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Ludovico Ariosto e il grande capolavoro: Orlando Furioso

Datemi una notte e per amante
La Venere della piccola fattoria di Milo!
O se per un’ora una statua antica
Si ridestasse alla passione e io potessi
Scuotere l’Aurora fiorentina
Dalla sua muta disperazione,
Mischiarmi a quelle membra, ritrovare
In quel petto il mio rifugio.

WILDE


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

ITALIANI

Ariosto - Boccaccio - Carducci - D'Annunzio - Dante - Leopardi - Manzoni - Pascoli - Petrarca - Pirandello - Tasso - Verga -Virgilio

Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533) è stato un poeta, commediografo e diplomatico italiano. È considerato nella storia della letteratura italiana ed europea uno degli autori più celebri ed influenti del Rinascimento e viene ritenuto l'iniziatore della commedia regolare con Cassaria (1508) e I suppositi (1509), che recuperano le forme e i caratteri del teatro classico latino. Con il suo Orlando furioso, tra i poemi più importanti della letteratura cavalleresca, divenne il codificatore della favola romanzesca e tra i massimi esponenti del Rinascimento ferrarese, assieme a Matteo Maria Boiardo e Torquato Tasso, anche grazie alla creazione di una caratteristica ottava rima, definita "ottava d'oro", che fu una delle massime espressioni raggiunte dalla metrica poetica prima dell'illuminismo. Fu un seguace delle teorie sulla lingua dell'amico Pietro Bembo, che applicò soprattutto nell'Orlando furioso, «prima opera di un autore non toscano nella quale viene usato il toscano come lingua letteraria nazionale».

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Frontespizio dell'edizione de La Lena del 1535

Ludovico Ariosto nacque l'8 settembre 1474 a Reggio Emilia, primo dei dieci figli di Niccolò Ariosto e Daria Malaguzzi Valeri. Il padre fu tra i primi appartenenti al ramo ferrarese della nobile famiglia bolognese degli Ariosti e svolse il ruolo di capitano della rocca di Reggio, presidio militare al tempo di Ercole I d'Este. La madre apparteneva invece alla nobiltà reggiana.
Nel 1479 Niccolò Ariosto lasciò la guarnigione reggiana per prestare i suoi servizi a Rovigo, venendo raggiunto dalla moglie e dai figli all'inizio del 1481. Nella città veneta poté godere di alcuni vantaggi economici, come una residenza a titolo gratuito. Il giovane Ludovico vi rimase molto poco, poiché, con lo scoppio della guerra tra il Ducato di Ferrara e la Repubblica di Venezia nel 1482, le truppe della Serenissima entrarono in città e il padre, prima di venire catturato assieme al commissario ducale Giacomo dal Sacrato, rimandò l'intera famiglia a Reggio Emilia, potendo contare sull'accoglienza da parte dei parenti della consorte e su Il Mauriziano, che i Malaguzzi avevano acquistato già nella prima metà del XV secolo. Gli Ariosto persero comunque tutte le proprietà e i beni che avevano nella cittadina. Ludovico, che all'epoca aveva otto anni, non ricordò questo breve intervallo della sua vita, anche se definì Rovigo nel suo Orlando furioso "città delle rose".
In seguito al rilascio di Niccolò dopo la caduta di Rovigo, nel 1482 gli Ariosto giunsero a Ferrara, stabilendosi in un edificio in strada di Santa Maria delle Bocche. Nella città estense il padre ricoprì le cariche di tesoriere generale delle truppe e di capo dell’amministrazione comunale e affidò il giovane primogenito, dal 1484 al 1486, al pedagogo Domenico Catabene di Argenta e, dal 1486 al 1489, all'intellettuale Luca Ripa, che gli insegnarono grammatica. Natalino Sapegno avvertì come «dell'agitata carriera paterna dovettero risentire l'infanzia e l'adolescenza dell'Ariosto, che certo lo seguì nei frequenti e repentini trasferimenti, da Reggio a Rovigo, a Ferrara, a Modena, e poi nuovamente a Ferrara.» Di fatto, dal 1º marzo 1489 Niccolò era diventato capitano di Modena e fece in modo che il figlio fosse al suo fianco e che fosse seguito da un altro grammatico, che gli impartisse alcune nozioni sulla lingua.
Poco tempo dopo, Ludovico fece ritorno a Ferrara e venne affidato alle cure degli zii. Contro la sua volontà si iscrisse all'Università e in cinque anni ottenne il titolo di giurisperito. I suoi interessi tuttavia non erano indirizzati alla legge, ma al teatro, passione alimentata dal contesto culturale estense della fine del XV secolo. Infatti, da tempo in città convenivano note compagnie teatrali e la stessa grande piazza del palazzo ducale era stata in varie occasioni trasformata in spazio per la rappresentazione scenica.

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Il cosiddetto Ritratto di Ariosto è un dipinto a olio su tela di Tiziano, databile al 1510 circa e conservato nella National Gallery di Londra


Nel 1493 Ludovico prese parte ad alcune esibizioni della compagnia teatrale di corte, accompagnando ad agosto il duca Ercole I d'Este a Milano e Pavia, e stese un testo drammatico, Tragedia di Tisbe, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio. L'anno dopo abbandonò gli studi giuridici per dedicarsi alle attività umanistiche presso il palazzo Paradiso, sotto la guida del monaco agostiniano Gregorio da Spoleto, precettore anche di Rinaldo d'Este (fratello di Ercole I), Ercole Strozzi e Alberto III Pio di Savoia.
Negli ultimi anni del XV secolo, durante il suo periodo di formazione, Ludovico approfondì i rapporti con Pietro Bembo, che proprio tra il 1497 e il 1499 era a Ferrara con il padre, prima di dover tornare a Venezia. Con Bembo, che mantenne come amico sino alla fine della sua vita, approfondì le conoscenze per il lavoro di Francesco Petrarca, provando un entusiasmo crescente per le prospettive letterarie che offriva; iniziò così a realizzare le sue prime composizioni in versi latini, tra cui alcuni epigrammi. Tra il 1494 e gli inizi del XVI secolo, questi primi lavori, che risentivano dell'influenza per il mondo greco e romano già presente nella Tragedia di Tisbe, ebbero vari temi e furono aspramente criticati da Lilio Gregorio Giraldi, di cinque anni più giovane di Ariosto, che li definì «duriuscula», ovvero «duretti alquanto». Furono tuttavia il primo approccio al mondo classicista che il poeta avrebbe ampiamente sviluppato in seguito.
Nel 1498 Ludovico venne accolto alla corte di Ercole I d'Este, ormai celebre come mecenate intenzionato a dar lustro alla sua casata, sostenuto in questo dalla consorte Eleonora d'Aragona. Il duca aveva già nominato il poeta Matteo Maria Boiardo suo ministro e aveva offerto protezione a Pandolfo Collenuccio, esule da Pesaro. All'inizio, Ariosto fu un «famigliare e nulla più» e ciò gli permise di occuparsi maggiormente della produzione lirica in lingua volgare. Il periodo rimane ben testimoniato dalle sue rime che, tuttavia, non giunsero mai allo status di un organico canzoniere. Nel febbraio 1500, alla morte del padre, divenne il capo famiglia e su di lui ricaddero responsabilità e «cura dei domestici affari». Adempì a questo compito con sofferenza, ma «rivelando doti di accorto e paziente massaio, provvedendo ad assistere amorevolmente la madre, ad accasare le sorelle senza intaccare l'eredità comune, e a collocare con onore i fratelli». Ludovico venne costretto dalla sua nuova condizione a tralasciare la sua attività poetica e ad allontanarsi da Ferrara per controllare e amministrare i poderi degli Ariosti a Reggio e soggiornando in periodi prolungati, sino al 1503, nel Mauriziano. Nel 1502 ricevette l'incarico di capitano del castello di Canossa e l'anno successivo nacque il suo primo figlio, Giambattista. Lo ebbe dalla domestica Maria che stava nella casa della famiglia fin dai tempi di Niccolò e non lo riconobbe mai completamente. Lo escluse dal suo testamento del 1522, ma lo incluse in quello di dieci anni dopo, quando gli concesse un vitalizio.

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Il Mauriziano, la villa dove soggiornò Ludovico nelle estati tra il 1494 e il 1497 e tra il 1502 e il 1503, di proprietà della madre Daria e acquistata nella prima metà del XV secolo dalla sua famiglia

Nel 1503 Ariosto rientrò a Ferrara da Reggio Emilia e cominciò a creare una fitta e vasta trama di rapporti e amicizie con molti personaggi di spicco del Rinascimento italiano. Secondo Natalino Sapegno, la città estense attirò nel periodo a cavallo tra il XV e il XVI secolo quasi tutti i maggiori letterati e uomini di cultura del tempo, tra cui Michele Marullo Tarcaniota, Pandolfo Collenuccio, Aldo Manuzio, Gian Giorgio Trissino, Matteo Bandello, Ercole Bentivoglio e Bernardo Tasso. Inizialmente, Ludovico fu al servizio del cardinale Ippolito d'Este, figlio del duca Ercole, ottenendo in breve gli ordini minori e quindi lo status di chierico. Ciò gli permise di usufruire di benefici ecclesiastici e di rendite, come quella della ricca chiesa parrocchiale di Santa Maria dell'Oliveto di Montericco in provincia di Reggio Emilia, alla quale però rinunciò per una controversia con il conte Ercole Manfredi. Come in seguito espresse nella Satira I, quel periodo non fu felice, poiché egli «non aveva né inclinazione né talento» per i compiti che il cardinale gli affidava. Spesso Ippolito si serviva di lui nel ruolo di diplomatico e ambasciatore segreto per gli affari che intratteneva con i membri delle principali casate italiane e queste sue attività da «cortigiano poeta», da «cameriere segreto» e da «poeta cavallaro» (come le definì nella Satira VI) gli impedirono di dedicarsi come avrebbe voluto alla sua attività letteraria.

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Sebastiano Filippi, Ritratto di Alfonso I d'Este (1550-1559), olio su tela, conservato alla Palazzo Pitti di Firenze.

Prime commedie in volgare (1508-1509)
Mentre si trovava al servizio di Ippolito, nonostante le difficoltà lamentate, Ariosto realizzò alcune delle opere che lo fecero conoscere come letterato. Nel 1507 (o già nel 1504) stava ad esempio lavorando ad una «gionta a lo Innamoramento de Orlando», espressione usata dal duca Alfonso I d'Este per descrivere al fratello Ippolito l'Orlando furioso, che in tal modo veniva inteso come il seguito del poema cavalleresco Orlando innamorato, di Matteo Maria Boiardo. Quando infatti nel gennaio 1507 fu a Mantova e venne ricevuto alla corte della marchesa Isabella d'Este, il poeta portò, tra gli omaggi e le felicitazioni da parte del cardinale per la nascita del figlio Ferrante I Gonzaga, anche alcuni abbozzi di canti, che recitò alla corte. Nel 1508 presentò alla corte estense la sua prima opera teatrale completa, dopo la giovanile e perduta Tragedia di Tisbe, ovvero la commedia Cassaria. Fu rappresentata il 5 marzo durante il carnevale e venne seguita l'anno successivo da I suppositi. Entrambe sono "commedie regolari", ispirate nella struttura, nei personaggi e nello svolgimento della trama a quelle di Plauto e Terenzio, volgarizzate dal Boiardo tempo prima, creando il nuovo filone del teatro comico cinquecentesco in lingua volgare. Nel 1509 nacque il secondogenito di Ariosto, Virginio, avuto da Orsolina di Sassomarino, figlia del chiodaiolo ferrarese Giovanni. Al contrario di Giambattista, venne subito riconosciuto e poté godere di un'attenzione particolare per tutta la vita, accompagnando anche il padre in Garfagnana. Dal Canto suo, l'autore rimase legato a Orsolina per molti anni e nel 1514 le comprò una casa nella strada di San Michele Arcangelo (poi via del Turco).

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Isabella d'Este nella copia di un cartone attribuito a Leonardo da Vinci

Missioni a Roma (1509-1512)
Nel 1509 Alfonso I d'Este si unì alla lega di Cambrai e ingaggiò battaglia contro la Repubblica di Venezia per riprendersi i territori a nord del Po, compresa la rocca di Legnago. Ludovico venne coinvolto nei scontri che seguirono, sino alla sconfitta delle forze estensi a Polesella. Il 16 dicembre venne mandato urgentemente a Roma per chiedere l'aiuto a papa Giulio II, tornando a Roma ancora due volte l'anno successivo. Con la prima, tentò di far revocare una scomunica contro il duca, colpevole di essersi schierato contro la Lega Santa e di aver accolto le richieste di sfruttamento della salina di Comacchio, mentre, con la seconda, per fare le veci del cardinale Ippolito, che tentava una conciliazione con il pontefice dopo avere assunto la carica di abate dell'abbazia di Nonantola.
Nel 1512 accompagnò direttamente il duca al Vaticano. In tali occasioni diede prova di abilità diplomatiche, ma non ebbe successo. Rischiò anche, in una seconda occasione, di essere gettato in mare e dovette fuggire travestendosi «inseguito dagli sgherri del papa», come descrisse poi in un'epistola indirizzata a Federico II Gonzaga del 1º ottobre 1512. Il periodo si concluse con un altro incarico pericoloso, quello di messaggero ed esploratore per conto di Alfonso I nella zona di Ravenna, quando la città veniva saccheggiata in seguito alla conclusione della battaglia che aveva visto contrapposte la Lega Santa e la Francia, sempre nell'ambito della guerra della Lega di Cambrai. In tale occasione il poeta assistette a scene che rimasero per sempre impresse nella sua memoria e che in seguito descrisse nell'Elegia XIV:

Io venni dove le campagne rosse
eran del sangue barbaro e latino
che fiera stella dianzi a furor mosse.
E vidi un morto all'altro sì vicino
che, senza premer lor, quasi il terreno
a molte miglia non dava il cammino.
E da chi alberga fra Garonna e Reno
vidi uscir crudeltà, che ne dovrai
tutto il mondo d'orror rimaner pieno.
Elegia XIV, vv. 37-45

Il 1513 fu un anno importante. Fu elevato al soglio pontificio l'amico Giovanni di Lorenzo de' Medici, figlio di Lorenzo, che assunse il nome di Leone X. Il poeta si recò a Roma per assistere all'incoronazione e per rendere omaggio al nuovo papa. Dopo la cerimonia, Ariosto si trattenne nella città, sentendosi accolto dalla benevolenza di Leone X, senza ottenere tuttavia alcuni vantaggi personali. In seguito, a Firenze, durante la festa di san Giovanni Battista del 24 giugno, incontrò Alessandra Benucci, in quel momento moglie dell'amico Tito Strozzi. I due cominciarono a vedersi segretamente e la loro relazione rimase molto riservata, anche dopo la morte dello Strozzi. Le loro nozze vennero celebrate tra il 1528 e il 1530 in segreto, sia perché Ariosto non venisse privato dei benefici ecclesiastici sia perché Benucci non perdesse a sua volta i diritti sui figli e sull'eredità di Strozzi.
Tornato a Ferrara, dal 1514 Ariosto poté dedicarsi a nuove rappresentazioni delle sue commedie Cassaria e I Suppositi. Il 30 ottobre però dovette nuovamente recarsi a Roma al seguito di Ippolito. Presso la gola del Furlo, vicino al fiume Candigliano, fu colto da malore e fece sosta a Fossombrone. Con la febbre alta e temendo di non potersi riprendere, scrisse alcuni versi nel Capitolo X indirizzati al cardinale: Il 22 aprile 1516 per lo stampatore Giovanni Mazzocco di Bondeno uscì la prima edizione «rozza e mancante» in quaranta canti dell'Orlando furioso, con il privilegio di stampa di Leone X e dedicato a Ippolito d'Este. Costui non apprezzò affatto il poema, tanto che si tramanda l'episodio in cui questi, ritornato a Ferrara da una delle sue frequenti missioni a Roma, dove con molta probabilità aveva avuto modo di leggerlo tutto o in larga parte, non appena vide l'Ariosto gli chiese:
«Messer Lodovico, dove avete mai trovate tante fanfaluche?»
Ciononostante, lo scritto godette di uno straordinario successo presso i contemporanei, come testimonia la lettera di Niccolò Machiavelli indirizzata all'amico Lodovico Alamanni, nella quale egli lo giudicò «bello tutto, e in di molti luoghi mirabile». Ormai logorati da tempo, i rapporti tra il poeta e il cardinale giunsero a un definitivo punto di rottura nel 1517: Ippolito doveva infatti andare a Buda, presso la sua nuova sede vescovile, ma Ariosto rifiutò di accompagnarlo, congedandosi definitivamente dal servizio di cortigiano. Come scrive Riccardo Bruscagli, docente presso l'Università degli Studi di Firenze: «È questa l'occasione della prima Satira, in cui l'Ariosto difende pacatamente ma fermamente la sua posizione, segnando con rigore il confine tra gli obblighi del servizio cortigiano e la sua propria indipendenza di uomo privato, dedito ai suoi affetti e alla sua vocazione letteraria
L'autore perdette inevitabilmente i suoi benefici ecclesiastici, tra cui le proprietà del Castel San Felice e di Santa Maria in Benedellio, sebbene gli vennero lasciati Sant'Agata sul Santerno e un terzo degli utili della Cancelleria Arcivescovile di Milano, ottenuti grazie a un contratto con un appartenente della ricca famiglia Costabili.
Al servizio del duca Alfonso I d'Este
Nel 1518 il duca Alfonso I d'Este, «ben informato del ristretto patrimonio degli Ariosti, memore dei buoni servigi [...] prestati alla Casa Estense», ammise tra i suoi stipendiati il poeta, in quel momento «negletto e privo d'impiego» (aveva solamente versificato e rappresentato ancora una volta a teatro la Cassaria). L'Ariosto, in una condizione di nuova «"servitù" [...] ma di minor disagio e probabilmente più dignitosa», godette di un grande prestigio letterario e la sua carriera teatrale registrò grandi successi, tra cui la messa in scena nel 1519, a Roma, de I suppositi, con la scenografia di Raffaello Sanzio. Tuttavia, la situazione economica era tale ancora da non permettergli di raggiungere quell'indipendenza che a lungo cercava: l'eredità del cugino Rinaldo, morto senza testamento ed eredi, che in quell'anno era riuscito ad ottenere, non riuscì di fatto a sollevarlo, ma anzi lo costrinse a una diatriba, protrattasi per tutto il resto della sua esistenza, sul possesso della tenuta di Bagnola con la camera ducale, che la esigette per sanare il debito di certi canoni da lui non pagati. Nel 1520 spedì una copia in versi sdruccioli della sua terza commedia, Il Negromante, a Leone X, mentre nel 1521 mandò alle stampe, per Giovan Battista Pigna, una seconda edizione revisionata del Furioso, sempre in quaranta canti e con il privilegio del pontefice.
Governatore della Garfagnana (1522-1525)
Alfonso I d'Este, consapevole delle necessità economiche del poeta, ma anche delle sue abilità come amministratore, nel 1522 gli affidò la gestione della Garfagnana. Ariosto partì per Castelnuovo di Garfagnana quello stesso 20 febbraio, dopo aver fatto testamento e aver messo ordine nei suoi affari. La regione necessitava di un governo forte sia per il carattere della popolazione sia perché parte del territorio era in preda al banditismo. Il poeta si trovò nella necessità di contrastare tale fenomeno, che era particolarmente evidente nell'alta Garfagnana, a Ponteccio. Malgrado i timori manifestati già prima della partenza, ricevette una buona accoglienza «per insino da' Masnadieri, uomini quasi ferini e privi d'umanità», che già lo conoscevano per fama sua, del padre e della famiglia. Tuttavia, come egli stesso scrisse nel 1523 nella Satira IV dedicata al cugino Sigismondo Malaguzzi, quell'incarico fu per lui pieno di frustrazioni e scontentezze, obbligandolo a un patetico tenore di vita, a subire un'«endemica anarchia» e alla lontananza dai suoi studi, dalle amicizie e da Ferrara. In particolare, gli mancava Alessandra Benucci, alla quale era molto legato e che poteva vedere solo nelle rare occasioni nelle quali veniva richiamato alla corte estense. Si trovò comunque bene nella sua residenza a Castelnuovo, vivendo per diverso tempo nella rocca che in seguito avrebbe preso il suo nome.
Durante la sua reggenza della Garfagnana, l'autore confermò le sue doti di amministratore pratico e giusto, contrastando l'azione dei briganti, mantenendo il controllo tra le diverse fazioni locali e superando i pericoli legati a pestilenze e carestie. Poté però contare su pochi armati da lui personalmente stipendiati e dovette mediare con un atteggiamento troppo permissivo del duca. In particolare, i suoi rapporti con il Moro, capo brigante a Sillico, furono emblematici della situazione. Il criminale godeva della fama di difensore della povera gente contro il potere vessatorio del governo, mentre in realtà fu uno dei più feroci della Garfagnana. Quando, a fatica, Ariosto riuscì a catturarlo e condannarlo a morte, Alfonso fece in modo di liberarlo, e questo perché spesso il bandito e la sua banda venivano arruolati come mercenari.
Ritorno a Ferrara e la casa nel quartiere Mirasole (1525-1528)
Ludovico Ariosto tornò a Ferrara nel settembre del 1525, mentre il duca era in viaggio verso Madrid per incontrare Carlo V d'Asburgo. In quel momento conobbe e divenne amico di Ercole Bentivoglio, con il quale iniziò a confrontarsi. Intanto, veniva ristampato, senza la sua approvazione, l'Orlando furioso, che era ormai divenuto famoso in tutta la penisola. Il 30 marzo 1526 uscì l'edizione di Giovanni Angelo Scinzenzeler di Milano e ad agosto quella di Sisto Libraro di Venezia. A giugno, intanto, le eredità e le proprietà in comune con i fratelli vennero divise e Ariosto decise di vendere la casa paterna in strada di Santa Maria delle Bocche, nella parte medievale cittadina, per comprare dagli eredi di Bartolomeo Cavalieri a Ferrara presso il notaio Ercole da Pistoia un'abitazione più piccola, nella nuova contrada di Mirasole, diventata un quartiere cittadino con la grande Addizione Erculea di pochi anni prima. L'edificio, attribuito all'architetto Girolamo da Carpi, venne restaurato dopo l'acquisto e dal 1528 divenne la sua nuova casa di famiglia, con un giardino realizzato grazie all'acquisto del terreno circostante e da lui curato personalmente. Il trasloco avvenne il giorno di Pasqua, e il poeta vi si trasferì con il figlio Virginio e con l'amata Alessandra Benucci per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita.
Il duca Alfonso I d'Este «Dilettandosi molto [...] di sceniche rappresentazioni» ed essendo che «amava certamente [...] grandemente l'Ariosto [...] tanto che Virginio nelle sue memorie arrivò a dire, che Lodovico tenne con il duca medesima intrinsichezza», permise al poeta di continuare a produrre commedie e di migliorare quelle già realizzate, superando in successo anche il Ruzante, il quale era in quel periodo a corte. Nel 1527 gli venne affidata la direzione dell'appena realizzato Teatro di Sala Grande di Corte, che fu il primo teatro stabile in Europa, dotato di scene fisse in legno e di grandi tribune. Qui vennero rappresentate innanzi a principi ed «onorati cittadini» dell'epoca le opere dell'Ariosto, tra cui La Lena, il cui prologo venne recitato nel 1528 innanzi al figlio del duca, Francesco.
L'autore quindi si trovò pertanto a perseguire i suoi studi e le sue occupazioni letterarie con grande libertà, godendo del prestigio dei suoi lavori e del consenso della corte: riscrisse in endecasillabi sdruccioli La Cassaria e I suppositi, perfezionò Il Negromante e avviò una revisione dell'Orlando Furioso, toscanizzando il testo ed ampliandolo con nuovi canti.
D'altronde i compiti di funzionario fur ono esigui e di carattere eccezionale; oltreché addetto al Magistrato dei Savi tra il 1528 ed il 1530, fu soprattutto appresso al duca in varie occasioni: nel 1529 a Modena, per scortare Carlo V d'Asburgo fino al passo di sant'Ambrosio, ai confini dello Stato Pontificio, dove sarebbe stato incoronato da Clemente VII imperatore del Sacro Romano Impero e re d'Italia;[126] a metà novembre del 1530 a Venezia, tra gli ambasciatori di Alfonso che si era incontrato con Francesco II Sforza per trattare «i comuni interessi»; tra primavera ed estate del 1531 ad Abano Terme, dove l'Este si era dovuto fermare per fare dei bagni curativi; nell'ottobre dello stesso anno fu ambasciatore presso il capitano dell'esercito spagnolo Alfonso III d'Avalos (il quale volle concedergli una ricca pensione per via del suo prestigio letterario) a Correggio, dove ebbe modo in più d'incontrare la poetessa Veronica Gambara, con la quale intrattenne un rapporto epistolare.
Ultima edizione dell'Orlando Furioso (1532)
Ariosto fu soddisfatto dal successo che ebbe la messa in scena delle sue opere al teatro di Sala Grande di Corte e continuò a dedicarsi a correzione e ampliamento del suo poema cavalleresco per tutto l'inverno e il maggio del 1532 a «emendare [...] , riordinare, e trascrivere» e faticando da maggio a ottobre ad «assistere alla revisione de' fogli di mano in mano che uscivano dal torcolare». Soffrì dell'«imperizia» degli stampatori e dei correttori, che lo costrinsero a numerosi viaggi dalla sua casa alla tipografia di Franco Rosso da Valenza e tale «nojosissima» attività contribuì a minarlo nella salute. Si rese conto in quel periodo della necessità di una nuova revisione ma non ne avrebbe avuto il tempo.
L'edizione, in quarantasei canti, uscì il primo ottobre di quell'anno e generò grande scalpore presso le corti italiane alle quali il poeta ne aveva mandato copie, come nel caso del Ducato di Urbino dove stava Guidobaldo II della Rovere, «per sentire i giudizi altrui, e principalmente per onorare la Casa Estense, e far cosa gradita ai Personaggi allora viventi, nel Poema ricordati con lode».
Mantova e la "favola" dell'Incoronazione (1533)
Alfonso I d'Este nel 1533 partì da Ferrara verso il Friuli accompagnato da una scorta di duecento cavalieri. Arrivò a Conegliano e qui incontrò Carlo V d'Asburgo dal quale aveva avuto verso la fine di ottobre del 1532 il sostegno per il mantenimento di Modena nel ducato malgrado il parere contrario di papa Clemente VII, e poi lo accompagnò a Mantova, dove arrivarono il 7 novembre. Ariosto, ormai compromesso nella salute, arrivò in città con un percorso più breve e diretto con un battello lungo il corso del Po e vi rimase poco più di un mese. In quell'occasione presentò il suo poema e l'imperatore lo apprezzò a tal punto che decretò gli venisse conferita la corona d'alloro. Che la cerimonia fosse stata o meno celebrata non è chiaro: la dicitura "Ariosto Poeta" iniziò a diffondersi di fatto soltanto dopo la sua morte e su testi celebrativi come Historie di tutte le cose degne di memoria di Marco Guazzo (1544) e Il fioretto delle cronache di Mantova di Stefano Gionta (1844). In seguito tale notizia venne ripresa da diversi altri autori come Girolamo Baruffaldi il vecchio, Apostolo Zeno e Ludovico Antonio Muratori e l'iconografia ufficiale iniziò a rendere tale incoronazione ancora più credibile con opere successive quali statue, ritratti, medaglioni e incisioni.
Baruffaldi il giovane sulla questione scrisse: «Quindi bisogna concludere, o che la Incoronazione dell'Ariosto fu mera favola, o tutto al più, che qualche privato Diploma o Chirografo di Carlo V. diede al Poeta il titolo, o privilegio di Poeta Laureato, senza che mai avesse luogo l'atto solenne e pubblico della Incoronazione.».
Morte
Lo stato di salute di Ariosto si aggravò dopo il ritorno da Mantova e l'enterite lo costrinse a letto dalla fine di ottobre del 1532. In queste condizioni scrisse un secondo testamento nel quale il primogenito Giambattista, pur non venendo dichiarato legittimo, venne riconosciuto ed ebbe la concessione di un vitalizio. L'ultimo giorno dell'anno andò a fuoco il teatro di Sala Grande di Corte e l'intera «Scena stabile» andò perduta. L'evento fu un duro colpo per il poeta che «da quel giorno, [...] non si riebbe, né si alzò più dal letto». Si spense lentamente e morì il 6 luglio del 1533, «tre ore dopo il mezzodì [...] contando cinquant'otto anni di età, otto mesi, e giorni 28».
La notte stessa nella quale morì il corpo del poeta venne traslato dalla sua casa alla vicina chiesa di San Benedetto. Furono alcuni monaci di quel convento a svolgere tale servizio seguendo le sue disposizioni e seppellendolo con grande semplicità e senza sfarzi. La notizia del decesso venne comunicata alla corte estense solo alcuni giorni più tardi. Il fratello Gabriele provò a far costruirne una tomba più adatta alla sua fama ma non ottenne alcun risultato e il figlio Virginio tentò inutilmente di riportare le spoglie nel giardino della casa in contrada Mirasole in una cappella dedicata a San Lorenzo che nel frattempo era stata costruita.
Nel 1573 venne avviata, grazie al gentiluomo ferrarese Agostino Mosti, l'edificazione di un monumento in marmo nella cappella della Natività di Gesù Cristo, a destra dell'altare maggiore, in cui i resti furono traslati il 6 giugno per celebrare il quarantesimo anniversario della morte. Nel 1612 lo scultore mantovano Alessandro Nani, su disegno dell'architetto Giovan Battista Aleotti, realizzò un nuovo monumento funebre sul quale vennero incise due epigrafi in latino: una in versi di anonimo gesuita e l'altra in prosa di Giovanni Battista Guarino.
Con l'arrivo delle truppe d'invasione francesi a Ferrara la situazione mutò. Durante il periodo della Repubblica Cisalpina, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, la chiesa che aveva sino a poco prima ospitato il monumento funebre venne trasformata in caserma, subendo il destino di numerosi luoghi di culto cittadini, molti dei quali soppressi. Prima che si realizzassero completamente le disposizioni francesi riguardanti la chiesa di San Benedetto il generale Sextius Alexandre François de Miollis fece spostare l'intero monumento con le ceneri il 6 giugno 1801. La cerimonia fu solenne perché non si intendeva solo rendere omaggio al poeta ma sancire anche il passaggio formale della conservazione della memoria affidata non più alla Chiesa ma all'istituzione laica dello Studium. Fu scelto quindi il palazzo Paradiso, allora sede dell'ateneo e poco lontano delle case di Ariosto in strada di Santa Maria delle Bocche nelle quali il poeta e la sua famiglia avevano vissuto a lungo e «dov'egli da giovine recavasi a udire le lezioni di Gregorio da Spoleti».
La sala che accolse il monumento venne adattata in modo che avesse il giusto risalto e la parete sullo sfondo venne affrescata con l'immagine di Ariosto e con figure allegoriche ed angeli. Le ricche decorazioni pittoriche furono eseguite da Giuseppe Santi, artista di Bologna molto apprezzato dai francesi e residente da tempo a Ferrara.
Immagine letteraria e personalità di Ariosto
Ariosto, nelle sue opere, lascia di sé un'immagine di uomo amante della vita vicina alla famiglia, tranquilla, senza atteggiamenti eroici:

