Hermann Hesse. Siddharta, Narciso e Boccadoro, Il gioco delle perle di vetro.

«Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli.»
(Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio)

GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità.

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Hermann Hesse

«Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo. È quel che ho sempre fatto: nel Lupo della steppa sono Mozart, gli immortali e il teatro magico; nel Demian e in Siddhartha gli stessi valori, solo con nomi diversi.» (Hermann Hesse, dal libro di poesie Crisi: pagine da un diario).

Hermann Hesse (Calw, 2 luglio 1877 – Montagnola, 9 agosto 1962) è stato uno scrittore, poeta, aforista, filosofo e pittore tedesco naturalizzato svizzero, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1946 “per la sua forte ispirazione letteraria coraggiosa e penetrante esempio classico di ideali filantropici ed alta qualità di stile”. La sua produzione, in versi e in prosa, è vastissima e conta quindici raccolte di poesie e trentadue tra romanzi e raccolte di racconti. I suoi romanzi più famosi sono Peter Camenzind (1904), Gertrud (1910), Demian (1919), Siddhartha (1922), Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930) e Il giuoco delle perle di vetro (1943). I suoi lavori rispecchiano il suo interesse per l'esistenzialismo (in particolare Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger), lo spiritualismo, il misticismo, non meno della filosofia orientale, specialmente indù e buddhista. Negli anni '60, ispirandosi alla sua critica al consumismo e al capitalismo americano, fu proprio negli Stati Uniti che Hesse divenne un autore di grido, dopo la sua morte, tra i giovani pacifisti e hippie, che rifiutavano la guerra del Vietnam e la materialità della società occidentale, ma anche il comunismo sovietico. Assieme a Thomas Mann e Stefan Zweig, Hesse è lo scrittore di lingua tedesca del XX secolo più letto nel mondo, tradotto in più di 60 lingue e con circa 150 milioni di copie vendute.

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Il certificato di attribuzione del Premio Nobel per la letteratura 1946


Hermann Hesse nacque il 2 luglio del 1877 a Calw, un paese della Svevia, nel Baden-Württemberg, Germania. Suo nonno era un famoso missionario, Hermann Gundert, inviato assieme alla moglie in India dall’organizzazione missionaria protestante Basel Mission. Analogamente suo padre, Johannes, era stato un missionario pietista in India e quando tornò in Germania continuò a lavorare nel ministero. Sua madre, Marie, era l'assistente di suo padre. Gestiva la "Calwer Verlagsverein", una delle più importanti case editrici pietiste d'Europa. Entrambi i suoi genitori erano molto religiosi e si dedicavano completamente alle loro credenze, anche se non erano propriamente settari.
Gli anni giovanili
Hermann trascorse l'infanzia fra Basilea, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1880, e Calw. Per Hesse il clima familiare pietista si rivelò troppo rigido e oppressivo. Nel 1890 fu mandato dai genitori in una scuola privata a Göppingen, un altro paese della Svevia, dove potesse essere preparato agli esami di ammissione a una delle scuole protestanti più illustri della regione. Ammesso quindi agli studi teologici nel seminario evangelico di Maulbronn, cominciò a soffrire di mal di testa e insonnia, finché lo abbandonò dopo una fuga e un tentativo di suicidio nel 1892 (fallito perché la pistola si inceppò), rinnegando idealmente la religione in cui era cresciuto. Fu allora condotto in una clinica per ragazzi affetti da disagi mentali, in cui trascorse mesi disperati. Per più di un anno, Hesse passò da una scuola all'altra e da una casa di cura all'altra finché i genitori non lo riportarono a Calw nel 1893. Nei due anni successivi il suo umore sembrò migliorare. Aiutava suo padre nella Calw Publishing House, lavorava in giardino e faceva un breve apprendistato in una libreria e in un'azienda a ore. In questo periodo Hesse, che era un lettore incallito, compose alcuni poemi e racconti, deciso a intraprendere la carriera di scrittore. Suo padre tuttavia non gli permise di lasciare la casa per inseguire le sue ambizioni. Solo nell'ottobre del 1895 gli fu concesso di cominciare un apprendistato come libraio presso la libreria Heckenhauer a Tubinga, una città universitaria famosa per la sua tradizione culturale.

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Ritratto di Hesse nel 1905


A Tubinga, libero dalle costrizioni familiari e dalla pressione scolastica, Hesse cominciò a seguire la sua strada di scrittore. Conobbe famosi giovani scrittori e cominciò a leggere la letteratura medievale, i romanzi tedeschi e le opere orientali. Fu durante questo periodo che pubblicò le sue prime opere come: Canti Romantici e Un'ora dopo mezzanotte. Al pietismo dei suoi genitori in lui si sostituì intanto una nuova forma di religiosità tendente all'ascetismo, a cui si dedicò per qualche tempo. Il suo credo era quello di Novalis: «Diventare un essere umano è un'arte». Per Hesse, è stato scritto, «l'arte, il compimento della soddisfazione interiore, significava connettersi con un senso profondo ed essenziale associato al termine “casa”. Questa casa però non era la casa dei suoi genitori. Era piuttosto un ritorno a qualcosa di intangibile, legato a un'intuizione, ma unico per ogni individuo. Era un ritorno e un'andata alla stesso tempo e poteva essere raggiunta solo attraverso l'arte, ovvero attraverso la faticosa formazione di sé stessi. Nel 1899 Hesse si trasferì a Basilea dove diventò assistente presso la libreria Reich, fino al 1903. Durante questo periodo continuò la sua attività letteraria, facendo anche molte conoscenze, sebbene fosse visto dagli altri più come un solitario e un emarginato. Nel dicembre del 1900 pubblicò Gli scritti postumi e I poemi di Hermann Lauscher, che mostravano una chiara influenza da parte di E. T. A. Hoffmann e di altri scrittori romantici. Continuò a scrivere poemi e recensioni per libri, e i suoi viaggi in Italia agli inizi del nuovo secolo lo portarono a pubblicare una raccolta di poesie, saggi, ricordi, intitolata Italia. Ebbe modo di frequentare inoltre i luoghi francescani, dove trasse l'ispirazione per un saggio biografico intitolato Franz von Assisi. L'affermazione giunse tuttavia con l'uscita del romanzo Peter Camenzind (1904), che risente anch'esso della spiritualità francescana, nel quale il protagonista rifiuta il mondo cosmopolita per dedicarsi anima e corpo all'arte.
Nel 1904 sposò Maria Bernoulli (1869-1963), una fotografa professionista discendente dei celebri scienziati, con la quale andò a vivere nel villaggio di Gaienhofen, nei pressi del lago di Costanza sul confine svizzero-tedesco. Qui entrambi speravano di trovarsi più a contatto con la natura, per dedicarsi alla scrittura, alla pittura, alla musica e alla fotografia. Nel tempo trascorso a Gaienhofen tuttavia, tra i due si verificarono notevoli difficoltà di relazione. A Gaienhofen nacquero anche i tre figli, Bruno (1905), Heiner (1909) e Martin (1911). Del 1906 è il romanzo Sotto la ruota, pieno di elementi autobiografici, nel quale Hesse rievoca il periodo tragico dei suoi studi a Maulbronn, e da lui considerato una sorta di resa dei conti verso l'educazione e il clima pedagogico da lui sofferti durante gli anni dell'adolescenza. Altre pubblicazioni furono Questa parte (1907), Vicini di casa (1908), Gertrude (1910), il volume di poemi Sotto terra (1911). Divenne l'editore di un'importante rivista di cultura e politica, März, fondata nel 1908, e scrisse numerose recensioni per vari giornali e riviste tedeschi. Vinse diversi premi letterari e divenne amico di famosi scrittori, musicisti e artisti, ma il suo matrimonio con Maria non era felice: lei era più grande di lui di otto anni ed era troppo autosufficiente e indipendente. Per cercare di alleviare la sua solitudine, Hesse si dedicò al vegetarianismo, alla pittura, alla teosofia e alle religioni indiane. Frequentò per breve tempo il centro igienista, naturista e vegetariano del Monte Verità, sul lago Maggiore. A questa esperienza è ispirato il racconto La fine del dottor Knolge.
Gli anni in Oriente
Nel 1911 si recò in viaggio a Ceylon, a Sumatra e in Malaysia, alla ricerca di una pace interiore. Tuttavia, non riuscì mai a raggiungere l'India (meta principale del viaggio), che costeggiò solamente, per via della dissenteria e della mancanza di denaro. Tornò a Gaienhofen ancora malato ed esausto. Cercando di cambiare questa situazione, nel 1912 lui e Maria decisero di trasferirsi a Berna. Sfortunatamente anche questo nuovo cambiamento non giovò alla salute di Hesse. Suo figlio Martin intanto si ammalò e nel 1914 fu portato in una casa di cura. La morte di suo padre Johannes, nel 1916, gli causò un forte senso di colpa. Cominciò a distaccarsi da Maria, la quale stava accusando problemi mentali. Nel 1913 aveva pubblicato il suo diario Fuori dall'India sul viaggio da lui intrapreso nel lontano Est, seguito dalla novella Rosshalde. Nel 1914 pubblicò anche un saggio provocatorio, O Amico, non questi toni, un opuscolo nel quale prendeva posizione contro la guerra imminente.
La prima guerra mondiale coincise con una profonda crisi personale e artistica, ma allo stesso tempo gli permise di operare una svolta decisiva nella sua poetica, svolta che lo portò a scrivere Demian e, nel 1920, L'ultima estate di Klingsor. Allo scoppio della guerra si presentò come volontario al fronte, ma fu riformato; pur restando sempre combattuto se dare il suo apporto come tedesco alla causa bellica, non condivideva lo spirito nazionalista dei suoi compatrioti, ma volle comunque prendere le distanze dai pacifisti allora riuniti in Svizzera. I suoi pensieri circa la guerra si ritroveranno in molte sue opere. Per due anni si prese cura di prigionieri di guerra tedeschi a Berna. Nel 1917 per un esaurimento nervoso andò a Sonnmatt, in una casa di cura privata vicino Lucerna, dove venne sottoposto a una terapia di elettroshock. Nella primavera del 1919 si separò definitivamente da sua moglie. Al termine del primo conflitto mondiale, durante il quale le posizioni pacifiste di Hesse erano state osteggiate dalla maggioranza dei suoi connazionali, egli sarà indotto per l'aggravarsi del suo stato di disagio interiore a ricorrere al trattamento psicoanalitico presso un allievo di Carl Gustav Jung, poi con lo stesso Jung. Nel 1919 venne pubblicato il romanzo di formazione Demian, storia di un adolescente timido aiutato nella sua crescita da un amico, che riscosse un grande successo di pubblico. E anonimo, il saggio Il ritorno di Zarathustra, «messaggio di un tedesco alla gioventù tedesca». Nello stesso anno si trasferì a Montagnola, nei pressi di Lugano, in Svizzera, dove si dedicò anche alla pittura, sua seconda passione e dove ambientò L'ultima estate di Klingsor. Qui sembrò uscire dalla depressione.
Fu dopo il suo ritiro a Montagnola che Hesse cominciò a sentire di essere abbastanza distaccato da potersi interessare ai problemi politici e sociali. Non fu mai incline all'allineare sé stesso con una particolare ideologia; era ancora un cercatore: un artista alla ricerca di sé stesso. Hesse si era definitivamente distaccato dalla sua educazione borghese, perché era stato fortemente influenzato da Nietzsche, da Schopenhauer, dai romantici tedeschi e dalle religioni orientali. Cercò in questo periodo di combinare questi fili di pensiero nella sua filosofia esistenzialista, che si occupavano di trovare la strada per casa e di scoprire il divino nella natura essenziale di ogni individuo. Nel 1922 vide la luce una delle sue opere più importanti e intense: Siddhartha, frutto del suo viaggio in India e del suo interessamento alla cultura orientale, che lo portò ad avvicinarsi alla spiritualità buddhista e induista. Gli anni venti furono ancora tumultuosi per Hesse. Nel 1923 ricevette la cittadinanza svizzera, grazie anche alla critica negativa verso di lui da parte della stampa tedesca. Nello stesso anno ottenne il divorzio da Maria.
Le seconde nozze furono la conseguenza di un'infatuazione per la cantante Ruth Wenger, più giovane di vent'anni: i due rimasero separati per la maggior parte del matrimonio, comunque di breve durata. La crisi emotiva che travolse Hesse fu riflessa nel romanzo Il lupo della steppa del 1927. Come il protagonista, Hesse dopo essere stato colpito da una crisi psicologica, accompagnata da un oppressivo pensiero di morte, prese una decisione cosciente di superare la sua depressione e la sua natura introversa cominciando a frequentare le taverne, le sale da ballo e i luoghi più famosi di Zurigo e Berna, dove non aveva finora mai trascorso molto tempo. In questo periodo incontrò Ninon Dolbin Ausländer, una storica dell'arte, che cominciò a vivere con lui dal 1928. Ninon influenzò molto Hesse con il suo temperamento. Nel 1930 scrisse Narciso e Boccadoro, storia di un'amicizia ambientata nel Medioevo cristiano, alla cui religiosità Hesse rimase sempre particolarmente sensibile. Del 1932 è Il viaggio verso l'Est. Cominciò allora il suo ultimo capolavoro, Il giuoco delle perle di vetro, che lo impegnò per dieci anni. Sebbene Hesse avesse sempre amato viaggiare, leggere e visitare città svizzere come Berna e Basilea, sentì gran piacere nella sua grande casa a Montagnola.

