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Voltaire, uno dei massimi pensatori del XVIII secolo.

 

"Muoio adorando Dio, amando i miei amici, non odiando i miei nemici, e detestando la superstizione". (Costretto da parenti e amici per avere una sepoltura adeguata).

 


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

FRANCESI

Balzac - Camus - Eluard - France - Gide - Mauriac - Proust - Rousseau - Villon - Voltaire -

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Voltaire ritratto da Nicolas de Largillière, 1724–1725, Institut et Musée Voltaire

Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet; Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30 maggio 1778), è stato un filosofo, drammaturgo, storico, scrittore, poeta, aforista, enciclopedista, autore di fiabe, romanziere e saggista. Il nome di Voltaire è legato al movimento culturale dell'illuminismo, una corrente di pensiero del '700, di cui fu uno degli animatori e degli esponenti principali insieme a Montesquieu, Rousseau, Diderot, d'Alembert, d'Holbach e du Châtelet, tutti gravitanti attorno all'ambiente dell'Encyclopédie. La vasta produzione letteraria di Voltaire si caratterizza per l'ironia, la chiarezza dello stile, la vivacità dei toni e la polemica contro le ingiustizie e le superstizioni. Deista, cioè seguace della religione naturale che vede la divinità come estranea al mondo e alla storia, ma scettico, fortemente anticlericale e laico, Voltaire è considerato uno dei principali ispiratori del pensiero razionalista e non religioso moderno.
Le idee e le opere di Voltaire hanno ispirato e influenzato moltissimi pensatori, politici e intellettuali contemporanei e successivi e ancora oggi sono molto diffuse. In particolare hanno influenzato protagonisti della rivoluzione americana, come Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, e di quella francese, come Jean Sylvain Bailly (che tenne una proficua corrispondenza epistolare con Voltaire), Condorcet (anche lui enciclopedista) e in parte Robespierre, oltre che molti altri filosofi come Cesare Beccaria, Karl Marx e Friedrich Nietzsche.
François-Marie Arouet nasce il 21 novembre 1694 a Parigi in una famiglia appartenente alla ricca borghesia. Il padre François Arouet, avvocato, era anche un ricco notaio, conseiller du roi, alto funzionario fiscale e un fervente giansenista, mentre la madre, Marie Marguerite d'Aumart, era appartenente a una famiglia vicina alla nobiltà. Il fratello maggiore Armand, avvocato al Parlamento, poi successore del padre come receveur des épices, era molto inserito nell'ambiente giansenista all'epoca della fronda contro la Bolla Unigenitus e del diacono Pâris. La sorella, Marie Arouet, l'unica persona della famiglia che fu affezionata a Voltaire, sposò Pierre François Mignot, correttore presso la Chambre des comptes, e fu la madre dell'abate Mignot, che giocò un ruolo importante alla morte di Voltaire, e di Marie Louise, la futura Madame Denis, che condividerà una parte della vita dello scrittore.

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Statua di Voltaire all'Ermitage di San Pietroburgo, di Jean-Antoine Houdon.