«E più mi piace posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, a li Etiopi et oltre. [...]
Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada»
(Ludovico Ariosto, Satira III)


e descrive le sue condizioni a volte quasi di povertà o di serie difficoltà. Questo avviene, ad esempio, nel periodo della sua permanenza in Garfagnana come rappresentante del governo estense, quando ebbe come residenza la rocca di Castelnuovo, certamente non nelle condizioni che poi assunse ma neppure un'umile dimora. L'immagine che ci presenta di sé quindi è letteraria, di «una scelta matura e meditata». Per dovere o per scelta egli viaggiò molto dimostrando in questo notevoli doti pratiche e di amministratore attento. Ludovico Ariosto è ritenuto uno dei più importanti rappresentanti del Rinascimento maturo, con Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli e rappresenta l'ultimo grande umanista di fronte alla crisi dell'Umanesimo. Raffigura ancora l'uomo che si pone al centro del mondo come un demiurgo in grado di plasmarlo con l'arte mentre nella sua vita reale e sociale rimane un cortigiano subordinato alla volontà del suo signore.

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Ritratto di Pietro Bembo, olio su tela di Tiziano Vecellio, del 1539 conservato alla National Gallery of Art di Washington. Ariosto fu un seguace delle teorie sulla lingua dell'amico Pietro Bembo, che applicò soprattutto nell'Orlando furioso, prima opera di un autore non toscano nella quale viene usato il toscano come lingua letteraria nazionale

Una scelta importante che fece fu quella del volgare per scrivere le sue opere e questo si deve in larga misura a Pietro Bembo. Secondo alcune fonti ha coniato il termine "umanesimo" (mutuato dal latino humanus o dall'espressione studia humanitatis), per indicare «l'insieme di studi e discipline liberali incentrati sull'uomo e sulla sua natura». Nel 1785 il gesuita e letterato Andrea Rubbi nelle note dell'edizione veneziana dell'Orlando furioso, scrisse: «Tutti gli altri nostri poeti o moderni o antichi tanto sono inferiori all'Ariosto quanto lo è uno scrittore ad un genio. Genio faceto nelle commedie, genio critico nelle satire, genio amabile nel lirico italiano e latino; ma genio grande nell'epica. Niuno aspiri al suo sublime, se non ha la forza della sua anima
Opere
Carmina
Negli anni della sua formazione, circondato dall'affetto e dall'influenza del maestro Gregorio da Spoleto e degli umanisti suoi amici, Ludovico Ariosto ebbe modo di cimentarsi nella scrittura di versi latini: risalenti quasi tutti al periodo che va dal 1493 al 1502, non furono mai sistemati in forma di canzoniere e rappresentano la testimonianza, non tanto artistica quanto documentaria, degli studi dei poeti classici, quali Orazio, Virgilio, Tibullo e Catullo, che avrebbero lasciato un'impronta indelebile sullo stile e sul gusto del poeta.
In particolare da Catullo e Orazio, ma anche da Ovidio, vengono mutuati la varietà tematica e alcuni argomenti tipici, tra cui le invettive e le dediche occasionali, indirizzate ad amici o conoscenti facenti parte della cultura ferrarese. Per esempio Alberto Pio da Carpi è destinatario di un'ode, sul ritorno dalla Francia di Gregorio da Spoleto, e di un epicedio, in cui tratta della morte per avvelenamento, per mano di una serva, della madre Caterina; a Ercole Strozziè indirizzata un’elegia sul trapasso del poeta greco Michele Marullo Tarcaniota. Ariosto tocca anche eventi facenti capo alla sua vita personale e alla società contemporanea, come in un epitalamio in cui celebra le nozze di Lucrezia Borgia e Alfonso I d'Este oppure in un'ode al cugino Pandolfo in cui parla della discesa di Carlo VIII in Italia.

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Ritratto di Flora. Dipinto di Bartolomeo Veneto. Per molti studiosi si tratta di Lucrezia Borgia moglie di Alfonso I.

Il poeta si ispirò molto all'ambiente dell'umanesimo padano d'area ferrarese, che aveva raggiunto i maggiori traguardi, apprezzati in tutta Italia soprattutto per quanto riguarda la ricerca linguistica latina, con Tito Vespasiano Strozzi e Matteo Maria Boiardo. Pur non raggiungendo il loro risultato, egli si dimostrò comunque un abile verseggiatore; come infatti scrive Antonio Piromalli: «I Carmina dell'Ariosto, che hanno come modelli Tibullo e Catullo, sono lontani dall'eleganza formale del Navagero e del Bembo ma anche dalla sciatteria dei numerosi latineggiatori che sono a Ferrara, hanno una nuova energia di sentimento.» L'umanista Giovan Battista Pigna fece in modo di mandare alle stampe nel 1553, per Vincenzo Valgrisi di Venezia, un'antologia di sessantasette componimenti ariosteschi, dal titolo Carmina.
Rime
Ariosto scrisse dei componimenti in volgare dal 1493 sino al 1527, realizzando in tutto quarantuno sonetti, ventisette capitoli in terzine dantesche, dodici madrigali, cinque canzoni e due egloghe. Perlopiù sono poesie a carattere quotidiano e d'amore, dedicate ad Alessandra Benucci, ma non mancano temi politici e sociali come, ad esempio, la congiura del 1508 contro Alfonso I d'Este ordita dai suoi fratelli Giulio e Ferrante o la morte nel 1526 di Giovanni delle Bande Nere.
Anche i carmi in volgare non vennero mai raccolti in un canzoniere, come quelli in lingua latina, anche perché il loro autore non li teneva in molta considerazione. Soltanto nel 1546 vennero pubblicati con il titolo Rime di M. Lodovico Ariosto non più viste, et nuovamente stampate a instantia di Iacopo Modanese, ciò è Sonetti Madrigali Canzoni Stanze Capitoli da Iacopo Coppa, a Venezia, grazie anche alla protezione che ottenne dalla nobildonna Caterina Barbaro, la quale nell'edizione sottoscrisse una dedica a Lodovico Morosini. Le Rime dimostrano quanto Ariosto fosse lontano dal petrarchismo ortodosso promosso dal Bembo e dalla produzione poetica cortigiana ferrarese di quegli anni, artificiosa e circonvoluta, quale era ad esempio quella di Matteo Maria Boiardo.
Teatro
Ariosto ha legato la sua fama principalmente all'Orlando Furioso ma in vita ebbe un grande successo grazie soprattutto alla sua attività da commediografo nell'«importante stagione rappresentativa dei volgarizzamenti plautini e terenziani promossa da Ercole I d'Este negli anni Ottanta del Quattrocento» e diede così lustro non solo al suo nome ma anche a quello di Ferrara, che intendeva in tal modo divenire uno dei centri culturali della scena cinquecentesca. Il ventennio che inquadra le commedie (1508-1528) è suddivisibile in due periodi ben distinti (separati dalla parentesi delle missioni diplomatiche a Roma presso Giulio II), nei quali l'autore «conferma la sua continua ricerca di una lingua comica adeguata, scioltamente dialogica ma al tempo stesso ritmica, stilisticamente sostenuta»:

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Raffaello Sanzio, Ritratto di Giulio II, 1511, olio su tavola, conservato nella National Gallery a Londra.

Il primo (1508-1509) vede la realizzazione e la rappresentazione de La Cassaria e I Suppositi, redatte in prosa ritmica e sensibilmente legate alla tradizione latina di Plauto e Terenzio, dai quali riprende sistematicamente le situazioni (lo scambio d'identità, i colpi di scena, l'agnizione finale etc...) e il sistema dei personaggi (come il servo furbo e parassita, il padre avaro, il giovane innamorato e così via).
Il secondo (1520-1528) accoglie il passaggio dalla prosa alla poesia, con la versificazione delle precedenti opere e la creazione de Il Negromante e La Lena, innestati su endecasillabi sdruccioli dalla cadenza monotona e tuttavia dissimulata da «una sintassi agile e variata, capace di mimare adeguatamente la disinvoltura del parlato»; dal punto di vista contenutistico, mostrano una ben più matura analisi dei caratteri, mutuata dalla parallela evoluzione del genere, che aveva ne La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena (del 1513) e la Mandragola di Niccolò Machiavelli (del 1518) i suoi esempi massimi, e della costruzione della trama.
Le commedie ariostesche ebbero un ruolo di cruciale importanza nella rifondazione dei generi teatrali del Rinascimento stabilendo il canone della drammaturgia «regolare» con la struttura in cinque atti, con le scenografie sfarzose e con il ricorso di topoi della latinità. La critica letteraria successiva tuttavia ne ha sottolineato pure i difetti giudicando le opere ariostesche troppo ancorate ai modelli di partenza e non pienamente riuscite sotto il profilo espressivo e linguistico. Di fatto la ricerca del parlato toscano, condotta attraverso l'adozione di termini colloquiali presi dal Decameron di Giovanni Boccaccio e dagli scrittori comici quattrocenteschi, non portò a un'acquisizione soddisfacente della lingua; come scrive Bruscagli.
Tragedia di Tisbe
La Tragedia di Tisbe fu il primo componimento di Ariosto, scritto quando ancora non aveva compiuto vent'anni, nel 1493, e stava seguendo gli studi giuridici presso l'ateneo ferrarese. Venne messa in scena nella casa di famiglia assieme ai fratelli. La tragedia si ispira a Le metamorfosi di Ovidio e in particolare alla storia di Piramo e Tisbe, due giovani il cui amore era contrastato, costringendoli a parlare attraverso una crepa nel muro che separava le loro abitazioni. Per una tragica fatalità Piramo crede morta Tisbe e si suicida; poco dopo anche lei si toglie la vita. Tale vicenda era stata precedentemente sfruttata e citata da altri letterati e autori, come Boccaccio per costruire una delle novelle del Decameron. William Shakespeare l'avrebbe poi usata come base per sviluppare Romeo e Giulietta. Il lavoro manoscritto di Ariosto andò perduto probabilmente durante il XVIII secolo, dopo essere stato a lungo conservato dagli eredi del poeta.
Cassaria
Cassaria fu la prima commedia di Ariosto ad essere rappresentata davanti alla corte estense. La messa in scena avvenne durante il carnevale, il 5 marzo 1508. Inizialmente in prosa, venne versificata tra il 1528 e il 1529 in endecasillabi, venendo nuovamente presentata nel 1531. Essa risente dell'ammirazione per i lavori di Tito Maccio Plauto e Publio Terenzio Afro e del grande interesse per il genere comico manifestato sia dal duca Ercole I d'Este sia dal figlio Alfonso, che avevano avviato il progetto di riscoperta coinvolgendo il poeta fin dal 1492. La presentazione del 1508 fu molto curata, con una scenografia affidata a Pellegrino da San Daniele. Riscosse notevole successo, tanto che il cortigiano Bernardino Prosperi ne informò con una lettera entusiasta la duchessa di Mantova Isabella d'Este, sorella del duca di Ferrara e riconosciuta autorità culturale rinascimentale.

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Isabella D'Este di Tiziano Vecellio

La trama, sul solco della tradizione plautino-terenziana, ha per protagonisti due giovani abitanti di Mitilene, Erofilo e Caridoro, che si innamorano rispettivamente di Eulalia e Corisca, due schiave del vanesio Lucranio, e per averle si servono di una cassa, la quale sarà poi al centro di una serie di scambi di personalità e di giochi farseschi, a cui sapranno trovare una soluzione soltanto i servi scaltri e i «giuntatori». Fin dal prologo in terzine viene esplicata la novità del progetto, non dal punto di vista dell'azione drammaturgica o dei caratteri in gioco, ma da quello linguistico, ovverosia concernente la lingua, un «acerbo» toscano illustre:

«La vulgar lingua, di latino mista
è barbara e mal culta; ma con giochi
si può far una fabula men trista.»

Il testo fu pubblicato nel 1509 in una prima stampa senza indicazioni su editore e luogo; da essa vennero in seguito, sempre nel XVI secolo, tratte altre otto edizioni. Quella del 1546 di Gabriele Giolito de' Ferrari fu tra le più curate.
I Suppositi
I suppositi fu la seconda commedia di Ariosto a venir pubblicamente rappresentata davanti alla corte, un anno dopo la Cassaria e nella stessa occasione del carnevale, nel 1509. La messa in scena ebbe luogo nel salone grande del palazzo ducale e lo stesso poeta ne recitò il prologo. Ispirato all'Eunuchus di Terenzio e ai Captivi di Plauto, si configura come un lavoro maggiormente curato dei suoi predecessori, più attento allo svolgimento narrativo dei fatti che all'effetto ludico della lingua. La trama, con picchi anche drammatici ma dal lieto fine, ruota attorno allo scambio di persona che coinvolge il giovane studente Erostrato, innamorato di Polinesia, e il servo Dulippo. La scelta di ambientarla a Ferrara fece in modo che la vicenda catturasse di più l'attenzione degli spettatori. Una seconda e importante rappresentazione, voluta dal cardinale Innocenzo Cybo, ebbe luogo la domenica di carnevale del 5 marzo 1519 nel Palazzo Apostolico a Roma. Il papa Leone X rimase affascinato dallo spettacolo, anche grazie alla scenografia con la veduta su piazza delle Erbe di Ferrara preparata da Raffaello Sanzio, e chiese di altri lavori di Ariosto. Fu proprio sulla scorta di tale successo che, sempre a Roma, venne realizzata nel 1524 la prima edizione a stampa ufficiale della commedia, dopo alcune versioni non autorizzate tratte dai copioni degli attori.
Il Negromante
Il Negromante fu la prima commedia in versi di Ariosto, già sbozzata nel 1509. Ebbe due versioni, una romana e l'altra ferrarese. La prima venne inviata in copia il 16 gennaio 1520 a papa Leone X nella speranza che venisse rappresentata replicando il successo de I Suppositi dell'anno prima, cosa che non avvenne. La seconda venne invece messa in scena durante il carnevale del 1528, assieme a Lena e La Moscheta di Ruzante, delle quali sfruttò anche le scenografie. Entrambe le versioni furono stampate postume: quella di Roma nel 1535 a Venezia e quella di Ferrara presso Giolito de ’Ferrari nel 1551. L'opera ha per protagonista Lachelino, un finto mago e negromante (modellato su Ruffo, de La Calandria di Bibbiena, e su Callimaco, della Mandragola di Machiavelli) che imbroglia e deruba tutte le persone con le quali ha a che fare ma che, grazie all'intervento del servo Temolo, viene smascherato.
I Studenti
I studenti è una commedia che Ariosto cominciò a scrivere in versi in un particolare momento della sua vita, attorno al 1518, quando, distaccatosi dal cardinale Ippolito d'Este e sollevato dalle mansioni da chierico, versava in difficoltà economiche. Anche quando venne chiamato a corte da Alfonso I d'Este, non poté proseguire con tranquillità il lavoro, perché la morte del cugino Rinaldo, avvenuta nel 1519, e le questioni legate alla sua eredità gli crearono molti problemi. Un'ulteriore interruzione si ebbe durante il governatorato della Garfagnana. Lo stesso poeta, in tarda età, ammise di non avere mai ultimato l'opera, senza tuttavia chiarirne le motivazioni.
La vicenda risultò pertanto frammentaria, simile strutturalmente ai Suppositi ma con un intreccio confuso e che si interrompe definitivamente alla quarta scena del quarto atto. Ambientata a Ferrara, ha per protagonisti due giovani studenti innamorati di una ragazza, Ippolita. Con i loro servi, si scambiano di persona e riescono a farsi assumere dal padre di lei come contadini. La storia a questo punto si complica e i vari equivoci relativi al travestimento e alla falsa identità si susseguono senza però un vero e proprio fine ludico. L'autore infatti sembra essere più interessato a sviscerare le implicazioni più eminentemente antropologiche di tutta la commedia. I Studenti fu in seguito proseguita dal fratello Gabriele e dal figlio Virginio, che le cambiarono il titolo rispettivamente in La scolastica e L'imperfetta. La prima si rivelò essere la continuazione più riuscita e venne pubblicata a Venezia, mentre la seconda ebbe meno fortuna.
La Lena
La Lena è l'ultima commedia di Ariosto, ritenuta la sua migliore e la più matura, e che si caratterizza per uno stile essenziale, che non cede a siparietti e giochi letterari o scenografici. Fu composta subito in versi e rappresentata per la prima volta nel 1528, a Ferrara, durante il periodo carnevalesco. Venne messa nuovamente in scena l'anno successivo e nel 1532, quando fu inserita in un ciclo di spettacoli ai quali fu presente lo stesso Ruzante, con l'aggiunta di nuove sequenze e un diverso prologo. La trama ha per protagonisti due giovani Flavio e Licinia, innamorati l'uno dell'altro. I loro desideri sono tuttavia frustrati da una serie di intrighi, in cui sono coinvolti i loro genitori, Lena (una ruffiana legata al padre di lei) e un servo, Corbolo, che saprà condurre gli sviluppi sino alla conclusione positiva. Lo sfondo è nuovamente Ferrara, rappresentata con una certa attenzione per il realismo, in modo tale da favorire l'immedesimazione del pubblico. Tuttavia, tale ricerca di fedeltà nell'illustrazione del tessuto cittadino non tralascia anche gli aspetti più negativi, quali la corruzione e il degrado. Infatti sull'opera aleggia un certo pessimismo per il futuro. La commedia venne stampata, nella sua versione allungata per il ciclo di rappresentazioni teatrali, nel 1535 a Venezia, in un volume assieme a Il Negromante.
Epistolario
Ludovico Ariosto intrattenne rapporti epistolari con numerose personalità del mondo politico e culturale, oltreché con la sua famiglia nei frequenti periodi di lontananza. Tali missive, circa duecentoquattordici, furono raccolte in un epistolario, sullo scorcio delle Epistole di Francesco Petrarca, che rimase però sconosciuto fino al 1887, quando il sacerdote e storico Antonio Cappelli lo pubblicò per i tipi della casa milanese Ulrico Hoepli, con le lettere ordinate cronologicamente e che comprendevano corrispondenza di carattere sia privato (come quella con la Benucci) sia pubblico, con documenti ufficiali e diplomatici indirizzati a personalità politiche, a signorie o a entità statali (quali il cardinale Ippolito o il doge Andrea Gritti). Tali scritti vennero giudicati da sempre dagli studiosi, come Benedetto Croce, marginali all'interno della produzione letteraria ariostesca. Con il passare del tempo alcuni critici li rivalutarono, definendoli importanti per ricostruire la figura umana del loro autore: la lettura di questi documenti permette infatti di cogliere il suo stile pratico e asciutto.
Romanzi cavallereschi
Obizzeide
L'Obizzeide doveva essere un poema epico atto a celebrare la casata estense, cantando le imprese di Obizzo III d'Este, l'antenato del duca Alfonso nonché amante di un'antenata di Ariosto, che ottenne dal papa Clemente VI il vicariato sulla città di Ferrara. Sbozzato tra il 1503 e il 1504, è probabilmente legato al particolare momento che stava vivendo il poeta, da poco rientrato in città e accettato a corte nella cerchia del cardinale Ippolito d'Este. Il lavoro risulta incompiuto, interrompendosi dopo duecentoundici versi, ma può comunque essere inteso come un passaggio obbligato verso l'Orlando furioso. Conferma infatti la commistione tra generi, operata già da Matteo Maria Boiardo, che unisce il tema dell'amore a quello delle armi. Ispirandosi ad alcuni autori del mondo classico, come Omero, Virgilio, Orazio, Catullo e Ovidio, e a scrittori in volgare quali Dante, Petrarca e Boccaccio, si allinea all'umanesimo del XV secolo, rivisitando l'epica cavalleresca medievale senza però evitare di dare alle vicende un legame con la quotidianità.
Orlando furioso
L'Orlando furioso è un poema cavalleresco in ottave a schema ABABABCC, con cui Ariosto si propone di continuare e concludere la storia incompiuta dell'opera di Boiardo Orlando innamorato, ripartendo dal momento esatto dove si era interrotta. Da essa mutua l'artificio narrativo del recitativo, ovvero la riproposizione scritta del modo di raccontare le avventure tipico dei canterini e dei giullari di corte «attenuandone però l'integrale oralità a vantaggio di un registro morale più pronunciato, e di una voce autoriale più personalmente caratterizzata». Le tre edizioni che si sono succedute testimoniano la natura di «opera in progress, sia sotto il profilo formale [...] sia sotto quello narrativo»: infatti, la prima, del 22 aprile 1516, è in quaranta canti e risente ancora di un concepimento «all'interno di una prospettiva ancora molto boiardesca, ferrarese (come dimostra soprattutto il linguaggio, fortemente colorito di forme padane e ancora vicino al pittoresco dettato dell'Innamorato)»; la seconda, del 13 febbraio 1521, presenta undici canti sostitutivi e una lieve revisione linguistica; infine, la terza del primo ottobre 1532 vede l'aggiunta di diversi episodi significativi, come quello della contessa Olimpia (canti IX-XI) e soprattutto del tiranno Marganorre (XXXVII), e una toscanizzazione della materia ormai completa, frutto non tanto di «un'acquiescenza alla dittatura linguistica di Bembo (che aveva pubblicato le Prose della volgar lingua nel 1525)», né di «una mera compiacenza estetica», bensì di una «mossa ben più decisiva, [...] "politica": si trattava in poche parole di trasformare il poema di cavalleria da oggetto di culto delle piccole signorie padane in un grande genere italiano, nazionale, capace di entrare nel canone del nuovo classicismo volgare».