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Museo Hermann Hesse, Montagnola, Svizzera.


Con Ninon Dolbin Ausländer avvenne il suo terzo e ultimo matrimonio nel 1931 (la moglie venne citata nel volume Il pellegrinaggio in Oriente), la quale gli resterà accanto sino alla morte. Durante i successivi dodici anni abbandonò raramente la sua vita ritirata, dove seguì con Ninon una sorta di routine quotidiana. La mattina e il pomeriggio si dedicavano alla pittura, al giardinaggio e alla corrispondenza, mentre la sera lui leggeva e scriveva. Durante gli anni Hesse era diventato un rispettato pittore di acquarelli e aveva anche dipinto alcuni dei suoi libri. Continuò a sviluppare il suo talento come pittore tra gli anni trenta e quaranta. Sotto il regime nazista, i suoi scritti trovarono atipici estimatori: il ministro tedesco per la propaganda Joseph Goebbels inizialmente difese le sue opere. Tuttavia, nel momento in cui avanzò la richiesta di non censurare le parti del libro Narciso e Boccadoro in cui si trattava di pogrom, Hesse si ritrovò nelle liste di proscrizione naziste. Durante la seconda guerra mondiale ospitò nella sua casa di Montagnola intellettuali costretti all'emigrazione. Egli era fermamente convinto che l'artista non potesse in alcun modo cambiare la società, e che la politica potesse rovinare la prospettiva dell'artista, forse addirittura distruggendolo. Il ruolo dell'artista era quindi quello di rimanere devoto alla propria arte e di non essere influenzato dalle ideologie né di destra né di sinistra. Nelle sue lettere private e nelle recensioni che scrisse per vari giornali svizzeri e svedesi traspare comunque la sua posizione contraria al nazismo. La sua opposizione al nazionalismo e al militarismo emerge inoltre in molte opere, in maniera analoga a quella del suo amico Thomas Mann.
Nel 1958 scriverà, a proposito della persecuzione degli ebrei:

«L'uomo primitivo odia ciò di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l'uomo colto è primitivo. Anche l'odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull'insicurezza e sulla paura. L'odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi di un'altra razza sentono un'invidia che nasce dalla concorrenza e un'inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro si nascondono paura e debolezza.»

Questi punti di vista e molte altre riflessioni sull'arte e sull'educazione erano incorporati ne Il giuoco delle perle di vetro, che fu pubblicato prima a Zurigo nel 1943 e in seguito in Germania nel 1946. Doveva essere il suo ultimo romanzo, che contribuì notevolmente a fargli conferire nel 1946 il premio Nobel per la letteratura. In questo periodo strinse amicizia con il suo vecchio psicoanalista, Carl Gustav Jung, e con il cileno Miguel Serrano (da cui lo divideva la concezione politica di quest'ultimo, vicina al misticismo nazista). Serrano raccontò questo rapporto nel volume Il cerchio ermetico. Dopo la seconda guerra mondiale, la produttività artistica di Hesse diminuì di spessore stilistico e tematico. Preferiva trascorrere il suo tempo rispondendo alle richieste provenienti dal mondo esterno mentre cercava di condurre una vita privata “normale”. Dopo il 1945 Hesse divenne improvvisamente famoso e fu scovato dai critici, dai media e dalla società letteraria, senza menzionare i numerosi amici che ora potevano liberamente viaggiare per tutta l'Europa. In un primo momento sembrava che le sue opere potessero essere bandite dalle forze occupanti americane, semplicemente perché non erano state bandite dai nazisti. Questa censura non sopravvenne mai e Hesse scrisse numerosi saggi politici sulla necessità di una rigenerazione morale in Germania e di un superamento della mentalità militaristica. Quattro dei suoi saggi più importanti dell'immediato dopoguerra furono pubblicati in seguito nella raccolta Guerra e Pace del 1949. Nel 1946 ricevette il premio Goethe, seguito dal premio Nobel con la motivazione: "Per la sua scrittura ispirata che nel crescere in audacia e penetrazione esemplifica gli ideali umanitari classici, e per l'alta qualità dello stile". Nonostante questi premi, sempre nel 1946, l'acuirsi della sua depressione lo costrinse a un nuovo ritiro in una casa di cura. Solo nel marzo del 1947 si sentì abbastanza in salute da ritornare a Montagnola, dove trascorse i suoi ultimi quindici anni di vita, seguiti dalla sua ricerca artistica e dalla cura per la sua fragile salute.
Sebbene molti scrittori, politici e amici lo invitassero ad avere un ruolo attivo in politica nel nome della pace, Hesse continuò a rifiutare di impegnarsi in alcuna parte politica, in alcuno dei paesi e in alcuna delle ideologie. Nelle recensioni, nei saggi e nelle lettere egli scrisse a proposito del pericolo rappresentato, da un lato, dal capitalismo americano in Europa, che lui definiva l'americanizzazione dell'Europa, e dall'altro del totalitarismo dell'Unione Sovietica. La sua mancanza di coinvolgimento non era dettata però da disinteresse; piuttosto, Hesse rifiutò di compromettere la sua integrità o di supportare le cause che potevano essere manipolate o strumentalizzate a fini politici. Come aveva rifiutato il fascismo, così fece con le nuove ideologie dominanti; espresse alcune critiche alla politica americana del maccartismo, la persecuzione dei comunisti statunitensi (tra cui venivano annoverati spesso i pacifisti, anche se non comunisti, come accadde ad Albert Einstein: "In America, oggi le persone che si battono per la pace e per la ragione sono banditi come da voi", scrisse in una lettera del 1955.[13] Come si ampliò la guerra fredda negli anni cinquanta, Hesse si ritirò dalla scena pubblica e tenne per sé le proprie opinioni, tranne per una risoluzione politica scritta nel 1956 per deplorare l'invasione sovietica dell'Ungheria; dagli scritti privati e varie lettere sappiamo che non disdegnava un socialismo democratico, in quanto coincidente con le sue idee anticapitaliste e anti-totalitarie[13], e che aspirava all'unificazione dell'Europa:

