«Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli.»
(Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio)
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità.
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Albert Camus
Albert Camus alla sua scrivania
Albert Camus, Dréan, 7 novembre 1913 – Villeblevin, 4 gennaio 1960, è stato uno scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista e attivista politico francese.
Con la sua multiforme opera è stato in grado di descrivere e comprendere la tragicità di una delle epoche più tumultuose della storia contemporanea, quella che va dall’ascesa dei totalitarismi al secondo dopoguerra e al concomitante inizio della guerra fredda. Non solo: le sue riflessioni filosofiche, magistralmente espresse in immagini letterarie, hanno una valenza universale e atemporale capace di oltrepassare i meri confini della contingenza storica, riuscendo a descrivere la condizione umana nel suo nucleo più essenziale. Il suo lavoro è sempre teso allo studio dei turbamenti dell'animo umano di fronte all'esistenza, in balia di quell'assurdo definito come «divorzio tra l'uomo e la sua vita». L'unico scopo del vivere e dell'agire, per Camus, che pare esprimersi dialetticamente fuori dell'intimità esperienziale, sta nel combattere, nel sociale, le ingiustizie oltre che le espressioni di poca umanità, come la pena di morte: «Se la Natura condanna a morte l'uomo, che almeno l'uomo non lo faccia», usava dire.
Camus nacque a Mondovi (oggi Dréan), nell'allora Algeria francese, il 7 novembre 1913 in una modesta famiglia di pieds-noirs, cioè i coloni francesi - o più in generale europei - e i loro discendenti stanziati nelle colonie francesi del Nordafrica, per la cui povera condizione sociale il futuro scrittore, da ragazzo, nutriva una forte vergogna. Il padre, Lucien Auguste Camus, era un fornitore d'uva locale appartenente a una famiglia di coloni francesi originari di Bordeaux (nell'Occitania francese) per parte paterna e dell'Alsazia per parte materna, che morì precocemente nella prima battaglia della Marna nel 1914 («...per servire un paese che non era suo», come ebbe a scrivere Camus una volta adulto nel romanzo Il primo uomo), mentre la madre, Catherine Hélène Sintès, era figlia di genitori spagnoli originari di Minorca (nelle Isole Baleari).
Dopo la morte del padre, assieme alla madre e alla nonna materna, la quale rivestirà un ruolo molto importante nella sua educazione a causa della severità e dell'accentramento dei poteri familiari (la madre non ebbe mai gran parte nella crescita del figlio), si trasferisce ad Algeri dove seguirà tutti i gradi di scuola.
«Fui posto tra la miseria e il sole, ad uguale distanza. La miseria m'impedì di credere che tutto è bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto.»
Spinto dal suo professore di filosofia, e in seguito grande amico, Jean Grenier (al quale rimarrà legato per tutta la vita), vince una borsa di studio presso la facoltà di filosofia della prestigiosa Università di Algeri.
È proprio Grenier a invitarlo alla lettura de Il dolore (La Douleur) di André de Richaud, opera che lo spingerà a intraprendere l'attività di scrittore.
La tubercolosi, che lo colpisce giovanissimo, gli impedisce di frequentare i corsi e di continuare a giocare a calcio, sport nel quale eccelleva come portiere, oltre a ostacolare l'altra sua passione, quella di attore teatrale. All'epoca (1930) la malattia è considerata inguaribile (la penicillina era stata scoperta nel 1928 e non era ancora in uso, mentre gli antibiotici specifici per questa patologia sono degli anni quaranta) e questo influisce sulla sua visione del mondo come "assurdità".
Finisce così gli studi da privatista e si laurea in filosofia nel 1936 con una tesi su Plotino e Sant'Agostino.
Nel 1933 aderisce al movimento antifascista Amsterdam-Pleyel e nel 1935 aderisce al Partito Comunista Francese, più in risposta alla Guerra civile spagnola che per un reale interesse alle teorie di Karl Marx; questo atteggiamento distaccato nei confronti delle idee socialcomuniste lo portò spesso al centro di discussioni con i colleghi e lo rese oggetto di critiche fino al punto di distaccarsi completamente nel 1937 dalle azioni del partito, considerate di parte e quindi non adatte a un discorso di unità delle masse. Venne quindi espulso con l'accusa di trotskismo (termine col quale venivano bollate molto sbrigativamente tutte le opposizioni interne "di sinistra" nei partiti comunisti dell'epoca), essendo in realtà già allora piuttosto votato a una sua forma moderata d'anarchismo.
Il primo legame di Camus con Simone Hie nel 1934 finisce dopo due anni a causa della dipendenza di Simone dagli psicofarmaci. Sei anni dopo avrà una relazione con Francine Fauré, ma dopo tre anni saranno costretti dalla guerra a separarsi fino al 1945; la loro unione durerà fino alla fine della vita di Albert. L'attività professionale lo vede spesso impegnato all'interno di redazioni di testate locali dove è critico letterario e specialista nei resoconti dei grandi processi e nei reportage. Dopo aver lavorato per un breve periodo all'Istituto di meteorologia di Algeri, muove i primi passi da giornalista curando spazi di cronaca e critica letteraria per le riviste Sud e La Revue Algérienne. Viene quindi assunto dal quotidiano algerino Alger-Républicain (ne è redattore capo), orientato a sinistra, e successivamente partecipa alla fondazione della testata pomeridiana Le Soir Républicain (con l'amico Pascal Pia, fondatore e direttore di Alger-Républicain). Affermatosi come cronista giudiziario, finisce sotto osservazione, per mano delle autorità locali, a seguito della pubblicazione di un documentato reportage a puntate dal titolo Misère de la Kabylie, col quale aveva denunciato le disagiate condizioni di vita di una regione algerina rimasta fino ad allora inesplorata dalla stampa d'inchiesta. Il Governatore Generale delle colonie del Nord-Africa lo ostacola e la sua attività nelle colonie finisce con il licenziamento dal giornale, a causa di un articolo contro il governo, che si adopererà poi per non fargli più trovare occupazione come giornalista in Algeria.
Camus si sposta così in Francia dove nel 1940 è segretario di redazione al Paris-Soir grazie all'aiuto di Pascal Pia: sono gli anni dell'occupazione nazista e lo scrittore, prima da osservatore e poi da attivista, cerca di contrastare la presenza tedesca ritenendola atroce e insopportabile. Il rapporto professionale con Paris Soir s'interrompe dopo meno di un anno senza troppi rimpianti da parte dello scrittore. Disoccupato, Camus si stabilisce a Orano con la nuova compagna Francine Faure, dove assume, con l'amico André Benichou, le funzioni di insegnante ai Cours Descartes, uno stabile dove vengono accolti bambini ebrei espulsi dalla scuola pubblica per effetto di disposizioni emanate dal governo coloniale nell'ottobre 1940.
A indurlo a ritornare in Francia, nel 1942, è una ricaduta di tubercolosi, per le cui cure si stabilisce a Le Chambon-sur-Lignon. Lasciata d'urgenza Orano, si vede tuttavia impossibilitato a ritornarvi a causa dell'invasione tedesca. Camus dirige dunque a Parigi dove dall'ottobre 1943 è lettore e membro del comitato editoriale della casa editrice Gallimard, presso cui aveva pubblicato nel 1941 Lo Straniero e Il mito di Sisifo. Negli anni della resistenza si affilia alla cellula partigiana Combat diventando caporedattore ed editorialista dell'omonimo giornale, diretto da Pascal Pia e inizialmente costretto a una circolazione clandestina. Vi coinvolge Sartre, che per un periodo lavorerà al quotidiano come inviato negli Stati Uniti, venendo accolto negli ambienti intellettuali di Saint-Germain-des-Prés e del Café Flore. Sembrava che l'amicizia con Sartre fosse indistruttibile, ma le tematiche dell'Assurdo e della Rivolta, i poli che sono alla base dell'itinerario filosofico di Camus, saranno all'origine della progressiva rottura con Sartre e gli ambienti di sinistra.