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Incisione tratta da un disegno di Tiziano raffigurante Ludovico Ariosto, pubblicata nell'edizione del 1532 dell'Orlando Furioso.j

La fabula è molto complessa e difficilmente riassumibile; infatti un'elevata quantità di episodi, di eventi e di novelle si frappongono al romanzo e la peculiare costruzione a intreccio si sviluppa sostanzialmente su tre narrazioni principali: quella militare, costituita dalla guerra tra i paladini difensori della religione cristiana e i saraceni infedeli; quella amorosa, incentrata sulla fuga di Angelica e sulla pazzia di Orlando, e infine quella encomiastica, con cui si loda la grandezza dei duchi d'Este e dedicata alle vicende amorose tra la cristiana Bradamante e il saraceno Ruggiero. I temi affrontati vanno dalla follia (di Orlando) alla magia, passando per la guerra, l'eroismo e l'encomio (tipicamente cortigiano, verso il cardinale Ippolito, definito «generosa Erculea prole»); in tutto ciò, nel poema «vige la legge per cui ciò che si cerca non si trova, e si trova chi non si cerca»: ed è così che la storia cavalleresca risulta un'ampia rappresentazione della vicenda umana regolata da un'ineluttabile casualità. E poco importa che il poeta ne sia «l'accortissimo regista»: il lettore si perde nei vicoli ciechi del labirinto narrativo, provando un senso di forte straniamento. In questo senso, il Furioso si colloca nel filone delle opere di Machiavelli e di Francesco Guicciardini, contemporanei all'Ariosto, che registrano pure loro «l'esperienza dell'impari confronto con la fortuna, con una realtà delle leggi mutevoli, elusive e sfuggenti, che procede per ribaltamenti incontrollabili, cocenti smentite e improvvisi colpi di scena
Come detto, il successo del poema fu immediato; scrive Bruscagli:

«Questo favore dei lettori, anche dei più esigenti, non si smentì con le edizioni successive, del 1521 e del 1532, le quali anzi, allontanandosi dal colore linguistico vivacemente municipale della prima e adeguandosi a un ideale di toscanismo stretto, di perfetta omogeneità e raffinatezza espressiva, risposero con singolare tempestività all'"edonismo linguistico" (Segre) del secolo, al suo gusto sempre più accentuato di euritmia e di bellezza formale. Sì che alla fine del Cinquecento Torquato Tasso [...] doveva riconoscere che il Furioso "è letto e riletto da tutte l'età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovanisce sempre nella sua fama, e vola glorioso per le lingue dei mortali".»

Satire
Ariosto compose le sue sette Satire indirizzandole a parenti e amici quali i cugini Annibale e Sigismondo Malaguzzi, il futuro cardinale Pietro Bembo e Bonaventura Pistofilo, segretario del duca di Ferrara. Il modello al quale si ispirò, a partire dal nome scelto, fu quello delle opere di due autori latini, e cioè le Satire di Decimo Giunio Giovenale (nella versione in volgare del 1480 dovuta a Giorgio Sommariva e, per la Satira V, nella resa di Giovanni Boccaccio) e le Satire di Quinto Orazio Flacco. Altri riferimenti importanti furono i capitoli ternari di Antonio Vinciguerra, pubblicati nell'Opera nova del 1505, e il Sermonum liber del 1514 di Tito Vespasiano Strozzi. Giovenale viene citato nelle satire prima, seconda e quinta; Alessandro Capata di Internet Culturale ad esempio riporta: «quanto scrive Ludovico in Satire I, 79-81: ‘Io mi riduco al pane; e quindi freme / la colera; cagion che alli dui motti / gli amici et io siamo a contesa insieme’ rinvia esplicitamente al motivo polemico contenuto in Giovenale, V 159-160: ‘effundere bilem / cogaris’ e 169: ‘stricto pane tacetis’. L’invocazione contenuta in Satire I 115-117 rivolta ad Andrea Marone, poeta di corte e familiare di Ippolito d’Este che aspirava ad accompagnare il cardinale in Ungheria, scartato a favore di Celio Calcagnini, riecheggia simili versi di Giovenale. ‘Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta / con la lira in un cesso, e una parte impara, / se beneficii vuoi, che sia più accetta’ (Satire I 115-117). ‘Siqua aliunde putas rerum expectanda tuarum / praesidia atque ideo croceae membrana tabellae / impletur, lignorum aliquid posce ocius et, quae / componis, dona Veneris, Telesine, marito / aut clude et positos tinea pertunde libellos’ (Giovenale, VII 22-26).» I lavori ariosteschi prendono la forma di missive redatte in terzine dantesche e seguono la struttura della satira latina creando, in tal modo, un genere letterario nuovo, il satirico moderno. La prima satira venne composta nel 1517 e l'ultima nel 1524. L'autore se ne servì soprattutto per esprimere i sentimenti che provava sentendosi non compreso dalla corte, finanche maltrattato. Con i versi delle Satire dichiarò la sua libertà personale e la lontananza dal clima di corruzione che vedeva nella politica, preferendogli una realtà più dimessa e quotidiana. L'opera venne pubblicata postuma per la prima volta nel 1543, in forma clandestina e non ufficiale, in un'edizione attribuita a Francesco Rosso di Valenza. La prima uscita ufficiale si ebbe l'anno dopo, dai veneziani Francesco Bindoni e Maffeo Pasini. Nel 1550 Giolito de’ Ferrari creò una nuova edizione curata da Anton Francesco Doni, seguita da un'altra quarta, del 1554, di Plinio Pietrasanta con Girolamo Ruscelli come curatore.
Erbolato
Erbolato (termine che indica un venditore di erbe medicinali o, semplicemente, un erborista) è una piccola operetta in prosa pubblicata postuma nel 1545. Venne scritta in tarda età da Ariosto, dopo il 1524 o addirittura dopo il 1530. La sua genesi è legata probabilmente all'abitudine di far recitare un testo durante le pause o gli intermezzi delle rappresentazioni teatrali e contiene numerose allusioni satiriche e parodie della professione medica, con anche spunti di riflessione più seria sulla Natura, non sempre benigna, e una forte ironia nei confronti di chi si fa ingannare da imbonitori e truffatori. Il protagonista, un ciarlatano chiamato Antonio da Faenza, loda la scienza medica e in particolare le virtù curative del suo elettuario; la sua figura potrebbe ispirarsi a due medici realmente esistiti: il primo, il faentino Antonio Cittadini, docente nello Studium di Ferrara e in quello di Pisa, era morto pochi anni della redazione del lavoro, mentre il secondo, Niccolò da Lunigo, presente a Ferrara sempre in quel periodo, aveva inventato una medicina capace di curare ogni infermità e prolungare enormemente la durata della vita. Secondo una diceria, frutto di fantasia, esso sarebbe stato usato dai fratelli del duca Ercole I d'Este che in tal modo avrebbero superato l'età di ottant'anni. Fu Iacopo Coppa a curare la pubblicazione dopo la morte del poeta, affidandosi alla tipografia veneziana di Pietro Nicolini da Sabbio nel 1543. Dopo anni di oblio l'opera fu riscoperta a partire dal XVIII secolo.
Esposizione della pittura ferrarese del rinascimento
Il IV centenario ariostesco del 1933 fu strettamente legato all'esposizione della pittura ferrarese rinascimentale, seguendo le intenzioni di Italo Balbo che intendeva riportare Ferrara all'antico splendore andato perduto con la devoluzione del 1598 e quindi il celebrare il suo passato storico ed artistico:[237][238]
«Sono note le ragioni che, tra il 1928 e il 1933, portarono autorità ferraresi e romane a sostenere le celebrazioni dell'Ottava d'Oro e di Ludovico Ariosto. Il ruolo di Balbo fu determinante: era questa la stagione del quadrumviro fascista, forte appunto di un programma generale ferrarese ed estense. Una mostra d'arte antica poteva fare proprio allora la sua apparizione da protagonista, approvata e sostenuta anche dalle Belle Arti e dal Comune. Ma la stessa iniziativa di Palazzo dei Diamanti deve essere immaginata in un arco progettuale tessuto per molte fila con la forza d'una ricostruzione sperata della città devoluta nel 1598: ed allontanata con violenza dalla storia.» L'Esposizione fu un avvenimento di risonanza mondiale, inaugurato dai Principi di Piemonte il 7 maggio 1933. Le opere degli artisti ferraresi si trovavano in quel periodo disperse in musei e gallerie pubbliche e private in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, e per l'occasione tornarono da New York, Parigi, Berlino, Vienna, Amsterdam, Budapest e Liverpool.[239]
Accademia Ariostea
A Ferrara, durante l'occupazione francese, venne istituita il 15 novembre 1803 l'Accademia Ariostea e fu nominato suo segretario perpetuo Girolamo Baruffaldi, tra i massimi studiosi locali del tempo ed autore di vari saggi sul poeta. Il sito scelto per la sede fu quello dove in precedenza si trovava il teatro degli Intrepidi, voluto dall'omonima Accademia e progettato intorno al 1604 da Giovan Battista Aleotti su incarico del marchese Enzo Bentivoglio, andato distrutto in un incendio nel 1640. All'inaugurazione dell'Accademia Ariostea intervennero le più importanti autorità cittadine.
Luoghi e monumenti
La casa di Ludovico Ariosto si trova sulla via omonima, traversa di viale Cavour che inizia dall'incrocio sul quale si trova il Palazzo dell'Aeronautica e oltre alla casa del poeta vi si trova la sede del rettorato dell'ateneo dal 2015. Il poeta se la fece adattare dopo averla acquistata dalla famiglia di Bartolomeo Cavalieri e viene attribuita a Girolamo da Carpi. Qui visse i suoi ultimi anni con il figlio Virginio e la moglie Alessandra Benucci, dal 1528 alla morte, e si dedicò alla rifinitura dell'Orlando furioso. La piazza Ariostea, nata con l'Addizione Erculea con il nome originale di piazza Nuova e poi per un breve periodo chiamata anche piazza Napoleone, venne definitivamente dedicata al poeta. Sulla colonna al suo centro, dal 25 novembre 1833, fu collocata la statua del poeta. La piazza è utilizzata per varie manifestazioni, tra queste il Palio di Ferrara. Il monumento a Ludovico Ariosto si trova al centro della piazza Ariostea, sulla colonna rinascimentale che regge la statua scolpita da Francesco Vidoni su disegno di Francesco Saraceni. La biblioteca comunale Ariostea è la principale biblioteca cittadina, già delizia estense e chiamata palazzo Paradiso, poi sede universitaria per l'Università degli Studi di Ferrara, ricorda l'Ariosto nel suo nome. Case degli Ariosto o degli Ariosti, che non sono sempre direttamente legate al poeta ma alla sua famiglia, e si trovano in due vie cittadine, via del Carbone e via Giuoco del Pallone. Nella prima si può vedere il palazzo che fu di Lippa Ariosti, moglie di Obizzo III d'Este e una targa in marmo ricorda la famiglia e riporta due versi del poeta. Nella seconda, al numero civico 31, si trova il palazzo del quattrocento di Brunoro Ariosti, zio di Ludovico, che fu anche dimora del poeta. Qui Ludovico compose parte della prima stesura dell'Orlando Furioso. Quattro appartamenti del palazzo sono divenuti proprietà della Fondazione Elisabetta Sgarbi. La tomba di Ludovico Ariosto è il monumento funebre eretto molti anni dopo il trasferimento dei resti del poeta in San Benedetto per iniziativa di Agostino Mosti. Lo stesso monumento poi venne sostituito da un secondo, molto più ricco e imponente, sempre nello stesso edificio religioso. In seguito all'invasione di Ferrara da parte delle truppe francesi nel periodo napoleonico ed alla conseguente soppressione di moltissime chiese e conventi, legata spesso alla requisizione delle opere d'arte o degli arredi preziosi, il monumento, per disposizione del generale Sextius Alexandre François de Miollis, fu trasferito nel palazzo Paradiso, dove viene conservato.
Molte epigrafi a Ferrara citano il poeta. Nella chiesa di San Benedetto la targa ricorda che fu il secondo luogo di sepoltura di Ariosto che subito dopo la morte venne tumulato in una piccola stanza nel vicino monastero per poi essere trasferito nell'edificio religioso solo anni dopo il suo completamento, nel 1573. All'inizio di corso Ercole I d'Este l'epigrafe è stata posta dalla Ferrariae Decus, vicino al Castello Estense, sulla facciata del palazzo della Borsa. Sullo scalone d'onore di palazzo Paradiso, già sede dell'Università degli Studi di Ferrara. Sulla facciata del Palazzo Municipale di Ferrara, di lato al Volto del Cavallo. Davanti all'epigrafe si trova la colonna costruita con le lapidi del cimitero ebraico cittadino e sulla quale è posta la statua del primo duca di Ferrara, Borso d'Este. Sulla casa di Pandolfo Ariosto, in via del Carbone dove oltre a questa vi si trova anche la casa dove visse Lippa Ariosti, citata dal poeta nel Canto XIII dell'Orlando Furioso. Sulla Magna Domus, casa dell'Ariosto in via Giuoco del Pallone all'angolo con vicolo del Granchio. Si trova poco lontano dalla chiesa di San Gregorio Magno ed è tra gli edifici più interessanti della zona, dal XX secolo divenuta parte delle case Cavallini-Sgarbi.

Edizioni delle opere

  • Delle Satire E Rime del Divino Ludovico Ariosto Libri II. Con Le Annotazioni Di Paoli Rolli, ..., a cura di, Abramo Vandenhoek, 1760.
  • Satire, a cura di Giovanni Gaspare Orelli, Orell, Fuessli e Comp., 1842.
  • Orlando Furioso e cinque canti - Volume secondo, a cura di Remo Ceserani e Sergio Zatti, UTET, 2006
  • Lettere di Ludovico Ariosto con prefazione storico-critica, documenti e note per cura di Antonio Cappelli, terza, Milano, Ulrico Hoepli 1887.
  • Orlando furioso: di M. Lodovico Ariosto (co' cinque canti; pubblicato da Andrea Rubbi), Venezia, Antonio Zatta e figli, 1785
  • La rime di M. Lodovico Ariosto non piu uiste: & nuouamente stamptata à instantia di Iacopo Modaneae, cio è sonetti, madrigali, canzoni stanze. capitoli., In Vinegia [1546], Iacopo Modanese con priuilegio del sommo Pontefice, & del eccelso Senate Veneto, M D XLVI [1546]
  • Le Satire di M. Lodovico Ariosto ... Con due Satire non piu uedute, curato da Anton Francesco Doni, Vinegia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550
  • Opere minori, curato da Cesare Segre, Milano, R. Ricciardi, 1965
  • Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Con introduzione e commento di Piero Nardi, Mondadori, 1966

ORLANDO FURIOSO: Sintesi dei singoli canti

Canto I

Il celebre proemio espone la materia del poema, insieme amorosa e guerresca, rivendicando in particolare l’assoluta novità di uno dei temi trattati: la follia di Orlando. Alla protasi seguono l’invocazione semi-scherzosa del poeta alla sua donna, affinché non lo riduca come il paladino, e la dedica a Ippolito d’Este. La narrazione inizia con Angelica che incontra Rinaldo, rimasto a piedi dopo la sospensione del duello con Ruggiero: Angelica volta il cavallo e corre via verso un fiume, dove trova Ferraù che ha appena perso l'elmo che fu di Argalia, il fratello di lei. Si offre quindi di difendere la principessa contro Rinaldo, ma questa durante il duello fugge via. Accortisi di ciò, i due decidono di sospendere il duello per cercare Angelica, e salgono insieme sullo stesso cavallo. Giunti a un bivio decidono di dividersi: Ferraù si perde nella selva, si ritrova al fiume di prima e quindi cerca di riprendersi l'elmo, ma il fantasma di Argalia gli appare per ricordargli la sua promessa di restituire l'elmo dopo quattro giorni. Ferraù allora promette che prenderà l'elmo di Orlando. Angelica, fermatasi presso un ruscello, scorge Sacripante che si lamenta per amore della stessa ragazza, la quale non sa se manifestarsi e avere il cavaliere come guida o rimanere nascosta; alla fine propende per la prima alternativa. All'improvviso giunge un cavaliere che facilmente fa cadere Sacripante dal cavallo, ricoprendolo di vergogna: questa raddoppia quando il pagano scoprirà di essere stato messo al tappeto da una donna, Bradamante, che dopo lo scontro se ne va. Angelica e il suo accompagnatore trovano poi nella selva Baiardo, il cavallo di Rinaldo, che avendola riconosciuta si mette al servizio della dama. Ma dopo poco giunge anche Rinaldo.

CANTO PRIMO

1
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.

2
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sí saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sará però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.

3
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

4
Voi sentirete fra i piú degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensier cedino un poco,
sí che tra lor miei versi abbiano loco.

5
Orlando, che gran tempo inamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti et immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,

6
per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E cosí Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentí d’esservi giunto;

7
 che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperii ai liti eoi
avea difesa con sí lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.

8
Nata pochi dí inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che ambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse, e diè in mano al duca di Bavera;

9
in premio promettendola a quel d’essi
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degli infideli piú copia uccidessi,
e di sua man prestassi opra piú grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.

10
 Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi al caso era salita in sella,
e quando bisognò le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò un cavallier ch’a piè venía.

11
 Indosso la corazza, l’elmo in testa,
la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
e piú leggier correa per la foresta,
ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
Timida pastorella mai sí presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier, ch’a piè venía, s’accorse.

12
 Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l’angelico sembiante e quel bel volto
ch’all’amorose reti il tenea involto.

13
 La donna il palafreno a dietro volta,
e per la selva a tutta briglia il caccia;
né per la rara piú che per la folta,
la piú sicura e miglior via procaccia:
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al destrier che la via faccia.
Di su di giú, ne l’alta selva fiera
tanto girò, che venne a una riviera.

14
 Su la riviera Ferraú trovosse
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
né l’avea potuto anco riavere.

15
 Quanto potea piú forte, ne veniva
gridando la donzella ispaventata.
A quella voce salta in su la riva
il Saracino, e nel viso la guata;
e la conosce subito ch’arriva,
ben che di timor pallida e turbata,
e sien piú di che non n’udí novella,
che senza dubbio ell’è Angelica bella.

16
 E perché era cortese, e n’avea forse
non men dei dui cugini il petto caldo,
l’aiuto che potea tutto le porse,
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:
trasse la spada, e minacciando corse
dove poco di lui temea Rinaldo.
Piú volte s’eran giá non pur veduti,
ma ’l paragon de l’arme conosciuti.

17
Cominciâr quivi una crudel battaglia,
come a piè si trovâr, coi brandi ignudi:
non che le piastre e la minuta maglia,
ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi.
Or, mentre l’un con l’altro si travaglia,
bisogna al palafren che ’l passo studi;
che quanto può menar de le calcagna,
colei lo caccia al bosco e alla campagna.

18
 Poi che s’affaticâr gran pezzo invano
i duo guerrier per por l’un l’altro sotto,
quando non meno era con l’arme in mano
questo di quel, né quel di questo dotto;
fu primiero il signor di Montalbano,
ch’al cavallier di Spagna fece motto,
sí come quel c’ha nel cor tanto fuoco,
che tutto n’arde e non ritrova loco.

19
 Disse al pagan: — Me sol creduto avrai,
e pur avrai te meco ancora offeso:
se questo avvien perché i fulgenti rai
del nuovo sol t’abbino il petto acceso,
di farmi qui tardar che guadagno hai?
che quando ancor tu m’abbi morto o preso,
non però tua la bella donna fia,
che, mentre noi tardian, se ne va via.

20
 Quanto fia meglio, amandola tu ancora,
che tu le venga a traversar la strada,
a ritenerla e farle far dimora,
prima che piú lontana se ne vada!
Come l’avremo in potestate, allora
di ch’esser de’ si provi con la spada:
non so altrimenti, dopo un lungo affanno,
che possa riuscirci altro che danno. —

21
 Al pagan la proposta non dispiacque:
cosí fu differita la tenzone;
e tal tregua tra lor subito nacque,
sí l’odio e l’ira va in oblivïone,
che ’l pagano al partir da le fresche acque
non lasciò a piedi il buon figliol d’Amone:
con preghi invita, et al fin toglie in groppa,
e per l’orme d’Angelica galoppa.

22
 Oh gran bontá de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
Da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva.

23
 E come quei che non sapean se l’una
o l’altra via facesse la donzella
(però che senza differenzia alcuna
apparia in amendue l’orma novella),
si messero ad arbitrio di fortuna,
Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraú molto s’avvolse,
e ritrovossi al fine onde si tolse.

24
Pur si ritrova ancor su la riviera,
lá dove l’elmo gli cascò ne l’onde.
Poi che la donna ritrovar non spera,
per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde,
in quella parte onde caduto gli era
discende ne l’estreme umide sponde:
ma quello era sí fitto ne la sabbia,
che molto avrá da far prima che l’abbia.

25
 Con un gran ramo d’albero rimondo,
di ch’avea fatto una pertica lunga,
tenta il fiume e ricerca sino al fondo,
né loco lascia ove non batta e punga.
Mentre con la maggior stizza del mondo
tanto l’indugio suo quivi prolunga,
vede di mezzo il fiume un cavalliero
insino al petto uscir, d’aspetto fiero.

26
 Era, fuor che la testa, tutto armato,
et avea un elmo ne la destra mano:
avea il medesimo elmo che cercato
da Ferraú fu lungamente invano.
A Ferraú parlò come adirato,
e disse: — Ah mancator di fé, marano!
perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi,
che render giá gran tempo mi dovevi?

27
 Ricordati, pagan, quando uccidesti
d’Angelica il fratel (che son quell’io),
dietro all’altr’arme tu mi promettesti
gittar fra pochi dí l’elmo nel rio.
Or se Fortuna (quel che non volesti
far tu) pone ad effetto il voler mio,
non ti turbare; e se turbar ti déi,
turbati che di fé mancato sei.

28
Ma se desir pur hai d’un elmo fino,
trovane un altro, et abbil con piú onore;
un tal ne porta Orlando paladino,
un tal Rinaldo, e forse anco migliore:
l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino:
acquista un di quei duo col tuo valore:
e questo, c’hai giá di lasciarmi detto,
farai bene a lasciarmi con effetto. —

29
 All’apparir che fece all’improviso
de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi,
e scolorossi al Saracino il viso;
la voce, ch’era per uscir, fermossi.
Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso
quivi avea giá (che l’Argalia nomossi),
la rotta fede cosí improverarse,
di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.

30
Né tempo avendo a pensar altra scusa,
e conoscendo ben che ’l ver gli disse,
restò senza risposta a bocca chiusa;
ma la vergogna il cor sí gli traffisse,
che giurò per la vita di Lanfusa
non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
se non quel buono che giá in Aspramonte
trasse del capo Orlando al fiero Almonte.

31
 E servò meglio questo giuramento,
che non avea quell’altro fatto prima.
Quindi si parte tanto malcontento,
che molti giorni poi si rode e lima.
Sol di cercare è il paladino intento
di qua di lá, dove trovarlo stima.
Altra ventura al buon Rinaldo accade,
che da costui tenea diverse strade.