«L'Europa che intendo, non sarà uno scrigno di ricordi, ma un'idea, un simbolo, un centro di forza spirituale, come per me le idee di Cina, India, Buddha, Confucio, non sono bei ricordi, ma la cosa più reale, concentrata, sostanziale che esista. (...) Se l'Europa fosse veramente perduta e diventasse solo un ricordo, sarebbe finito anche l'umanesimo. In fondo non posso crederci. (...) Sto scoprendo per la prima volta dopo decenni dei sentimenti di nazionalismo nel mio petto, naturalmente non tedesco, ma europeo. »

Nel 1954 ricevette l'onorificenza Pour le Mérite für Wissenschaften und Künste. Fatta eccezione per la scrittura di brevi racconti, trascorse le sue giornate dipingendo, scrivendo lettere e combattendo contro varie malattie (artrosi, oftalmopatia). Soffriva continuamente di periodici attacchi di depressione e di spossatezza fisica, mentre la sua vista cominciò a indebolirsi nel 1950; nel 1955 le cattive condizioni cardiache gli impedirono di lasciare Montagnola. Fu proprio in questo periodo che i dottori scoprirono che era malato di leucemia cronica, i cui sintomi s'intensificarono verso la fine del 1961. A causa della sua ipocondria, dell'età avanzata e dell'incurabilità della patologia a quel tempo, secondo alcuni biografi i medici non gli comunicarono direttamente questa diagnosi. Grazie alle trasfusioni di sangue e a frequenti iniezioni poté tuttavia vivere ancora fino all'8 agosto 1962, quando un'emorragia cerebrale pose fine alla sua esistenza. Hesse è sepolto nel cimitero di Sant'Abbondio, a Gentilino. A Montagnola è presente un museo a lui dedicato, ubicato in una villa adiacente alla sua abitazione. Vi è poi un sentiero didattico a lui intitolato, che collega Montagnola con Agra. Oggi i tre centri abitati legati a Hesse (Montagnola, Agra e Gentilino) si trovano nell'unico comune di Collina d'Oro.
Lo scrittore è stato citato nella Canzone dell'Irlanda occidentale del gruppo folk punk Rein . Il noto gruppo rock canadese degli Steppenwolf nella scelta del nome si è sipirato all'omonimo romanzo di Hesse. Il suo celebre aforisma: "Anche un orologio fermo segna l'ora giusta due volte al giorno" è citato nei film Shakespeare a colazione, Il caso Thomas Crawford, The Imitation Game e L'ora più buia e nella canzone Tofutronik 3000 presente nell'album L'attesa del rapper italiano Kaos.

Romanzi
1904 Peter Camenzind; Milano, Martello, 1951
1906 Unterm Rad; Sotto la ruota, Milano, Rizzoli, 1964
1910 Gertrud; Gertrud, Milano, Mondadori, 1980
1913 Aus Indien. Aufzeichnungen von einer indischen Reise
1914 Rosshalde (romanzo breve)
1915 Musik des Einsamen (romanzo)
1915 Knulp. Drei Geschichten aus dem Leben Knulps; Storia di un vagabondo, Milano, Martello, 1950
1919 Demian. Die Geschichte einer Jugend von Emil Sinclair; Demian. Storia della giovinezza di Emil Sinclair, Milano, Martello, 1952
1922 Siddhartha. Eine indische Dichtung; Siddharta. Poema indiano, Torino, Frassinelli, 1945
1925 Kurgast. Aufzeichnungen von einer Badener Kur; La cura, Milano, Adelphi, 1978
1926 Bilderbuch. Schilderungen
1927 Der Steppenwolf; Il lupo della steppa, Milano, Mondadori, 1946
1927 Die Nürnberger Reise (diario di un viaggio)
1928 Weltverbesser, Il miglioratore del mondo, Roma, Newton Compton, 1980
1930 Narziß und Goldmund; Narciso e Boccadoro, Milano, Mondadori, 1933
1932 Die Morgenlandfahrt; Il pellegrinaggio in Oriente, Milano, Mondadori, 1961; Milano, Adelphi, 1973
1937 Gedenkblätter (Fogli di memorie)
1943 Das Glasperlenspiel; Il giuoco delle perle di vetro, Milano, Mondadori, 1955
1945 Berthold. Ein Romanfragment
1965 Prosa aus dem Nachlass
1966 Der Vierte Lebenslauf Josef Knechts. Zwei Fassungen
1973 Die Kunst des Müßiggangs. Kurze Prosa aus dem Nachlass

Siddharta

Considerato dallo stesso Hesse come un "poema indiano", il romanzo presenta un registro molto originale che unisce lirica ed epica, ma anche narrazione e meditazione, elevazione e sensualità. Il romanzo è ispirato liberamente alla vicenda biografica del Buddha, Siddhartha Gautama, anche se il Siddharta protagonista non è il Buddha storico, il quale compare nel libro come personaggio secondario sotto il nome di Gotama, ma un personaggio di fantasia che rappresenta «uno dei tanti Buddha potenziali». Il successo del libro arrivò un ventennio dopo la pubblicazione e sulla scia del Premio Nobel conferito ad Hesse nel 1946, e fu frutto soprattutto dei giovani che fecero della figura di Siddharta un compendio dell'inquietudine adolescenziale, dell'ansia di ricerca di se stessi, dell'orgoglio dell'individuo davanti al mondo e alla storia, accomunati in un rifiuto senza appello. Il libro ebbe poi un periodo di rinnovato successo anche nel corso degli anni sessanta e settanta, alimentato anche dall'interesse che una parte del mondo giovanile e artistico dell'epoca aveva per la cultura orientale e indiana in particolare. Siddharta fu tradotto in italiano da Massimo Mila durante gli anni trascorsi prima nelle prigioni fasciste e poi nella Resistenza, e fu pubblicato nel 1945 dall'editore Frassinelli. Vorrei notare che il sottoscritto ai tempi del liceo leggeva, volontariamente, i russi e gli americani, mio figlio e i suoi compagni, al liceo leggevano, per obbligo, Siddharta e, volontariamente, Marcuse; i loro docenti erano la generazione degli anni sessanta.
Trama

«Le parole non colgono il significato segreto, tutto appare un po' diverso quando lo si esprime, un po' falsato, un po' sciocco, sì, e anche questo è bene e mi piace moltissimo, anche con questo sono perfettamente d'accordo, che ciò che è tesoro e saggezza d'un uomo suoni sempre un po' sciocco alle orecchie degli altri.» (Siddharta, traduzione di Massimo Mila, edizione Adelphi, collana Piccola Biblioteca, 1973-2011, pag. 190)