Giova notare che negli anni settanta nei "salotti" letterari si discuteva molto di esistenzialismo e della diatriba tra Camus e Sartre; i filosofi e i protagonisti più seguiti erano Heidegger, Schopenhauer, Nietzsche, Jaspers, Kierkegaard, Camus, Kafka, Sartre, Simone de Beauvoir e la musa Juliette Grecò. Io frequentavo, generalmente, la casa di un filosofo, di un editore e di un rinomato scrittore. Le discussioni vedevano la contrapposizione tra liberali e comunisti, in particolare, sull'interpretazione delle rivolte di Poznan, Berlino est e Ungheria.
Nel marzo 1945, Camus partecipa a Parigi, con George Orwell, Emmanuel Mounier, Lewis Mumford e André Philip, al primo Congresso internazionale del Movimento Federalista Europeo, fondato da Altiero Spinelli e Ursula Hirschmann con l'obiettivo di costruire gli Stati Uniti d'Europa.
Jean-Paul Sartre, il caposcuola dell'esistenzialismo francese, ruppe con Camus a seguito delle divergenze sul comunismo
Finita la guerra, il suo impegno civile rimane costante e non si piega di fronte a nessuna ideologia, criticando tutto quello che poteva allontanare l'uomo dalla sua dignità: lascia il posto all'UNESCO a causa dell'entrata nell'ONU della Spagna franchista così come è tra i pochi a criticare apertamente i metodi brutali del governo della Germania dell'est in occasione della repressione di uno sciopero a Berlino Est.
Il 16 maggio 1945 avviene la prima ribellione in Algeria. Camus torna nel suo luogo natale per una cronaca. Conclude così il suo articolo: «Una grande politica, per una nazione povera, può essere soltanto una politica esemplare. Ho una sola cosa da dire a questo proposito: la Francia costruisca realmente la democrazia nei paesi arabi. La democrazia è un'idea nuova in un paese arabo. Per noi varrà più di cento eserciti e di mille pozzi di petrolio». Ad agosto Camus, unico intellettuale occidentale a farlo apertamente (ad eccezione di Albert Einstein) condanna con parole dure i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. In quell'anno può riunirsi nuovamente alla famiglia e a settembre nascono i figli gemelli Jean e Catherine.
In questo periodo cura anche l'edizione postuma delle opere della filosofa anarco-cristiana Simone Weil. La Weil infatti arriva a ricoprire una posizione importantissima per il proprio pensiero e la propria produzione letteraria, al punto tale da definirsi un suo «amico-innamorato postumo» (soleva addirittura custodire una foto della pensatrice sul proprio scrittoio). In occasione del conseguimento del premio Nobel per la letteratura, nel 1957, menzionando gli autori viventi più importanti per lui, aggiunge: «E anche Simone Weil – a volte i morti sono più vicini a noi dei vivi». Camus s'adopera poi a far pubblicare l'opera completa della filosofa nella collana Espoir («Speranza»), da lui fondata presso l'editore Gallimard, considerando il messaggio weiliano come un antidoto al nichilismo contemporaneo.
Pubblica svariati articoli su alcune riviste dell'anarchismo filosofico francese, di cui condivide idee e finalità, pur criticandone il "nichilismo romantico" che l'ha caratterizzato storicamente. Già nel 1937 era stato allontanato dal PCF, ma la frattura definitiva con il Partito si formalizza definitivamente nel 1950 a Berlino al "Congresso per la libertà della cultura", quando i comunisti ruppero definitivamente con lui, a seguito dell'espulsione di Léon Blum, André Gide, François Mauriac e Raymond Aron.
All'inizio del 1946 si reca negli Stati Uniti d'America, dove è accolto con diffidenza e sorvegliato dai servizi segreti (la futura CIA), mentre viene salutato con ammirazione dagli studenti delle università nelle quali si reca a tenere discorsi e lezioni. Termina La peste, che esce nel 1947 e ottiene grande successo nonché il Premio dei critici. Scrive una serie di articoli contro tutte le dittature, raccolti in Né vittime né carnefici, in cui affronta il problema della violenza nel mondo. Quando, nel 1947, scoppia la rivolta antifrancese in Madagascar e ne segue una forte repressione, Camus afferma che «il fatto è chiaro e ripugnante: stiamo facendo tutto ciò che abbiamo rimproverato e rinfacciato ai tedeschi».
Il 3 giugno 1947 comunica ai lettori di Combat, con un editoriale, la decisione di lasciare la guida del giornale per ragioni di bilancio. Con il suo addio, si scioglie il sodalizio con Pascal Pia, che aveva condotto il quotidiano di riferimento della Resistenza francese fuori dalla clandestinità. L’incarico da lui lasciato viene assunto da Claude Bourdet, già membro della Resistenza e del comitato di fondazione, scarcerato dopo la liberazione di Parigi. Camus, comunque, continuerà a scrivere per il giornale, seppur molto più saltuariamente, fino al 1949, intervenendo sulle sue colonne con lettere e risposte a intellettuali noti (su tutti François Mauriac e Gabriel Marcel). L'addio alla direzione del quotidiano di resistenza coincise anche con un ritiro dal giornalismo attivo, che non impedì però a Camus di continuare a manifestare le sue prese di posizione anche al di fuori della letteratura, scrivendo di frequente interventi per la stampa quotidiana o pubblicando i testi delle sue conferenze su numerosi periodici. Fu, in particolare, collaboratore di numerose riviste libertarie europee, tra cui la svizzera Témoins, l’italiana Volontà e la francese Le Libertaire.
Negli anni successivi lo scrittore deve fare i conti con una ricaduta della malattia: la tubercolosi giovanile ritorna a tormentarlo e lo costringe a lungo a letto e ad alcuni ricoveri in case di cura. La malattia regredisce quasi completamente, ma i danni ai polmoni sono ormai permanenti.
Nel 1951 la pubblicazione de L'uomo in rivolta fa nascere una lunga polemica con Sartre e i suoi amici: Camus auspica un nuovo umanesimo fondato sulla solidarietà e critica le degenerazioni del comunismo; Sartre rifiuta questo tipo di approccio, che considera borghese e passivo, ma Camus risponde ribadendo la sua fede nella democrazia e in ultima istanza, nell'anarchismo, pur mantenendo una posizione molto personale.
Pochi amici gli restano accanto, dopo la rottura con la sinistra, «molti si allontanarono da lui. Solo alcuni amici gli rimasero vicini, come Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone», come detto dalla figlia Catherine. Nel maggio 1955 accettò di intraprendere quella che sarebbe stata la sua ultima collaborazione con la stampa: su invito dei fondatori Jean-Jacques Servan-Schreiber e Françoise Giroud, divenne infatti editorialista per il settimanale L'Express, sulle cui pagine avrebbe pubblicato articoli fino all'agosto 1956.
Nel 1957 Camus ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per la sua importante produzione letteraria, che con perspicace zelo getta luce sui problemi della coscienza umana nel nostro tempo”.
Tra il 1959 e l'inizio del 1960 le condizioni di salute del quarantaseienne Camus sono ormai molto precarie (ormai da tempo entrambi i polmoni sono intaccati dalla tubercolosi, oltre che dal fumo). Compie un viaggio in Grecia, ma a motivo della salute malferma deve rifiutare la direzione della Comédie Française, offertagli da André Malraux, scrittore e Ministro della Cultura francese. Camus chiede però di poter dirigere un teatro sperimentale.
Il 4 gennaio di quell'anno, proprio nei giorni in cui discuteva i termini di questo accordo, Albert Camus morì in un incidente d'auto a bordo di una Facel Vega FV3B, nel quale perse la vita anche il suo editore Michel Gallimard che era alla guida dell'auto: presso Villeblevin, vicino a Sens (Yonne) e sulla strada per Parigi, il conducente perde il controllo dell'automobile che guidava forse a circa 140 km/h in pieno rettilineo, prima di schiantarsi contro un platano. Gallimard muore sul colpo, Camus viene estratto dall'auto ormai incosciente e con gravissime ferite, e poco dopo viene dichiarato morto. La figlia e la moglie di Gallimard, sedute dietro, si salvano e riferiscono di un forte rumore prima dello sbandamento, come un cedimento strutturale sotto la macchina.