32
Non molto va Rinaldo, che si vede
saltare inanzi il suo destrier feroce:
— Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!
che l’esser senza te troppo mi nuoce. —
Per questo il destrier sordo a lui non riede,
anzi piú se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.

33
 Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di lá strani vïaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

34
Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura triema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.

35
Quel dí e la notte e mezzo l’altro giorno
s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fine in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.

36
 Quivi parendo a lei d’esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l’estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
e quel va errando intorno alle chiare onde,
che di fresca erba avean piene le sponde.

37
Ecco non lungi un bel cespuglio vede
di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra l’alte quercie ombrose:
cosí vòto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l’ombre piú nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che ’l sol non v’entra, non che minor vista.

38
 Dentro letto vi fan tenere erbette,
ch’invitano a posar chi s’appresenta.
La bella donna in mezzo a quel si mette,
ivi si corca et ivi s’addormenta.
Ma non per lungo spazio cosí stette,
che un calpestio le par che venir senta:
cheta si leva, e appresso alla riviera
vede ch’armato un cavallier giunt’era.

39
Se gli è amico o nemico non comprende:
tema e speranza il dubbio cuor le scuote:
e di quella aventura il fine attende,
né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
Il cavalliero in riva al fiume scende
sopra l’un braccio a riposar le gote:
e in un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.

40
 Pensoso piú d’un’ora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò con suono afflitto e lasso
a lamentarsi sí soavemente,
ch’avrebbe di pietá spezzato un sasso,
una tigre crudel fatta clemente.
Sospirando piangea, tal ch’un ruscello
parean le guancie, e ’l petto un Mongibello.

41
 — Pensier (dicea) che’l cor m’aggiacci et ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,
e ch’altri a côrre il frutto è andato prima?
a pena avuto io n’ho parole e sguardi,
et altri n’ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affliger per lei mi vuo’ piú il core?

42
 La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.

43
Ma non sí tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che ’l fior, di che piú zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
lascia altrui côrre, il pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.

44
Sia vile agli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sí larga copia.
Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
Dunque esser può che non mi sia piú grata?
dunque io posso lasciar mia vita propia?
Ah piú tosto oggi manchino i dí miei,
ch’io viva piú, s’amar non debbo lei! —

45
Se mi domanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch’egli è il re di Circassia,
quel d’amor travagliato Sacripante;
io dirò ancor, che di sua pena ria
sia prima e sola causa essere amante,
e pur un degli amanti di costei:
e ben riconosciuto fu da lei.

46
 Appresso ove il sol cade, per suo amore
venuto era dal capo d’Orïente;
che seppe in India con suo gran dolore,
come ella Orlando sequitò in Ponente:
poi seppe in Francia che l’imperatore
sequestrata l’avea da l’altra gente,
per darla all’un de’ duo che contra il Moro
piú quel giorno aiutasse i Gigli d’oro.

47
Stato era in campo, e inteso avea di quella
rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo:
cercò vestigio d’Angelica bella,
né potuto avea ancora ritrovarlo.
Questa è dunque la trista e ria novella
che d’amorosa doglia fa penarlo,
affligger, lamentare e dir parole
che di pietá potrian fermare il sole.

48
 Mentre costui cosí s’affligge e duole,
e fa degli occhi suoi tepida fonte,
e dice queste e molte altre parole,
che non mi par bisogno esser racconte;
l’aventurosa sua fortuna vuole
ch’alle orecchie d’Angelica sian conte:
e cosí quel ne viene a un’ora, a un punto,
ch’in mille anni o mai piú non è raggiunto.

49
Con molta attenzion la bella donna
al pianto, alle parole, al modo attende
di colui ch’in amarla non assonna;
né questo è il primo dí ch’ella l’intende:
ma dura e fredda piú d’una colonna,
ad averne pietá non però scende,
come colei c’ha tutto il mondo a sdegno,
e non le par ch’alcun sia di lei degno.

50
Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola
le fa pensar di tor costui per guida;
che chi ne l’acqua sta fin alla gola,
ben è ostinato se mercé non grida.
Se questa occasïone or se l’invola,
non troverá mai piú scorta sí fida;
ch’a lunga prova conosciuto inante
s’avea quel re fedel sopra ogni amante.

51
     Ma non però disegna de l’affanno
che lo distrugge alleggierir chi l’ama,
e ristorar d’ogni passato danno
con quel piacer ch’ogni amator piú brama:
ma alcuna finzione, alcuno inganno
di tenerlo in speranza ordisce e trama;
tanto ch’a quel bisogno se ne serva,
poi torni all’uso suo dura e proterva.

52
E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
fa di sé bella et improvisa mostra,
come di selva o fuor d’ombroso speco
Dïana in scena o Citerea si mostra;
e dice all’apparir: — Pace sia teco;
teco difenda Dio la fama nostra,
e non comporti, contra ogni ragione,
ch’abbi di me sí falsa opinïone. —

53
 Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,
ch’avea per morto sospirato e pianto,
poi che senza esso udí tornar le squadre;
con quanto gaudio il Saracin, con quanto
stupor l’alta presenza e le leggiadre
maniere e il vero angelico sembiante,
improviso apparir si vide inante.

54
Pieno di dolce e d’amoroso affetto,
alla sua donna, alla sua diva corse,
che con le braccia al collo il tenne stretto,
quel ch’al Catai non avria fatto forse.
Al patrio regno, al suo natio ricetto,
seco avendo costui, l’animo torse:
subito in lei s’avviva la speranza
di tosto riveder sua ricca stanza.

55
 Ella gli rende conto pienamente
dal giorno che mandato fu da lei
a domandar soccorso in Orïente
al re de’ Sericani Nabatei;
e come Orlando la guardò sovente
da morte, da disnor, da casi rei:
e che ’l fior virginal cosí avea salvo,
come se lo portò del materno alvo.

56
 Forse era ver, ma non però credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch’era perduto in via piú grave errore.
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu; che ’l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.

57
— Se mal si seppe il cavallier d’Anglante
pigliar per sua sciochezza il tempo buono,
il danno se ne avrá; che da qui inante
nol chiamerá Fortuna a sí gran dono
(tra sé tacito parla Sacripante):
ma io per imitarlo giá non sono,
che lasci tanto ben che m’è concesso,
e ch’a doler poi m’abbia di me stesso.

58
 Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch’a donna non si può far cosa
che piú soave e piú piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch’io non adombri e incarni il mio disegno. —

59
 Cosí dice egli; e mentre s’apparecchia
al dolce assalto, un gran rumor che suona
dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,
sí che mal grado l’impresa abbandona:
e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia
di portar sempre armata la persona),
viene al destriero e gli ripon la briglia,
rimonta in sella e la sua lancia piglia.

60
 Ecco pel bosco un cavallier venire,
il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:
candido come nieve è il suo vestire,
un bianco pennoncello ha per cimiero.
Re Sacripante, che non può patire
che quel con l’importuno suo sentiero
gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,
con vista il guarda disdegnosa e rea.

61
 Come è piú presso, lo sfida a battaglia;
che crede ben fargli votar l’arcione.
Quel che di lui non stimo giá che vaglia
un grano meno, e ne fa paragone,
l’orgogliose minaccie a mezzo taglia,
sprona a un tempo, e la lancia in resta pone.
Sacripante ritorna con tempesta,
e corronsi a ferir testa per testa.

61
 Non si vanno i leoni o i tori in salto
a dar di petto, ad accozzar sí crudi,
sí come i duo guerrieri al fiero assalto,
che parimente si passâr gli scudi.
Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto
l’erbose valli insino ai poggi ignudi;
e ben giovò che fur buoni e perfetti
gli osberghi sí, che lor salvaro i petti.

63
 Giá non fêro i cavalli un correr torto,
anzi cozzaro a guisa di montoni:
quel del guerrier pagan morí di corto,
ch’era vivendo in numero de’ buoni;
quell’altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch’al fianco si sentí gli sproni.
Quel del re saracin restò disteso
adosso al suo signor con tutto il peso.

64
 L’incognito campion che restò ritto,
e vide l’altro col cavallo in terra,
stimando avere assai di quel conflitto,
non si curò di rinovar la guerra;
ma dove per la selva è il camin dritto,
correndo a tutta briglia si disserra;
e prima che di briga esca il pagano,
un miglio o poco meno è giá lontano.

65
Qual istordito e stupido aratore,
poi ch’è passato il fulmine, si leva
di lá dove l’altissimo fragore
appresso ai morti buoi steso l’aveva;
che mira senza fronde e senza onore
il pin che di lontan veder soleva:
tal si levò il pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso.

66
Sospira e geme, non perché l’annoi
che piede o braccia s’abbi rotto o mosso,
ma per vergogna sola, onde a’ dí suoi
né pria né dopo il viso ebbe sí rosso:
e piú, ch’oltre al cader, sua donna poi
fu che gli tolse il gran peso d’adosso.
Muto restava, mi cred’io, se quella
non gli rendea la voce e la favella.

67
 — Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca!
che del cader non è la colpa vostra,
ma del cavallo, a cui riposo et esca
meglio si convenia che nuova giostra.
Né perciò quel guerrier sua gloria accresca;
che d’esser stato il perditor dimostra:
cosí, per quel ch’io me ne sappia, stimo,
quando a lasciare il campo è stato primo. —

68
 Mentre costei conforta il Saracino,
ecco col corno e con la tasca al fianco,
galoppando venir sopra un ronzino
un messaggier che parea afflitto e stanco;
che come a Sacripante fu vicino,
gli domandò se con un scudo bianco
e con un bianco pennoncello in testa
vide un guerrier passar per la foresta.

69
Rispose Sacripante: — Come vedi,
m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora;
e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi,
fa che per nome io lo conosca ancora. —
Et egli a lui: — Di quel che tu mi chiedi
io ti satisfarò senza dimora:
tu déi saper che ti levò di sella
l’alto valor d’una gentil donzella.

70
Ella è gagliarda et è piú bella molto;
né il suo famoso nome anco t’ascondo:
fu Bradamante quella che t’ha tolto
quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. —
Poi ch’ebbe cosí detto, a freno sciolto
il Saracin lasciò poco giocondo,
che non sa che si dica o che si faccia,
tutto avvampato di vergogna in faccia.

71
 Poi che gran pezzo al caso intervenuto
ebbe pensato invano, e finalmente
si trovò da una femina abbattuto,
che pensandovi piú, piú dolor sente;
montò l’altro destrier, tacito e muto:
e senza far parola, chetamente
tolse Angelica in groppa, e differilla
a piú lieto uso, a stanza piú tranquilla.

72
 Non furo iti duo miglia, che sonare
odon la selva che li cinge intorno,
con tal rumore e strepito, che pare
che triemi la foresta d’ogn’intorno;
e poco dopo un gran destrier n’appare,
d’oro guernito e riccamente adorno,
che salta macchie e rivi, et a fracasso
arbori mena e ciò che vieta il passo.

73
 — Se l’intricati rami e l’aer fosco
(disse la donna) agli occhi non contende,
Baiardo è quel destrier ch’in mezzo il bosco
con tal rumor la chiusa via si fende.
Questo è certo Baiardo, io ’l riconosco:
deh, come ben nostro bisogno intende!
ch’un sol ronzin per dui saria mal atto,
e ne viene egli a satisfarci ratto. —

74
 Smonta il Circasso et al destrier s’accosta,
e si pensava dar di mano al freno.
Colle groppe il destrier gli fa risposta,
che fu presto a girar come un baleno;
ma non arriva dove i calci apposta:
misero il cavallier se giungea a pieno!
che nei calci tal possa avea il cavallo,
ch’avria spezzato un monte di metallo.

75
 Indi va mansueto alla donzella,
con umile sembiante e gesto umano,
come intorno al padrone il can saltella,
che sia duo giorni o tre stato lontano.
Baiardo ancora avea memoria d’ella,
ch’in Albracca il servia giá di sua mano
nel tempo che da lei tanto era amato
Rinaldo, allor crudele, allor ingrato.

76
 Con la sinistra man prende la briglia,
con l’altra tocca e palpa il collo e ’l petto:
quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia,
a lei, come un agnel, si fa suggetto.
Intanto Sacripante il tempo piglia:
monta Baiardo, e l’urta e lo tien stretto.
Del ronzin disgravato la donzella
lascia la groppa, e si ripone in sella.

77
 Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira
venir sonando d’arme un gran pedone.
Tutta s’avvampa di dispetto e d’ira;
che conosce il figliuol del duca Amone.
Piú che sua vita l’ama egli e desira;
l’odia e fugge ella piú che gru falcone.
Giá fu ch’esso odiò lei piú che la morte;
ella amò lui: or han cangiato sorte.

78
 E questo hanno causato due fontane
che di diverso effetto hanno liquore,
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie il core;
chi bee de l’altra, senza amor rimane,
e volge tutto in ghiaccio il primo ardore.
Rinaldo gustò d’una, e amor lo strugge;
Angelica de l’altra, e l’odia e fugge.

79
 Quel liquor di secreto venen misto,
che muta in odio l’amorosa cura,
fa che la donna che Rinaldo ha visto,
nei sereni occhi subito s’oscura;
e con voce tremante e viso tristo
supplica Sacripante e lo scongiura
che quel guerrier piú appresso non attenda,
ma ch’insieme con lei la fuga prenda.

80
 — Son dunque (disse il Saracino), sono
dunque in sí poco credito con vui,
che mi stimiate inutile e non buono
da potervi difender da costui?
Le battaglie d’Albracca giá vi sono
di mente uscite, e la notte ch’io fui
per la salute vostra, solo e nudo,
contra Agricane e tutto il campo, scudo? —

81
 Non risponde ella, e non sa che si faccia,
perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso,
che da lontano al Saracin minaccia,
come vide il cavallo e conobbe esso,
e riconobbe l’angelica faccia
che l’amoroso incendio in cor gli ha messo.
Quel che seguí tra questi duo superbi
vo’ che per l’altro canto si riserbi.

Canto II

Nel breve proemio il poeta si rivolge ad Amore, chiamandolo "ingiustissimo" perché troppo raramente fa sì che gli amanti si corrispondano. Rinaldo e Sacripante si sfidano a duello per Baiardo, il cavallo di Rinaldo e per Angelica. Nonostante il saraceno sia a cavallo, la sfida è equa perché Baiardo si rifiuta di attaccare il suo padrone, e Sacripante è costretto a scendere. Per paura che Rinaldo vinca lo scontro, Angelica scappa via e incontra un eremita il quale evoca uno spirito che, assunta la forma di un valletto, convince i due contendenti che Angelica è fuggita verso Parigi con Orlando, quindi Rinaldo parte al galoppo con Baiardo che stavolta gli permette di salire. Una volta giunto a Parigi,egli trova la città assediata da Agramante; Carlo fa ripartire subito il paladino per cercare aiuto in Inghilterra, ma nello stretto della Manica Rinaldo è bloccato da una fortissima tempesta. Bradamante intanto, alla ricerca di Ruggiero, arriva presso una fonte, dove trova un cavaliere, Pinabello, che si dispera perché un cavaliere su un ippogrifo ha rapito la donzella amata che era con lui. Gradasso e Ruggiero si erano offerti di aiutarlo, ma, dopo essere stati entrambi battuti in duello dal cavaliere dell'ippogrifo, che volando si sottraeva ai loro assalti, a un tratto erano scomparsi, quindi lui era tornato indietro, sconsolato. Bradamante, dopo avere sentito la storia, offre il suo aiuto al cavaliere. Il desiderio di recuperare Ruggiero è talmente forte che ella rifiuta anche di dare aiuto alla sua città, che le ha inviato un messaggero, contro quelle limitrofe che si sono alleate con Marsilio. I due si avviano assieme per cercare di liberare i loro rispettivi amati. Ma nel cavaliere, maganzese, quando scopre che la donna viene da Chiaromonte, si riaccende un antico odio verso i membri di questa città; quindi con uno stratagemma egli cerca di uccidere Bradamante, facendola cadere giù per un dirupo.

Canto III

Nel proemio encomiastico l’autore si domanda retoricamente dove troverà le risorse per trattare un così “nobil suggetto” come la dinastia estense, un tema che solo Apollo potrebbe cantare degnamente e che lui si limiterà perciò in questo Canto ad abbozzare. Pinabello, credendo di essersi sbarazzato di Bradamante, le ruba il cavallo e va via. La donna però è ancora viva e sul fondo della caverna trova una porta dietro la quale vi è una specie di santuario: qui incontra la maga Melissa, seguace del mago Merlino, nella cui tomba si trovano. Ella rivela a Bradamante una profezia che la riguarda: da lei e Ruggiero nascerà la nobile dinastia degli Estensi. Lo spirito di Merlino le presenta poi tutti i personaggi più illustri di questa dinastia. Dopodiché Melissa si offre di aiutare la guerriera a salvare Ruggiero: ella dovrà rubare un anello a un ladro di nome Brunello, anello che rende immune dagli incantesimi. Quest'oggetto sarà fondamentale nel combattimento con Atlante, mago che tiene Ruggiero prigioniero. Giunte presso Bordeaux, le due donne si dividono: presso una locanda Bradamante finalmente trova Brunello.

Canto IV

La simulazione è biasimevole, ma spesso è necessaria "in questa assai più oscura che serena / vita mortal, tutta d'invidia piena": questa l'amara riflessione che il poeta affida all'ottava proemiale. Brunello è molto abile nel rubare e nel mentire, quindi Bradamante cerca di catturare la sua simpatia mentendo a sua volta. Un negromante terrorizza il villaggio in cui i due si trovano: la guerriera si offre di sconfiggerlo e Brunello decide di andare con lei. Bradamante lega Brunello a un albero e sfida il negromante. Questi, che poi si rivela essere Atlante, viene facilmente sconfitto dalla ragazza, grazie al potere dell'anello. Quando Bradamante viene a sapere che Atlante sta nascondendo Ruggiero, costringe il negromante a portarla alla rocca e successivamente a liberare tutti i prigionieri e Ruggiero. I due amanti stanno per riabbracciarsi, ma ecco Atlante mandare a Ruggiero un ippogrifo che in poco tempo lo porta tra le nuvole, lontano dal suo destino. Rinaldo, nel frattempo, viene portato dalla tempesta nella Scozia settentrionale, presso una foresta, che inizia a esplorare. Presso un'abbazia gli viene raccontato che la figlia del re del posto, Ginevra, è stata colta in adulterio da un nobile e sarà arsa sul rogo se un campione non sconfiggerà questo nobile in un duello: questa è l'aspra legge di Scozia. Rinaldo immediatamente si offre di salvare la donna: quindi parte insieme a uno scudiero che gli mostri la strada da percorrere. Ma dopo poco essi incontrano una donzella, braccata da due briganti: subito Rinaldo la salva e ascolta la storia della donzella mentre riprende il cammino.

Canto V

In "tutti gli altri animai che sono in terra" (Dante, Inferno Canto II) i sessi convivono pacificamente, è solo nella specie umana che il maschio è violento con la femmina: un comportamento abominevole, contro natura e contro Dio, che Ariosto condanna accoratamente nelle ottave proemiali. La ragazza, che si chiama Dalinda ed è la damigella di Ginevra, racconta a Rinaldo e allo scudiero tutta la storia: ella aveva un amante, Polinesso, il quale le aveva chiesto di fare di tutto per realizzare il suo matrimonio con Ginevra e diventare re, ma la principessa era già innamorata di un tale Ariodante. Così l'amore di Polinesso per Ginevra si era tramutato in odio: dopo avere fatto terminare la relazione tra i due amanti, Ariodante aveva deciso di uccidersi gettandosi da una rupe per il troppo dolore; suo fratello Lurcanio a quel punto si era appellato al re per punire Ginevra. Sentita tutta la storia, Rinaldo parte per Saint Andrews, città dove risiede la corte reale scozzese, e qui fa sospendere dal re un combattimento di Lurcanio con un altro guerriero: narrato tutto l'inganno alla corte, sfida a duello Polinesso e lo uccide, liberando Ginevra dalle accuse. Il re nel premiare Rinaldo chiede anche l'identità dell'altro cavaliere.

Canto VI

Nel proemio Ariosto afferma che il male commesso si palesa da sé, perché, per quanto il malvagio tenti di occultarla, è lui stesso che inavvedutamente manifesta prima o poi la propria colpa. Tra lo stupore di tutti, si scopre che dietro l'elmo vi è Ariodante! Questi infatti si era gettato sì dalla rupe, ma era sopravvissuto e aveva raggiunto a nuoto il lido. Dopo lunghe riflessioni, ospitato presso un eremita, aveva deciso di difendere l'amata dall'accusa mossa dal suo stesso fratello. Il re, avuta testimonianza dell'amore del ragazzo per sua figlia, decide di farli sposare e, su consiglio di Rinaldo, proscioglie dalle accuse anche Dalinda. Intanto Ruggiero sta volando, rapito dall'ippogrifo di Atlante, che dopo avere viaggiato per molto tempo, atterra in Sicilia, in un boschetto. Ruggiero subito scende e lega l'animale a un albero di mirto, il quale però si lamenta per il dolore: si tratta di Astolfo, tramutato in albero da Alcina, che lo aveva prima amato, poi rifiutato e quindi trasformato. Ruggiero allora, per salvare quello che è anche il cugino della sua amata Bradamante, si dirige verso il palazzo di Logistilla, sorella ma nemica di Morgana e Alcina. Lungo la strada viene però attaccato da individui che rappresentano i vizi, i quali lo catturerebbero se Bellezza e Leggiadria, uscite dalle mura della città di Alcina, non intervenissero, città in cui Ruggiero si reca. Qui regnerebbe un clima di pace e prosperità, se non fosse per la gigantessa Erifilla, personificazione dell'avarizia, che il paladino accetta di affrontare.

Canto VII

Chi va in terra straniera al suo ritorno racconta cose che non son credute dallo “sciocco vulgo”, analogamente qualcuno potrebbe dubitare della verità del racconto ariostesco. Nel proemio il poeta, rivendicando con forza la realtà effettiva di ciò che canta, afferma così il carattere tutto letterario della narrazione. Dopo che Ruggiero colpisce la gigantessa, essa cade a terra a sancire la vittoria del paladino nel duello: quindi questi e le due personificazioni riprendono il cammino e giungono nel bel palazzo della bella Alcina. Ruggiero inizialmente non si lascia ammaliare dalla bellezza della ragazza solo perché Astolfo lo aveva messo in guardia, ma poi inizia a cedere fin quando addirittura egli e la malvagia maga esplodono in una passionale relazione, che fa totalmente dimenticare al ragazzo tutto il resto della sua vita, compresa Bradamante. Ella, essendosi vista portare via l'amato a pochi metri dall'abbraccio con lui, inizia a cercarlo ovunque le venga in mente, disperata. A un tratto incontra la maga Melissa, che le aveva predetto la sua sontuosa progenie, che la informa che Ruggiero ora si trova sull'isola di Alcina. Bradamante moltiplica la sua disperazione, tanto che Melissa le promette che riporterà in poco tempo il suo amato in Francia, ma per battere Alcina ella ha bisogno dell'anello della guerriera. Giunta presso l'isola e assunte le sembianze di Atlante, Melissa rimprovera Ruggiero e gli fa indossare l'anello per farlo tornare in sé e fargli scoprire che la meravigliosa bellezza di Alcina era solo un'illusione. Subito il paladino si mette le armi e, in sella al cavallo che fu dell'Argalia, si dirige senza essere visto verso il regno di Logistilla.

Canto VIII

Alcina è una “vera” maga, ma incantatori e incantatrici non mancano neanche “tra noi”, solo che non ricorrono agli incantesimi, ma alla simulazione e alla menzogna per legare a sé gli amanti. La fata, per correre dietro a Ruggiero, lascia il castello incustodito e subito Melissa ne approfitta sciogliendo tutti i sortilegi fatti: distrugge il castello, riporta in forma normale tutte le persone vittime degli incantesimi (compreso Astolfo) e le fa riportare nei loro paesi d'origine. Melissa, dopo avere trovato la lancia d'oro di Argalia, si reca anch'essa da Logistilla, in sella all'ippogrifo di Ruggiero. Rinaldo nel frattempo ha chiesto al re di Scozia di sostenere con truppe la guerra di Carlo in Francia: la richiesta viene accolta con la più assoluta disponibilità; stessa reazione gli viene dal re Ottone I di Inghilterra. Angelica intanto sta scappando, impaurita da Rinaldo, e incontra un negromante, che per godere della bellezza della ragazza si fa aiutare da un demone, il quale si impossessa del cavallo della principessa e nuota nell'Atlantico fino a una costa deserta, dove l'aspetta il negromante, che si corica quindi accanto a lei. Vi era una macabra usanza lì nelle terre d'Irlanda che per calmare l'Orca di Ebuda, un mostro marino inviato da Proteo, protettore del "gregge" marino, la popolazione ogni giorno doveva darle in pasto una giovane e bella ragazza. Gli abitanti di Ebuda trovano Angelica addormentata: catturano lei e l'eremita e chiudono la ragazza in una torre per poi offrirla in pasto all'Orca. Nel frattempo a Parigi, sotto assedio, Orlando durante la notte si dispera per avere perso le tracce dell'amata Angelica: in sogno gli appare la ragazza implorante aiuto e Orlando, senza la minima esitazione, si mette in partenza seguito da Brandimarte.