Il libro narra la vita di Siddharta, giovane indiano, che cerca la sua strada nei più svariati modi. Fin dall'inizio il narratore si dimostra esterno, benché faccia intuire che la storia di Siddharta sia tra le più particolari, non esprime un suo punto di vista. Si può dire che la focalizzazione sia quella del giovane. Siddharta inizia il suo viaggio affiancato dall'inseparabile amico d'infanzia, Govinda, il quale lo ha sempre visto come un saggio. I due decidono di andare a vivere con i "Samana", asceti che vivono di poco o nulla, che imparano a immedesimarsi con tutto ciò che incontrano: così fa infatti Siddharta. Dopo aver vissuto con loro, lui e Govinda decidono di andare a vedere il Buddha Gotama, alla setta del quale Govinda decide di aggregarsi. Siddharta rimane quindi solo e arriva in una città, dove conosce la bella Kamala. Il personaggio, che dapprima sembrava “immacolato”, si dimostra soggetto alle debolezze umane, lui che considerava male quei comportamenti e che se ne considerava superiore. Dopo anni e anni passati con Kamala, Siddharta si dispera, capisce il suo errore e scappa. Kamala abbandonata dall'uomo che ama e da cui sa di non essere amata porta in grembo un figlio destinato a chiamarsi come il padre. Anche senza dichiararlo apertamente, l'autore lascia intendere che Siddharta incontrerà il figlio. Questo succederà solo dopo un lungo periodo di transizione dell'ormai uomo Siddharta che, dilaniato dai rimorsi per il suo stile di vita degli ultimi anni, ipotizza per sé il suicidio come forma estrema di purificazione. Ma il caso, forse il destino, lo aiuta: prima desiste dal suo intento grazie alla meditazione dell'Om, poi incontra Govinda divenuto monaco buddhista. L'amico subito non lo riconosce, anzi si ferma pensando di aiutare uno sconosciuto. L'incontro tra i due è toccante, ma quando si separano si ha di nuovo la sensazione che si rivedranno. Siddharta ha ritrovato un motivo di vita e cerca una nuova strada, che trova sulle sponde dello stesso fiume nel quale pensava di porre fine alla sua vita. A quel punto si imbatte in un barcaiolo che insegna al ragazzo l'essenza dell'acqua, mostrandogli il proprio spirito, come se il fiume fosse un'entità viva. Vasudeva, questo il suo nome, ci abita e condivide con Siddharta l'idea che il fiume sia vivo, che parli, che insegni. Siddharta decide di rimanere con Vasudeva da cui imparerà molto, anche durante i lunghi silenzi. Un'altra scena toccante si ha con il passaggio di Kamala che è in viaggio per trovare Gotama, il Buddha ormai morente; con lei c'è il piccolo Siddharta. Un serpente morde la madre, il piccolo piange e richiama l'attenzione del padre che, riconosciuta la donna, cerca di aiutarla, ma tutto è inutile: ora Siddharta ha un figlio da crescere.
Come in tutti i romanzi c'è l'antagonista dell'eroe, ma è un paradosso: di Siddharta è lo stesso figlio. Il giovane ragazzo è ribelle, non lavora, si annoia, non vuole imparare: totalmente il contrario del padre. Dopo anni di sofferenza, il figlio scappa e Siddharta è costretto a lasciarlo andare: sono troppo diversi per poter convivere. Questo episodio, inoltre, induce Siddharta a pensare a quando anche lui aveva abbandonato suo padre e al dolore che gli aveva sicuramente procurato. Ascoltando la voce del fiume, tuttavia, il dolore di Siddharta si placa gradualmente e l'uomo ottiene una maggiore comprensione del mondo e di se stesso che arriverà al culmine con l'illuminazione. Vedendo che finalmente l'amico ha raggiunto la sua meta, anche il vecchio barcaiolo lascia Siddharta, recandosi nella foresta. E qui si chiude il libro, nel rincontro di Siddharta e Govinda, ormai vecchi, vissuti, sapienti. L'amico ancora una volta non riconosce Siddharta, invecchiato, cambiato. Si raccontano le loro vite, ma soprattutto Govinda chiede all'amico quale sia, dopo tutti questi anni, la sua filosofia e Siddharta attua un monologo in cui esprime il suo insegnamento morale, come una lezione di vita su come giudicare per essere giudicati, su come cercare la conoscenza e su come anche il più puro degli uomini si possa ritrovare nel peccato. Alla fine Govinda si accorge, con una sorta di visione, che Siddharta è anch'egli un buddha, ed è ormai unito all'atman (l'anima del mondo), avendo raggiunto il nirvana in vita, come il suo maestro Gotama (e il barcaiolo Vasudeva). Il romanzo termina con un profondo inchino di rispetto di Govinda verso Siddharta. Commento
La vita di Siddhartha è un cammino faticoso alla ricerca del proprio io e di una via per entrare in contatto con lo spirito universale che anima il tutto. Siddhartha lungo il suo travagliato tragitto è figlio, fratello, amico. Siddhartha è amante e padre. Siddhartha è materia e anima, pensiero e sentimento. Siddhartha è uomo. Figlio di un monaco, fin da ragazzo impara la disciplina; vuole diventare parte integrante dell’Essere, annullare la propria percezione sensoriale per entrare in contatto con il tutto e diventare senso, materia e spirito. Per questo motivo decide di vivere da asceta e impara le arti del digiuno, della sopportazione estrema della fatica, dell’estraneazione dal dolore, ma non riesce a liberarsi della sensazione di essere ancora lontano dal comprendere e dominare se stesso. Il suo desiderio spirituale si trasforma gradualmente in una sete, una brama incontrollabile che lo spinge in un baratro cupo di dolore e frustrazione. Il viaggio della vita lo porta a imbattersi in una città traboccante di quella vitalità semplice che anima il quotidiano. Lì si innamora di una concubina, Kamala, e nell’amore scopre per la prima volta la forza mistica che si sprigiona quando le sensazioni della carne si coniugano con le più alte emozioni dell’anima. La città lo tenta con le sue ricchezze e i suoi svaghi, fino trascinarlo nella spirale delle debolezze umane. Si arricchisce, diviene avido e ricerca il potere. Si perde nel gioco e nelle scommesse, e persino l’amore, che aveva scoperto essere il più prezioso tesoro della vita, si trasforma in un vizio. Quando si rende conto del suo errore, fugge. Ormai estraneo a se stesso, la sua ricerca di senso non gli sembra altro che il ricordo di un’aspirazione lontana. La via di una pace nuova gli si apre quando si imbatte in un vecchio traghettatore, da cui impara a sentire la voce del fiume. In lui Siddhartha vede un maestro, un uomo che nella semplicità del suo vivere è riuscito a scoprire l’accesso nascosto all’armonia del tutto. Ormai giunto sul limitare della sua vita, Siddhartha trova il significato dell’esistenza nel fiume, nella voce delle sue acque, nel suo incessante fluire verso il mare, meta non ben delineata eppure immensa. La vita è un fiume che scorre, un viaggio incerto alla ricerca di se stessi che si concretizza in ogni momento, in ogni rapida, in ogni cascata. Il significato profondo del vivere sta nell’infinità inafferrabile di possibilità che la nostra anima nasconde, nella bellezza che adorna la complessità dell’essere umani. Il nostro io è come un fiume: sempre uguale, ma sempre percorso da acque diverse. Vivere non vuol dire cercare una fredda chiave capace di spiegare il tutto, ma accettare il divenire incessante del mondo e il suo irrisolvibile mistero. Siddhartha si lascia infine cullare nella pace del tutto. Il suo cammino attraverso l’esistenza si snoda in due direzioni parallele, una verso le profondità del proprio io, l’altra verso il seducente e immenso mondo al di fuori. Ognuno di noi compie entrambi questi sentieri, che in realtà non sono che le due sponde di uno stesso fiume: la vita. Il viaggio audace di Siddhartha attraverso la propria vita ci insegna il valore inestimabile che giace nella sua imprevedibilità. Non è l’annullamento del sé a veicolare la conoscenza del mondo, e neanche la brama di possedere tutto ciò che il mondo può offrire. La vita si nasconde nell’ascolto delle sue innumerevoli voci, nel lasciarsi trasportare dai suoi quesiti intrecciati senza mai rinunciare a cercare le risposte in noi stessi. Se, come Siddhartha, non interrompiamo il nostro cammino, trovando sempre il coraggio di andare avanti e di cambiare rotta quando è necessario, prima o poi ognuno di noi potrà imbattersi in un vecchio traghettatore che sa ascoltare la voce del fiume. E in quel fiume, quando avremo imparato a capirlo, vedremo specchiarsi il senso profondo del viaggio compiuto e di tutti quelli ancora da compiere alla scoperta di questo complesso e misterioso universo che è il nostro io.
AUDIO

Narciso e Boccadoro

«Non è il nostro compito quello d'avvicinarci, così come non s'avvicinano fra loro il sole e la luna, o il mare e la terra. Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altro, ma di conoscerci l'un l'altro e d'imparare a vedere e a rispettare nell'altro ciò ch'egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.» (Narciso)
«Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre?» (Boccadoro)

Narciso è un giovane monaco diligente e contemplativo, amante della lingua greca e delle scienze. È spirituale e si dedica completamente alla religione. Nonostante la sua giovane età, ha già l'incarico di assistente di greco nella scuola del monastero, dove un giorno arriva un nuovo allievo, Boccadoro. Boccadoro è un artista, con il grande senso di amare e di sentire le emozioni, che riesce con un solo sguardo a conquistare il cuore di tutte le donne. Ha lo spirito del vagabondo, ereditato dalla madre, che cerca di ritrovare, e durante il suo viaggio affronta varie avventure.
Trama
L'ascetico Narciso era destinato ad una brillante carriera religiosa. In principio egli compare come un giovane maestro nel convento di Mariabronn (Maulbronn), temuto e assai stimato persino dai suoi superiori per via delle sue conoscenze. Aveva inoltre la capacità di leggere con straordinaria precisione l'animo delle persone. La più clamorosa applicazione di tale dote investì con violenza Boccadoro, un giovane e talentuoso scolaro inviato al monastero dall'arido padre al fine di espiare la congenita anima peccaminosa ereditata dalla madre. La madre era per Boccadoro una figura poco chiara, delineata per lo più dai racconti del padre. Narciso, accortosi di tale lacuna nel cuore dell'amico, rievoca i suoi ricordi e gli rivela una sua profonda convinzione secondo la quale egli non sarebbe mai potuto diventare un erudito o un uomo religioso perché ciò non corrispondeva alla sua natura. Il giovane Boccadoro, fortemente scosso dalle parole dell'amico, incontra una donna di nome Lisa, si congeda e lascia il monastero. L'intrapresa vita di vagabondo insegna al giovane ad amare, a soffrire, a gioire, a cercare: in poche parole gli insegna a vivere.
Dopo alcuni anni di disperata ricerca Boccadoro scopre la sua natura di artista, così brillantemente intuita dall'amico Narciso. Egli diventa allievo del celebre maestro Nicola per poter raffigurare le immagini createsi dentro di lui dall'esperienza sensibile del mondo. Appresa l'arte e ottenuto prematuramente il diploma di maestro (grazie alla realizzazione del suo apostolo Giovanni, a immagine dell'amico Narciso), rifiuta l'eredità della bottega del maestro Nicola e la mano della bella figlia Elisabetta. Boccadoro riprende così la sua vita errabonda. Nel corso del suo pellegrinaggio Boccadoro conosce gli orrori del mondo, ma conosce anche l'amore; ama molte donne, ma solo alcune di esse resteranno per sempre nel suo cuore: la zingara Lisa, Lidia, la figlia del cavaliere che lo ospitò in cambio del suo latino, Giulia, sua sorella, Lena, la fanciulla morta di peste che lo amò più sinceramente di qualsiasi altra donna, Agnese, la bella e glaciale amante del conte. Ma una sola figura lo accompagnò per tutta la sua esistenza dal momento dell'addio al monastero: l'Eva-Madre, immagine vaga, sfuocata, eternamente in mutazione, che alla fine risultò essere l'immagine di sua madre. Per tutta la vita Boccadoro ricercò tale immagine. La trovò solo in vecchiaia durante il suo ultimo pellegrinaggio, in cui spezzatosi il cuore per il mancato amore di Agnese, si ruppe alcune costole cadendo da cavallo. Per tutta la vita il sogno di Boccadoro fu quello di cogliere con chiarezza l'immagine della Madre eterna e di rappresentarla; ma una volta colta, il piacere derivante dalla pace interiore che ne conseguì fece scemare in Boccadoro il desiderio di rappresentarla. Ora può morire sereno, poiché ha ritrovato sua madre, e ha scoperto l'amore, perché senza madre non si può amare.