Originario dell'Haut Poitou, precisamente di Saint-Loup, piccola località situata nell'attuale dipartimento Deux-Sèvres, François si trasferì a Parigi nel 1675 e si sposò nel 1683. Voltaire fu l'ultimo di cinque figli: il primogenito Armand-François morì tuttavia ancora piccolo, nel 1684, e stessa sorte toccò cinque anni più tardi al fratello Robert. Il citato Armand vide la luce nel 1685, mentre l'unica femmina, Marguerite-Catherine, nacque nel 1686. Voltaire perse la madre a soli 7 anni, e venne cresciuto dal padre con cui avrà sempre un rapporto molto conflittuale.
Nell'ottobre 1704 entrò al rinomato collegio gesuita Louis-le-Grand. In questo periodo il giovane Voltaire dimostrò una spiccata inclinazione per gli studi umanistici, soprattutto retorica e filosofia. Benché destinato a essere molto critico nei confronti dei gesuiti, Voltaire poté beneficiare dell'intensa vita intellettuale del collegio. L'amore per le lettere fu favorito in particolare da due maestri. Nei confronti del padre René-Joseph de Tournemine, erudito direttore del principale giornale dei Gesuiti – le Mémoires de Trévoux – con cui avrebbe avuto qualche dissidio in materia di ortodossia religiosa, nutrì sempre gratitudine e stima. Con il professore di retorica il padre Charles Porée, l'adolescente strinse un'amicizia anche più intensa e altrettanto duratura; l'ecclesiastico, che fu maestro di illustri pensatori quali Helvétius e Diderot, era inoltre molto attivo in ambito letterario. Porée licenziò un'ampia produzione di poesie, oratori, saggi e canovacci teatrali, messi in scena, questi ultimi, nello stesso Collegio, dove il grande interesse per il teatro mise subito Voltaire a contatto con un'arte che avrebbe praticato lungo tutta la sua carriera. Qualche mese prima di morire, verso gli 85 anni, la famosa cortigiana e protettrice delle arti Ninon de Lenclos, si fece presentare il giovane Arouet, allora circa undicenne e colpita dalle sue capacità, nel suo testamento gli lasciò 2.000 lire tornesi affinché potesse acquistarsi dei libri; si trattava di una discreta somma per l'epoca (in effetti, all'inizio del XVIII secolo, come nota il maresciallo Vauban sulla Dîme royale, un semplice lavoratore a giornata guadagnava meno di 300 lire all'anno).

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Château di Voltaire a Ferney (oggi chiamata Ferney-Voltaire in suo onore), situata in Francia, all'epoca sul confine franco-ginevrino.


Nel collegio raggiunge un'approfondita conoscenza del latino, tramite la lettura di autori come Virgilio, Orazio, Lucano, Cicerone; di contro, assai scarso o forse del tutto assente fu l'insegnamento del greco. Nel corso della vita studierà e parlerà in maniera fluente tre lingue moderne, oltre al francese: l'inglese, l'italiano e, in misura minore, lo spagnolo, che userà in molte lettere con corrispondenti stranieri.
Nel 1711 lascia il collegio e s'iscrive, per volere paterno, alla scuola superiore di diritto che comunque lascerà dopo soli quattro mesi con fermo e deciso disgusto, in quanto egli non aveva mai espresso alcun desiderio di fare l'avvocato. In questi anni s'inasprisce molto il rapporto con il padre, il quale mal sopporta la sua vocazione poetica e i continui rapporti con i circoli filosofici libertini, come la Societé du Temple di Parigi. Indicativo di ciò è il fatto che Voltaire si vantava di essere un figlio illegittimo. Nel 1713 lavorò come segretario all'Ambasciata francese all'Aja, poi tornò a Parigi per svolgere il praticantato presso un notaio, per cercare di omaggiare rispettosamente le orme del tanto odiato padre; in realtà egli desiderava sottrarsi alla pesante influenza del genitore che infatti ripudiò dopo poco tempo, e cominciò a scrivere articoli e versi duri e caustici verso le autorità costituite.