Sulla morte di Camus alcuni hanno espresso seri dubbi su un possibile attentato del KGB, per le sue ripetute denunce sull'invasione sovietica dell'Ungheria e per un discorso in favore del Nobel allo scrittore dissidente Boris Pasternak; nonostante l'incidente venga imputato anche alla sola velocità elevata del veicolo e al blocco di una ruota o al cedimento di un asse , in alcuni documenti (tra cui appunti del diario del poeta e traduttore ceco Jan Zábrana, che riporta le rivelazioni di un suo amico e confidente russo) emergerebbe il sospetto che la vettura sia stata manomessa - tramite uno strumento per danneggiare gli pneumatici, danno che con l'alta velocità ne causò l'esplosione o la rottura - dagli agenti segreti di Mosca per ordine del Ministro degli Esteri sovietico Šepilov, pubblicamente attaccato da Camus in un articolo del 1957. In una scatola tra i rottami venne trovato un manoscritto di 154 pagine, dalla cui rielaborazione filologica la figlia Catherine ricostruisce il romanzo postumo e incompiuto Il primo uomo. “per la sua importante produzione letteraria, che con perspicace zelo getta luce sui problemi della coscienza umana nel nostro tempo”
Nelle sue tasche fu trovato inoltre un biglietto ferroviario non utilizzato, segno che probabilmente aveva pensato di usare il treno, cambiando idea all'ultimo momento. In passato aveva più volte sostenuto che il modo più assurdo di morire sarebbe stato proprio in un incidente automobilistico.
Il corpo di Camus venne cremato e la sua tomba è nel cimitero di Lourmarin, in Provenza, dove aveva da poco acquistato un'abitazione. Nel 2010, il presidente francese Nicolas Sarkozy, in occasione dei 50 anni dalla sua morte, propose di traslare le ceneri di Camus al Pantheon, il luogo dove riposano molti personaggi illustri della storia di Francia. La famiglia però rifiutò: la figlia Catherine, incerta, confermò infine il suo rifiuto affermando che suo padre era "claustrofobico"; il figlio Jean affermò di considerare la cosa un controsenso, poiché prima, a suo parere, il presidente avrebbe dovuto proclamare una "riabilitazione morale" del padre, oggi considerato un simbolo dell'umanesimo moderno francese (venendo apprezzato da sinistra e destra), ma alla sua epoca criticato dalla maggioranza dei politici e intellettuali suoi connazionali. Affermò anche di temere una sorta di "appropriazione ideologica" della figura di Camus da parte della destra di Sarkozy.
L'opera filosofica e il pensiero
«La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo.»
(Albert Camus) Camus si focalizza quindi sull'analisi dell'assurdo dell'uomo come condizione alienante e reale, non come necessità o unica via, ma da allontanare il più possibile dalla vita umana.
Egli opera una diagnosi di tale problema esistenziale per risolvere il quale serve una cura che solo la solidarietà umana è in grado di produrre. L'uomo scopre la sua inconsistenza e la sua assurdità intuendo che solo attraverso la presa di coscienza di questo stato di cose si aprono nuovi orizzonti, il difficile è entrarci.
Il suo interesse filosofico nasce, dopo la tesi giovanile su Plotino e Agostino d'Ippona, dalla lettura di Sartre (L'essere e il nulla), con cui condivise per un periodo l'orizzonte politico, e del primo Heidegger (Essere e tempo), ma egli rovescia subito gli assunti di entrambi; Camus non parla dell'Essere, ma principalmente dell'Assurdo. Oltre a questi, a Nietzsche, Proudhon e Stirner, per il pensiero di Camus furono fondamentali la lettura di Herman Melville e del suo capolavoro Moby Dick, e gli scritti dell'anarco-cristiana Simone Weil, vicina anche a forme di gnosticismo moderno che influenzarono moderatamente lo stesso Camus.
L'assurdo è penoso e la presa di coscienza di esso frustra e macera, ma è uno stimolo intellettuale importante ed è nel Mito di Sisifo che viene posto in maniera chiara il problema; ma la soluzione nella solidarietà umana appare solo nel 1943-'44 e ancora nel romanzo La peste, pubblicato nel 1947. La peste rappresenta perciò un superamento del senso tragico e assurdo dell'esistenza umana, oltre al nichilismo di derivazione nietzscheana. Di questo vi erano già i primi segni positivi nelle Osservazioni sulla rivolta, scritte nel 1945, e Lettre à un ami allemand.
Il tema della solidarietà umana è uno sbocco che è convincente solo in parte e che per alcuni versi pare addirittura forzoso e non privo di derive moralistiche. Ben diverso l'atteggiamento che sta alla base del grande e profondo tormento esistenziale molto esplicito sino all'inizio degli anni quaranta. Un tormento che si esprime nell'ateismo esistenziale espresso nelle prime parole con cui si apre il saggio Il mito di Sisifo, pubblicato nel 1942 da Gallimard, dove egli scrive:
«Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia»
(Il mito di Sisifo)
Nel 1952, con L'uomo in rivolta, Camus affronta il tema della violenza, sia essa metafisica, libertaria o terroristica. L'opera è anche un'analisi socio-psicologica profonda delle motivazioni che portano alla rivolta violenta e all'omicidio.
Ne L'uomo in rivolta Camus prosegue anche e realizza la sua polemica con la rivista Les Temps Modernes diretta da Jean-Paul Sartre. È la fine di un sodalizio che aveva visto sintonia e numerose collaborazioni sin dal secondo dopoguerra.
Alla rivolta "metafisica" e a quella "storica", Camus oppone la rivolta dell'"arte". La creatività alla base di questa rivolta deve tuttavia evitare gli estremi del realismo e del formalismo, conseguendo insieme realtà e forma. I valori della cultura mediterranea sono alla base di questa rivolta perché tale pensare è "misurato" e quindi ha come obiettivo il relativo offrendo solo una giustizia "relativa" che evita gli estremi.
Camus tuttavia evita di solito di definirsi ateo, per non confondersi con il materialismo storico degli atei militanti che ha rifiutato.
Per Camus, la strada maestra dell'uomo che pensa è quella di combattere contro l'assurdo e la mancanza di senso dell'esistere. Un assurdo che non è nella natura dell'uomo in quanto tale, ma nei "modi" con cui l'uomo struttura negativamente il proprio esistere e il proprio convivere. Far fronte alla "peste" (che nella sua opera simboleggia anche la dittatura) è possibile nella solidarietà e nella collaborazione. Gli uomini, se uniti da ideali positivi perseguiti con determinazione e forza, devono sempre rimanere vigili in attesa che «...la peste torni a inviare i suoi ratti». Ma tutto questo deve fare i conti con lo stato personale di attività e con i propri limiti: l'artista (così come l'uomo comune) è sempre in bilico fra solidarietà e solitudine (solidaire ou solitaire), e spesso si trova di fronte a situazioni che avrebbe potuto evitare se avesse approfittato di un'occasione passata.