Narciso

Narciso e Boccadoro (Doppio autoritratto di Giorgione)


Personaggi
- Narciso è aurora di tutta la vicenda. Egli si presenta come un ragazzo dotato di straordinario talento, che persino i suoi superiori temono. È un colosso, è il vero detentore del potere nel monastero. Egli controlla e governa tutto e tutti con le sue stupefacenti capacità. Futili si rivelano alcuni provvedimenti che l'abate Daniele prende nei confronti del giovane per rammentargli la sua posizione nel monastero e il rispetto per la gerarchia. Al termine della vicenda egli è abate del monastero. Ma proprio quando le sue potenzialità sono finalmente esplose trovando realizzazione nella figura dell'abate (l'abate Giovanni, stupefacentemente profetizzato dalla statua dell'apostolo Giovanni di Boccadoro), egli lascia trapelare tutta la sua umanità e con essa le sue incertezze e le sue debolezze. Egli è vittima della filosofia, di cui si sentiva l'assoluto padrone, e della verità. Grazie a Boccadoro si rende conto che la ricerca della verità tramite il totale controllo dello spirito non è l'unica via, e non è necessariamente più efficace della via dei sensi.
- Boccadoro è il mezzo di cui si serve l'autore per esprimere il dissidio fra spiritualità e mondanità, fra eros e logos. L'unico tratto del suo carattere che emerge con energica chiarezza è la sua incertezza psicologica che lo porta a condurre continuamente una vita da vagabondo.
- Tutti gli altri personaggi sono un semplice condimento alla storia, senza il quale nulla avrebbe senso e tutto resterebbe insapore. È elemento indispensabile ma che non contiene in sé la sostanza della storia.

 


Commento
Narciso e Boccadoro sono legati da un’amicizia, e un amore platonico, talmente intensi da travalicare gli anni e la distanza, e sono tra loro opposti nelle scelte di vita. Narciso è dedito a una vita di studio e di ascesi, ma scorge nel giovane Boccadoro, suo scolaro, una vitalità che è ben lontana dalla vita monastica, e lo spingerà a ricercare un percorso diverso, basato sul piacere e sull’esplorazione. "Non sai che una vita di libertinaggio può essere una delle vie più brevi per giungere ad una vita di santità?" Sebbene Narciso, nella maggior parte delle pagine, resti nell’ombra, e Hesse preferisca seguire la peregrinazione esplorativa di Boccadoro, egli resta nell’ombra, vivido nella mente del giovane, nelle sue sculture, nei suoi pensieri più emotivi. Narciso e Boccadoro rappresentano le due parti di ogni essere umano: la stabilità e il cambiamento, l’elevazione del pensiero e la mutevolezza dell’arte, l’ascesi dello spirito e la vitalità del corpo, la ragione e l’emotività, l’isolamento e l’incontro, lo studio sui libri e lo studio dell’esperienza, il padre e la madre, l’Apollineo (razionalità) e il Dionisiaco (istintualità), per dirla con il maestro di Hesse, Nietzsche. Isolamento contro intimità e solidarietà, per disturbare Erikson e la fase dello sviluppo psicosessuale che ci costituisce tra i 20 e i 40 anni; poli opposti, Narciso e Boccadoro, persino nell’aspetto, che si attraggono l’uno all’altro. Dirà Narciso: "noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l’uno nell’altro, ma di conoscerci l’un l’altro ed imparare a vedere e a rispettare nell’altro ciò che egli è: il nostro opposto e il nostro complemento. (…) Tu sei un artista, io un pensatore. Tu dormi sul petto della madre, io veglio nel deserto". Hesse traccia in questa diade bipolare la ricchezza dell’animo umano, e aggiunge nel peregrinare di Boccadoro la ricerca della madre, la prima donna di ogni vita: "Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire". E qui emerge una contraddizione che sembra lacerare Hesse e i suoi personaggi: la contrapposizione tra il padre, visto come l’autorità, il dovere, la castrazione della vita, e la madre, l’immagine onirica e infantile, perduta e rimossa, ma verso cui ognuno si muove, verso cui tutto tende, il punto in cui la vita e la morte si danno appuntamento e non c’è più distinzione tra le due. Morte e voluttà erano una cosa sola. La madre della vita si poteva chiamare amore o piacere, si poteva chiamare anche tomba o corruzione. La madre era Eva, era la fonte della felicità e la fonte della morte, generava eternamente, uccideva eternamente. […] Il lato paterno della vita, lo spirito, la volontà non erano la sua patria. Quella era la patria di Narciso. Recalcati, in una sua rassegna, ha suddiviso gli autori in base alla loro ricerca del padre o della madre. A fronte di un Leopardi che guarda al padre, ecco un Hesse che insegue la madre perduta. Cosa ci insegna Hesse? Che l’animo umano è troppo complesso per ridursi a un’unica via, che la duplicità di opposti ci abita, e non possiamo ridurci a un unico sentiero, perché tradiremmo la complessità stessa del nostro essere. La complessità è la materia di cui siamo fatti, e la contraddizione che ci abita, che ci consente di usare l’istinto e la ragione, l’arte e il pensiero, l’emozione e la razionalità, il paterno e il materno, e tutti i poli opposti che abitano la nostra anima, è la vera ricchezza che portiamo al mondo.
FILM