I suoi scritti molto polemici trovarono immediato successo nei salotti nobiliari; nel 1716 ciò gli costò l'esilio a Tulle e Sully-sur-Loire; alcuni versi satirici, del 1717, contro il reggente di Francia Filippo d'Orléans, che governava in nome del giovanissimo Luigi XV, e contro sua figlia, la Duchessa di Berry, gli causarono l'arresto e la reclusione alla Bastiglia, poi un altro periodo di confino a Chatenay. Alla morte del padre, nel 1722, l'investimento oculato dell'eredità paterna mette Voltaire al riparo per sempre da preoccupazioni finanziarie, permettendogli di vivere con una certa larghezza. La pubblicazione del poema La Ligue del 1723, scritto durante la prigionia, ottenne invece l'assegnazione di una pensione di corte da parte del giovane re. L'opera, dedicata al re Enrico IV di Francia, giudicato un campione della tolleranza religiosa in contrasto con l'oscurantista e intollerante Luigi XIV (che ebbe contrasti col Papa, ma revocò l'editto di Nantes, tornando alle persecuzioni contro ugonotti e giansenisti), verrà pubblicata nuovamente col titolo Enriade, nel 1728. Il favore che gli mostrarono i nobili di Francia non durò a lungo: sempre per colpa dei suoi scritti mordaci, litigò con l'aristocratico Guy-Auguste de Rohan-Chabot, cavaliere di Rohan, che l'aveva apostrofato con scherno presso un teatro. Il giorno seguente Rohan lo fece aggredire e malmenare dai suoi domestici, armati di bastone, per poi rifiutare con sprezzo il duello di riparazione del torto, proposto dal giovane poeta. Le proteste di Voltaire gli servirono solo a essere imprigionato nuovamente, grazie a una lettre de cachet, cioè un ordine in bianco di arresto (spettava a chi possedeva il documento aggiungere il nome della persona da colpire) ottenuto dalla famiglia del rivale e firmata da Filippo d'Orléans. Dopo un breve periodo in esilio fuori Parigi, Voltaire, sotto minaccia di un nuovo arresto, si vide costretto a emigrare in Inghilterra (1726-1729). In Gran Bretagna, grazie alla conoscenza di uomini di cultura liberale, scrittori e filosofi come Robert Walpole, Jonathan Swift, Alexander Pope e George Berkeley, maturò idee illuministe contrarie all'assolutismo feudale della Francia.
Dal 1726 al 1728 visse in Maiden Lane, Covent Garden, nel luogo oggi ricordato da una targa al n. 10. L'esilio di Voltaire in Gran Bretagna durò tre anni, e questa esperienza influenzò fortemente il suo pensiero. Era attratto dalla monarchia costituzionale in contrasto con la monarchia assoluta francese, e da una maggiore possibilità delle libertà di parola e di religione, e il diritto di habeas corpus. Venne influenzato da diversi scrittori neoclassici dell'epoca, e sviluppò un interesse per la letteratura inglese precedente, soprattutto le opere di Shakespeare, ancora relativamente sconosciuto in Europa continentale. Nonostante sottolineasse le sue deviazioni dagli standard neoclassici, Voltaire vide Shakespeare come un esempio che gli scrittori francesi potevano emulare, poiché nel dramma francese, giudicato più lucido, mancava l'azione sul palco. Più tardi, tuttavia, come l'influenza di Shakespeare crebbe in Francia, Voltaire cercò di contrastare ciò con le proprie opere, denunciando ciò che considerava "barbarie shakesperiana". In Inghilterra fu presente al funerale di Isaac Newton, ed elogiò gli inglesi per aver onorato uno scienziato considerato eretico con la sepoltura nell'Abbazia di Westminster.

