni ottanta del V secolo a.C. Le fonti raccontano che a trent'anni cominciò a dedicarsi all'insegnamento sofistico, il che lo portò a viaggiare per tutta la Grecia e a soggiornare più volte ad Atene. Qui entrò in contatto con personalità importanti sia dell'ambito culturale (come Euripide) sia di quello politico, come Pericle, che lo scelse per redigere la costituzione di Thurii, nuova colonia panellenica fondata nel 444 a.C. Probabilmente la vicinanza a Pericle, nonché le posizioni agnostiche in ambito teologico in un momento di crisi per la polis di Atene, gli procurano un'accusa per empietà e la condanna all'esilio (per altri, fu Protagora a fuggire, dopo la morte del protettore Pericle, per evitare pene peggiori), che lo portò infine a morire lontano da Atene, durante un naufragio.
Fra le opere che quasi certamente appartengono a Protagora, ricordo:
Ragionamenti demolitori (citati anche come Sulla verità);
Le antilogie.
Protagora compose anche scritti sulla religione e sullo Stato, ma di questi ci sono rimasti solo dei frammenti.
La filosofia di Protagora è riassumibile in una sua famosa asserzione: «L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di quelle che non sono per ciò non sono» (Protagora, fr.1, in Platone, Teeteto, 152a).
Con "uomo" (secondo l'interpretazione dell'asserzione fatta da Platone) Protagora intese il singolo individuo e con "cose" gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Quindi, molto semplicemente, il sofista voleva dire che la realtà oggettiva appare differente in base agli individui che la interpretano: «quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io».
La filosofia del Novecento ha però interpretato la parola "uomo" con "comunità" (o civiltà) e con "cose" i valori, o gli ideali, che ne sono fondamento: ognuno, quindi, giudicherebbe ciò che lo circonda in base alla mentalità della comunità a cui appartiene.
Una terza interpretazione vede nella parola "uomo" l'umanità, e nella parola "cose" la realtà in generale. Quindi secondo questa tesi gli Uomini giudicherebbero «la realtà secondo parametri comuni tipici della specie razionale cui appartengono, cioè l'Umanità». Questa interpretazione del pensiero protagoreo ha portato alcuni ad accostare il sofista di Abdera a Immanuel Kant.
Forse tutte e tre le interpretazioni sono valide, in quanto cosa volesse intendere Protagora con le parole "uomo" e "cosa" è difficile stabilirlo. Molto probabilmente egli intendeva tutte e tre le opzioni mutando il senso delle due parole a seconda del contesto. Ad esempio: parlando dei gusti gastronomici Protagora si riferiva al singolo individuo; parlando della civiltà greca contrapposta a quella orientale, egli intendeva l'"uomo-misura" come civiltà; mentre se si riferiva agli Uomini in relazione alla natura (o, ancora, agli dei) è possibile che intendesse l"uomo" come specie. In generale Protagora sosteneva infatti che non era necessario scegliere una determinata interpretazione, in quanto non c'è contraddizione tra esse essendo tale mutevolezza di lettura insita nell'asserzione stessa.
In generale si può dire che la posizione protagorea sia “umanista” o “antropocentrica” (in quanto è posto l'uomo come metro di giudizio e di valutazione delle "cose") e “fenomenista” (la realtà appare ai nostri occhi secondo il nostro metro di giudizio).
Dal relativismo derivano il relativismo conoscitivo, per cui non esiste un principio assoluto, ma il relativismo etico, cioè morale, secondo cui non esiste un bene o un modello di comportamento assoluto, ma ciò varia da uomo a uomo. In mancanza di una verità e un bene assoluti, la parola logos è dominatrice, e la retorica ha quindi un ruolo fondamentale al fine di persuadere l'interlocutore. Per dimostrare ciò Protagora elabora le cosiddette antilogie: discorsi contraddittori che evidenziano la relatività di valori e norme, mostrando che è possibile sostenere su un medesimo argomento due discorsi (logoi) in contraddizione tra di loro.
L'antilogia (o metodo antilogico) avrà grande fortuna nei decenni successivi, e sarà alla base dell'eristica, corrente della seconda generazione sofistica secondo la quale non è possibile giungere ad una verità ultima, poiché essa non esiste, ma è possibile solo battagliare con i discorsi. L'eristica è, sotto certi aspetti, un'involuzione dell'antilogia: diversamente dall'eristica, questa però non si limita a battagliare, ma consiste in una tecnica retorica che ha lo scopo di mettere in difficoltà l'avversario, rilevando le contraddizioni del discorso di partenza. Sotto quest'aspetto, l'antilogia è quindi una tecnica di discussione, l'eristica no. Più volte Platone ha condannato l'euristica come contraria al percorso che porta alla conoscenza.