Il giuoco delle perle di vetro

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AUDIO 2

Il giuoco delle perle di vetro è un romanzo filosofico fantastico del 1943. Fu l'ultima opera dello scrittore tedesco, il quale iniziò a scriverla nel 1931, con l'intento di realizzare il proprio capolavoro; l'opera vide le stampe in Svizzera dodici anni dopo. Viene talvolta chiamata anche Magister Ludi, "maestro di gioco", dal nome di uno dei personaggi; questa locuzione latina può essere intesa anche come gioco di parole, avendo ludus entrambi i significati di "gioco" e di "scuola". Il libro fu una delle opere che contribuirono all'attribuzione a Hesse del Premio Nobel per la letteratura nel 1946.
Trama
Il romanzo tratta di un ordine composto di soli intellettuali e collocato nella immaginaria regione di "Castalia", in un futuro remoto. La voce narrante del romanzo è uno storico dell'epoca. Nella narrazione compaiono solo riferimenti vaghi al mondo di oggi, in genere rappresentato come un passato intellettualmente oscuro e decadente (l'Era del feuilleton). La vita dei monaci del romanzo, così come i cerimoniali che osservano, è caratterizzata da una commistione di elementi della ritualità occidentale e orientale. Le vicende di cui narra il romanzo sono imperniate sulla vita di Josef Knecht, un piccolo orfanello le cui doti vengono notate dal maestro di musica e che gli consentiranno di venire ammesso in Castalia oltre ad avere accesso fin da giovane alle scuole che formano "l'élite" dei giocatori di perle. La natura dell'animo di Knecht colpisce immediatamente i suoi insegnanti e i suoi amici, generando fiducia, e ciò farà sì che al giovane studente in pochi anni vengano riconosciuti meriti fuori del comune, fino al punto che, una volta cresciuto, verranno affidati a Josef compiti diplomatici di grandissima importanza per la piccola comunità Castalia, di fatto esterna al mondo comune, dove vivevano gli uomini normali.
Il suo compito da ragazzo prima (col suo compagno Plinio Designori) e da giovane uomo poi (con padre Jacubus) è quello di difendere, in accesi dibattiti, la legittimità e la natura di questa regione in cui si coltivano lo spirito, la meditazione e il gioco delle perle. In questi importanti confronti con uomini mondani, il protagonista del romanzo sviluppa una sua idea sul mondo esterno alla Castalia e sul rapporto che queste due realtà differenti hanno intrattenuto per secoli, oltre che sulla natura di tutti coloro che vivono al di fuori dalla provincia del sapere. I successi riscontrati, una sensibilità fuori dall'ordinario e un altrettanto notevole fascino, oltre che una padronanza eccezionale del gioco fanno sì che Josef si affermi come Magister ludi in età ancora giovane, specialmente se confrontata con quella dei suoi predecessori. La carica di Magister ludi è di fatto la più importante onorificenza raggiungibile a Castalia e con essa si accompagnano notevoli impegni e doveri, che vengono svolti dal Magister in maniera esemplare.
In età matura però Knecht inizia ad avvertire il peso che questa situazione comporta e si rende conto di quanto la vita, con la sua continua evoluzione, lo richiami a lei: i troppi anni dedicati a svolgere il ruolo di Magister l'hanno incatenato e il suo desiderio di libertà, la sua voglia di incidere su una realtà più concreta (il suo sogno sarebbe insegnare a giovani studenti la musica, sua grande passione), lo portano a rinunciare alla prestigiosa carica, rompendo una tradizione secolare e creando non poco scompiglio nella comunità, dove proprio grazie alle premonizioni di Knecht si inizia a intravedere un periodo di decadenza, che porterà all'inevitabile fine di questo pezzetto di mondo, che troppo si era arroccato su posizioni che nulla potevano contro le evoluzioni che la storia impone. E così, allontanandosi dalla sua amata regione, Knecht si reca finalmente libero tra gli uomini, e con in tasca solo un piccolo flauto andrà incontro alle avventure che la vita gli riserverà. Per prima cosa decide di portare avanti la sua missione di educatore, come tutore del giovane Tito, figlio del suo vecchio amico Designori. La vita fuori dalla stantia, ma protettiva cornice della regione di Castalia lo coglie però impreparato, e in un finale travolgente, appena dopo aver assaporato la bellezza e l'euforia della ritrovata libertà, Knecht perde la vita inseguendo il ragazzo in una istintiva e personale sfida di nuoto nel freddo lago di Belpunt.
Commento
«La musica del mondo e dei sapienti siam pronti ad ascoltare riverenti, e ad evocare a festa i venerati spiriti di periodi più beati. Siam tutti compresi dei misteri della scrittura magica che in veri simboli chiari e formule ha serrato il fervor della vita sconfinato. Tintinnano come astri di cristallo dobbiamo ad essi se la vita ha senso; nessuno uscire può dal loro vallo se non cadendo verso il sacro centro». Questi sono i versi della poesia che Herman Hesse dedica al Gioco delle perle di vetro, la forma perfetta del gioco totale al centro dell’omonimo romanzo, l’ultimo dell’autore, in cui le immagini che scaturiscono da questo particolarissimo Gioco ci conducono via via attraverso tutte le suggestioni ideali che troviamo descritte nei suoi precedenti racconti, da Demian, del 1919, passando per Siddarta sino a Der Steppenwolf, Narciso e Boccadoro e, non meno importante, L’ultima estate di Klingsor. Come ci ricorda Marco Dotti nel suo Il calcolo dei dadi, il gioco è libero dal vincolo del tempo ma, al contrario degli altri fenomeni fondamentali in cui si articola la vita umana – lavoro, lotta, morte e amore – non gode di uno spazio autonomo. Il gioco pervade la vita e, osservava già nel suo Grundphänomene des menschlichen Daseins (1955) Eugen Fink, proprio perché mischiato con l’amore, la morte, il dominio ed il lavoro, li abbraccia tutti. E allora, come dice Hesse commentando la sua opera: «Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo. È quel che ho sempre fatto». Entrare nel gioco significa entrare in un sistema di obblighi rituali, e la sua intensità deriva da questa forma iniziatica, ci ricorda Jean Braudillard nel sul saggio Della seduzione. E così questo romanzo-testamento, il cui protagonista è il Magister Ludi Josef Knecht, è l’ultima e più completa espressione del nuovo «credo» da lui descritto e profetizzato per tutta la vita e che, come tutte le credenze che aspirano ad affermarsi e sostanziarsi nel tempo, ha la sua ritualità: i gesti del Gioco delle perle di vetro, di cui l’autore ci racconta del come e del perché la sua pratica, di evidenti ascendenze neoplatoniche, sia stata perfezionata nella utopica terra di Castalia, creando infine un gioco misterioso, dalle regole esoteriche, che i suoi officianti, i Magister Ludi, apprendono durante lunghi anni di studio e meditazione. E così, attraverso una mistica disciplina, ispirata da una visione trascendentale, vive il Gioco delle perle, il Glasperlenspiel, riproduzione microcosmica del fatale movimento delle sfere celesti: un’epitome del campo – l’universo stesso – in cui i giocatori si cimentano. Il gioco fantastico. Ma se le «perle di vetro» sono un gioco, a che tipologia ludica appartengono? Certo a quella dei giochi fantastici. Questa corrispondenza ideale tra il microcosmo del Gioco ed il macrocosmo del «sacro centro» rende infatti compossibili, nel suo svolgimento, tutte le quattro tipologie ludiche già individuate da Roger Caillois ne Il gioco e gli uomini: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx (il termine greco per vertigine). L’attività con le perle, infatti, assomma al suo interno sia le caratteristiche dell’Agon, del gioco che contrappone due o più persone, sia dell’Alea, la sfida del giocatore contro il Destino, riproduzione della sfida cosmologica giocata da Ananke, la necessità, contro Kaos, il non ordinato, l’informe. Il Magister, infatti, non gioca solo contro un altro giocatore ma, contemporaneamente, contro il Caos, il «non manifestato» a cui tutto potrebbe tornare se la sua mano fallisse. A questa dissoluzione potenziale egli oppone dunque se stesso e la sua Necessità, l’ordine costituito dalla civilizzazione che egli rappresenta e sancisce. Così facendo il Magister si fa carico, per così dire, di quel ruolo di difensore della realtà fenomenica che Rilke, nelle sue Elegie Duinesi, attribuisce alla figura archetipica della Madre quando ne descrive la potenza di contrastare il Nulla sempre in agguato: «Ah, dove mai sono gli anni, quando tu soltanto con la snella figura sbarravi il ribollente caos?». Ma il Gioco delle perle di vetro va ben oltre questo dualismo per inoltrarsi, con le sue possibilità indefinite, sin dentro il dominio della Mimicry cioè dell’imitazione, del travestimento: si parte da qualcosa, materiale o immaginale, che dunque sia o possa essere – un concetto, una sonata, un oggetto, un’immagine poetica – per farla poi evolvere, renderla progressivamente sempre più distante da se stessa in una teoria di trasmutazioni continue, di infiniti rimandi analogici, di «come se» che celebrano una sorta di laico carnevale dello spirito. Avere immaginazione significa godere di ricchezza interiore, di un flusso ininterrotto e spontaneo di immagini. Spontaneità, però, per il Magister Ludi impegnato nel Gioco delle perle, non significa invenzione arbitraria: le regole del gioco sono ferree. Come per la disposizione delle note su di un pentagramma o del metro per i versi poetici; solo dal rispetto delle regole nascerà l’immaginazione propria del Gioco. Sul piano etimologico, «immaginazione», infatti, è solidale con imago, «rappresentazione, imitazione» e con imitor, «imitare, riprodurre». Ecco che allora il Gioco delle perle di vetro, e per una volta l’etimologia riecheggia sia le realtà psicologiche che le verità spirituali, imita dei modelli esemplari – le immagini archetipiche del Cosmo tratto dal Caos – e così li riproduce, li riattualizza, li ripete incessantemente. Avere immaginazione, per il giocatore delle perle