La filosofia dell'assurdo emerge più che altro nel Mito di Sisifo, in cui Camus, negando qualsivoglia valore a un significato trascendente alla vita e al mondo, riconosce come assurda l'esistenza: senza un significato, l'esistenza è irrazionale ed estranea a noi stessi. La ricerca di un profondo e autentico legame fra gli esseri umani è reso impossibile dall'assurdo che incombe sull'esistenza umana. La ricerca del legame inter-umano che continuamente sfugge è simile allo sforzo immane che Sisifo compie per tornare sempre allo stesso punto. Il legame umano pare infine essere non altro che il rendersi consapevoli dell'assurdo e del cercare di superarlo nella solidarietà. L'assurdo di certe manifestazioni volte a recidere il legame stesso, come ad esempio la guerra e le divisioni di pensiero in generale, incombe sugli uomini come una divinità malefica, che ne fa allo stesso tempo degli schiavi e dei ribelli, delle vittime e dei carnefici. Resta dunque il suicidio, ma quello "fisico" non risolve il problema del senso; mentre quello spirituale (Kierkegaard con la "speranza" in Dio, e Husserl con la ragione portata oltre i limiti della propria finitudine) svia dal vero problema. La soluzione per Camus è la "sopportazione" della propria presenza nel mondo, "sopportazione" che consente la libertà; e la "protesta/ribellione" nei confronti dell'assurdità dell'esistenza, quindi contro il "destino", consegna alla vita il suo valore effettivo. Camus non cerca quindi più Dio o l'Assoluto, il suo obiettivo diviene "l'intensità della vita". Per Camus Sisifo è quindi felice perché nella sua condanna diviene consapevole dei propri limiti e quindi assume su di sé il proprio destino.
La filosofia dell'assurdo è un concetto filosofico che si riferisce al conflitto che avviene fra la tendenza dell'uomo di cercare valori e significati intrinseci nella vita, e la sua incapacità di trovarli. L'universo e la mente umana non causano ciascuno separatamente l'Assurdo; piuttosto, esso nasce dalla natura contraddittoria dei due esistenti simultaneamente. Camus sosteneva che gli individui dovrebbero abbracciare la condizione assurda dell'esistenza umana.
Camus a Stoccolma per ricevere il Premio Nobel
È quindi una presa di coscienza del sentimento dell'assurdo, attraverso alcune figure chiave della filosofia (anche se l'autore ci tiene a dire subito che non si considera un filosofo) e della letteratura. Il libro cita Šestov, Jaspers, Heidegger e Kierkegaard (nomi in fondo non molto conosciuti all'epoca in Francia), e guarda a certi personaggi simbolo come l'attore, Don Giovanni, il conquistatore, Aleksej Nilic Kirillov (un personaggio nichilista del romanzo I demoni di Dostoevskij) e Kafka (soprattutto per Il castello e Il processo): "tipi estremi", come dice lui stesso che gli danno modo di affrontare il tema centrale che è appunto l'assurdità della condizione umana.
Egli, sempre nel saggio su Sisifo, considera i grandi romanzi (nominando Balzac, Sade, Melville, Stendhal, Proust, Malraux) e il grande teatro (nominando Shakespeare e Molière) come opere di filosofia e cerca di dimostrare che l'unico problema veramente serio sia il suicidio, atto di confronto tra "richiamo umano" e "irragionevole silenzio del mondo", quindi quello della libertà (la temibile innocenza del "tutto è possibile") e della scelta. La parte dedicata al mito di Sisifo, condannato a spingere un pesante masso per l'eternità, offre un'ulteriore riflessione, quella della felicità, poiché come Camus disse in Nozze "non c'è amore del vivere senza disperazione di vivere". Egli termina il saggio con un messaggio di speranza relativa:
«Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.»
(Il mito di Sisifo)
La "trilogia dell'assurdo", dopo il saggio sul Mito di Sisifo e il romanzo Lo straniero è completata dal dramma teatrale Caligola in cui l'"imperatore folle" viene visto come un poeta-artista quasi esistenzialista, che tuttavia raffigura anche la burocrazia e il pericolo della tirannide, e contro cui si schiera il pretoriano Cassio Cherea, raffigurante il filosofo materialista che si batte per la libertà, e lo schiavo liberato Elicone:
«Attraverso Caligola, per la prima volta nella storia, la poesia provoca l'azione e il sogno la realizza. Lui fa ciò che sogna di fare. Lui trasforma la sua filosofia in cadaveri. Voi dite che è un anarchico. Lui crede di essere un artista. Ma in fondo non c'è differenza. Io sono con voi, con la società. Non perché mi piaccia. Ma perché non sono io ad avere il potere, quindi le vostre ipocrisie e le vostre viltà mi danno maggiore protezione - maggiore sicurezza - delle leggi migliori. Uccidere Caligola è darmi sicurezza. Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercé del caso e dell'assurdo, cioè della poesia.»
(Cherea in Caligola)
«Ma non sono pazzo e posso dire perfino di non essere mai stato così ragionevole come ora. Semplicemente mi sono sentito all'improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti. [...] È vero, ma non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo così com'è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell'immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo.»
(Caligola nell'omonima opera)
Lo straniero raffigura invece un uomo alla deriva nell'assurdo, privo di motivazioni per vivere, incapace di giustificare i propri gesti ed emozioni, tanto che arriva a compiere un delitto senza un forte movente, e solo nella sua morte per ghigliottina trova un minimo senso, rappresentando una follia lucida derivante dallo sradicamento dell'uomo, a cui viene a mancare ogni ragione sufficiente a fornire la causa prima di ogni gesto.
Il rifiuto del pessimismo «Non ho disprezzo per la specie umana. (...) Al centro della mia opera vi è un sole invincibile: non mi sembra che ciò formi un pensiero triste.»
(Albert Camus, 1951[ Camus rifiutava gli appellativi di "pessimista" e nichilista attribuitigli da alcuni suoi contemporanei, affermando di non essere né misantropo né nichilista né rinunciatario, e ponendo la sua rivolta ideale come esempio.Non è per nulla che così egli chiuda Il mito di Sisifo in maniera positiva. Se Sisifo, una volta negato Dio, vede un mondo in ogni parte di esso e può sentirsi felice per il solo fatto di lottare contro il Dio-padrone, il nichilismo è già vinto anche se la sofferenza e l'ingiustizia continueranno a imperversare.
Infatti ciò è inevitabile, e nell'Uomo in rivolta si legge:
«Oggi nessuna saggezza può pretendere di dare di più. La rivolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L'uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo»
(L'uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1951)
Dopo L'uomo in rivolta Camus scrisse i racconti L'Esilio e Il regno di cui doveva far parte anche il saggio breve La caduta. La sua tematica di fondo non cambia, ma si nota un momento di pessimismo accentuato in La caduta, divenuto un romanzo-saggio, cui fa seguito un progressivo riemergere dell'altruismo nei racconti, sistemati proprio per far notare l'uscita dall'egoismo per ritrovare la solidarietà.
Per un uomo che «non sa che farsene di Dio», perché ha solo sé stesso su cui contare per dare senso all'esistere, Camus rifiuta la rinuncia della lotta umana conto il non-senso. Bisogna ribellarsi al non-senso in nome della solarità e della "misura", le caratteristiche migliori dei popoli mediterranei pre-cristiani:
«La rivolta è essa stessa misura: essa la ordina, la difende e la ricrea attraverso la storia e i suoi disordini. L'origine di questo valore ci garantisce che esso non può non essere intimamente lacerato. La misura, nata dalla rivolta, non può non può viversi se non mediante la rivolta. È costante conflitto, perpetualmente suscitato e signoreggiato dall'intelligenza. Non trionfa dell'impossibile né dell'abisso. Si adegua ad essi. Qualunque cosa facciamo la dismisura serberà sempre il suo posto entro il cuore dell'uomo, nel luogo della solitudine. Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni. Ma il nostro compito non è quello di scatenarli attraverso il mondo; sta nel combatterli in noi e negli altri.»