Canto IX

Orlando non si fa problemi ad abbandonare la battaglia per inseguire Angelica, ma l’autore non lo biasima perché sa per esperienza che grande è la forza dell’amore e lui stesso per causa di esso è stato al proprio “ben languido ed egro, / sano e gagliardo a seguitare il male”. Giunto presso un fiume invalicabile, trova una donna su una nave diretta in un'isola di Irlanda dove vi era l'usanza di offrire a un mostro marino una fanciulla al giorno, per aiutare un re vicino a distruggerla, e decide di andare con lei pensando di trovare Angelica sull'isola. Ma il vento sfavorevole porta i due su un'altra costa dove una donna di nome Olimpia, già promessa a un duca chiamato Bireno, è stata chiesta dal possente Arbante, principe di Frisia, il quale, rifiutato, sta combattendo una guerra contro il regno della ragazza. I suoi consiglieri avevano di nascosto stretto un accordo con Cimosco, re di Frisia e padre di Arbante, per fare cessare la guerra in cambio della ragazza, ma questa dopo il matrimonio fa uccidere il principe nel sonno: allora per vendetta il re imprigiona Bireno e dice che ucciderà o lui o la ragazza. Ella vuole allora sacrificarsi, ma chiede a Orlando la garanzia che poi Bireno sarà messo in salvo e che egli non faccia la sua stessa fine. Orlando di contro promette che salverà entrambi: giunti presso la corte di Frisia, chiede di potere sfidare il re a duello. Ma quest'ultimo si presenta con tutto il suo esercito, il quale viene tuttavia sbaragliato dal paladino che, dopo avere inseguito il re, lo uccide con la spada e libera Bireno, per la gioia di Olimpia. Orlando subito salta sulla nave per recarsi a Ebuda, sempre intenzionato a salvare Angelica.

Canto X

L’amaro caso della fedele Olimpia tradita da Bireno serva da esempio alle donne a essere più sospettose nei riguardi dei giuramenti degli amanti; è giusto diffidare in particolare dei giovani uomini che si dileguano appena ottenuto quel che vogliono, mentre gli amatori maturi sono più affidabili. Succede infatti che Bireno trova nel trambusto della morte del re la sua figlioletta quattordicenne e fa credere a Olimpia di mandarla in sposa al fratello minore. In realtà egli si è innamorato della ragazza e vuole soddisfare la sua passione amorosa. A causa del vento contrario, Olimpia, Bireno, la ragazza e il resto dell'equipaggio sbarcano su un'isola deserta. Ma durante la notte Bireno scende dal letto e ordina a tutti di lasciare l'isola, lasciando da sola Olimpia al suo destino. Ella infatti, accortasi di essere sola, si dispera per la sorte perfida che le è capitata. Ruggiero nel frattempo si sta dirigendo verso Logistilla, così determinato che supera facilmente tre personificazioni delle tentazioni, dopo le quali salpa verso l'isola della fata con il suo nocchiero. Qui Ruggiero, oltre a Logistilla, trova Melissa: la maga, dopo avere insegnato al giovane a manovrare l'ippogrifo, lo lascia volare via affinché possa ritornare da Bradamante. Ruggiero giunge a Londra, dove le truppe degli stati britannici si stanno preparando per salpare e portare aiuto a Carlo Magno, guidati da Rinaldo. Dopo avere ripreso il volo Ruggiero scorge, sorvolando l'Irlanda, che Angelica è legata sull'isola di Ebuda, nuda, a uno scoglio. All'improvviso appare l'Orca, che ingaggia una lotta contro l'eroe in sella all'ippogrifo. Dopo avere cercato di colpire l'animale, senza però fargli neanche un graffio, Ruggiero decide di liberare solamente la ragazza e volare via: ma atterra dopo poco su un'altra spiaggia.

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Jean Auguste Dominique Ingres Ruggero libera Angelica

Canto XI

Ruggiero si ritrova tra le mani Angelica nuda, nulla di strano che, come un orso davanti al miele, venga sopraffatto dalla “libidine furiosa” e cerchi di possederla. Il proemio è l’ennesima riflessione del poeta sul potere ineluttabile delle passioni irrazionali sull’essere umano. Ruggiero atterra perché non riesce a resistere alla tentazione di approfittare di Angelica che si ritrova nuda davanti a lui: la ragazza però riesce a sottrarsi mettendo l'anello magico in bocca e quindi diventando invisibile. Fuggita in una caverna poco lontano, dove mangia le vivande di un pastore che abita lì e prende un animale per farsi portare di nuovo in Oriente, riesce a sfuggire a Ruggiero, il quale, dispiaciuto per avere perso in un colpo la donna e l'anello magico, si rimette in volo e riatterra in una selva. Qui un gigante, che sta per uccidere un cavaliere, gli toglie l'elmo e si scopre che è in realtà Bradamante: allora Ruggiero inizia a inseguire il gigante che sta portando via la sua amata. Orlando intanto raggiunge finalmente l'isola di Ebuda per salvare Angelica: giunto presso lo scoglio egli trova una fanciulla legata nuda a esso e trova anche l'Orca che la vuole mangiare. Ma lui riesce a uccidere il mostro entrandogli in bocca e usando la spada dall'interno; mentre i popolani si abbattono su Orlando perché questi chieda il perdono al dio Proteo, giunge l'esercito degli Irlandesi, guidato dal re Oberto, intenzionato a punire gli isolani per la macabra usanza. Ciò accade, e nel frattempo Orlando va a liberare la ragazza legata allo scoglio ma incredulo scopre che si tratta di Olimpia. Allora le fa raccontare tutta la storia da quando l'aveva lasciata felice in Olanda. Oberto appena vede Olimpia se ne innamora e dichiara che si occuperà lui della sua situazione: così Orlando si può concentrare sulla ricerca di Angelica. Quindi il paladino riparte e trascorre l'inverno seguente senza particolari gesta, fino a quando sente un forte grido proveniente da una selva.

Canto XII

Quello strillo veniva da un miraggio: Angelica rapita da un cavaliere, che, inseguito da Orlando, lo porta in un sontuoso palazzo, per poi scomparire. Nelle stanze di questo palazzo, il paladino ritrova nelle sue stesse condizioni di spaesamento Ferraù, Brandimarte e altri paladini come lui. Mentre gira per le stanze inseguendo il miraggio di Angelica, presso il palazzo giunge anche Ruggiero, che inseguiva il gigante con Bradamante, evidentemente anch'essi miraggi: si trattava di uno stratagemma con il quale Atlante voleva proteggere Ruggiero dalla profezia di morte precoce che lo riguardava. Angelica frattanto ha raggiunto anche lei quello che in realtà è un ostello (vede le cose così come sono per via dell'anello magico) e trova tutti gli eroi come Ferraù, Sacripante e Orlando: ella deve scegliere chi di loro le sarà più utile per accompagnarla in India, alla fine sceglie il secondo. Si toglie l'anello di bocca e si mostra al guerriero, ma nel farlo la scoprono anche Ferraù e Orlando. Angelica allora diviene di nuovo invisibile; inizia una disputa tra i tre nel ritrovarla, in particolare scoppia la lotta tra i due focosi Orlando e Ferraù, mentre prima Sacripante e poi Angelica (invisibile e ladra dell'elmo di Orlando) proseguono il cammino. I due contendenti si accorgono presto di questo: giunti a un bivio, Orlando prende la strada a sinistra (quella percorsa da Sacripante) e Ferraù quella a destra. Qui costui trova l'elmo di Orlando presso una fonte e lo indossa; ma, non riuscendo a trovare più la ragazza, decide di riprendere la strada verso la Spagna. Orlando continua a camminare, fino a quando giunge nei pressi di Parigi, dove i Mori stanno preparando l'assedio della città. Uno di loro vede Orlando senza insegne, né elmo, lo sfida, viene ucciso e tutti i suoi compagni si avventano sul paladino. Prevedibilmente in un attimo è strage di saraceni, dato che Orlando è magicamente invulnerabile. Poi il paladino subito riparte perché vuole continuare a cercare Angelica: ma in una selva trova una grotta dentro la quale sono una fanciulla, una donna anziana e un fiero cavaliere.

Canto XIII

L’ottava proemiale è uno dei tanti interventi ironici dell’autore sul proprio testo: certo che i cavalieri antichi erano davvero fortunati a imbattersi in fanciulle belle e giovani nei luoghi più sperduti e selvaggi, mentre al giorno d’oggi è difficile trovarne anche nei palazzi più ricchi. La fanciulla, disperata, si chiama Isabella: ella, rapita per finta da un amico del suo amante Zerbino, è sopravvissuta a un naufragio, riuscendo a salvarsi dalla tempesta, ma è poi finita su un'isola dove è stata catturata da una banda di ladroni che hanno intenzione di venderla a un sultano. Mentre ella racconta la sua storia, la banda entra nella caverna e scopre Orlando: nasce una rissa che il paladino risolve facilmente. La donna anziana, che era complice dei malviventi, riesce a scappare. Orlando invece parte con Isabella, e anche loro incontrano dopo qualche giorno un cavaliere che era stato fatto prigioniero. Bradamante nel frattempo è a Marsiglia per volere di Carlo, ma rimpiange ogni giorno la mancanza di Ruggiero. Una sera la raggiunge Melissa, la quale la esorta a partire con lei per liberare il suo amato dall'inCanto del palazzo di Atlante, e le spiega come fare per non cedere alla tentazione di inseguire il miraggio di Ruggiero e cadere anch'essa in trappola. Bradamante allora si arma e le due partono. Durante il cammino Melissa parla alla guerriera delle donne illustri che faranno parte della sua stirpe. Giunte nei pressi del palazzo di Atlante, le due si separano: Bradamante però, appena vede il miraggio di Ruggiero, dimentica immediatamente le raccomandazioni della maga e insegue due giganti nel palazzo.

Canto XIV

L’incipiente assedio di Parigi, che avrà un alto costo per i franchi, ma anche per i Saraceni almeno momentaneamente vincitori, riporta alla mente dell’autore lo strazio della battaglia di Ravenna , che egli poté forse constatare di persona. A Ravenna Estensi e francesi riuscirono a prevalere sul papato e sugli spagnoli, ma perdendo il capitano Gastone di Foix e lasciando molte povere “vedovelle” per tutta la Francia; una sorte ancor più commiserevole toccò ai civili ravennati, vittime dei soprusi delle truppe francesi vittoriose. Alle porte di Parigi, Marsilio e Agramante radunano tutti gli eserciti sotto il loro controllo, per riordinare un po' le risorse a disposizione. Qui ci si accorge che mancano due drappelli, cioè quelli che Orlando aveva sbaragliato poco prima. In particolare Mandricardo, uomo forte e feroce, chiede di Orlando e si mette in cerca di lui, perché vuole vendicarsi e rubargli la spada. Lungo il suo tragitto egli nota una fanciulla, principessa di Granada, di nome Doralice, se ne innamora perdutamente e decide di rapirla e portarla con sé. Piano piano nasce qualcosa tra i due. Nel frattempo da parte dell'esercito saraceno è tutto pronto per l'assedio di Parigi: partito l'attacco, Rodomonte, promesso sposo di Doralice, inizia subito a fare strage di francesi e loro alleati, ma dopo un po' si contano diverse vittime anche nelle file pagane.

Canto XV

La vittoria militare può dipendere dalla fortuna o dall’ingegno, ma la più commendevole è quella che provoca la rotta del nemico, senza arrecare danni alla propria parte: tale fu quella riportata da Ippolito d’Este sui veneziani alla Polesella. Rodomonte, preso dalla foga del momento, manda più di undicimila uomini nel fossato sotto le mura di Parigi, ma tutti costoro periscono per una colata di pece e olio bollente fatta ricadere su di loro per ordine di re Carlo. Nel frattempo Agramante tenta di attaccare una delle porte della città che credeva meno protetta, ma invece trova la situazione esattamente opposta. Astolfo intanto, dopo avere trascorso diverso tempo nel palazzo di Logistilla, decide di tornare nella sua patria, in Inghilterra: così si fa costruire una nave e salpa verso ovest con due doni che la fata gli fa, overo un libretto di incantesimi e un corno il cui suono fa scappare chi lo ode. Giunto nel golfo del Bahrein, lascia la nave e prosegue via terra. Una volta in Egitto, viene messo in guardia da un eremita a non andare oltre per non essere divorato da un enorme gigante: ma il cavaliere suonando il corno lo fa scappare, anzi, lo fa cadere nelle sue stesse trappole. Presso le foci del Nilo, Astolfo si imbatte quindi nel famigerato ladrone Orrilo, che ha la fama di essere quasi immortale. Lo trova che sta combattendo con i due cavalieri Grifone e Aquilante. Grazie al libretto che svela tutti gli incantesimi, Astolfo scopre che Orrilo può morire solo se gli viene tagliato un capello fatato. Riesce a tagliargli la testa e tenta di prendere tempo per capire qual è questo capello: alla fine decide di rasare tutto il capo, così Orrilo muore. Astolfo, Grifone e Aquilante ripartono quindi per la Francia, ma decidono prima di passare in Terra Santa. Alle porte di Gerusalemme incontrano Sansonetto, che era stato convertito al cristianesimo da Orlando. Sansonetto li ospita nel suo palazzo: qui giunge la notizia a Grifone che Origille, la sua donna amata, è malata e sola; per questo il cavaliere pensa di partire nella notte per potere andarla a prendere in Antiochia.

Canto XVI

Il repertorio delle pene amorose è ampio e l’autore ne ha una lunga esperienza; c’è dunque da fidarsi quando afferma che la più atroce è sapere di essere innamorati di una persona immeritevole, il cui cuore “poco puro abbia con molta feccia”: è un amore di cui ci vergogniamo, ma da cui non riusciamo a sottrarci. Grifone arriva ad Antiochia e viene accolto calorosamente da Orrigille. Questa in realtà vuole raggirarlo e a tale scopo inizia a rimproverarlo di averla lasciata sola e malata l'ultima volta, dicendogli anche che Martano, il cavaliere con cui egli l'aveva trovata, è suo fratello: in realtà Martano è l'amante della donna. I tre si recano al palazzo del re di Siria. Sotto le mura di Parigi nel frattempo, Rodomonte, dopo la distruzione del suo manipolo tenta di entrare da solo all'interno delle mura nemiche: una volta dentro, fa una strage tra la popolazione indifesa. Se Agramante con l'esercito avesse attaccato con forza in quel momento, avrebbe sicuramente conquistato la città quel giorno, ma fortunatamente Rinaldo con tutta la schiera degli Inglesi giunge proprio in quei frangenti: una parte risale la Senna per sorprendere i pagani alle spalle, un'altra va a nord per aiutare le truppe nella difesa delle mura. È una strage di saraceni quella che Rinaldo scatena, ma anche le vittorie di Inglesi, Irlandesi e Scozzesi sembrano schiaccianti. Ferraù a quel punto decide di entrare in battaglia per rianimare i compagni, e inizia a sua volta una strage di cristiani. I due schieramenti si alternano nel comando della guerra. Carlo nel frattempo viene a sapere di Rodomonte e corre insieme a un nutrito manipolo nella parte della città dove il pagano sta sterminando la popolazione.

Canto XVII

Per punire i nostri peccati Dio permette talora ai tiranni di infierire sui popoli. I "lupi arrabbiati" che governano attualmente l'Italia sono ancora peggiori dei despoti antichi, perché hanno chiamato "lupi di più ingorde brame / da boschi oltramontani" a divorarla, talché i morti insepolti delle guerre puniche sono poca cosa rispetto ai massacri odiernii. Forse, tuttavia, verrà un tempo in cui "a depredar lor liti / andremo noi". Grifone, giunto con Orrigille e Martano a Damasco, viene a sapere che il re del posto, Norandino, ha indetto un torneo di cavalieri per il giorno seguente: il cavaliere decide di accettare. Il torneo è stato creato per festeggiare il salvataggio della sposa del re dopo che questa era stata rapita da un orco feroce. Quando inizia la giostra, Martano, l'amante di Orrigille, si mostra sprezzante e valoroso ma poi perde la sua sicurezza e tenta di scappare davanti al suo avversario; Grifone, coinvolto nella vergogna per il comportamento di quello che crede essere il fratello della sua amata, inizia a dare spettacolo del suo valore e della sua forza, e sbalordisce il pubblico che sta assistendo alla giostra. Alla fine si scontra con il paladino del re, ma è lo stesso sovrano a fermare lo scontro per impedire che uno dei due muoia: Grifone vince la giostra, ma comunque non prova orgoglio, per la vergogna che gli ha provocato Martano. Quindi decide che andranno via dalla giostra di nascosto: giunti alla prima locanda, i tre si mettono a letto, ma Orrigille e Martano macchinano di rubare a Grifone cavallo, armatura e vestiti e di presentare Martano davanti a Norandino come Grifone, per farsi attribuire tutti gli onori della vittoria. Una volta sveglio, Grifone si rende conto di essere stato raggirato, non solo quella sera, ma fin dall'inizio, avendo finalmente capito che Martano non era il fratello, bensì l'amante di Orrigille. Allora si veste dell'armatura di Martano e ritorna a Damasco: viene preso in giro ancora, stavolta nei panni di Martano, il quale, nelle vesti di Grifone, ottiene da Norandino il premio della giostra e il congedo. Grifone, dopo essere stato schernito davanti a tutti, decide di reagire duramente.

Canto XVIII

Tra i molti pregi di Ippolito d'Este, il più apprezzabile è che, pur essendo pronto a porgere orecchio alle lamentele, non è tuttavia disposto a dare credito a un'accusa senza prima avere udito le ragioni del chiamato in causa. A Parigi Carlo e i suoi paladini rimasti lì stanno attaccando Rodomonte, che minaccia la città dall'interno. Il guerriero saraceno mette fuori gioco diversi paladini cristiani; ma la presenza del re riaccende gli animi del popolo, che inizia ad armarsi per attaccare lo sterminatore dei propri cittadini. Rodomonte, braccato dalla folla, uccide tante altre persone, ma poi opta per la fuga a nuoto nella Senna. Nel frattempo l'arcangelo Michele porta Discordia e Superbia verso il campo saraceno alle porte di Parigi. Rodomonte viene a sapere da un nano che la sua amata Doralice è stata rapita da Mandricardo. Re Carlo, dopo la fuga di Rodomonte, mette in ordine i suoi uomini e li dispone in modo da affrontare meglio le varie compagini nemiche. Lo scontro tra cristiani e saraceni è più che mai acceso, soprattutto dopo che un discorso di Dardinello ridà vigore al suo esercito. Nel frattempo Grifone sta lottando contro il popolo di Norandino, guidato dall'ira per i torti subiti. Il re, vista la strage messa in atto da un uomo che riteneva vile, si ricrede sul suo conto, ritira le truppe e gli concede tutti gli onori. Astolfo e Aquilante cercano proprio Grifone nei pressi di Gerusalemme, dove l'avevano perso. Incontrato lo stesso indovino che aveva informato Grifone, Aquilante capisce subito che il fratello si è recato in Siria per riprendersi la donna amata, quindi decide di partire per recuperarlo e chiede ad Astolfo di tardare il suo rientro in Francia fino al suo arrivo. Prima di entrare a Damasco, Aquilante incontra Orrigille e Martano, li cattura e inizia a trascinarli dietro al cavallo per farli schernire da tutto il popolo, che ora conosce la versione di Grifone dei fatti. Norandino in onore di Grifone indice una nuova giostra, alla quale vogliono partecipare anche Astolfo e Sansonetto, che quindi si dirigono verso Damasco. Lungo la strada incontrano Marfisa la quale decide di unirsi a loro per misurarsi nella giostra. Lì scopre che quelle in palio per il vincitore sono proprio le sue armi. Allora tenta di prenderle, ma Norandino fa fermare la giostra: nasce uno scontro acceso che si trasforma in una strage. In difesa del re accorrono però sia Grifone che Aquilante. Per fortuna dopo poco i toni si acquietano e Marfisa alla fine lascia l'armatura a Grifone come dono. Dopo alcuni giorni di festeggiamenti, i cinque decidono di partire per la Francia dove è ancora richiesto il loro aiuto. A Parigi proseguono i combattimenti: Dardinello trafigge Lurcanio (unitosi all'esercito cristiano con Ariodante) ma viene a sua volta ucciso da Rinaldo. A questa morte i cristiani acquistano un tale vantaggio che costringono Marsilio a ordinare la ritirata, non senza un massacro subito dai saraceni. Cloridano e Medoro, due giovani guerrieri della schiera di Dardinello, decidono di addentrarsi durante la notte nell'accampamento cristiano al fine di recuperare il cadavere del loro re e concedergli una degna sepoltura. Per vendicarsi della sua morte però fanno strage di nemici addormentati; tra le tante vittime, Alfeo, cortigiano di Carlo Magno, e i due giovani figli del conte di Fiandra, Malindo e Ardalico. Dopo avere preso il corpo di Dardinello i due Mori riescono a fuggire, ma per vie diverse: Medoro, che tiene con sé Dardinello, da una parte, e Cloridano da un'altra.

Canto XIX

La fedeltà di un soldato nei confronti del suo signore si può riconoscere solo nei momenti difficili. Quando Cloridano torna indietro per cercare Medoro, lo trova circondato da dieci cavalieri a cavallo: trafigge con le frecce due nemici e in tal modo riesce a prendere un po' di tempo. Ma Medoro viene colpito poco dopo da uno dei restanti cavalieri, e Cloridano rimane ucciso nel tentativo di vendicarlo. In realtà Medoro non è morto, e grazie all'incontro con una donna che poi si rivela essere Angelica, riesce a salvarsi. La fanciulla, mossa a pietà, guarisce infatti il ragazzo di cui poi si innamora fortemente; il suo sentimento è ricambiato, quindi nasce una bella e passionale storia d'amore tra i due, confermata dalle nozze. Angelica porta con sé Medoro nel Catai per farlo diventare erede al trono del padre. Nel frattempo Marfisa, Astolfo, Aquilante, Grifone e altri stanno lottando contro una tempesta durante il loro viaggio verso la Francia. Dopo quattro giorni per fortuna la tempesta cessa, ma la nave, molto malconcia, giunge a una riva della Siria, senza potere ripartire. Vengono a sapere da un vecchio saggio che quella terra è dominata da "femine omicide" che sottopongono ad alcune prove letali tutti gli uomini che sbarcano lì. Tutto l'equipaggio vorrebbe tentare di ripartire, ma i cavalieri a bordo non aspettano altro che cimentarsi in queste prove: questi ultimi vincono la contesa e così ormeggiano nel porto della città. Subito vengono presi dalle donne guerriere che li sottopongono a due prove: prima bisogna sconfiggere dieci guerrieri contemporaneamente, poi soddisfare a letto dieci donne. I guerrieri fanno a sorte e decretano Marfisa come pretendente per entrambe le sfide, nonostante sia donna. Per la prima prova Marfisa è sfidata da nove cavalieri, che sbaraglia con facilità, e poi da un decimo, vestito di nero, con cui nasce un'accesa ed equilibrata disputa; essa dura fino al calare della sera, quando i due decidono di rimandare lo scontro al giorno dopo. Mentre si presentano, entrambi rimangono sorpresi dalle loro reciproche identità: il primo perché Marfisa è una donna, la seconda perché si avvede che il suo avversario è solo un ragazzino.

ariosto 14

Peterzano: Angelica and Medoro.

Canto XX

Le donne antiche hanno dato grande prova della loro virtuosità sia nelle armi che nelle lettere. Se in tempi più recenti sono mancate figure femminili eminenti, la colpa è degli scrittori moderni, che, per invidia o ignoranza, non ne hanno tramandato le gesta; anche tra le donne contemporanee abbondano gli esempi di virtù che meriterebbero di essere immortalati con la scrittura. Il ragazzo si chiama Guidon Selvaggio e rivela di essere parente di Rinaldo e di essersi guadagnato la sua carica di capo dopo avere superato entrambe le prove di quella città. Egli rivela a Marfisa e agli altri cavalieri il motivo per cui le donne comandano quel paese. Parlando sempre con Marfisa, Guidon Selvaggio manifesta il desiderio di andare via da quella città. Allora il gruppo escogita un piano: arrivati alla piazza, Guidone tenta di scappare, e, fermato dal popolo, comincia una lotta tra i due schieramenti di guerrieri. Nel mezzo della battaglia Astolfo decide di usare il suo corno, facendo così fuggire tutti quelli che erano nei dintorni, compresi quelli del suo gruppo. Essi sono corsi sulla nave preparata dalla di Guidon, che voleva scappare anch'essa; dopo avere abbandonato Astolfo sul lido giungono velocemente in Francia. Una volta lì Marfisa si stacca dal gruppo perché ritiene sia poco onorevole. Gli altri giungono presso un castello, il cui padrone è Pinabello di Maganza, che li fa imprigionare nel cuore della notte. Marfisa si dirige invece verso Parigi: presso un torrente incontra Gabrina, la vecchia che era in combutta con i malandrini carcerieri di Isabella; la aiuta a oltrepassare il corso d'acqua e dall'altra parte si trova davanti Pinabello con una donzella a fianco. Avendo Pinabello provocato Gabrina, Marfisa sfida il maganzese, lo vince e strappa le vesti della dama per darle a Gabrina; poi le due partono. Il quarto giorno di cammino incontrano Zerbino, principe di Scozia, e con lui Marfisa ingaggia una giostra dal premio un po' particolare: chi vince, lascia la "bella donzella" all'avversario. Marfisa vince e lascia la vecchia a Zerbino, che solo dopo scopre contro chi ha giostrato. Mentre giovane si dispera per la perdita della sua Isabella, la vecchia, che vuole vendicarsi, rivela al giovane solamente che Isabella è viva, ma senza aggiungere altro. Zerbino, che non ha altro desiderio se non quello di cercare la sua fanciulla, deve seguire la vecchia perché lo ha promesso a Marfisa. Un giorno, mentre vagano nel bosco, si imbattono in un cavaliere.