Non possediamo esempi di discorsi antilogici risalenti direttamente a Protagora; possediamo però altre testimonianze, spesso parodie oppure opere di allievi del sofista. È questo il caso, ad esempio, del dialogo tra Discorso Migliore e Discorso Peggiore nelle Nuvole di Aristofane, oppure dei cosiddetti Dissoi logoi, trattato anonimo in cui è riconoscibile l'influenza protagorea. Ecco dunque un esempio tratto da quest'opera, relativamente al dibattito tra ciò che si ritiene bello o turpe:
«Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l'una e l'altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s'accordan con noi su ciò che è bello; qui è ritenuto bello che sian le donne a tessere e filar la lana; lì invece gli uomini, e che le donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l'argilla con le mani, e la farina coi piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario»
Per non entrare nel caos provocato dal relativismo bisogna far riferimento al criterio dell'utile, il quale è un criterio di scelta che giova sia all'individuo sia alla collettività (principio debole dell'utilità). Pertanto, la verità etica che guida le scelte non è per Protagora un valore assoluto e oggettivo, poiché è impossibile da individuare, ma è il risultato di una lunga esperienza, che dimostra l'utilità di un dato comportamento (per questo si può dire che il sofista avesse una concezione di "verità etica" di carattere umanistico-storicista).
Ma la tradizione critica ha ritenuto tale posizione poco solida, perché anche per presupporre ciò che è realmente utile bisogna stabilire un criterio di verità, altrimenti si risolverebbe in un "pragmatismo amoralistico". A queste obiezioni si può rispondere che il "principio debole d'utilità" non è il rifiuto aprioristico di un principio etico, ma esso è l'accettazione di un principio condiviso non assoluto. Alla seconda obiezione si può rispondere che la posizione di Protagora è un invito all'assunzione da parte del singolo individuo delle sue responsabilità di fronte a sé stesso e alla società. Inoltre, il filosofo di Abdera vuole invitare i singoli individui ad accettare delle regole di comune convivenza e di pubblica utilità.
Secondo Protagora, il filosofo si presenta come "propagandista dell'utile", ossia colui che, grazie alle sue doti oratorie, indirizza le scelte verso la pubblica utilità. Caso eclatante è il suo invito «di rendere migliore il discorso peggiore» - ma anche “il peggiore nel migliore”, tipico dell’antilogia - ossia di trasformare l'opinione meno utile in quella più utile. Di conseguenza l'arte della retorica ha una funzione politico-educativa volta a favorire il "bene comune".
Tale posizione è stata vista come il fondamento dell'eristica (ossia l'arte del disputare, al di là della veridicità delle proprie basi concettuali di partenza), accusa spesso rivolta ai sofisti, ma soprattutto come legittimazione di quell'atteggiamento definibile come "servilismo" verso i potenti. Infatti, i sofisti, potendo vantare doti oratorie, erano in grado di convincere la maggioranza dei cittadini (ovviamente bisogna tener conto che ci si riferisce a poleis dove vigeva un regime democratico come quello ateniese) su cosa fosse utile e cosa no. Tant'è che gli avversari dei sofisti accusarono questi filosofi di praticare il "mestiere della parola" (o del disputare).
Va ricordato che il pensiero protagoreo non è una legittimazione al servilismo verso i "potenti", ma è un invito all'assunzione di responsabilità da parte del singolo e della condivisione delle scelte, basandosi sull'esperienza e, quindi, seguendo il principio "debole" d'utilità privata e pubblica.
Come Democrito, anche Protagora vede nel passato degli Uomini la scelta, fondamentale per la propria sopravvivenza, di vivere assieme ad altri Uomini. L'uomo, inoltre, si distingue dagli animali anche perché ha messo in atto quelle tecniche (dal greco techne: abilità, destrezza, mestiere, arte) che gli hanno permesso di modificare e adattare l'ambiente naturale alle sue esigenze. Tuttavia a garantire la sopravvivenza all'Uomo non bastano le "tecniche comuni" (agricoltura, falegnameria, artigianato, ecc...), ma è necessaria una "tecnica superiore" che permetta d'indirizzare le altre verso il "bene comune": la politica. Essa (come viene raccontato nel Protagora di Platone) è un dono che Zeus ha fatto agli Uomini indistintamente, poiché tutti gli Uomini della p?lis sono coinvolti nella "politica". Inoltre, il sofista si rese conto di una necessaria "cultura politica" che ogni cittadino doveva possedere.
La visione della "politica" in Protagora è figlia dell'epoca in cui egli visse; il fatto che ogni cittadino sia coinvolto nella vita politica della sua comunità è il miglior manifesto della democrazia ateniese, vista come esempio e modello da seguire.
Un ottimo esempio del concetto di Uomo in Protagora è dato dal mito di Prometeo riportato da Platone nel Protagora.
Protagora può essere considerato uno dei primi pensatori agnostici. La sua opera Sugli dèi cominciava infatti con le seguenti parole:
«Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità di sapere né che sono né che non sono. Molti sono gli ostacoli che impediscono di sapere, sia l'oscurità dell'argomento sia la brevità della vita umana.»
Secondo Diogene Laerzio, fu proprio a causa di quest'opera che Protagora venne bandito dagli ateniesi. I suoi libri sarebbero stati «bruciati nella piazza del mercato dopo che per mezzo di un araldo erano state requisite tutte le copie a coloro che le possedevano, uno per uno».
«Al primo fra tutti i sofisti
di prima e di poi
d'acuto e mirabile ingegno, o Protagora
in cenere vollero ridurre i tuoi scritti
dacché affermasti di non sapere
gli Dei e la loro natura
massima cura avendo
d'imparziale giudizio
la fuga cercasti e non ti valse
per non bere anche tu
la fredda bevanda di Socrate.»
Eugenio Caruso 2-10-2019