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Émilie du Châtelet, che per molti anni fu la compagna di Voltaire


Dopo quasi tre anni di esilio, Voltaire tornò a Parigi e pubblicò le sue opinioni nei confronti del governo britannico, la letteratura e la religione in una raccolta di saggi, le Lettere inglesi (o Lettere filosofiche), pubblicate nel 1734 e per le quali venne di nuovo condannato, in quanto aspramente critiche verso l'ancien régime e antidogmatiche. Nell'opera Voltaire considera la monarchia inglese - costituzionale, sorta in maniera compiuta dalla Gloriosa rivoluzione del 1689 - come più sviluppata e più rispettosa dei diritti umani (in particolare la tolleranza religiosa) rispetto al suo regime omologo francese.
Durante l'esilio in Inghilterra assunse lo pseudonimo di "Arouet de Voltaire" (già usato però come firma nel 1719), poi accorciato in Voltaire, per separare il suo nome da quello del padre ed evitare confusioni con poeti dal nome simile. L'uso dello pseudonimo era diffuso nell'ambiente teatrale, come già era all'epoca di Molière, ma l'origine del nom de plume è incerta e fonte di dibattito; le ipotesi più probabili sono:

1. "Voltaire" potrebbe essere un particolare anagramma del cognome in scrittura capitale latina, dal nome con cui era conosciuto in gioventù, Arouet le Jeune (Arouet il giovane, per distinguerlo dal padre omonimo): da AROUET L(e) J(eune) a AROVET L. I. o AROVETLI, da cui VOLTAIRE. Questa è la teoria generalmente più diffusa.
2. Un'altra teoria ricorre al luogo d'origine della famiglia Arouet: la cittadina di Airvault, il cui anagramma potrebbe rendere lo pseudonimo, nella forma "Vaultair", con pronuncia francese identica a quella del nome scritto con la grafia "Voltaire".
3. Richard Holmes aggiunge che, oltre a questi motivi, il nome Voltaire fu scelto anche per trasmettere le connotazioni di "velocità" e "audacia". Questi provengono da associazioni con parole come "volteggio" (acrobazie su trapezio o cavallo), "voltafaccia" (fuga dai nemici), e "volatile" (originariamente, qualsiasi creatura alata, anche in senso figurato, onde dare una sensazione di agilità mentale e leggerezza).
4. Una delle teorie minoritarie vuole che derivi dalla parola "revolté", ossia "rivoltato, in rivolta" (contro il vecchio ordine); lo pseudonimo sarebbe la metatesi sillabica di una trasformazione grafica della parola: da "revolté" a "revoltai" (la pronuncia è uguale), e quindi "Voltaire".
5. Una ricerca di Simone Migliorini porta anche a considerare la scelta dello pseudonimo un omaggio alla antichissima città di Volterra. Non raramente infatti Voltaire citava brani del poeta stoico volterrano Aulo Persio Flacco e Volterra rappresenta da sempre una delle più antiche città dove, fin dagli albori della civiltà, si è sperimentata la democrazia.

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Nicolas de Largillière, Voltaire intorno al 1724–1725 (prima delle tre versioni del dipinto, conservato alla villa elegante di Ferney-Voltaire)



Costretto ancora esule in Lorena (a causa dell'opera Storia di Carlo XII del 1731), scrisse le tragedie Bruto e La morte di Cesare, cui seguirono Maometto ossia il fanatismo, che volle polemicamente dedicare al Papa Benedetto XIV, Merope, il trattato di divulgazione scientifica Elementi della filosofia di Newton. In questo periodo cominciò una relazione con la nobildonna sposata Madame du Châtelet, che lo nascose nella sua casa di campagna a Cirey, nella Champagne. Nella biblioteca della Chatelet, che contava 21.000 volumi, Voltaire e la compagna studiarono Newton e Leibniz. Avendo fatto tesoro dei suoi precedenti attriti con le autorità, Voltaire cominciò a pubblicare anche anonimamente per stare fuori pericolo, negando ogni responsabilità di essere l'autore di libri compromettenti. Continuò a scrivere per il teatro, e incominciò una lunga ricerca nelle scienze e nella storia. Ancora una volta, la principale fonte di ispirazione per Voltaire erano gli anni del suo esilio inglese, durante il quale era stato fortemente influenzato dalle opere di Newton. Voltaire credeva fortemente nelle teorie di Newton, in particolare per quanto riguarda l'ottica (la scoperta di Newton che la luce bianca è composta da tutti i colori dello spettro portò Voltaire a molti esperimenti a Cirey) e la gravità (Voltaire è la fonte della famosa storia di Newton e la mela caduta dall'albero, che aveva appreso dal nipote di Newton a Londra: ne parla nel Saggio sulla poesia epica).
Nell'autunno del 1735, Voltaire ricevette la visita di Francesco Algarotti, che stava preparando un libro su Newton. Nel 1736 Federico di Prussia cominciò a scrivere lettere a Voltaire. Due anni dopo Voltaire visse per un periodo nei Paesi Bassi e conobbe Herman Boerhaave. Nel primo semestre del 1740 Voltaire visse invece a Bruxelles e si incontrò con Lord Chesterfield. Conobbe il libraio ed editore Jan Van Duren, che più tardi avrebbe preso a simbolo del truffatore per eccellenza, per occuparsi della pubblicazione dell'Anti-Machiavel, scritto dal principe ereditario prussiano. Voltaire visse nella Huis Honselaarsdijk, appartenente al suo ammiratore. Nel mese di settembre Federico II, asceso al trono, incontrò Voltaire per la prima volta al castello di Moyland, vicino a Cleve, e a novembre Voltaire andò al Castello di Rheinsberg per due settimane. Nell'agosto 1742 Voltaire e Federico si incontrarono a Aix-la-Chapelle (Aquisgrana). Il filosofo venne poi inviato al Sanssouci dal governo francese, come ambasciatore, per scoprire di più sui piani di Federico dopo la prima guerra di Slesia.
Federico si insospettì e lo fece fermare e rilasciare dopo poco tempo; però continuerà a scrivergli lettere, una volta chiarito l'equivoco. Grazie al riavvicinamento con la corte, aiutato dall'amicizia con Madame de Pompadour, la favorita di re Luigi XV, protettrice anche di Diderot, nel 1746 fu nominato storiografo e membro dell'Académie Française, nonché Gentiluomo di camera del re; ma Voltaire, seppur apprezzato da parte della nobiltà, non incontrava affatto la benevolenza del sovrano assoluto: così, di nuovo in rotta con la corte di Versailles (che frequentò per circa due anni), avrebbe finito per accettare l'invito a Berlino del re di Prussia, che lo considerava un suo maestro.