Canto XXI

Il cavaliere, che si chiama Ermonide, affronta Zerbino a duello. Il giovane riesce a ferire a morte l'avversario, il quale però, prima di morire, gli rivela che Gabrina è la responsabile della rovina della sua famiglia. Appreso ciò Zerbino inizia a nutrire un profondo odio per la vecchia, la quale inizia a non dissimulare più un analogo sentimento per lui.

Canto XXII

Astolfo, rimasto solo, ha iniziato a viaggiare verso ovest e ha raggiunto Londra in poco tempo. Venuto a sapere che il padre Ottone è andato a Parigi con l'esercito per aiutare il re di Francia Carlo ritorna subito al porto e si imbarca per raggiungere la città francese. Sbarca a Rouen a causa di una tempesta e continua per terra in sella a Rabicano. Mentre si sta dissetando presso una fonte, un villano gli ruba il cavallo e lo costringe a inseguirlo di corsa: i due giungono nel palazzo di Atlante, dove erano tenuti prigionieri diversi cavalieri. Resosi presto conto di trovarsi in un luogo incantato, prende subito il libretto che Logistilla gli aveva regalato e cerca un modo per superare quella difficoltà. Ma Atlante gli aizza contro tutti i paladini lì prigionieri (compresi Bradamante e Ruggiero), costringendo Astolfo a usare il corno: tutti scappano e il cavaliere riesce a riprendersi anche Rabicano. Torna a utilizzare il libretto e riesce a fare scomparire quel palazzo magico. Lui però decide di cavalcare l'ippogrifo, quindi aspetta di regalare Rabicano al primo passante: Bradamante. Questa era riuscita a trovare Ruggiero e i due si erano riconosciuti solo quando Astolfo aveva rotto l'incantesimo di Atlante. Bradamante aveva però chiesto a Ruggiero di battezzarsi e così il paladino aveva fatto. Per consacrare il loro matrimonio i due amanti si erano recati a Vallombrosa, dove avevano incontrato una ragazza che piangeva per la morte imminente del suo amato (che poi si scoprirà essere Ricciardetto, fratello di Bradamante): i due allora avevano deciso di aiutarla. Scegliendo la via più breve i tre sarebbero dovuti passare per il castello di Pinabello (lo stesso che aveva imprigionato Aquilante, Grifone, Sansonetto e Guidon Selvaggio), dove vigeva una legge, a seguito dell'onta subita per mezzo di Marfisa, secondo la quale ogni cavaliere o donna che fosse passata di lì, avrebbe perso cavallo, armi e gonna. Per difendere l'usanza, Pinabello aveva imposto ai quattro paladini di occuparsi dei passanti: per Marfisa e Ruggiero è proprio il turno di Sansonetto. Questi era stato subito ferito da Ruggiero, mentre Pinabello si era avvicinato a Bradamante per sapere chi egli fosse: ma la donna aveva riconosciuto dalla voce colui che la aveva lanciata nella spelonca della tomba di Merlino! Allora aveva iniziato a inseguirlo e lo aveva fatto fuggire in una foresta. Ruggiero invece, dopo avere accecato con la lucentezza del suo scudo magico Aquilante, Grifone e Guidon Selvaggio, si era pentito per avere sempre vinto con un aiuto e per avere perso la donna amata e quindi aveva gettato in un pozzo lo scudo di Atlante. Nel frattempo era giunta a Ruggiero e ai tre paladini la notizia che Pinabello era stato ucciso: l'artefice era stata Bradamante, la quale aveva iniziato poi a errare in cerca dell'amato Ruggiero.

Canto XXIII

Mentre stava cercando Ruggiero, nei pressi del palazzo di Atlante, aveva quindi incontrato Astolfo, il quale ora le porge le redini di Rabicano e può partire con l'ippogrifo. Bradamante pertanto ha il compito di riportare a Montalbano Rabicano e l'armatura di Astolfo, anche se non vede l'ora di cercare Ruggiero a Vallombrosa. Giunta a Montalbano, sua patria natale, la guerriera saluta la sua famiglia, lascia il cavallo a Ippalca, figlia della sua nutrice d'infanzia e riparte immediatamente verso Vallombrosa. Lungo la sua strada Ippalca incontra Rodomonte con il nano che lo aveva avvisato che Doralice era fuggita con Mandricardo e viene derubata da questi del cavallo. Zerbino intanto, in compagnia di Gabrina, trova il cadavere di Pinabello, tenta di trovare il suo uccisore, ma poi prosegue. Presso Altariva trova il popolo disperato per la morte di colui che era il loro principe, e cioè Pinabello: il padre Anselmo promette un premio a chiunque gli dica chi sia il responsabile di questa perdita. Garbina, cogliendo l'occasione, annuncia al re che il colpevole è Zerbino: subito questi viene rapito nel sonno e imprigionato dai soldati di Anselmo. Quando il cavaliere sta per essere giustiziato, arriva in città in compagnia di Isabella, l'amata di Zerbino, Orlando, che inizia a fare strage dell'esercito di Anselmo per liberare il giovane, il quale poi ringrazia doppiamente perché ha anche ritrovato l'adorata Isabella. Ma subito i tre devono ricomporsi, perché giunge lì Mandricardo, che stava inseguendo Orlando per vendicarsi della morte dei suoi compagni e del padre. I due quindi duellano per il possesso della spada Durindana: ma nella foga della battaglia il cavallo di Mandricardo inizia a fuggire e lo porta ben lontano dal luogo del combattimento, seguito a ruota da Doralice. Qui trovano Gabrina, le sottraggono il freno per il cavallo che Mandricardo aveva perso in battaglia e la lasciano in preda alla follia del cavallo senza freno. Orlando nel frattempo decide di andare lui in cerca di Mandricardo per concludere lo scontro e lascia Isabella e Zerbino andare dove meglio credono. Il paladino giunge presso un ruscello e decide di riposarsi lì vicino, ma dopo poco si accorge di tutte le numerose iscrizioni d'amore incise negli alberi da Angelica e Medoro (addirittura vede una poesia composta da quest'ultimo), e ne rimane profondamente scosso. Sul calar del sole si reca in un alloggio per dormire e la sua espressione avvilita impietosisce il gestore della locanda, il quale gli racconta la storia di come Angelica e Medoro si sono conosciuti e innamorati mostrando infine un gioiello, lo stesso che Orlando aveva regalato ad Angelica, che la ragazza gli aveva dato per ringraziarlo della buona ospitalità. Traumatizzato da ciò, Orlando si reca nella sua stanza ma non riesce a dormire poiché è assillato dal pensiero che in quella stessa stanza si erano appartati Angelica e Medoro. Quindi esce dall'alloggio e si reca di nuovo nel bosco, tornando davanti alla poesia incisa nella roccia. Dopo essersi disperato e aver pianto a dirotto, in preda alla rabbia taglia la roccia e tutti gli alberi su cui vede le incisioni dei nomi di Angelica e Medoro; si straccia le vesti e rompe tutto quello che trova sul suo cammino, sradicando alberi a mani nude e attirando la gente che viveva lì vicino.

Canto XXIV

In preda alla sua pazzia Orlando uccide diverse persone di quella terra che si imbattono in lui: viandanti e pastori. In particolare il paladino decapita un pastorello e ne scaglia il busto su due suoi compagni, che piomberanno in un coma perenne. Zerbino e Isabella, percorse poche miglia da dove avevano lasciato Orlando, incontrano Odorico, grande amico di Zerbino, che aveva rapito la ragazza, preso dal desiderio per lei, e l'aveva portata nella caverna. Ora questi era stato imprigionato da due compagni perché li aveva traditi, e viene chiesto a Zerbino di decidere per il destino dell'uomo che aveva imprigionato l'amata. Mentre Zerbino sta pensando sul da farsi, perché non si decide a uccidere Odorico che era stato suo grande amico, ecco sbucare dal bosco Gabrina, che aveva perso il controllo del cavallo. Allora Zerbino trova la soluzione: Odorico dovrà seguire la vecchia ovunque ella voglia e difenderla da chi voglia farle del male con tutte le sue forze. Risolta la questione, Zerbino cerca Orlando, e lungo il cammino vede tutti i segni della distruzione che il folle paladino ha lasciato, raccogliendo tutti i pezzi della sua armatura. Li avvicina Fiordiligi, amata di Brandimarte, il quale aveva lasciato Parigi per cercare Orlando: il giovane, dopo essere stato liberato dal palazzo di Atlante, era tornato a Parigi, ma questo la ragazza non lo sapeva, quindi lo stava cercando in tutta la Francia. Zerbino prosegue con Isabella, ma prima lascia l'armatura di Orlando su un albero, sperando che nessuno abbia l'ardire di rubarla. Ma di lì passa Mandricardo, presunto legittimo proprietario di Durindana in quanto parte delle armi di Ettore che questi aveva; viene contesa con Zerbino, che vuole impedirgli di prendere la spada di Orlando. Con questa spada, nel corso del duello, per poco non uccide Zerbino; l'avrebbe fatto se Doralice, su preghiera di Isabella, non gli avesse chiesto di non farlo; i due vanno via. Ma Zerbino perisce lo stesso per le troppe ferite riportate nello scontro. Isabella vuole a sua volta trafiggersi con la spada, ma un monaco la convince a diventare suora e si dirigono verso il territorio di Marsiglia con il corpo di Zerbino, ma a un tratto un cavaliere sbarra loro la strada. Mandricardo e Doralice intanto incontrano Rodomonte, a cui la ragazza era stata promessa sposa: mentre i due stanno combattendo, per contendersi Doralice li raggiunge un messaggero, perché Marsilio ha richiesto l'intervento di tutti i cavalieri sparsi per la regione in aiuto contro Carlo che sta assediando gli accampamenti saraceni. Allora, su pressione di Doralice, i due decidono di sospendere il loro scontro fino a quando la minaccia cristiana non sarà estinta.

Canto XXV

Un messaggero raggiunge anche Ruggiero, con il medesimo invito: ma decide prima di salvare Ricciardetto dalla sua condanna al rogo; egli crede sia Bradamante, data la forte somiglianza con il fratello. Dopo essere stato salvato, Ricciardetto si presenta e racconta la storia che lo ha portato a essere prigioniero in quella terra. Entrambi quindi arrivano presso il castello di un cugino di Ricciardetto, il quale li informa che un nobile di Maganza ha sposato la madre di Ferraù, che tiene prigionieri i francesi Malagigi e Viviano: egli chiede ai due di intervenire prima che il nobile maganzese possa prendersi gli ostaggi, dato che li ucciderà sicuramente. Ruggiero accetta la missione, ma la notte non riesce a chiudere occhio per il disonore che crede lo investa per non avere dato aiuto al suo re saraceno. Alla fine prende la sua decisione: prende carta e inchiostro e scrive una lettera a Bradamante (supponendo che essa si trovi a Vallombrosa) dicendo che il suo onore gli imponeva di prestare aiuto al suo re. Infine scrive che, una volta tornato da questa missione, si sarebbe fatto cristiano, per poterla sposare. Scritta la lettera, parte con Ricciardetto e Aldighieri, ma lungo la strada incontrano un cavaliere con una fenice sull'elmo.

Canto XXVI

Questo cavaliere si rivela essere Marfisa: il suo intento iniziale era quello di misurarsi con uno dei tre cavalieri, ma poi, avendo inteso la nobile missione che stavano svolgendo, decide di provare il suo valore dando il suo aiuto. I quattro allora arrivano nel luogo in cui i traditori Maganzesi stanno vendendo ai Saraceni i due fratelli cristiani: Aldighieri e Ricciardetto subito scattano a uccidere i traditori con le loro lance. Ruggero e Marfisa invece si occupano dei capi mori; il resto della strage viene compiuta dai due schieramenti, credendo traditrice la controparte. Malagigi e Viviano vengono messi in salvo. Giunti presso un'altra delle fonti di Merlino, contemplano i bassorilievi di cui è ornata, che raffigurano la vittoria della liberalità dei sovrani illuminati del tempo di Ariosto, contro un mostro che simboleggia l'avarizia e l'avidità di ricchezza e dominio. La metafora è occasione per lodare le gesta di Francesco I e molti altri personaggi. Presso quella fonte arriva anche una ragazza di nome Ippalca, che fingendo di chiedere aiuto parla in disparte con Ruggiero e gli dice che la sua amata Bradamante le aveva affidato il cavallo di lui, di nome Frontino, cavallo che però lei si era fatta rubare da Rodomonte, il quale cercava la sfida con il cavaliere proprietario del destriero. I due intraprendono il viaggio in cerca di Rodomonte e scelgono a un bivio la via più impervia ma più rapida: non sanno però che Rodomonte con Doralice e il nano hanno preso l'altra strada nel senso opposto e che ora si stanno dirigendo verso i compagni di Ruggiero e Marfisa. Colpito dalla bellezza di Marfisa in abiti femminili, Rodomonte sfida il resto dei paladini per la conquista della donna: tutti vengono sconfitti dal saraceno, ma Marfisa riesce a tenergli testa. Ruggiero intanto trova le impronte fresche di Rodomonte, intento a accorrere per prestare aiuto al suo re Agramante, dice a Ippalca di proseguire verso Montalbano e le consegna la lettera da dare a Bradamante. Ruggiero allora sfida Rodomonte, il quale però non vuole distrazioni nel soccorso del suo re; è però Mandricardo (che possiede la spada che Orlando ha gettato nel bosco) che sfida a sua volta il paladino Ruggiero. Tra Rodomonte e Mandricardo c'era il patto di non accettare duelli fino a quando non avessero raggiunto Agramante: Mandricardo però aveva prima sfidato i paladini per Marfisa, poi Ruggiero per il suo scudo. Allora Rodomonte decide di rompere il patto e sfidare lo stesso Mandricardo; in tutto questo Marfisa tenta di sedare la tenzone in vista di un obiettivo superiore che è quello di prestare aiuto al re saraceno. Alla zuffa partecipano anche Ricciardetto, Malagigi e Ruggiero. Il paladino mago con un incantesimo fa volare via Doralice, la quale quindi viene inseguita sia da Mandricardo che da Rodomonte, i quali quindi abbandonano il campo di battaglia. I paladini rimasti decidono di recarsi verso Parigi per dare aiuto a Carlo.

Canto XXVII

Il cavallo con sopra Doralice, viene però fatto partire da Malagigi senza una reale destinazione: quindi esso raggiunge il campo saraceno, e così fanno allora Mandricardo e Rodomonte che stavano inseguendo la ragazza. Lo schieramento saraceno quindi aumenta di due valorosi guerrieri, mentre dalla parte dei francesi mancano tutti i più importanti paladini. È per questo che i cristiani vengono sterminati in battaglia dai Saraceni, con grande rabbia di re Carlo. L'angelo Michele, che aveva il compito di fare vincere ai cristiani la guerra, costringe allora Discordia, che si era fermata in un monastero, a recarsi nel campo saraceno, per tentare di indebolire questo schieramento. Così essa riattizza le rivalità tra i quattro eroi saraceni (Rodomonte, Mandricardo, Ruggiero, Marfisa). I quattro paladini quindi, con il permesso del sovrano Agramante, si preparano per risolvere le loro questioni in sospeso. Mentre Gradasso si sta occupando di aiutare Mandricardo a indossare le armi, si accorge che la sua spada è Durindana (che gli era stata rubata da Orlando), e allora a sua volta vuole sfidare Mandricardo a duello, così nasce una forte confusione riguardo all'ordine dei duelli. Anche Sacripante vuole rivendicare il possesso di Frontino, che in realtà, prima di ricevere quel nome, era il suo cavallo, rubatogli da Brunello. Marfisa, che in quell'occasione aveva perso la sua spada, rapisce Brunello e manifesta la sua intenzione di ucciderlo. Agramante decide allora di mettere ordine: la prima questione da risolvere è quella tra Rodomonte e Mandricardo per il possesso di Doralice. La scelta viene lasciata alla ragazza, la quale sceglie il secondo: allora Rodomonte in preda alla vergogna abbandona il campo saraceno e si dirige nei boschi. Sacripante insegue il guerriero, per contendergli il cavallo Frontino, ma lungo la strada si ferma per salvare una donna che sta annegando nella Senna. Intanto Rodomonte si dirige verso il mare, pieno di pensieri ostili sia verso Doralice, sia verso il suo re Agramante, con l'intenzione di salpare per l'Africa; calata la sera si ferma in un'osteria, dove il padrone, vista la sua condizione piuttosto triste, decide di raccontargli una storia sulla infedeltà delle donne.

Canto XXVIII

L’oste narra che Astolfo, re dei longobardi, era e si riteneva bellissimo. Ma un suo cortigiano un giorno osservò che c’era un uomo più bello di lui. Quest’uomo era il fratello del cortigiano, viveva a Roma, ed era così affezionato alla propria moglie che non se ne sarebbe mai distaccato. Astolfo fa in modo che il cortigiano si rechi a Roma per invitare questo fratello, che si chiamava Giocondo, a recarsi alla sua corte, per verificarne la bellezza. Questo giovane non può venir meno all’invito del re, e così si congeda tra gran pianti sia suoi che della moglie da quest’ultima, la quale gli regala una collana con una crocetta. Un po’ dopo essere partito, all’alba, Giocondo si accorge di essersi dimenticato del regalo; torna rapidamente indietro e trova la moglie assopita nel letto coniugale tra le braccia di un suo giovane servitore. Non dice nulla, e ritorna tutto triste alla compagnia con la quale era in viaggio per la reggia di Astolfo. Nel viaggio Giocondo deperisce sempre di più, così Astolfo, quando arrivano alla sua reggia può tranquillamente mettersi a paragone con lui. Ma un giorno Giocondo si accorge che la moglie di Astolfo, la regina, tradiva il re con un nano. Giocondo fa giurare al re Astolfo che non avrebbe preso nessun provvedimento, e da un buco in una parete gli fa osservare il tradimento. Giocondo e il re Astolfo decidono che non vale la pena di rattristarsi per le proprie mogli traditrici, e così vanno assieme in viaggio in vari paesi d’Europa, dove intrecciano amori con un gran numero di donne. Un giorno infine decidono di tenersene una, una giovane di umili origini, che sia a disposizione di tutti e due, senza ingelosirsi l’uno dell’altro. Così accade. Ma questa giovane subisce l’assalto amoroso di un suo amico d’infanzia, e gli cede, facendolo entrare una notte nel letto dove dormiva tutte le notti congiuntamente con Astolfo e Giocondo. Ciascuno dei due, che sente di notte un certo armeggiare, pensa che sia l’amico. Al mattino però i due scherzando l’uno con l’altro si accorgono che né l’uno né l’altro ha fatto l’amore con la giovane quella notte. Costei allora rivela l’accaduto. I due si confermano nella loro idea che ogni donna è traditrice, e a questo punto decidono di tornare dalle rispettive mogli senza prendersela più di troppo per i loro tradimenti. Rodomonte ascolta soddisfatto questa storia, ma c’è un uomo nell’osteria che prende la difesa delle donne e soprattutto evidenzia il fatto che gli uomini si concedono di tradire le loro mogli, ma non accettano che le loro mogli tradiscano loro. Rodomonte si arrabbia con quest’ultimo, che evidentemente rappresenta le opinioni dell'Ariosto, e lo mette a tacere. Dopo una notte insonne, Rodomonte decide di salpare, portando il cavallo Frontino con sé. Seguendo il fiume Senna trova un rudere nelle campagne intorno a Montpellier, in un posto molto ameno, e lì decide di sistemarsi, abbandonando l'idea di tornare in Africa. Da quelle parti passano dopo poco tempo Isabella, il monaco e la salma di Zerbino, di cui non si parla dal Canto XXIV: nonostante ella sia disperata per la morte dell'amato, comunque è talmente bella che Rodomonte dimentica subito le pene subite per il rifiuto di Doralice e pensa adesso solo a Isabella. Questa però ha promesso al frate che si farà suora, quindi Rodomonte intrattiene un'accesa discussione, con il chierico.

Canto XXIX

Rodomonte si libera facilmente del frate scagliandolo lontano; Isabella, vedendosi impotente dinanzi al gigante africano, decide di proporgli la ricetta di una crema magica che rendeva invulnerabili se egli avesse smesso di tentare di possederla. Una volta pronta la pozione Isabella pensa di morire piuttosto che concedersi a un uomo come lui: la pozione in realtà è solo un miscuglio di erbe aromatiche, ella lo beve e chiede a Rodomonte di saggiare con la spada se lei è diventata invulnerabile, così finisce per essere da lui uccisa. Il guerriero rimane talmente colpito da questo sacrificio che decide di convertire il suo rifugio in un sepolcro a lei e a Zerbino dedicato. Inoltre fa costruire un piccolo ponte in prossimità del fiume, ponte sul quale sfiderà chiunque abbia intenzione di passare. Così accade a molti cavalieri che vengono da lui vinti e le cui armature abbelliscono il sepolcro. Giorno passa di lì l'impazzito Orlando: i due si scontrano e cadono insieme nel fiume, ma il paladino, essendo nudo, riesce a emergere dall’acqua prima del guerriero saraceno in armatura. Orlando, proseguendo nel suo folle viaggio, arriva poi fino ai Pirenei, dove commette diversi gesti di pazzia. Giunto presso un litorale spagnolo decide di crearsi lì una capanna per ripararsi dal sole; sfortunatamente arrivano sul posto anche Angelica e il suo amato Medoro. Appena Orlando si accorge dei due, anche se non riconosce più Angelica, tenta di prendersi la ragazza: questa si mette l'anello magico in bocca, diventando così invisibile. Ma l'anello le cade dalla bocca perché il cavallo inciampa e la ragazza cade per terra: ciò rappresenta la sua fortuna, perché Orlando si allontana all'inseguimento del cavallo, che poi alla fine muore di stenti, come molte altre cavalcature di Orlando.

Canto XXX

Orlando continua a vagare per le campagne, stavolta presso Malaga, dove ruba bestiame, uccide pastori e saccheggia villaggi. Da Gibilterra cerca invano di passare a cavallo lo stretto, fa morire annegato il suo destriero e prosegue il suo cammino lungo la costa. Alla corte di Agramante, dopo il responso in favore di Mandricardo, si tira a sorte per decidere chi debba combattere il prossimo duello: Agramante si dispera perché in ogni caso perderà un prezioso combattente nel duello tra Ruggiero e Mandricardo; così come si dispera anche Doralice per l'amato. Inizia lo scontro tra i due guerrieri saraceni: Mandricardo sembra avere la meglio, ma alla fine è Ruggiero a dare all'avversario il colpo mortale. Ippalca intanto è tornata a Montealbano da Bradamante e le ha dato la lettera di Ruggiero: la paladina si strugge per l'assenza del suo amato e si ingelosisce perché questi ha viaggiato in compagnia della bella Marfisa. Al castello giunge una sera anche Rinaldo, il quale, dopo avere riabbracciato i familiari, ha intenzione di partire per dare aiuto a Carlo in guerra; con lui partono anche Guicciardo, Alardo, Ricciardetto, Malagigi e Viviano.

Canto XXXI

Rinaldo e la sua compagnia incontrano un cavaliere che li sfida senza presentazioni: egli sconfigge Ricciardetto, Alardo e Guicciardo, e si dimostra al pari di Rinaldo. Si fa buio e i due sfidanti decidono di rimandare il duello al giorno dopo, ma dopo poco si scopre che il cavaliere misterioso in realtà è suo fratello Guidon Selvaggio (che abbiamo lasciato nel Canto XX). Il cavaliere si aggiunge allora a loro nel cammino verso Parigi, dove incontrano i gemelli Grifone e Aquilante. Rinaldo viene a sapere da Fiordiligi, amante di Brandimarte, che Orlando è impazzito e delle vicende di Zerbino e delle armi del paladino. Prima di andare a cercare il cugino, Rinaldo guida le truppe cristiane in un notturno assalto silenzioso nell'accampamento saraceno, dove essi compiono una grande strage così che i saraceni volgono in fuga; nel frattempo anche Brandimarte è stato informato dall'amata Fiordiligi, della situazione di Orlando, ed è subito partito con essa verso il ponte difeso da Rodomonte, dove la ragazza aveva visto Orlando per l'ultima volta. Qui Brandimarte viene battuto e fatto prigioniero da Rodomonte: Fiordiligi allora decide di tornare a Parigi per chiedere aiuto a qualche paladino di Carlo. Nel campo saraceno intanto si sta diffondendo il panico più totale per l'incursione di Rinaldo: tutti fuggono, anche il re Agramante è in pericolo, i suoi riescono a farlo fuggire e ripara nel sud della Francia, ad Arles. Solo Gradasso è contento perché in questo modo potrà incontrare Rinaldo, sfidarlo, per conquistare Baiardo, dopo che aveva conquistato Durindana uccidendo Zerbino. I due si incontrano e dopo un acceso scontro verbale Rinaldo e Gradasso si sfidano per il cavallo e la spada.