di vetro, significa dunque rivedere il mondo nella sua totalità per rigenerarlo, giacché è potere e missione delle Immagini mostrare la trama invisibile che tutto connette e sostiene, quel velo di Maya che rimane refrattario al concetto pur sostanziando i fenomeni del Mondo: uno stato di grazia concesso a pochi eletti. Ci si spiega, allora, come dice Mircea Eliade, anche «la disgrazia e la rovina di chi è privo di immaginazione»: un tale individuo è tagliato fuori dalla realtà profonda della vita e della sua stessa anima. Finalmente, allora, il Gioco delle perle di vetro, vero o virtuale che sia, ha come compito, come tutti i giochi, quello di attivare l’Imaginatio vera, quel noûs poetikos di cui ci parla Aristotele nel terzo libro del De anima: si tratta di un’Immaginazione poetica che non serve assolutamente ad «inventare» mondi; non è un esercizio che produce erratica fantasticheria bensì, al contrario, oltre a riconoscere il materiale poetico, le Immagini attraverso le quali possiamo cogliere la «realtà in atto» del Mondo, le rigenera. Teofrasto ci dice che per Parmenide l’anima e il noûs sono la stessa cosa, e che quindi: «Noûs non indica affatto la pura attività raziocinante, ma altresì volontà, sentimento, l’anima umana intera». E di questa stessa «disciplina» parla Gregory Bateson, nel suo tentativo di creare una nuova epistemologia per svelare la «struttura che connette» il vivente»; egli propone l’identità essenziale tra tutte le manifestazioni del Mondo come definizione stessa di ecologia: «Ciò che noi crediamo di essere, dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del Mondo intorno a noi». L’accesso alla realtà immaginale prodotta dalle perle di vetro allora, come ci ricorda Henry Corbin nel suo Corpo spirituale e terra celeste, sui neoplatonici di Oriente, ci viene aperto da quella ermeneutica per eccellenza indicata dalla parola ta’wil, che in farsi letteralmente significa «ricondurre una cosa alla sua fonte», al suo archetipo, alla sua realtà vera. Per il Magister Ludi, dunque, il senso figurato del Gioco non è allora che una metafora (majas), mentre il senso vero (haqiqat) è l’accadimento creativo che tale metafora costruisce. Attraverso questa tonalità immaginale, il Gioco delle perle di vetro esprime infine la sua peculiare essenza di Ilinx, cioè di Vertigine, cioè di quelle tipologie di giochi che, secondo la teoria «evoluzionista» di Huizinga nel suo Homo ludens, si situano all’inizio della storia, quando una combinazione di dispositivi vertiginogeni – l’altalena, la taurocatapsia, l’acrobazia, la danza – trasportava l’uomo dinanzi alle Potenze primordiali, attraverso l’estasi generata dal vortice e/o dalla paura suggestionante della maschera, sino alla visione mistica, l’epopteia dei Misteri eleusini. Nel Gioco delle perle di vetro la vertigine estatica si genera naturalmente: il giocatore proietta la sua mente in quelle zone rarefatte della speculazione teoretica in cui manca un appiglio immediato alla realtà fenomenica e l’anima avverte come un baratro nel quale è naturale precipitare: operare nel senso di una discesa vorticosa attraverso un abisso che produce la sua stessa caduta. Il Gioco delle perle di vetro, il loro tintinnio luccicante, il prisma dei cangianti colori che si liberano da esse, proietta così il Magister Ludi in una sorta di «volo onirico», una rêverie lucida che diviene sintesi fra caduta ed elevazione. È dunque nel Weltinnenraum «spazio interiore del Mondo» che la vertigine fa entrare il giocatore delle perle di vetro. L’intento del Gioco E così, anche se nulla sappiamo delle regole di Gioco, per effetto del suo restare nell’ambito dell’esoterico, cioè della trasmissione orale da Maestro a discepolo, possiamo cogliere qualcosa del suo «intento». I suoi effetti sulla Storia e i singoli giocatori lo configurano, infatti, come ibrido tra una raffinatissima Ars Combinatoria – l’Ars magna di Raimondo Lullo, una sorta di catasto universale dei concetti affine alla «matematica totale» preconizzata da Leibnitz nella quale viveva la possibilità di simboleggiare tutti i concetti in segni geometrici o algebrici – e la Filosofia alchemica, con la quale il Gioco ha in comune la ricerca dell’essenza universale attraverso la ricombinazione degli elementi, il ricongiungimento delle polarità opposte, il Rebis filosofico, mercé la gestione sapienziale delle perle di vetro. La pratica di queste affinità intime tra concetti, teorie, motivi musicali e artistici, questa necessità di riconoscerne le connessioni segrete per ricomporre tutte le signatura rerum in un quadro armonico, risponde ad un «intento» di equilibrio profondo; Hesse attribuisce la nascita del Gioco alle conseguenze degenerative sullo psichismo umano di un periodo di decadenza dello spirito, l’età della «terza pagina», in cui dominava, secondo il racconto che ce ne fanno le cronache di Castalia: «Un largo individualismo di stampo borghese», che diede vita però, con la nascita del Gioco, come direbbe Bataille ne L’esperienza interiore, ad un sussulto di spiritualità poiché: «L’uomo è una particella inserita in insiemi instabili e aggrovigliati […] un punto di arresto propizio a uno sgorgo […] uno zampillo infiammato, eccedente, libero persino dalla propria convulsione. Un carattere di danza e di leggerezza scomponente». Ogni epoca, questo è l’arcano e la morale, coltiva segretamente il seme dionisiaco del suo contrario, della sua dissoluzione e rinascita. Per questo nel Gioco il momento di avvio non è dato a priori: si tratta di cogliere un’opportunità, attendere l’arrivo di kairos, l’ispirazione sottile che trasporta con i suoi talari verso il momento perfetto, la coincidenza del gesto col fine, e dunque con la fine della partita: quando la vertigine che nasce dalla visione dell’abisso in cui può cadere l’anima del mondo sospinge ad oltrepassare ciò che separa da «quelle cose» per giungere pericolosamente al cospetto del Sacro, quella sorta di Aleph borghesiano in cui gorgogliano sincronicamente tutti i tempi ed i luoghi della creazione; come dice Hesse: «Noi non nascondiamo il pericolo che corre l’anima dell’umanità, l’abisso cui è vicina. Ma neppure possiamo nascondere che crediamo alla sua immortalità». L’intento di cui parla Hesse nel descrivere l’attitudine dei suoi Magister, è dunque un’inclinazione dello sguardo e della sua volontà, che cercano la visione della «trama [armonia] nascosta» in ogni manifestazione della realtà. Lo sviluppo consapevole dello «sguardo dell’anima» che «rimette in gioco», che prova ad assumersi tutti i rischi della risposta all’enigma dell’uomo e del Mondo. Bene lo aveva capito Gustav Jung il cui allievo, Joseph Lang, fu per molti anni psicanalista di Hesse: «L’abbandonarsi del Maestro Eckart è diventato per me la chiave che dischiude la porta verso la via: bisogna essere psichicamente in grado di lasciar accadere […]. Per cominciare, esso consiste soltanto nell’osservare oggettivamente come si sviluppi un qualunque frammento di fantasia […]. La via non è priva di pericoli. Ogni bene ha un prezzo, e lo sviluppo della personalità è tra le cose più preziose. Si tratta di dire di si a se stessi, di porsi a se stessi come il compito più grave, di essere sempre consapevoli di ogni azione, e di tenere ciò sempre ben davanti agli occhi in tutti i suoi aspetti problematici: davvero un compito che richiede un impegno totale […]. Si tronca qui bruscamente il flirt estetico o intellettuale con la vita ed il destino. L’accedere ad una coscienza superiore ci priva di ogni copertura alle spalle e di ogni sicurezza. L’individuo deve impegnarsi totalmente […] e solo la sua integrità può essergli garanzia che la sua via non si tramuti in una assurda avventura». Questa definizione dell’intento come «disciplina» del «porsi a se stessi come il compito più grave», Jung la articola nell’introduzione al Segreto del fiore d’oro, trattato di alchimia taoista cinese; nella sua biografia dirà, al proposito, che è stata l’Opera ad introdurlo allo studio dei simboli alchemici come descrizioni della totalità del Sé. L’enfasi posta da Jung nel rapporto tra volontà, consapevolezza e azione e, ancor più, il particolare rapporto che ne descrive l’intreccio con la percezione profonda, archetipica, delle cose – che ritroveremo anche in Corbin – delinea non solo l’obiettivo da raggiungere, i suoi rischi ed opportunità, ma altresì l’inclinazione necessaria per lasciarsi cogliere dall’Invisibile, lo scopo del Gioco delle perle di vetro. La parola intento contiene dunque una segnatura etimologica: svela la tensione nella volontà di uno sguardo che cerca il luogo della visione tra consapevolezza e inconscio, tra Io e Sé, tra Visibile ed Invisibile; un ponte gettato dall’anima sulla necessità di cogliere la sua stessa «trama [armonia] nascosta» per ricongiungerla con «quella manifesta», secondo le parole di Eraclito. Un tragitto ardito e impervio, che si tende tra Cosmo e Caos. E dunque, anche se le origini del Gioco sono rinchiuse nel passato, e anzi «la sua stessa esistenza attuale non è dimostrabile né probabile» come avverte Albertus Secundus, il Magister che ne ha, forse, codificato le ultime regole, la sua stessa ipotesi ha saputo infondere all’epoca una tale carica di autenticità che esso, non importa se esistente o virtuale, ha inciso sulla realtà effettuale avvicinando la società tutta «un poco alla possibilità dell’essere e del rinascere». Il Gioco delle perle produce così anche nuovi simboli e questo è segno inequivoco di grande creatività e profondità spirituale. Ed infatti, per la mente umana, concepire un nuovo simbolo equivale alla capacità della Natura di creare un nuovo cromosoma che sia funzionale all’evoluzione e non meramente mostruoso o neoplastico. E dunque il Gioco crea simboli e non loghi, genera soglie attraverso le quali si entra in reami sconosciuti ai non iniziati e che, per i giocatori, rappresentano la ricombinazione ideale di tutti i saperi. I Pellegrini d’Oriente La finalità, mistica