Le posizioni politiche di Camus divennero col tempo fortemente critiche - contro il comunismo marxista che aveva sostenuto ed egli divenne così anarchico - oltre che con il capitalismo occidentale e, precedentemente, il fascismo (posizioni scomode per ogni schieramento politico di allora), e del suo nuovo ideale dell'anarco-individualismo di impronta stirneriana e proudhoniana, anche se di Stirner (e di Nietzsche), riprende solo alcuni concetti rifiutandone una buona parte, e gli valsero l'isolamento intellettuale: in particolare, a causa del suo giudizio negativo sul blocco sovietico, si consumò la definitiva rottura ideologica con Sartre (sancita poco dopo l'inizio della guerra d'Algeria, nel 1954), il quale riteneva che, nonostante i crimini stalinisti (riconosciuti comunque come gravi errori dopo la denuncia di Nikita Chrušcëv, al punto che Sartre si avvicinerà al maoismo, al castrismo, e tardivamente all'anarco-comunismo), non bisognasse comunque negare il sostegno al marxismo-leninismo. Notevoli di menzione anche le sue posizioni sulla guerra d'Algeria (staccate sia dal terzomondismo dei comunisti sia dal nazionalismo francese della destra), e la demolizione che egli fa della dottrina leninista.
Entrambe, ma soprattutto la prima, saranno la causa dell'allontanamento dal gruppo esistenzialista. Anche la compagna di Sartre, la femminista Simone de Beauvoir, lo attaccherà nei suoi scritti, accusando l'atteggiamento umanista e filo-occidentale che Camus dimostra in molte occasioni, specialmente nella sua richiesta di non coinvolgere i civili in Algeria e di raggiungere un accordo tra algerini e francesi, una sorta di compromesso federalista che permetta agli ex coloni di rimanere illesi nelle loro case, e allo stesso tempo garantisca la libertà del paese; egli teme particolarmente un'Algeria che si leghi al mondo islamico, di cui percepisce la velleità anti-moderna e anti-libertaria:
«Un'Algeria costituita da insediamenti federati e legati alla Francia mi sembra preferibile, senza confronto possibile rispetto alla semplice giustizia, ad un'Algeria legata a un impero islamico che per i popoli arabi non farebbe che sommare miserie alle miserie, sofferenze alle sofferenze, e che strapperebbe i francesi d'Algeria dalla loro patria naturale. Se l'Algeria che io spero conserva ancora una possibilità di realizzarsi, desidero aiutarla con tutte le mie forze. Ritengo invece di non dover sostenere nemmeno per un istante e in alcun modo la costituzione dell'altra Algeria. Se invece si formasse [...] questa sarebbe per me un'immensa disgrazia, e ne dovrei trarre tutte le conseguenze, io come milioni di francesi. Ecco, molto sinceramente, come la penso. [...] Nel caso in cui svanissero le ragionevoli speranze che è ancora possibile coltivare, davanti ai gravi fatti che in questo caso ne seguirebbero [...] ognuno di noi dovrà testimoniare quello che ha fatto e quello che ha detto. La mia testimonianza è questa e a essa non ho niente da aggiungere.»
(Albert Camus, La rivolta libertaria)
Camus, infatti, mostra anche un forte attaccamento, quasi patriottico, verso l'Algeria: «È un fatto ben noto che riconosciamo la nostra madre patria quando siamo sul punto di perderla.»
(da Estate ad Algeri, 1939). Nel 1953 sostiene anche la rivolta degli studenti e degli operai contro la burocrazia del Partito Socialista Unificato di Germania, il partito unico di Berlino est, mentre è del 1956 l'immediata e forte presa di posizione antisovietica di Camus, in occasione dell'invasione dell'Ungheria e della rivolta di Poznan.
Ne L'uomo in rivolta Camus attacca invece il marxismo, precisamente il marxismo-leninismo, dichiarandolo "mistificazione del socialismo", termine già usato in Né vittime né carnefici.
L'analisi di Camus parte da Marx, passando per Lenin ed arrivando a Stalin. Non vuole dimostrare che Marx conduca allo stalinismo, ma come Lenin e Stalin abbiano distorto il pensiero di Marx piegandolo a scopi disumani, portando l'URSS al terrore e al totalitarismo: non hanno liberato l'uomo, ma «lo hanno imprigionato all'interno di una necessità storica».
L'utopia marxista è stata superata da una lotta di potere nichilista, da dominatrice della storia ne è diventato un fatto. La rivoluzione russa del 1917 secondo Camus fu "l'alba della libertà reale", la più grande speranza della storia umana, ma è stata subito tradita, dotandosi di una polizia politica e diventando un'efficiente dittatura moderna. Però, più che a La rivoluzione tradita di Lev Trockij, egli si ricollega agli scritti di Volin sul "fascismo rosso".
Lenin «ha cancellato la morale dalla rivoluzione», ritenendo che essa avrebbe fallito se ancorata ai principi etici. Per Marx la dittatura del proletariato era provvisoria ed egli «non immaginava così terrificante apoteosi».
Jean-Paul Sartre, il caposcuola dell'esistenzialismo francese, ruppe con Camus a seguito delle divergenze sul comunismo e sulla questione algerina.
Lenin costruisce quindi «l'imperialismo della giustizia», poiché la giustizia sociale si realizzerà solo nel momento in cui il capitalismo sarà distrutto in tutto il mondo. Fino ad allora l'oppressione, il delitto e la mistificazione saranno legittimati e giustificati in nome di un fine astratto. La vera dittatura del proletariato, quella provvisoria, che deve rispettare, dice Camus riprendendo Rosa Luxemburg, le libertà democratiche che permettono la reale partecipazione del popolo, ha dato vita alla dittatura «feroce e durevole» dei capi, una tirannia che Stalin ha consolidato creando "l'Impero non degli uomini, bensì delle cose". All'interno di esso non vi è più spazio per «l'amicizia nel presente, ma solo per l'uomo che verrà, l'uomo nuovo di cui si aspetta l'avvento». Nel "regno delle persone" gli uomini si legano grazie all'affetto, ma nel regno delle cose gli uomini si uniscono tramite la delazione, ponendo fine alla fraternità, e "chi combatte il regime è un traditore, chi non lo sostiene con zelo è sospetto".
Camus riprende anche la metafora della peste e negli scritti de La rivolta libertaria Camus parla così dell'indifferenza o dell'appoggio al franchismo e di chi, come Sartre, giustificava storicamente il comunismo dell'est:
«Non giustificherò questa peste orrenda nell'Europa dell'Ovest solo perché a Est essa compie devastazioni su territori più vasti. [...] Il mondo in cui vivo mi ripugna, ma mi sento solidale con le persone che vi soffrono. Esistono ambizioni che non sono le mie e mi sentirei a disagio se dovessi percorrere la mia strada basandomi sui meschini privilegi che si riservano a chi si adatta all'esistente. Ma mi sembra che un'altra dovrebbe essere l'ambizione di tutti gli scrittori: testimoniare ed elevare un grido, ogni volta che sia possibile, nei limiti del nostro talento, a favore di coloro che, come noi, sono asserviti.»
«Si è esclusa da sola dal movimento operaio e dal suo onore quella gente che, di fronte allo spettacolo di lavoratori che procedono spalla a spalla davanti ai carri armati per esigere pane e libertà, reagiscono trattando questi martiri da fascisti o dolendosi virtuosamente del fatto che essi non hanno avuto la pazienza di morire di fame in silenzio in attesa che il regime decida, come si dice, di liberalizzarsi.(...) Come può il sangue operaio portare la felicità?»
(Camus sulla rivolta di Poznan)
Come detto, a tutte queste affermazioni seguirà la rottura totale con la sinistra francese e l'ostracismo dell'ambiente esistenzialista sartriano, i cui rappresentanti rifiutavano di condannare in toto, come fatto da Camus, l'esperienza del marxismo-leninismo, pur riconoscendone alcuni errori. Nell'ultimo periodo della sua vita, Camus si riconoscerà nella politica di Pierre Mendès France, in cui troverà un punto di riferimento per le sue posizioni europeiste, per certi versi più vicine a istanze liberaldemocratiche e umanitarie, per altri più marcatamente socialiste, benché non condizionate da afflati marxisti.