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Federico II di Prussia


Lo stesso lasso di anni fu doloroso dal punto di vista privato per il filosofo: dopo una lunga e altalenante relazione, tra ritorni e tradimenti nella coppia, la Châtelet lo lasciò per il poeta Saint-Lambert, e Voltaire rispose cominciando una relazione con la nipote Madame Denis (1712-1790), vedova, che in passato aveva tentato di sposare, secondo consuetudini nobiliari dell'epoca, approvate dalla Chiesa e di moda anche nella borghesia, che non consideravano incestuoso un legame tra zio e nipote. La relazione con Madame Denis fu breve, anche se avrebbero convissuto platonicamente fino alla sua morte. Inoltre quando, nel 1749, Madame du Châtelet, rimasta in buoni rapporti con lo scrittore, morì di complicazioni legate al parto, dando alla luce la figlia di Saint-Lambert (morta alla nascita), Voltaire l'assistette e rimase molto colpito dalla sua morte, definendola in una lettera la sua anima gemella. Poco dopo la morte di Émilie, Voltaire scriveva a un'amica: "je n'ai pas perdu une maîtresse mais la moitié de moi-même. Un esprit pour lequel le mien semblait avoir été fait" ("non ho perduto un'amante ma la metà di me stesso. Un'anima per la quale la mia sembrava fatta").
Lasciata la Francia, dal 1749 al 1752 soggiornò quindi a Berlino, ospite di Federico II, che lo ammirava, considerandosi un suo discepolo e lo nominò suo ciambellano. A causa di alcune speculazioni finanziarie, in cui lo scrittore era molto abile, nonché per i continui attacchi verbali contro lo scienziato Pierre Louis Moreau de Maupertuis, che non lo sopportava, ma che presiedeva l'Accademia di Berlino e alcune divergenze di idee sul governo della Prussia, Voltaire litigò col sovrano e lasciò la Prussia, ma il re lo fece arrestare abusivamente, per breve tempo, a Francoforte. Dopo questo incidente, sarebbero passati molti anni prima che i loro rapporti si pacificassero, riprendendo una corrispondenza epistolare col sovrano dopo circa 10 anni. Voltaire accentuò quindi l'impegno contro le ingiustizie in maniera particolarmente attiva, dopo l'allontanamento dalla Prussia. Impossibilitato a tornare a Parigi, poiché dichiarato persona sgradita alle autorità, si spostò allora a Ginevra, nella villa Les délices, finché entrò in rotta con la Repubblica calvinista, che egli aveva ritenuto erroneamente un'oasi di tolleranza, e riparò nel 1755 a Losanna, poi presso i castelli di Ferney e Tournay, da lui acquistati, dopo essersi sfogato contro i politici di Ginevra con parole rabbiose e durissime in una lettera inviata all'amico d'Alembert.
Il patriarca di Ferney: Voltaire guida dell'illuminismo (1755–1778)

«Se questo è il migliore dei mondi possibili, gli altri come sono?» (Voltaire, Candido o l'ottimismo, capitolo VI, 1759)