Canto XXXII

A causa della disfatta subita dal suo esercito a opera di Rinaldo, Agramante si rifuggia ad Arles per salvarsi la vita. Qui egli cerca di riorganizzare le sue forze, e manda a reclutare soldati presso tutti i regni saraceni del Mediterraneo. Saputo ciò, Marfisa abbandona il piano di uccidere Brunello, e lo porta prigioniero con sé. Quest’ultimo verrà impiccato per decisione di Agramante, all’arrivo di Marfisa in aiuto del suo re. Bradamante intanto si sta disperando perché Ruggiero non l'ha raggiunta entro il termine promesso di 20 giorni: un cavaliere pagano di passaggio le riferisce la voce che Ruggiero e Marfisa stiano programmando di sposarsi appena Ruggiero si fosse ripreso dalle ferite riportate durante lo scontro con Mandricardo. Bradamante, in preda alla disperazione, allora decide di uccidersi. Ma poi decide di partire per il fronte per partecipare alla guerra contro i Saraceni di Ruggiero e Marfisa, e morire in campo, magari proprio per mano di Ruggiero. Bradamante trascorre la 1ª notte di viaggio in un castello dove vigeva l’usanza che il cavaliere che qui alloggiasse, potesse essere sfidato da un eventuale cavaliere giunto dopo di lui. Il migliore avrebbe potuto trascorrere la notte nel castello. Bradamante sconfigge i tre cavalieri che avevano trovato alloggio prima di lei, e così riesce a trovare un riparo.

Canto XXXIII

Nelle sale del castello ci sono degli splendidi dipinti, che possono stare alla pari con le opere dei grandi artisti italiani: Leonardo, Mantegna, Michelangelo, Raffaello, Tiziano… In questi dipinti sono ritratte le guerre fatte in passato, ma soprattutto quelle che devono ancora venire. Dopo averla onorata con una splendida cena, chi ospita Bradamante l’accompagna ad ammirare queste opere d’arte. Il giorno dopo, all’uscita dal castello, Bradamante ritrova i cavalieri battuti la sera prima, che vogliono la rivincita; ma mal gliene incoglie, perché vengono gettati di nuovo giù da cavallo dalla bellissima guerriera. Rinaldo e Gradasso intanto hanno ripreso la loro lotta, ma mentre stanno duellando vengono distolti dalla vista di un mostro alato che stava lottando con Baiardo. Il cavallo per sfuggire alla sua presa, fugge in una selva e si nasconde in una grotta; i due guerrieri allora si dividono per cercare il cavallo con l'impegno di tornare sul campo di battaglia e concludere il duello, ma Gradasso, trovato Baiardo, decide di venir meno all’impegno preso e di andare verso il campo saraceno. Astolfo nel frattempo sta sorvolando l'Europa e l'Africa in sella all'ippogrifo, e di molti paesi l’Ariosto ci dà una sintetica descrizione.

Canto XXXIV

Astolfo viene ospitato una sera da un re in Egitto e lo salva, con l'aiuto del corno incantato, da alcune infernali arpie che gli impedivano di cibarsi, precipitandosi sulla sua mensa e sporcandola con le proprie feci. Nell'inseguire le arpie, terrorizzate dal suono del corno, finisce per entrare in una grotta, ingresso dell'inferno. Qui parla con l’anima di una dannata, e ascolta la sua storia, ma poi è costretto ad andarsene via in fretta per i fumi troppo densi e pesanti. A cavallo dell'ippogrifo Astolfo giunge poi sulla cima di una montagna, che si scopre essere il Paradiso Terrestre. Il paladino viene subito accolto da San Giovanni Evangelista: questi gli rivela che il senno che Orlando ha perso si trova sulla Luna, quindi lo aiuta ad arrivarci, passando con un carro magico oltre la sfera del fuoco. L’obiettivo è di fare tornare il folle paladino in sé. Tra le varie cose perse sulla terra che stanno sulla superficie della luna Astolfo finalmente ritrova il senno di Orlando, che era stato punito in questo modo da Dio perché invece di andare in aiuto del popolo cristiano a Parigi si era fatto distogliere dalla bellezza della pagana Angelica.

Canto XXXV

Fiordiligi, in cerca di un cavaliere che l’aiuti a sconfiggere Rodomonte, incontra Bradamante, che si dirigeva verso Parigi. La giovane spiega il suo problema e la guerriera subito si offre di aiutarla: entrambe si dirigono dunque al ponte difeso da Rodomonte. Bradamante riesce a sconfiggere il pagano, e quindi ottiene da costui le armi che portava e la liberazione di tutti i prigionieri, i quali erano stati inviati da Rodomonte nel suo regno in Africa. Rodomonte, pieno di vergogna per essere stato sconfitto da una donna, decide di non rientrare nel campo pagano. Fiordaligi è intenzionata ad andare incontro a Brandimarte, anche lui prigioniero in Africa. Decidono allora di viaggiare insieme fino ad Arles, dove stava il re Agramante, che era fuggito da Parigi. Bradamante coglie l'occasione per inviare tramite Fiordaligi un messaggio a Ruggiero con il quale la guerriera lo sfidava a duello senza rivelare la sua vera identità. Fiordaligi entra così nel campo saraceno, porta il messaggio a Ruggiero e poi prosegue verso il punto d'imbarco per l'Africa. Alla sfida lanciata a Ruggiero rispondono Serpentino, Grandonio, Ferraù, tutti battuti. Tocca ora a Ruggiero, che invano si chiede chi sia colui che lo sfida.

Canto XXXVI

Mentre Ruggiero si arma per sfidare il misterioso sfidante, Ferraù gli riferisce che secondo lui si tratta di Bradamante: Marfisa non gli dà il tempo di partire, perché già è uscita dalle mura, volendo riservare a sé la gloria di sconfiggere il misterioso cavaliere. Inizia allora una feroce lotta tra le due donne, che si odiano a vicenda ma per motivi diversi. Bradamante, dopo avere battuto Marfisa, che cade da cavallo, punta su Ruggiero per duellare con lui, ma non vi riesce perché si accende una mischia più generale tra cavalieri saraceni e cristiani. Ma poi il guerriero la implora di smetterla e di lasciargli spiegare. Così si appartano in una radura tranquilla dove si erge una misteriosa tomba. Però vengono raggiunti di nuovo da Marfisa, la quale crede che il misterioso cavaliere voglia terminare il duello con Ruggiero; le due donne si attaccano ferocemente: Ruggiero cerca di dividere le due guerriere, ma Marfisa finisce per rivolgere la sua ira verso di lui. Mentre i due sono in lotta, la voce tonante di Atlante, che giaceva nella tomba misteriosa, rivela che Ruggiero e Marfisa sono in realtà fratelli: il mago aveva iniziato a crescerli insieme, ma poi la bambina era stata rapita da una torma di arabi. Ruggiero riconosce allora Marfisa come sua sorella e si riappacifica con Bradamante.

Canto XXXVII

Tutti e tre, Ruggiero, Marfisa, Bradamante riprendono poi il cammino. Si imbattono però in tre donne che piangono, stanno sedute a terra, e che hanno le vesti tagliate sino alle pudenda. Le tre sono state così ridotte da un feroce tiranno, di nome Marganorre, il quale ha tra l’altro imposto che tutte le donne della sua contea si debbano separare dai loro uomini, mariti, figli, padri, e vivano isolate. Questo perché i due figli del tiranno erano morti, l’uno ucciso, in duello, l’altro avvelenato, per avere voluto impadronirsi delle belle mogli di due cavalieri giunti, in tempi diversi, al loro castello. Marganorre aveva voluto vendicarsi di questo fatto contro tutte le donne del suo territorio. Naturalmente i tre non possono tollerare questa ingiustizia, si recano al castello, sconfiggono Marganorre, lo fanno frustare a sangue, e infine il tiranno sarà precipitato da una torre. Bradamante e Marfisa impongono una legge nuova, che dà alle donne il potere di governare, togliendolo agli uomini. Dopo avere vissuto questa avventura insieme i tre riprendono il loro cammino, ma trovano un bivio: Bradamante e Marfisa tornano all'accampamento cristiano, mentre Ruggiero si dirige verso Arles, dove è stanziato l'esercito pagano. Concordano sul fatto che Ruggiero debba servire ancora il proprio re Agramante, perché si era impegnato in tal senso, ma che si troverà in seguito un’occasione per fargli abbandonare l’esercito saraceno e ricongiungersi con Bradamante, sua promessa sposa, e convertirsi al cristianesimo.

Canto XXXVIII

Presso la corte di Carlo, Marfisa, racconta la sua storia, e chiede di essere battezzata. Ora però il Canto prosegue con la vicenda di Astolfo, che porta con sé l'ampolla con il senno di Orlando. Astolfo, a cavallo dell’ippogrifo, scende dalla luna, si congeda da San Giovanni e si reca in Nubia, guarisce con un’erba miracolosa il re di Nubia dalla cecità, e ottiene da lui un esercito con il quale va ad attaccare il regno africano di Agramante. Quest’ultimo viene avvertito della situazione e riunisce un consiglio di guerra. Dal consiglio di guerra dei pagani viene emessa una proposta al re cristiano: l'intera guerra sarebbe stata decisa da un duello tra Ruggiero e il più valoroso paladino di Carlo. Il re franco accetta la sfida e decide di designare Rinaldo per quell'opera, data l'assenza di Orlando. Così Bradamante si dispera perché vede scendere in campo il proprio fratello Rinaldo, contro il proprio amante, Ruggiero. D’altra parte quest’ultimo è ancora più disperato perché se uccide Rinaldo certamente subirà l’odio di Bradamante, e d’altra parte se si fa uccidere priverà Bradamante del proprio amore. Lo scontro ha inizio: Ruggiero non sa se cercare di vincere (uccidendo il fratello della donna amata) o lasciarsi sconfiggere (e quindi morire).

Canto XXXIX

Rinaldo è proteso all'attacco mentre Ruggiero preferisce limitarsi a difendersi per il dubbio che lo opprime. Melissa, la maga che ha predetto a Bradamante la sua gloriosa stirpe, interrompe con un incantesimo il duello: fa comparire Rodomonte che vuole prendere il posto di Ruggiero. L’accordo sul duello è rotto, così i due schieramenti si cimentano in una feroce battaglia, mentre Ruggiero e Rinaldo si accordano a rimanere fuori dai giochi fin quando non si sia chiarita la situazione e individuato di quale schieramento sia la colpa del tradimento del giuramento. Astolfo decide di andare in aiuto di re Carlo; con una magia si procura una flotta, per attraversare il Mediterraneo. Viene da lui catturata però la nave che Rodomonte aveva inviato in Africa piena di prigionieri cristiani, tra i quali anche Brandimarte. Così quest’ultimo può riabbracciare l’amata Fiordiligi. In questi frangenti, compare Orlando, in piena furia, che sta sbaragliando chiunque gli si ponga innanzi. Alla vista del selvaggio Orlando, Astolfo e tutti i paladini che sono lì si commuovono per lo stato in cui si trova ora il conte. Dopo diversi tentativi, tutti insieme riescono a immobilizzare Orlando e a fargli inalare il senno che Astolfo aveva preso sulla luna. Nel frattempo, in Francia, l'esercito pagano sta ricevendo una grande sconfitta, al punto che Sobrino, Marsilio e Agramante si devono chiudere all'interno delle mura di Arles, lasciando gran parte del loro esercito a morire sul campo di battaglia e progettando la ritirata, con il rientro in Africa, che avverrà per mare. La flotta di Agramante però viene intercettata di notte dalla flotta condotto da Astolfo, che la sconfigge e fa strage dei saraceni.

Canto XL

Mentre Marsilio fugge verso la Spagna, Sobrino e Agramante riparano in Africa; i due scampano alla sconfitta della loro flotta imbarcandosi su un naviglio più leggero che riesce a sfuggire. Il re Agramante ha con sé Sobrino che si lamenta di non essere stato ascoltato quando tentò di dissuadere il re a non proseguire la guerra e a ritirare in Africa (Canto XXXVIII, stanza 60). Intanto i cristiani e i nubiani, guidati a terra da Astolfo e Orlando, e supportati dalla flotta guidata da Sansonetto, hanno preso Biserta dopo un breve ma intenso assedio. Biserta è messa a ferro e fuoco dall'esercito cristiano che si macchia di vari crimini inclusi "stupri e mille altri atti ingiusti" (Canto XL, stanza 34). Dopo la presa di Biserta, Agramante vorrebbe uccidersi ma Sobrino lo dissuade, sostenendo che la morte di Agramante toglierebbe l'ultimo bene rimasto all'armata saracena, ovvero la speranza. A causa di una tempesta, il re saraceno è costretto ad approdare presso un'isola vicino a Lampedusa, dove ritrova per caso Gradasso. I tre decidono di inviare un messo a Biserta per sfidare Orlando e altri due paladini a un duello, che risolva la guerra fra cristiani e saraceni, come già tentato in precedenza (v. Canto XXXVIII). Orlando accetta perché Gradasso aveva la sua spada e Agramante il suo cavallo: sceglie come compagni Brandimarte e Oliviero. Nel frattempo Ruggiero cerca di capire quale tra i due re, Carlo o Agramante, non ha rispettato il patto di non intervento per il suo duello con Rinaldo. Lungo la strada sente tutti dire che la colpa è stata di Agramante, allora si reca a Marsiglia per rientrare in Africa perché, il senso dell’onore, l'abitudine e la vista dei suoi compagni demoralizzati lo portano a riprendere posizione contro i cristiani. A Marsiglia però, contrariamente alle sue aspettative trova il porto occupato dai cristiani. Si scaglia allora contro di loro, ma viene affrontato dal loro capo, Dudone, il quale sta comandando l'esercito cristiano stanziato lì. Nel duello Ruggiero cerca di non fare male a Dudone, sempre per il timore che se lo avesse ucciso, Bradamante si sarebbe adirata con lui.

Canto XLI

Quando il francese capisce che Ruggiero sta facendo di tutto per non ucciderlo, si dichiara sconfitto e concede al saraceno di liberare i re pagani fino a quel momento fatti prigionieri. Appena salpata però, la nave di Ruggiero viene colpita da una violentissima tempesta. Tutto l’equipaggio muore; l’unico che si salva è Ruggiero. Ruggiero è in balia delle onde: non appena giura a Dio che non alzerà più le armi contro i cristiani scorge un'isoletta in mezzo al mare, la raggiunge a nuoto, e qui trova un eremita che, illuminato da Dio, lo inizia al credo cristiano e lo battezza. La nave, mezza sfasciata e priva del equipaggio viene così ad arenarsi presso Biserta, proprio mentre Orlando vi stava passando. Questo paladino, insieme a Brandimarte, ritrova nella nave abbandonata Frontino e le armi di Ruggiero. Una volta pronti, i tre cavalieri salpano verso l'isola di Lampedusa dove dovrà svolgersi il duello con i tre guerrieri saraceni. Comincia nel frattempo lo scontro tra i tre cristiani (Orlando, Brandimarte, Oliviero) e i tre saraceni (Gradasso,Agrimante,Sobrino): il primo a morire è Brandimarte, ucciso per mano di Gradasso.

Canto XLII

Accecato dall'ira per la morte dell'amico, Orlando decapita Agramante e trafigge Gradasso, ma mosso da clemenza, si dispone a curare le ferite di Sobrino. Mentre a Parigi Bradamante si sfoga con Marfisa per l'ennesimo ritardo di Ruggiero, Rinaldo chiede a Malagigi di svelargli dove si trovi Angelica: viene a sapere che essa si trova in Oriente con il saraceno Medoro e decide subito di partire verso Levante: si congeda con una scusa da Carlo Magno. Ma lungo la strada beve presso la fonte di Merlino che libera dal sentimento d'amore, e tutto quello che provava per Angelica svanisce in un attimo. Decide comunque di recarsi in India per riconquistare il suo Baiardo (la scusa che aveva già indicato a Carlo per partire): ma viene poco dopo a sapere del duello che sta per svolgersi tra Orlando, Oliviero e Brandimarte e i tre guerrieri saraceni, quindi si dirige in Italia. Rinaldo durante il viaggio viene ospitato da un cavaliere misterioso in un magnifico palazzo all'interno del quale sono celebrate con statue e cartigli molte figure femminili più o meno contemporanee dell'Ariosto. Viene inoltre a conoscenza della prova del nappo, una ricca coppa d'oro, piena di vino, che ha una proprietà magica: consente agli uomini coniugati di verificare la fedeltà delle proprie mogli (i mariti traditi, bevendo dal nappo, vedranno il vino rovesciarglisi addosso, come si spiega nel Canto successivo).

Canto XLIII

Il Canto inizia con un'invettiva contro l’avarizia il cui senso apparirà chiaro più tardi. Rinaldo decide intanto di non sottoporsi alla prova che potrebbe fargli conoscere se sua moglie gli sia fedele o meno. Egli offre così prova di grande saggezza. Il cavaliere che lo ha ospitato decide allora di parlare; gli racconta la sua storia. Egli narra di essere stato lo sposo di una donna di grande bellezza e grande onestà. Ma una donna del suo paese, che conosceva le arti della magia (era Melissa) si innamorò di lui. Ma lui non cedette alla tentazione anche perché si dichiarava sicuro della fedeltà della propria moglie. Così Melissa uno giorno si reca da lui e gli chiede di sottoporre a prova questa presunta fedeltà. Lo invita ad andarsene di casa per uno paio di mesi; alla partenza lo avrebbe sottoposto a uno prova magica: gli avrebbe fatto bere del vino da una coppa fatata; se la moglie gli era fedele lo avrebbe potuto bere, se la moglie gli era infedele il vino si sarebbe sparso sul suo petto. Egli si sottopone alla prova senza problemi. Ora,c’era un giovane cavaliere ricco e bello che uno tempo si era innamorato di sua moglie. Melissa con le sue arti magiche trasforma lui in quel cavaliere, gli fa offrire alla propria moglie, che ovviamente non lo riconosce, delle grandi ricchezze, e lei si dichiara disposta a cedergli. In questo preciso momento lui riprende le sue antiche sembianze. La moglie piange, si dispera, ma poi in lei monta la rabbia, se ne va, a vivere presso il cavaliere che un tempo s’era innamorato di lei e di cui lui aveva magicamente preso l’aspetto. Erano passati 10 anni da quei fatti, ma non era passata in lui la disperazione di avere messo la propria moglie alla prova. È tempo che Rinaldo si congedi e vada a dormire; il cavaliere gli offre una piccola nave con la quale Rinaldo può discendere il Po, quella notte, e affrettare così il suo viaggio. Rinaldo accetta; nel corso del viaggio chiacchiera con il nocchiere di quella navicella che gli narra una storia simile a quella già vista. Anche in questo caso c’è un cavaliere che si rovina, perde tutti i suoi averi per ingraziarsi una donna, moglie di uno amico, che però non gli cede. Questo amico uno giorno è costretto ad assentarsi. Lo spasimante della moglie, grazie a uno incantesimo della fata Manto che egli aveva salvato quando la fata aveva la forma di serpe, dalle botte di uno contadino, si presenta alla donna e riesce a sedurla. Naturalmente, quando il marito ritorna dopo la lunga assenza, viene a saperlo, ma la donna non si trova più. Egli la fa cercare ovunque ma invano, e ha il progetto di farla ammazzare da un suo servo. Il quale ultimo la incontra, ma non può ucciderla perché essa magicamente gli scompare. La donna era stata ospitata in un palazzo magico al quale giunge dopo varie vicissitudini suo marito, il quale però si fa sorprendere da lei mentre la sta tradendo con un orribile e lercio uomo dell’Etiopia, che gli aveva promesso come compenso quel palazzo. Come si dice, pari e patta: i due coniugi tornano insieme con l’intenzione, mantenuta, di dimenticare tutto quello che era successo. Dopo questa lunga narrazione, la trama torna a Rinaldo. Egli giunge finalmente a Lampedusa ma arriva appena dopo che Orlando ha ucciso Agramante e Gradasso e rientra all'accampamento con lui e il ferito Oliviero: la questione ora è chi debba annunciare a Fiordiligi la morte dell'amato Brandimarte: alla fine la scelta ricade su Sansonetto. Ma Fiordiligi non regge al dolore, si isola in una celletta nei pressi del sepolcro di Brandimarte e muore. Dopo avere svolto solenni riti funebri in onore di Brandimarte, i paladini pensano di accompagnare, per nave, Oliviero presso l'eremita dell'isoletta in cui si trova anche Ruggiero, perché lo sapevano capace di guarire le ferite. Così accade: grazie alle preghiere dell’eremita Oliviero viene risanato; Sobrino, guerriero saraceno, anche lui ferito, si converte al cristianesimo e viene guarito lui pure. I paladini fraternizzano con Ruggiero che, come ricordiamo, era stato convertito da quell’eremita e si era fermato un po’ di tempo a vivere da lui.

Canto XLIV

Orlando concede tutti gli onori a Ruggiero, sia perché ne riconosce il valore e l’onore, sia perché questi adesso ha ricevuto il battesimo ed è quindi cristiano. Restituitegli le armi, i paladini appoggiati calorosamente dall’eremita promettono a Ruggiero in sposa Bradamante, sorella di Rinaldo. Poi tutti, compreso Ruggiero, partono in nave per Marsiglia dove giungono felicemente. Astolfo, informato della morte di Agramante, fa ripartire l'esercito nubiano verso la propria terra, poi riprende il volo con l’ippogrifo verso Marsiglia, dove giunge nello stesso momento di Orlando, dei paladini e di Ruggiero, e dove lascia in libertà il cavallo alato. Giunti a Parigi i cavalieri presentano Ruggiero a Carlo. C'è però ancora un ostacolo da superare: i genitori di Bradamante sono fortemente contrari al matrimonio della figlia con Ruggiero, perché questa era già promessa sposa a Leone, principe dell'impero d'Oriente, figlio di Costantino. Bradamante si trova lacerata tra l’obbedienza ai genitori e l’amore, e la parola data a Ruggiero. Ruggiero, dal canto suo, non vuole perdere Bradamante ma non vuole nemmeno scontrarsi con i genitori di lei. Decide allora di partire per l’oriente, ma con nuove insegne per evitare di essere riconosciuto. Il suo obiettivo è di uccidere il rivale. Giunto nei pressi di Belgrado, egli scopre che le armate di Costantino stanno battagliando contro i loro nemici, i bulgari. Ruggiero aiuta questi ultimi a sconfiggere Costantino stesso, il quale ultimo ha modo di ammirare il valore di quel cavaliere sconosciuto che sta facendo strage dei suoi.

Canto XLV

Ruggiero, che dopo la battaglia si reca a dormire in un ostello, viene individuato e poi fatto prigioniero dagli uomini di Costantino, e imprigionato in una torre a Beleticche, affinché venga poi torturato e ucciso. Intanto Bradamante ha ottenuto da re Carlo la pubblicazione di un bando secondo il quale la ragazza sarebbe andata in sposa solo a colui che l'avesse battuta in duello. La giovane guerriera si dispera quando scopre che Ruggiero è partito e nessuno sa per dove. Ruggiero, intanto, viene inaspettatamente salvato da Leone, figlio di Costantino che lo ammira profondamente. Leone chiede a Ruggiero, per contraccambiare il gesto nobile fatto, di combattere al proprio posto contro Bradamante, e Ruggiero per riconoscenza e in nome dell’onore, è costretto ad accettare, ma non può rivelare a Leone il rapporto che lo lega a Bradamante. I due si recano a Parigi. Bradamante perde il duello in quanto al tramonto non è riuscita a sconfiggere Leone, ovvero Ruggiero, che si è ben guardato dal ferire la donna amata, dalla quale ovviamente non ha potuto farsi riconoscere. Bradamante viene quindi dichiarata promessa sposa di Leone, mentre Ruggiero fugge via in preda alla disperazione, la stessa che prova anche la ragazza. Fortunatamente interviene Marfisa, la quale dichiara a re Carlo che già esisteva una promessa di matrimonio tra Ruggiero e Bradamante, come Rinaldo e altri paladini già sostenevano da tempo. Nasce un dibattito a corte e in tutta la Francia sulla questione. E alla fine viene stabilito un duello tra Ruggiero e Leone per la mano di Bradamante. Leone pensava di farsi sostituire di nuovo, ma non riesce a trovare Ruggiero, peraltro ricercato anche dai suoi amici paladini. Il guerriero non sarebbe però stato ritrovato se non fosse stato per l'intervento della maga Melissa.