Romanzi
Lo straniero (L'Étranger, 1942)
La peste (La Peste, 1947)
La caduta (La Chute, 1956)
La morte felice (La Mort heureuse, 1971, pubblicato postumo; scritto tra il 1936 e 1938)
Il primo uomo (Le Premier Homme, incompiuto e pubblicato postumo)
Lo straniero
L'opera, divisa in due parti, racconta della vita di Meursault, un uomo francese che vive ad Algeri, allora appartenente alla Francia: le vicende sono raccontate in prima persona, in un lungo flashback, dal protagonista.
Parte I
«Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so.»
(Albert Camus, Lo straniero)
La vicenda si apre con la morte della madre del protagonista, ospite di una casa di cura fuori città. Il carattere di Meursault viene subito messo in evidenza: sembra non provare alcun tipo di emozione per la madre, rifiuta di vederne le spoglie quando gli viene chiesto dal direttore della casa di riposo, e preferisce bere caffè e fumare vicino alla bara, destando non poca perplessità nelle persone che lo osservano. Il giorno dopo il funerale, Meursault inizia una relazione con una donna di nome Maria, sua ex collega di ufficio, incontrata in spiaggia: dopo un bagno, i due vanno al cinema a guardare un film comico di Fernandel. Per quanto Maria sia veramente innamorata di lui e desideri sposarlo, il protagonista prova per lei solo desiderio fisico privo di sentimenti: alla proposta di matrimonio avanzata da Maria, Meursault si dimostra ancora una volta indifferente, dicendo che per lui va bene sposarsi ma non gli farebbe alcuna differenza non farlo affatto. Meursault si ritrova, per una serie di circostanze e senza una volontà precisa, a commettere un omicidio su una spiaggia, colpendo un arabo e uccidendolo per poi sparare, dopo qualche secondo di attesa, altre quattro volte sul suo corpo inerte. La pistola gli era stata data da un suo amico, Raymond Synthès, il quale pur dichiarandosi un magazziniere è in realtà un lenone e sfruttatore di donne che aveva schiaffeggiato e picchiato la sorella della vittima, provocando in questi un desiderio di vendetta; lo stesso Meursault su suggerimento dell'amico aveva scritto nei giorni addietro una lettera alla donna per convincerla a tornare da Raymond.
Parte II
Meursault viene messo in prigione per il suo crimine e durante il lungo processo viene discusso, più che l'assassinio, il fatto che l'imputato sembri non provare alcun tipo di rimorso per quello che ha fatto, tanto da risultare un processo morale più che giuridico e di diritto: il pubblico ministero nella sua arringa finale afferma che Meursault va punito in quanto il reato da lui commesso non è di certo meno grave del parricidio perpetrato da un uomo per il quale si tiene un processo quello stesso giorno; non è tanto l'aver ucciso un uomo che desta stupore, ma tutte le stravaganti iniziative e mosse dell'imputato: ad esempio il fatto che il giorno successivo alla morte della madre sia andato a vedere un film comico al cinema con una donna conosciuta poche ore prima, come se nulla fosse accaduto. Malgrado i tentativi dell'avvocato difensore, assegnatogli d'ufficio, e vista anche la poca collaborazione dell'imputato che, forse anche un po' per inettitudine, non difende nemmeno sé stesso, alla fine il protagonista viene condannato a morte. Egli non tenta nemmeno di trovare il perdono attraverso Dio, che considera una "perdita di tempo", rifiutando il conforto di un prete: nel tentativo di rigettare la proposta del cappellano di conversione alla fede cristiana dal suo stato di ateismo, o meglio di apatia, Meursault ha un accesso di rabbia e, venendo alle mani col prete, sfoga su di lui tutte le sue frustrazioni mostrandogli quanto può essere assurda la condizione umana; esprime così nelle sue parole tutta la sua angoscia personale, senza tregua, per l'insensatezza della sua libertà, della sua esistenza e delle sue responsabilità. Nessuno, secondo lui, ha il diritto di giudicarlo per le sue azioni o per quello che è, e nessuno, quindi, può arrogarsi il diritto di giudicare un altro uomo. Il racconto si chiude con Meursault che realizza quanto l'universo stesso sembri indifferente rispetto all'umanità; ed è proprio in una delle notti precedenti all'esecuzione capitale, una delle tante nelle quali prova a non dormire per evitare che qualcuno lo svegli per portarlo al patibolo, che il giovane sembra trovare finalmente un momento di felicità nella sua indifferenza verso il mondo e nella mancanza di significato e senso che egli riscontra in tutto ciò che lo circonda.
La peste
Trama
La storia è ambientata ad Orano, nell'allora Algeria francese in un imprecisato momento degli anni quaranta («un giorno d'aprile 194...», recita l'incipit). Orano è descritta come una città mercantile senza alberi, senza giardini, senza piccioni, in cui l'arrivo della primavera si avverte solo perché al mercato si vendono i fiori arrivati da fuori. Tutti i cittadini si dedicano al lavoro e agli affari molto intensamente. Lasciati gli uffici si va al caffè, si passeggia lungo i viali o si sta affacciati sui balconi. In questa città è difficile essere malati o moribondi, perché non si possono avere le attenzioni né la tenerezza che si devono a un malato. Protagonista è Bernard Rieux, medico francese residente a Orano, e il romanzo è condotto come cronaca scritta in terza persona dallo stesso Rieux.
La storia ha inizio con Rieux che accompagna la moglie, gravemente malata, alla stazione di Orano, dove prenderà un treno per raggiungere una non meglio precisata località per curarsi. Poco dopo la partenza della donna, scoppia un'improvvisa moria di ratti. Gli animali vengono trovati morti a migliaia a ogni angolo della città, ma nessuno vi presta più di un ragionevole stupore. È, in realtà, la prima avvisaglia del terribile flagello che sta per abbattersi su Orano.
Dopo la sospetta morte di Michel, anziano portiere del condominio ove risiede Rieux, in città si diffondono casi analoghi: i malati presentano febbre alta, noduli e rigonfiamenti all'inguine e alle ascelle, macchie scure sul corpo e muoiono dopo una delirante, ma breve agonia. Rieux e l'anziano collega Castel riconoscono i sintomi della peste bubbonica. Inizialmente, nessuno vuol prendere in considerazione i sospetti dei due medici, neppure le autorità che temono crisi di panico presso la popolazione. Quando però l'epidemia esplode in tutta la sua violenza devastatrice, da Parigi viene ordinato di chiudere la città con un cordone sanitario, al fine di impedire il propagarsi del contagio.
Gli abitanti di Orano reagiscono ognuno a modo suo. Alcuni non rinunciano ai piaceri della vita di ogni giorno: i bar e i ristoranti restano aperti, mentre a teatro viene riproposta di continuo la rappresentazione di un gruppo di attori rimasti bloccati dal cordone sanitario. Altri, invece, si barricano in casa temendo il contagio. Nonostante il pensiero per la moglie malata, Rieux non si tira indietro dal prestare le cure agli appestati. Viene aiutato da Jean Tarrou, quest'ultimo vero e proprio co-protagonista del romanzo.
Tarrou è figlio di un pubblico ministero francese, destinato, secondo le intenzioni del padre, a intraprendere anch'egli la professione forense. Un giorno, tuttavia, il padre lo aveva invitato ad assistere a una sua arringa in un processo penale, nel quale era riuscito a ottenere la condanna a morte dell'imputato. Il giovane Jean, colpito dalla freddezza con cui il padre aveva chiesto e ottenuto l'esecuzione di un uomo, ne era rimasto inorridito e aveva deciso di lasciare la Francia e di girare per il mondo. Con sé porta sempre dei taccuini, che redige meticolosamente e sui quali, a Orano, descrive l'evolversi dell'epidemia. Tarrou istituisce, altresì, un corpo di volontari per il trasporto degli appestati e dei morti.
Dietro ai due protagonisti si snodano le storie di altri personaggi: Joseph Grand, impiegato comunale impegnato nella stesura di un'opera letteraria sulla cui prima frase non riesce a convincersi; Cottard, un commerciante che, dopo aver tentato il suicidio, si arricchisce lucrando sulla carenza di generi di prima necessità; il padre gesuita Paneloux, che nelle sue prediche parla della peste come una punizione mandata da Dio a causa delle colpe degli uomini.