e politica al tempo stesso, spiega perché la supposta versione attuale, quella giocata dal Magister Ludi Josef Knecht (che in tedesco significa servo), sia stata perfezionata dai Pellegrini di Oriente: confraternita che troviamo nell’omonimo romanzo di Hesse. Sono personaggi diversi tra loro, ma accomunati da questa avventura orientale che li porterà a compire un pellegrinaggio verso la profondità di se stessi. «La nostra meta infatti non era soltanto il Paese del Levante, o meglio il nostro Oriente non era soltanto un Paese e un’entità geografica, ma era la patria e la giovinezza dell’anima, era il Dappertutto e il Nessun-luogo, era l’unificazione di tutti i tempi». Tra i pellegrini spiccano il musicista H.H., che lascerà il pellegrinaggio esattamente come il Magister lascerà il Gioco delle perle di vetro, e il pittore Paul Klee, quello dell’emblematico Angelus Novus tanto caro a Walter Benjamin. Anche qui, dunque, torna l’immagine delle rovine della Storia e di un futuro incerto verso il quale il vento dei tempi nuovi sembra attirare sia l’angelo che i giocatori delle perle di vetro. Il Gioco si configura, così, con questi ascendenti, come una forma esplicita ma al tempo stesso esoterica di apocatastasi, di Salvezza universale che, mercé la casta dei giocatori, può estendere la sua luce su tutta l’umanità oscurata dal ritiro dello Spirito. Il Gioco delle perle viene allora descritto come una sorta di immagine speculare del destino del XX secolo; lo stesso nel quale si riflette L’uomo senza qualità di Musil per il quale: «A poco a poco l’uomo probabile e la vita probabile incominciavano ad occupare il posto dell’uomo vero e della vita vera che erano pura immaginazione e illusione». Il romanzo si chiude con la morte del Magister Ludi Josef Knecht nel lago di Belpunt. Il Magister segue nel lago montano il suo giovane allievo, figlio dell’amico più caro, in una sfida che si rivela esiziale per il vecchio maestro e fatale per il suo discepolo. Josef Knecht si presenta al suo destino con uno spirito in apparenza opposto: non sembra voler morire, ma il contatto con l’acqua fredda, glaciale, il tuffo pericoloso per lo stato della sua precaria salute fisica, ma soprattutto della sua anima gravata dal sospetto che il Gioco si stia orami svuotando della sua essenza sacra per diventare un banale passatempo intellettuale, trasformano il senso del gesto offrendogli l’ultima sfida esistenziale, alla quale egli non si sottrarrà perché convinto, alla luce dell’istante, di star giocando nella maniera più vera ed autentica se stesso come perla di vetro. Il Magister affronterà dunque la lama gelata dell’acqua come in un duello: sarà la morte eroica il coronamento della sua carriera; una morte acquatica che viene a porgli sul capo la corona di alloro della sfida impossibile, quella che nessuno può vincere, ma che premia con la gloria eterna chi la affronta consapevolmente. Il Magister, infatti, non si lascia andare alla morte, ma le resiste sino alla fine; né tantomeno le si sottrae uscendo dall’acqua: capisce che la posta in gioco è il passaggio alla maturità del discepolo; sente così di ripagare finalmente, e nel più estremo dei modi, quel legame con l’amico che, in gioventù, gli aveva dato la possibilità di formarsi e diventare Magister. Qui il tuffo è realmente un atto eroico, di una fisicità arcaica, come la sfida che rappresenta: il Magister non è preparato ma, proprio per questo, la affronta: è l’azzardo del giocatore che pone in palio la sua vita. L’ultimo tuffo porterà a compimento così la sua ricerca: questa è l’intuizione che l’atra mano della morte trasmette alla consapevolezza oramai intorpidita dal gelo, risvegliando in lui l’antico giocatore che tanto si era appassionato alle perle di vetro. «Quando era uscito di casa, Knecht non aveva avuto nessuna intenzione di fare il bagno e di nuotare perché aveva troppo freddo e dopo il malessere notturno non si sentiva molto bene. Ora, al tepore del sole, eccitato da ciò che aveva visto, invitato amichevolmente dall’allievo, pensò che il rischio non era tanto grave. Soprattutto però temeva che, quanto l’ora mattutina aveva avviato e promesso potesse svanire e andare perduto, se avesse abbandonato il giovane e l’avesse deluso rifiutando con la fredda ragionevolezza dell’adulto un saggio di energia. Lo sconsigliava, è vero, il senso di incertezza e di debolezza che gli aveva lasciato il rapido viaggio in montagna, ma forse quel malessere lo si poteva rapidamente superare con un atto di forza e con un gesto impetuoso». Il tuffo è qui più metaforico che mai; trapassa rapidamente dal «gesto impetuoso» che scaccia il malessere, all’abbraccio della morte che compie un destino. Questa Immagine di Hesse racchiude dunque, come ogni tuffo, un duplice significato. L’inizio del gesto, la sua motivazione, il suo incipit, la sua stessa ragione, è raccogliere la sfida per non deludere l’allievo. Qui siamo nel campo di quella «Immaginazione materiale» del tuffo che Bachelard chiama «acqua violenta». La valenza del tuffo nell’«acqua violenta», pericolosa, come la avverte giustamente il Magister, è già quella di un gesto di sfida per un elemento nel quale «la vittoria è più rara» poiché «il nuotatore conquista un elemento molto estraneo alla sua natura». Ed è certamente così per il Magister, che è uomo di montagna abituato a guardare l’acqua da lontano, come riflesso terrestre del cielo, sotto forma di laghetti tranquilli ma, allo stesso tempo, capace di coglierne l’essenza matriciale, il suo significato creatore. Per il Magister l’acqua è un elemento sacro, e ogni tuffo un battesimo, ogni bracciata un’offerta alle divinità marine, ogni emersione una rinascita. Ecco perché, arrivato il momento topico, egli non si sottrae alla sfida lanciatagli dall’allievo. E dunque, «l’eroe delle acque violente», come lo chiama Swinburne, non è solo colui che affronta l’acqua tempestosa e i marosi contrari, ma anche colui il quale avverte l’elemento come estraneo e periglioso in quel preciso momento. Il tuffo è, per l’immaginazione materiale di questi soggetti, un gesto eroico, il gesto eroico attraverso il quale si esprime l’assoluto: «Come esprimere meglio che le cose, gli oggetti, le forme, tutto il variopinto pittoresco della natura si disperdono, si cancellano quando echeggia il richiamo dell’elemento? Il richiamo dell’acqua reclama, in un certo senso, un dono totale, un dono intimo. L’acqua vuole un abitante, chiama a sé come una patria». In altre parole la fine non può essere che il tuffo in questa acqua: «Toltosi il leggero accappatoio respirò profondamente e si buttò in acqua nello stesso punto in cui si era tuffato l’allievo. Il lago… lo agguantò col gelo di una tagliente ostilità. Egli si aspettava un gran brivido, ma non quel freddo così glaciale che lo avvolse come un mare in fiamme e dopo una prima vampata cominciò a penetrargli le ossa». Ecco che il Magister comincia subitaneamente ad intuire che quello sarà il suo ultimo tuffo, il gesto attraverso il quale coronerà la sua carriera, non solo di supremo maestro nel goco delle perle di vetro, ma soprattutto di precettore del ragazzo. Il tuffo finale nelle acque in cui troverà la morte, per la dinamica stessa dell’episodio, altro non è che la lectio magistralis impartita al giovane che riceve, dalla morte esemplare del suo mentore, l’iniziazione. «Di fatto il tuffo fa rivivere, più di ogni altro avvenimento fisico, gli echi dell’iniziazione pericolosa, di una iniziazione ostile. Rappresenta l’unica Immagine esatta, ragionevole, l’unica che si possa vivere, del salto nell’ignoto. Non esistono altri salti reali che siano nell’ignoto. Il salto nell’ignoto è un salto nell’acqua», ci ricorda Bachelard. «Dopo il tuffo era riaffiorato subito, ed aveva veduto davanti a sé Tito che nuotava con grande vantaggio ma, sentendosi aspramente incalzato dal gelo ostile, si illuse ancora di lottare per diminuire la distanza, per raggiungere la meta della gara, per rispetto all’amicizia, per l’anima del ragazzo, quando invece lottava già con la morte che gli aveva dato lo sgambetto e lo stringeva tra le braccia. Facendo appello alle sue forze vi resistette finché il cuore continuò a battere. Il giovane nuotatore si era voltato più volte, ed aveva visto con soddisfazione che il Magister lo aveva seguito nell’acqua. Ora guardò di nuovo e non vedendolo si impensierì […]. Stordito toccò terra finalmente […] sedette per terra inebetito, fissando l’acqua il cui verde azzurro lo guardava ora vuoto e maligno […]. E mentre, nonostante le obiezioni, si sentiva colpevole, lo prese come un sacro brivido il presentimento che quella colpa avrebbe trasformato lui stesso e la sua vita e preteso da lui cose molto più grandi di quante fino allora avesse mai preteso da se stesso» Ma, forse, per comprendere, al di la delle sue oscure regole, il Gioco delle perle di vetro, dobbiamo andare con la memora ai nostri infantili giochi con le perle di vetro, con quelle biglie colorate che racchiudevano al loro interno una spirale multicolore che ci agitava la fantasia oltre ogni immaginazione. Compresi nel gioco eravamo tutti Magister Ludi: il tempo cronologico scompariva per essere assorbito da quelle spirali multicolori che ci proiettavano in un’altra dimensione, in una realtà separata dove l’unica strada da seguire era quella tracciata dalla traiettoria delle biglie opalescenti. Come pure vale la pena ricordare che, sino agli anni Cinquanta del secolo scorso, esistevano in commercio alcune bottiglie di gazzosa che erano chiuse proprio da una biglia di vetro: per aprire la bottiglia bisognava spingere la pallina verso il basso e far uscire così il gas che la imprigionava contro il collo stretto. Quelle bollicine, liberate dallo sprofondamento della biglia erano l’immagine stessa della creazione, del Big Bang; dopo non restava che liberare anche la sfera di vetro, ed il gioco ricominciava.

Eugenio Caruso - 3 settembre 2022

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