Canto XLVI

L’autore dichiara di sentirsi come un navigante che abbia fatto un lungo viaggio, e che sta finalmente rientrando in porto, nel quale lo aspettano tutte le sue amiche e i suoi amici, che egli nomina accuratamente. Tra le varie dame, i numerosi cavalieri, personaggi politici, letterati e artisti Ariosto menziona anche Giulio Camillo, autore del Teatro della Memoria e l'umanista Paolo Pansa. In totale il poeta dedica sedici stanze, ovvero più di centoventi versi, a questo "catalogo" di amiche e amici. Quindi l'autore riprende e conclude la trama dell’opera. Melissa guida il cavallo di Leone verso la fitta selva in cui si trova Ruggiero, che ha deciso di morire di fame e sta piangendo disperato per amore di Bradamante. Leone, non conoscendo l'identità del cavaliere suo amico, gli chiede quale sia il motivo di tanta disperazione: Ruggiero, dopo essersi a lungo schermito, gli rivela il suo nome, e come abbia dovuto combattere contro la propria amata Bradamante, che andrà in sposa proprio a lui, a Leone. Contro ogni aspettativa Leone reagisce confermando il bene che gli vuole e lo aiuta a tornare in forze. Inoltre, colpito da quella vicenda, e dal senso dell’onore di Ruggiero, gli lascia Bradamante. I due tornano dove era acquartierato Carlo con l’esercito cristiano: grande è la gioia del sovrano e dei paladini Orlando, Rinaldo e di tutti gli altri nel ritrovare Ruggiero. Le nozze vengono finalmente celebrate in pompa magna, ma a un tratto si presenta Rodomonte che sfida in un duello all'ultimo sangue Ruggiero, reo di avere rinnegato la sua fede. È l’ultimo ostacolo sulla strada della felicità di Ruggiero e Bradamante. Dopo un lungo e sanguinoso combattimento, alla fine il guerriero pagano viene sconfitto e ucciso da Ruggiero. Il poema si conclude con la discesa all'inferno dell'anima «sdegnosa (…) si altiera al mondo e si orgogliosa» dell'ucciso.

 

PERSONAGGI

  • Agramante: re moro d'Africa, principale nemico di Carlo Magno, guida l'assedio di Parigi. Essendo il capo di tutti i Mori d'Africa, Agramante comanda sui re dei paesi a lui soggetti, compresi il fortissimo re di Algeri Rodomonte e l'altrettanto abile Mandricardo, nonostante questi sia imperatore di Mongolia. Volendo sconfiggere Carlo Magno e i suoi paladini per vendicare la morte del padre Troiano avvenuta per mano del giovane Orlando in Aspromonte ("... per vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano", Fur. I, 1) si allea con altri due sovrani saraceni, Marsilio di Spagna e Gradasso di Sericana, che mira ad ottenere la spada di Orlando, Durlindana e il cavallo di Rinaldo, Baiardo.
  • Alcina, Morganae Logistilla sono tre fate sorelle. Alcina e Morgana si dedicano agli inganni della magia nera, Logistilla alla virtù;
  • Duca Aimone: padre di Bradamante;
  • Angelica: principessa del Catai, esperta di medicina e a di medicina e arti magiche, la vogliono Orlando, Rinaldo e tutti gli altri. Ruggiero l'ha avuta nuda tra le mani, e gli è scappata mentre si toglieva l'armatura. È tanto bella quanto capricciosa; dopo avere rifiutato i paladini, si farà sposa d'un umile fante, Medoro;
  • Argalìa: fratello di Angelica, ucciso da Ferraù nell'Orlando Innamorato, ricompare nel Furioso come fantasma;
  • Ariodante: cavaliere valoroso e amante di Ginevra;
  • Astolfo: paladino e figlio d'Ottone Re d'Inghilterra, ha la lancia d'oro di Argalia, che sbalza di sella ogni cavaliere. Ha anche un corno, che riempie di paura chiunque lo senta; all'inizio del poema, Ruggiero lo trova trasformato in mirto da Alcina; intraprende un viaggio sulla luna per recuperare il senno di Orlando
  • Atlante: anziano mago che ha cresciuto Ruggiero. Per salvarlo dal suo tragico destino lo imprigiona in due castelli incantati;
  • Avino, Avolio, Otone, Berlingiero i quattro figli di Namo, che nei poemi cavallereschi sono sempre nominati insieme;
  • Baiardo: cavallo di Rinaldo;
  • Bradamante: valorosa guerriera, sorella di Rinaldo e cugina di Orlando. È innamorata di Ruggiero, sebbene questi sia un pagano appartenente all'esercito nemico; dall'unione della casa di Chiaramonte (Bradamante) con quella di Mongrana (Ruggiero) avrà origine la casa d'Este; sia i Chiaramonte che i Mongrana discendono, per rami diversi, da Astianatte, il figlio di Ettore.
  • Brandimarte e Fiordiligi: coppia che costituisce un grande esempio di fedeltà coniugale;
  • Brigliadoro: cavallo di Orlando;
  • Carlo Magno: re dei Franchi e comandante del loro esercito; nel poema, così come in molti altri, è lo zio d'Orlando;
  • Cloridano: giovane guerriero saraceno, amico intimo di Medoro, muore per salvarlo;
  • Costantino: imperatore romano d'Oriente e padre di Leone;
  • Dardinello: giovane re saraceno, nelle cui truppe combattono Cloridano e Medoro; figlio d'Almonte, ne porta il quartiere con onore. Viene ucciso da Rinaldo sotto le mura di Parigi;
  • Doralice: figlia del re spagnolo Stordilano, è promessa sposa di Rodomonte, ma Mandricardo se la prende per forza. Quando Agramante, per evitare un duello tra i due campioni, le chiede chi preferisce, si pronuncia per Mandricardo. Quest'infedeltà causa a Rodomonte una terribile crisi di misoginia, che si placa solo quando vede Isabella;
  • Dudone: danese, figlio di Uggiero di Danimarca, paladino al servizio di Carlo Magno. Assume importanti responsabilità militari nei Canti XXXIX e XL. La sua arma caratteristica è la mazza. Combatte in duello contro Ruggiero nel Canto XL.
  • Ferraù: cavaliere moro; dopo avere perso l'elmo di Argalia in un torrente, giura che non ne porterà un altro, fin quando non toglierà a Orlando l'elmo d'Almonte. Non ha bisogno d'armatura, perché è tutto fatato, tranne che nell'ombelico, che protegge con sette piastre d'acciaio. Viene ucciso da Orlando in un altro poema epico, dopo avergli resistito tre giorni;
  • Fiammetta: donna scelta da Astolfo per provare che l'infedeltà è insita nelle donne;
  • Gabrina: una vecchia intrigante, che perseguita Isabella e Zerbino;
  • Gano di Maganza, detto Ganelone: capo degli orridi Maganzesi;
  • Ginevra: figlia del re di Scozia e sorella di Zerbino, innamorata di Ariodante corrisposta ma il loro amore è ostacolato da Polinesso. Viene salvata dalla condanna a morte per impudicizia da Rinaldo che svela la trama di Polinesso;
  • Gradasso: fortissimo e coraggioso cavaliere saraceno, un "saracino Marte" come lo definisce l'Ariosto nel Canto XLI, stanza 68
  • Grifone il bianco ed Aquilante il nero, figli di Oliviero, protetti da due fate, bianca per l'uno e nera per l'altro;
  • Guidon Selvaggio della casa di Chiaromonte; Astolfo, Marfisa, Grifone e Aquilante lo incontrano "nel golfo di Laiazzo in ver Soria", governato dalle donne. I cavalieri che vi arrivano, vengono lasciati vivere solo se riescono a cacciare di sella altri dieci cavalieri, e se si dimostran capaci per dieci mogli. Guidone aveva superato entrambe le prove. Se le dà di santa ragione con Marfisa;
  • Isabella: nobile e virtuosa galiziana. Quando, dopo casi avventurosi, lo sta per riabbracciare, Mandricardo glielo uccide. La donna viene poi insidiata da Rodomonte, ma si saprà sottrarre alle sue avances;
  • Leone: principe ereditario bizantino, che rinuncia alla mano di Bradamante per l'amicizia che lo lega a Ruggero;
  • Lurcanio: fratello di Ariodante;
  • Mandricardo: re dei Tartari, alleato di Agramante, libera Lucina dall'Orco assieme a Gradasso e rapisce Doralice, promessa sposa di Rodomonte;
  • Marfisa: valorosa combattente pagana, è sorella gemella di Ruggiero; passerà dalla parte dei cristiani dopo avere scoperto le sue vere origini;
  • Marsilio: re moro di al-Andalus;
  • Medoro: giovanissimo fante dell'esercito saraceno, viene quasi ucciso quando cerca di dare sepoltura al suo signore, Angelica se ne innamora; i due si sposano nella capanna di un pastore e le loro iscrizioni scatenano la pazzia di Orlando;
  • Melissa: è una maga benevola che aiuta Bradamante e Ruggiero, in particolare illustra all'eroina le sorti della stirpe degli Este, che nascerà dall'unione con il suo amato;
  • il duca di Namo di Baviera: accorto consigliere di Carlo; per Pulci, spesso è il Dusnamo. La sua negligenza nel custodire Angelica fa disperare Orlando;
  • Olimpia: figlia del Conte d'Olanda, è una sfortunata fanciulla oggetto degli amorosi appetiti di diversi pretendenti alla sua mano, non tutti leali verso di lei;
  • Orlando, conte di Brava, senatore Romano e nipote di Carlo Magno: il più forte paladino dell'esercito cristiano dei Franchi. Porta l'insegna d'Almonte, a quarti bianchi e rossi. E' un personaggio a tutto tondo, lontano dagli ideali medievali, di cui incarna solo pochi ridotti aspetti. Sin dal proemio dell'opera l'autore ci preannuncia un eroe "diverso" da quello comune, un eroe nuovo. Basta solo pensare all'aggettivo che gli è attribuito già nel titolo, "furioso". Per la prima volta un prode combattente, un eroe senza macchia e senza paura, si ritrova innanzi a una situazione che non è preparato ad affrontare, l'amore, ma non quello ideale, casto, perfetto, divino di Dante e degli scrittori precedenti, bensì una forza nuova, squisitamente materiale, che proprio per il suo carattere esclusivamente terreno affligge un animo abituato a cose grandi e quasi ultrasensibili. Il nostro eroe non può quindi che rimanere travolto e sconvolto da qualcosa che non riesce a controllare e a gestire, qualcosa che lo porta alla più assoluta pazzia, culminante con la decapitazione di un pastorello sfortunatamente imbattutosi in lui.
  • Orrigille, donna avvenente ma un po' volubile, amata da Grifone; durante un'assenza di costui si mette con Martano, parendole male avere "in così fresca etade a dormir sola";
  • Pinabello, un altro traditore maganzese. Tutto il suo valore consiste nell'avere gettato Bradamante in un burrone;
  • Polinesso: duca d'Albania, per brama del regno di Scozia vuole sposare Ginevra;
  • Rabicano: cavallo di Astolfo;
  • Rinaldo: cugino d'Orlando, ama Angelica che l'odia, perché vi fu un tempo in cui i ruoli erano invertiti. È uno dei più illustri membri della nobile famiglia Chiaramonte, di cui fa parte anche Orlando, suo cugino. Un altro suo cugino è Astolfo, mentre per fratelli ha Alardo, Guicciardo, Ricciardo e Ricciardetto, e per sorella Bradamante. Guidon Selvaggio e la gemella Carinda sono suoi fratellastri, anche se prima di Ariosto il personaggio di Guidone era considerato come suo figlio illegittimo. Nonostante sia sposato con Clarice, della quale è gelosissimo, Rinaldo si innamora spesso di altre donne. Il cavallo Baiardo è un elemento indispensabile per Rinaldo. La spada del paladino si chiama invece Fusberta, italianizzazione del termine Flamberga. A differenza di Orlando, Rinaldo è uno spirito ribelle e spesso insofferente all'autorità del sovrano.
  • Rodomonte: re d'Algeri, è il più forte dei cavalieri saraceni. Durante l'assedio di Parigi, entra nella città con un salto, e quasi la distrugge tutta, compresi donne e bambini;
  • Ruggiero: pagano della casa di Mongrana, è virtuoso e leale. Nel Furioso, così come nell'Innamorato, è assieme a Bradamante capostipite della Casa d'Este. Nel canto finale del poema, accetta la corona offertagli dai bulgari diventando dunque re di Bulgaria e vassallo dell'Imperatore d'Oriente;
  • Sacripante: re moro di Circassia, innamorato di Angelica. Egli è convinto che, mentre si trovava momentaneamente in Oriente, Orlando abbia preso la donna da lui amata. Ha sempre servito lealmente la principessa, la quale lo usa secondo le sue voglie o scopi;
  • Sansonetto, cavaliere pagano battezzato da Orlando; Carlo gli affida il governo di Gerusalemme;
  • il vescivo Turpino: è il leggendario autore della cronaca da cui attingono il Boiardo e l'Ariosto, tanto più attendibile in quanto ha preso parte in prima persona all'assedio di Parigi. Ogni tanto lo si vede in battaglia, accanto a Carlo. I riferimenti allo scrittore originario sono un ammiccamento al pubblico che contribuisce a complicare il gioco di specchi tra autore e lettore;
  • Zerbino: giovane principe di Scozia, irreprensibile cavaliere cristiano amato da Isabella; muore tra le braccia di lei dopo essere stato colpito in duello da Mandricardo.

Non si può poi non parlare delle armi dei paladini: Fusberta, la spada di Rinaldo, "che taglia sì, che par che rada"; e Durindana, spada di Orlando.

Caratteristiche dell'opera

Il poema si presenta esplicitamente come una "gionta", ossia come una continuazione dell'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, da cui però si discosterà in maniera evidente già a partire dai presupposti ideologici, storici e culturali. L'atteggiamento del conte Boiardo e di Ariosto rispetto al mondo della cavalleria è profondamente divergente: l'Innamorato era rappresentazione di un insieme di valori prettamente umanistici, di un'energica pulsione di un uomo che si era appena posto al centro dell'universo e che aveva quindi la possibilità di comandare tutte le forze del mondo. Il poema boiardesco non ha l'aspirazione alla completezza dell'Ariosto, il maturo riconoscimento del limite di una relatività; piuttosto una forte spinta propositiva sui nuovi valori umanistici della cortesia, inseriti nel mondo cavalleresco. Il duello di Orlando e Agramante tra il XVIII/XIX canto, per esempio, diventa il fulcro di una discussione sostanziale su un nuovo modello etico. All'attualizzazione, cioè all'inserimento del sistema etico umanistico all'interno del mondo cavalleresco, si sovrappone anche il rimpianto per i tempi andati: la brusca interruzione del poema, con l'invasione dei "barbari" francesi nel 1494, è in questo senso uno spartiacque deciso, un evento tragico la cui valenza simbolica non può non incidere sul destino dell'Italia, della sua letteratura e - in particolare - sullo svolgimento del poema interrotto.
L'Orlando furioso raccoglie questa eredità trasformando il mondo cavalleresco/cortese di Boiardo in un più ambizioso progetto di descrizione della complessità umana. L'immagine del cavaliere diventa più astratta, più lontana dal reale, e dalla consapevolezza di questo distacco nasce il meccanismo dell'ironia, come una forza che discute il fondamento stesso della realtà.
L'operazione di discussione sulla e della realtà, che ha degli evidenti presupposti umanistici, porta al definitivo svuotamento dell'originario scontro tra pagani e cristiani: la guerra, uno dei pochi fili rossi che è possibile tracciare con facilità all'interno del poema, non racchiude un'opposizione etica/ideologica tra due schieramenti come nella Chanson de Roland. Sulla dimensione epica comunque presente, se non altro come polarità dialettica, s'instaurano le infinite vie del romanzo, delle quali la tecnica dell'intreccio è immagine stilistica: al filone principale delle armi si mischiano gli amori, secondo un'operazione già boiardesca. All'eroe epico destinato alla vittoria proprio in quanto difensore di un'ideologica superiorità rispetto al nemico si sostituisce il cavaliere innamorato del Boiardo, ma solo a un primo superficiale livello. Ariosto non può accontentarsi di arrivare a questo punto, e infatti spinge il proprio punto di vista letterario a complicare il meccanismo dell'innamoramento fino al paradosso: da una parte portando Orlando alla pazzia, alla condizione animalesca, a spogliarsi delle sue prerogative di cavaliere; dall'altra riprendendo e assolutizzando l'idea portante del romanzo medievale, il cavaliere alla ricerca della propria identità, da ritrovare dopo una "prova".
I personaggi del Furioso sono sempre alla ricerca di qualcosa: la donna amata, l'avversario da battere, il cavallo perduto, l'oggetto rubato; e in questa perenne ricerca, di volta in volta favorita o frustrata dal caso o dalla magia, si vede agire l'uomo del Rinascimento proteso alla realizzazione delle proprie capacità. Alla possibilità di completamento e di soddisfazione del desiderio, tuttavia, si sostituisce la consapevolezza di un'impossibilità: ogni ricerca rimane sospesa, frustrata, ogni via nuova impedita, ogni sentiero interrotto. Angelica è figura emblematica di questo meccanismo, di un continuo movimento vano che ha il suo contraltare nell'errare del poeta insieme ai personaggi, nella fatica dell'Ariosto quando si tratta di raccogliere e chiudere in un'unità la molteplicità. Come fa notare Marco Santoro:

«C’è di più: alla fuga è connessa la condizione di “straniamento” di cui la donna acquista progressivamente coscienza (…) dal mondo e dalla storia. La fuga riflette emblematicamente lo scatto incolmabile tra la realtà sottesa alla mitografia del Furioso e la realtà del mondo cavalleresco restaurata e filtrata attraverso l’ottica boiardesca dell’ultimo Quattrocento. Fra Boiardo e Ariosto c’è il 1494: c’è la crescente cognizione nella coscienza dei contemporanei di una realtà segnata da irrazionalità e da violenza di fronte agli incalzanti e sconvolgenti eventi della realtà politica e sociale. Interessante anche notare come questo movimento, contraltare della crisi ideologica della cortesia, sia necessità stringente per la realizzazione del poema.»

Angelica è dunque l'immagine emblematica di un meccanismo che è alla base di tutte le forze che regolano il Furioso: tutti i personaggi sono alla ricerca di qualcosa. La dinamica dell'inchiesta cavalleresca ereditata dal romanzo medievale, incentrata sul cavaliere alla ricerca dell'occasione per misurare la propria identità in vista anche della successiva realizzazione dell'amore, si trasforma ironicamente in un vorticoso cammino senza soluzione, nella follia dell'eroe principale, in un intreccio senza fine di storie che raccontano il vuoto e l'incompiutezza della figura del cavaliere. La narrazione dell'impresa dell'eroe diventa quindi riflessione sui valori di una civiltà in crisi, piacere della narrazione infinita, astrazione e idealizzazione della società rappresentata. Le innovazioni stilistiche, il meccanismo dell'intreccio che prevede il parallelo snodarsi di vicende tutte diverse e parallele, la concezione dello spazio e del tempo risentono tutti di questo processo di distanziamento di cui è simbolo la figura dell'autore sempre al di fuori rispetto alla narrazione, seppur in molti casi posta in collegamento con le profonde tematiche del poema (si pensi solamente all'innamoramento/follia di Orlando e all'immediato richiamo alla condizione del poeta).
Il mondo dell'Orlando Furioso è un mondo dominato da forze incontrollate che sfuggono al controllo della ragione, e di cui la follia dell'eroe principale è segnatamente emblema; il ruolo della magia, oltre che un brillante meccanismo narrativo e un richiamo alla tradizione romanza, si carica in Ariosto di un connotato più amaro, proprio perché - come del resto la celebre ironia ariostesca - si sviluppa sulla consapevolezza di un limite ideologico, storico, e addirittura politico. La crisi del mondo ferrarese e dell'universo rinascimentale italiano, che porterà con sé anche la progressiva scomparsa dell'egemonia italiana come grande riferimento culturale dell'Occidente, condiziona l'atteggiamento ideologico del poeta e la struttura dell'opera. Alla vanità della ricerca dei personaggi, infatti, corrispondono l'ambiguità di Ariosto all'interno del testo, che ricopre posizioni spesso apparentemente contraddittorie, e anche la continua perfettibilità del poema, sia dal punto di vista linguistico, sia dal punto di vista strutturale. Anche all'interno della concezione dello spazio, che vede l'alternanza tra il presunto centro narrativo della guerra cristiana contro i pagani e le varie peregrinazioni dei personaggi, alcuni luoghi del testo assumono strutturalmente i connotati di emblema di tutto il poema. Così è il castello di Atlante del XII canto, luogo principe della ricerca vana, dove tutti i personaggi rincorrono l'oggetto della propria ricerca: l'inseguimento vano del loro desiderio insoddisfatto. La stesura travagliata del poema, che ha visto tre edizioni, ha anche portato progressivamente con sé un diverso approccio al testo da parte dell'autore; alle modifiche strutturali corrisponde anche una diversa concezione del mondo, più pessimista e matura, che si ritrova negli episodi aggiunti. In tutto questo complesso sistema, macchina narrativa inesauribile, s'innesta anche il tema amoroso, principale parallelo tra l'autore e i personaggi, e anche causa principale della follia che aleggia sul poema. Inoltre, il tema amoroso viene presentato in tutte le sue sfaccettature, secondo un principio di corrispondenza di opposizioni mai completamente risolte che è comune a molte altre sfere semantiche del Furioso: gli amori tra Zerbino e Isabella, Olimpia e Oberto, Brandimarte e Fiordiligi, Orlando/Rinaldo e Angelica, Bradamante e Ruggiero sono tutti diversi. Insieme alla discussione sull'amore e sulle sue diverse manifestazioni, si ripresentano motivi cari alla tradizione epica classica e medievale, come l'amicizia salda fino alla morte (Orlando e Brandimarte; Cloridano e Medoro), l'opposizione tragica tra eroe fatato e invulnerabile e cavaliere puramente mortale, la dimensione eroica del combattente senza paura (Rodomonte). A differenza dell'Orlando Innamorato, nel poema ariostesco ogni personaggio è portatore di un desiderio: che lo lega al proprio destino, lo imprigiona e, di fatto, gli toglie il senno. È il desiderio a muovere ogni cosa: per una donna, per un uomo, ma anche per una spada, un cavallo o le armi di Ettore di Troia contese fra i paladini. Vero e proprio altro mondo, luogo specchio del regno terrestre, è l'emisfero lunare raggiunto da Astolfo, dove si trova il senno di Orlando insieme a tutte le altre cose che gli uomini smarriscono: fama, gloria terrena, voti, preghiere, amori, vani desideri e vani progetti. La civiltà rinascimentale, è stato notato, ha raggiunto un pieno equilibrio spirituale e sorride con saggezza e agli abbandoni dell'animo umano e alle sue debolezze. Tuttavia, meccanismo che è alla base di operazioni letterarie diversissime come quelle di Machiavelli e Guicciardini, la trama "labirintica" diventa denuncia di un mondo dominato dalla presenza costante dell'imponderabile Fortuna , figura della "crisi della concezione rinascimentale di una realtà naturalmente armoniosa e dominabile dall'intelligenza e dall'azione umana". Il Furioso, interpretato come poema dell'armonia sin dalla celebre affermazione crociana, mostra al suo interno anche una forza corrosiva sulla capacità dell'uomo di essere artefice del proprio destino: la discussione sul rapporto con la Fortuna, simbolo dell'imprevedibile, vero e proprio topos del Rinascimento, fa breccia anche nei potenzialmente infiniti fili narrativi del libro che di quella civiltà è stato sintesi e capolavoro. Elemento caratterizzante dell'opera è certamente l'armonia nonostante la ricchezza di vicende, che vengono abilmente intrecciate dall'autore in un insieme di episodi, dove i personaggi si incontrano e si separano a seconda degli eventi della grande guerra tra musulmani e cristiani che fa da sfondo all'intero poema. Degno di nota è l'importanza che nel poema hanno le donne, controfigure delle varie Isabella d'Este o Lucrezia Borgia, che, con la loro presenza e personalità, contribuivano a creare quel fantastico mondo rinascimentale nel quale Ariosto era immerso; giova osservare anche che la guerra tra i francesi e i mori vede trionfare i primi ma non c'è mai alcuna forma di razzismo, anzi a volte prevale il cameratismo.

Oh gran bontá de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.

Termino con queste due citazioni che illuminano la figura del poeta.

E cosí alla fine hai la perpetua illusione di un mondo che non è il nostro comune mondo, perché ci sono troppe meraviglie, e quegli uomini, non sono creature di carne che godano e patiscano come noi, né sono i cavalieri della storia, eroi di una azione e di una favola seria, ma cavalieri della fantasia, ideali figure, purissime forme liriche, idealizzazioni della sanità, della forza, dell’audacia, come anche del capriccio e dell’avventura, svagati, mobili, estrosi, ridenti e piangenti come grandi e irrequieti fanciulli, che si rincorrono da un capo all’altro del mondo, pronti ai richiami dei sensi, alle lusinghe delle cose, terribili nelle armi, inermi dinanzi ai propri capricci. E d’altra parte quel dell’Ariosto, non è un mondo fuor della natura e della vita, perché variato a ogni passo di figure o di aspetti i piú naturali e umani del mondo, e sopra tutto pieno di quella sapienza e indulgenza e di quel lume di ragione, che sono il governo dell’uomo non già in una vita immaginaria e sognante, in un regno di perfezione ultraterreno, celeste, ma proprio su questa terra e in questa nostra vita di ogni giorno, per chi voglia e sappia viverla in una sfera armoniosamente serena e relativamente beata che è l’anima dell’Ariosto e la sfera armoniosa della sua arte. Croce

 

Questo poeta cosi assolutamente limpido e ilare e senza problemi, eppure in fondo cosi misterioso, cosi abile nel celare se stesso; questo incredulo italiano del Cinquecento che trae dalla cultura rinascimentale un senso della realtà senza illusioni, e mentre Machiavelli fonda su quella stessa nozione disincantata una dura idea di scienza politica, egli si ostina a disegnare una fiaba .... Calvino

 

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26 ottobre 2023 - Eugenio Caruso

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