C'è, infine, Raymond Rambert, un giovane giornalista francese che cerca disperatamente da Rieux un aiuto per tornare in Francia e ricongiungersi alla donna che ama. L'occasione per fuggire, alfine, gli si presenta, ma Tarrou lo ammonisce, facendogli notare come Rieux, nonostante la moglie sia lontana e, per giunta, gravemente malata, presti instancabilmente le sue cure agli ammalati. Colpito dalle parole di Tarrou, Rambert decide di restare e si unisce al corpo dei volontari. L'epidemia intanto dilaga. All'arrivo dell'estate, la peste degenera dalla forma bubbonica a quella polmonare, molto più grave e altamente contagiosa. Nelle scuole, attrezzate provvisoriamente a ospedali, gli appestati aumentano in numero esponenziale.
E cresce sempre di più anche il numero dei morti: centinaia di persone periscono ogni giorno e le autorità cittadine devono cercare nuovi siti ove scavare fosse comuni. In autunno, si accende una speranza: il dottor Castel sviluppa un antidoto che potrebbe contrastare il morbo e guarire gli ammalati. Rieux lo sperimenta sul figlioletto del giudice Othon, colpito dalla peste in maniera assai grave: la cura, tuttavia, non ha effetto e il bambino, al cui capezzale si stringono Rieux, Tarrou e padre Paneloux, che invoca l'aiuto divino per salvarlo, muore dopo atroci sofferenze.
La città sembra ormai rassegnata al disastro. Gli abitanti si chiudono nelle case, mentre anche padre Paneloux muore. Gli stessi Rieux e Tarrou sembrano aver perso le speranze: tra i due nasce una profonda amicizia e decidono per un attimo di staccarsi dalla realtà, concedendosi, una notte, un bagno in mare. Si giunge a Natale e anche Grand viene contagiato: quando l'impiegato sembra ormai prossimo alla fine, Rieux tenta il tutto per tutto, somministrandogli un nuovo siero. La nuova cura funziona: Grand guarisce e, nel frattempo, la peste incomincia a perdere virulenza. Ricompaiono alcuni ratti, mentre il numero degli appestati e dei morti diminuisce sempre di più.
Nella sua ultima fase, però, l'epidemia uccide Othon e, soprattutto, Tarrou. Quest'ultimo, convinto che ormai l'epidemia fosse alla fine, aveva omesso le quotidiane abluzioni nelle sostanze disinfettanti, venendo così contagiato: Rieux, nel frattempo raggiunto dalla notizia della morte della moglie, tenta disperatamente di salvare l'amico somministrandogli il siero, ma ogni sforzo risulta vano. A breve, comunque, l'epidemia giunge al suo epilogo. A febbraio, finalmente, il cordone è levato e la città esplode in festa.
èCottard, che, deluso dalla fine della situazione a lui vantaggiosa, cade vittima di un raptus di follia e, da una finestra della propria abitazione, dà luogo a una sparatoria sulla folla, prima di essere arrestato dalla gendarmeria. Ma anche Rieux è cauto. Mentre esamina i taccuini lasciatigli da Tarrou, sulla base dei quali stenderà il racconto, ammonisce le autorità sulla necessità di una prevenzione contro un eventuale futuro ritorno della peste, i cui bacilli possono restare inerti per anni prima di colpire ancora.
COMMENTO
Il romanzo descrive oggettivamente e quindi fa cronaca vera, per il tramite del dottor Rieux, che, con disillusione dovuta ad una sorta di deformazione professionale, combatte con tenacia contro la peste che ha colpito Orano, una cittadina in cui “ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudini” fino al giorno in cui le strade e le case vengono invase dai topi che portano la malattia. L’io narrante cede il passo a un racconto in terza persona, tanto che solo alla fine si scoprirà che la voce narrante è il protagonista del racconto. Provate a leggere o rileggere il romanzo, vi troverete calati in un mondo similare a quello che stiamo vivendo per via della Pamdemia Covid 19. “Dal momento che il flagello non è a misura d’uomo – scrive Camus – pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare”. Nel romanzo di Camus si legge che anche ad Orano le autorità si trovarono completamente impreparate a fronteggiare quell’onda lunga che stava per travolgere la città, tanto da assumere con ritardo ogni iniziativa di contenimento, un po’ come avvenne da noi. Proprio così. “Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi i sentimenti che è possibile contrapporre alla peste”, prosegue Camus. Anche ad Orano arrivarono i “bollettini dei morti”, dati che hanno tristemente scandito il rintocco delle ore 18 per mesi anche da noi.
Tutto avvenne senza consapevolezza e avvedutezza, tanto che non ci furono più “destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. La malattia, che in apparenza aveva costretto gli abitanti a una solidarietà da assediati, spezzava i legami comunitari tradizionali e abbandonava gli individui alla loro solitudine”. Anche noi ci siamo rinchiusi in casa -anzi ci hanno rinchiuso - , impauriti, infastiditi, non proprio consapevoli di cosa ci stesse accadendo. Poi la situazione esplose in tutta la sua gravità, con il dramma che entrava nelle nostre case, e con le tabelle giornaliere di numeri di ricoveri, terapie intensive e morti. Esattamente come ad Orano, dove “i malati morivano lontano dalla famiglia e le veglie erano vietate”. Anche ad Orano “le bare cominciarono a scarseggiare, mancavano la tela per i sudari e lo spazio al cimitero. Ci si dovette ingegnare”. Prosegue Camus “Fu deciso di seppellirli di notte, il che dispensava da certi riguardi. Si poterono ammassare molti più corpi nelle ambulanze. Accadeva talora di imbattersi in lunghe ambulanze bianche che sfrecciavano”. Il romanzo di Camus è forte, drammatico, vibrante, ossessivo, pur nel suo linguaggio semplice e avvincente. Non è la prima volta che la peste si cala nel mondo, i secoli ce l’hanno indicata più volte, presso i greci ad Atene (lo storico Tucidide dedica una sezione importante del II libro delle sue Storie all’irrompere della peste in Attica, nell’estate del secondo anno di guerra (430 a.C.) , fino a quella descritta da Boccaccio, e poi quella descritta da Manzoni nei “Promessi Sposi”, per citare alcuni eventi. La peste rappresenta una metafora morale, indica il male, dormiente, sempre in agguato, che risulta essere estremamente insidioso quando si esprime a livello di massa. La peste segna una tappa fondamentale in un percorso di maturazione del pensiero di Camus, riconducibile all’idea dell’assurdità dell’esistenza e del mondo, di fronte alle quali le consolazioni filosofiche e religiose risultano palliativi e mistificazioni; tesi in cui hanno dibattuto altri grandi del pensiero occidentale, da Schopenhauer a Nietzsche fino a Bertand Russel, pur con diverse sfumature.
“La peste”, Camus propone delle indicazioni, delle possibilità cui aggrapparsi, nel senso che l’uomo può superare la disperazione e la solitudine della propria condizione attraverso la rivolta lucida e cosciente contro l’assurdo, ovvero attraverso l’impegno e la solidarietà. E se il protagonista, il dottor Rieux, consciente della gravità della situazione, resta al suo posto, altre figure del romanzo decidono di impegnarsi e rischiare la propria vita nelle attività di soccorso ai malati; e Rambert, il giornalista rimasto bloccato ad Orano quando la città è stata posta in quarantena, escogita uno “stratagemma oneroso” per attraversare i posti di blocco, e decide di restare e fornire il suo aiuto, perché ne ha “abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano”. Non mi pare sia poco.
Panorama di Orano, la città algerina in cui è ambientata La peste
Il mito di Sisifo
Saggio sull'assurdo è stato pubblicato da Albert Camus nel 1942 presso Gallimard (Parigi), quando non aveva ancora trent'anni, in nuova edizione con aggiunta del saggio su Kafka nel 1948 e con nuovo confronto critico rispetto al manoscritto nel 1957. In italiano è stato pubblicato per la prima volta nel 1947 dall'Editore Bompiani.
«Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.»
(Albert Camus, Il mito di Sisifo in Opere. Milano, Bompiani, 2003)
In questa opera Camus negando qualsivoglia valore a un significato trascendente alla vita e al mondo, riconosce come assurda l'esistenza: senza un significato l'esistenza è irrazionale ed estranea a noi stessi. Resta dunque il suicidio, ma quello "fisico" non risolve il problema del senso; mentre quello spirituale (Kierkegaard con la "speranza" in Dio, e Husserl con la ragione portata oltre i limiti della propria finitudine) svia dal vero problema. La soluzione per Camus è la "sopportazione" della propria presenza nel mondo, "sopportazione" che consente la libertà; e la "protesta/ribellione" nei confronti dell'assurdità dell'esistenza, quindi contro il "destino", consegna alla vita il suo valore effettivo. Camus non cerca quindi più Dio o l'Assoluto, il suo obiettivo diviene "l'intensità della vita". Per Camus Sisifo è quindi felice perché nella sua condanna diviene consapevole dei propri limiti e quindi assume su di sé il proprio destino.
È quindi una presa di coscienza del sentimento dell'assurdo, attraverso alcune figure chiave della filosofia (anche se l'autore ci tiene a dire subito che non si considera un filosofo) e della letteratura. Il libro cita Šestov, Jaspers, Heidegger e Kierkegaard (nomi in fondo non molto conosciuti all'epoca in Francia), e guarda a certi personaggi simbolo come l'attore, Don Giovanni, il conquistatore, Aleksej Nilic Kirillov (un personaggio nichilista del romanzo I demoni di Dostoevskij) e Kafka (soprattutto per Il castello e Il processo): "tipi estremi", come dice lui stesso che gli danno modo di affrontare il tema centrale che è appunto l'assurdità della condizione umana.
Egli considera i grandi romanzi (nominando Balzac, Sade, Melville, Stendhal, Proust, Malraux) e il grande teatro (nominando Shakespeare e Molière) come opere di filosofia e cerca di dimostrare che l'unico problema veramente serio sia il suicidio, atto di confronto tra "richiamo umano" e "irragionevole silenzio del mondo", quindi quello della libertà (la temibile innocenza del "tutto è possibile") e della scelta. La parte dedicata al mito di Sisifo, condannato a spingere un pesante masso per l'eternità, offre un'ulteriore riflessione, quella della felicità, poiché come Camus disse in Nozze "non c'è amore del vivere senza disperazione di vivere". Il saggio è dedicato a Pascal Pia (1903-79) e porta in epigrafe una frase di Pindaro: "O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile" (Pitiche III).
Franz Von Stuck, Sisifo
Indice del saggio
Un ragionamento assurdo
L'assurdo e il suicidio
Le muraglie assurde
Il suicidio filosofico
La libertà assurda
L'uomo assurdo
Il dongiovannismo
La commedia
La conquista
La creazione assurda
Filosofia e romanzo
Kirillov
La creazione senza domani
Il mito di Sisifo
Appendice
L'assurdo per Camus non è la deduzione di un ragionamento logico o la sintesi di esperienze di vita: esso è il punto di partenza. L'inizio avviene da una nuova concezione della vita, una nuova forma di conoscenza. È possibile la conoscenza, vera e profonda? La risposta è senz'altro negativa. Camus cita Jaspers: "Questa limitazione mi conduce a me stesso, là dove non mi ritraggo più dietro un punto di vista obiettivo, che riesco soltanto a rappresentare, là dove né io stesso né l'esistenza altrui può ormai divenire un oggetto per me".
L'uomo si scontra col muro dell'impenetrabilità della realtà, del significato intimo della stessa vita. Davanti al non-senso, all'assurdo, la domanda nasce spontanea: ha senso vivere?
Il suicidio. Ecco ciò di cui si vuole occupare Camus, "l'unico problema filosofico veramente serio". Il punto di partenza di tale ragionamento è proprio l'assurdo. Il suo primo segno? "Quel particolare stato d'animo in cui il vuoto diviene eloquente, in cui la catena dei gesti quotidiani viene interrotta e il cuore cerca invano l'anello che lo ricongiunga".
Questo vuoto esistenziale, questo nulla eloquente circonda l'uomo fino a isolarlo da tutto e da tutti. E quando lo cinge e lo soffoca, penetra al di dentro al punto da scrivere: "L'abisso che c'è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato". È il rovesciamento del "conosci te stesso" di Socrate. Allora si può intuire l'umiliazione che sorge entro l'animo dell'uomo assurdo, tanto piccolo al confronto di una realtà così immensa.
L'assurdo è una divergenza irrimediabile fra termini di paragone. Una divergenza che squarcia ogni plausibile luce (scienza, fede, religione) e non lascia spazio nemmeno alla speranza. L'assurdo non conosce domani. Altri filosofi, che pure si erano avvicinati a esso, non superano questo punto. Kierkegaard ripiega nella religiosità, "divinizza l'assurdo", gli dà un volto, quello di Dio. Per Camus invece non esiste Dio: " l'assurdo è il peccato senza Dio". Non esistono più termini di confronto, punti di riferimento, valori assoluti. Anche questo costituisce un punto di rottura con alcuni filosofi: Husserl, ad esempio, arriva a razionalizzare tutto, a creare valori assoluti.
Come approcciare una vita assurda? Per Camus "essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso". L'atteggiamento dell'uomo assurdo non è quello del suicida, ma del suo contrario: il condannato a morte. Egli ha in mano la libertà assurda, la libertà da ogni spiegazione, da ogni obiettivo. "Prima di incontrare l'assurdo l'uomo quotidiano vive con degli scopi e con il pensiero dell'avvenire o della giustificazione (...). Egli valuta le proprie possibilità, fa assegnamento sul più tardi, sulla pensione o sul lavoro dei figli, crede anche che nella sua vita qualche cosa possa avere una direzione. In realtà egli agisce come se fosse libero, anche se tutti i fatti si incaricano di contraddire tale libertà. (...). In quanto immaginava uno scopo nella vita, si conformava alle esigenze di una mèta da raggiungere, e diveniva schiavo della propria libertà".
Qual è la nuova libertà, la libertà assurda? È la libertà del domani, la non speranza, la mancanza di obiettivi, il disinteresse. Questo è il lato più tragico di Camus: potrebbe essere la disperazione. Eppure lui contrasta ciò: per lui non c'è disperazione, c'è il vivere per il gusto di vivere. Bruciare l'esistenza, come Meursault ne Lo straniero. Bruciare fin quando c'è legna: quantità al posto della qualità. Una sorta di mercificazione del vissuto? No, è rivolta cosciente, rivolta senza nessuno scopo, senza presunzione di fecondità. "Nel mondo assurdo, il valore di una nozione o di una vita viene misurato in base alla sua infecondità". Questo aspetto è intrigante. È la negazione dell'eternità, è l'atto che trova giustificazione solamente in sé stesso, slegato dal futuro, dagli obiettivi, dalla logica della funzionalità, dall'interesse, dalla contingenza. È il Dongiovannismo, il distaccamento dai valori eterni, è la creazione fine a sé stessa, che rifugge l'eternità, e va incontro all'autodistruzione senza rimpianti. La vita è una causa persa per Camus. Non c'è esoterismo, non v'è posto nemmeno per la luce di Cristo. Eppure Camus riconosce l'assurdità del Vangelo, dell'amore, dell'uomo Gesù. E lo esalta, perché l'amore non è solo contemplazione, è azione slegata dal funzionale, dal ritorno. L'amore è assurdo. È passione senza domani, creazione che sfugge all'eternità. L'uomo assurdo sfugge anch'egli all'eternità, rifugge l'unità... Tutto è bene.
"Il faut imaginer Sisyphe heureux".
Eugenio Caruso - 6 settembre 2022