È di questo periodo la pubblicazione della tragedia Oreste (1750), considerata una delle opere minori del teatro di Voltaire, completata poco dopo l'abbandono della Prussia. In particolare da allora visse nel piccolo centro di Ferney, che prenderà il suo nome (Ferney-Voltaire). Qui riceveva numerose visite, scriveva e si dedicava alla corrispondenza con centinaia di persone, che in lui riconoscevano il "patriarca" dell'Illuminismo.
Tra le persone che vennero a visitarlo a Ferney, oltre a Diderot, Condorcet e d'Alembert, vi furono James Boswell, Adam Smith, Giacomo Casanova, Edward Gibbon. Nello stesso periodo cominciò la più feconda fase della produzione voltairiana, che univa l'Illuminismo e la fiducia nel progresso col pessimismo dovuto alle vicende personali e storiche (prima fra tutto il disastroso terremoto di Lisbona del 1755, che minò la fiducia di molti philosophes nell'ottimismo acritico). Voltaire dedica al sisma tre opere: il Poema sul disastro di Lisbona, il Poema sulla legge naturale (scritto precedentemente ma rivisto e allegato al primo) e alcuni capitoli del Candido. Il terremoto suscitò un vivace dibattito tra i philosophes.
Voltaire collaborò all'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, alla quale partecipavano anche d'Holbach e Jean-Jacques Rousseau. Dopo un buon inizio, e un parziale apprezzamento dei philosophes per le sue prime opere, quest'ultimo si distaccò presto, per le sue idee radicali in politica e sentimentali sulla religione: si veda La lettera sul terremoto di Lisbona, scritta da Rousseau a Voltaire, dal riformismo e dal razionalismo degli enciclopedisti; inoltre Rousseau non accettava le critiche alla sua città fatte da d'Alembert e Voltaire stesso nell'articolo "Ginevra", che avrebbe scatenato nuovamente le autorità svizzere contro i due filosofi, costringendolo a fuggire da Les delicés.
Voltaire cominciò a considerare Rousseau come un nemico del movimento, definendolo "il Giuda della confraternita", oltre che una persona incompatibile col proprio carattere (a causa della paranoia e gli sbalzi d'umore dell'autore del Contratto sociale) e, pertanto, da screditare con i suoi scritti come veniva fatto con gli anti-illuministi espliciti. In una lettera a un componente del Piccolo Consiglio di Ginevra, contraddirebbe le sue affermazioni tolleranti e assai più note, quando inviterebbe i governanti di Ginevra a condannare Rousseau con la massima severità. In realtà Voltaire rispose ad alcuni attacchi diretti proprio da Rousseau, notoriamente litigioso e che lo riteneva reo di non averlo difeso dalla censura:

"Questi signori del Gran Consiglio vedono così spesso il signor Voltaire; come può non avere ispirato in loro quello spirito di tolleranza che predica senza pausa, e di cui ogni tanto ha lui stesso bisogno?"

e che istigava i ginevrini, nella Lettere scritte dalla montagna, dopo aver affermato che Voltaire era l'autore del Sermone dei cinquanta (una scandalosa opera anonima che denunciava la falsità storica del Vangelo), di colpirlo direttamente se volevano "castigare gli empi", anziché perseguire lui stesso. Nonostante lo stesso Voltaire gli avesse offerto ospitalità a Ferney dopo le accuse subite per l'opera Emilio, ricevette da Rousseau in cambio diverse accuse, terminando in insulti reciproci. Alla fine, avvisato che Rousseau stava venendo di persona, Voltaire aveva sbottato "Che venga! Gli offrirò la cena e lo metterò nel mio letto e gli dirò: grazie d'aver accettato l'invito". In realtà, alla fine, l'incontro non ci fu mai. Voltaire dal canto suo si vendicò allora con la lettera in cui affermava che il vero "blasfemo sedizioso" era Rousseau e non lui, invitando ad agire con «tutta la severità della legge», cioè bandirne le opere "sovversive", senza tuttavia affermare esplicitamente di condannare il collega alla pena capitale.
Nel pamphlet I sentimenti dei cittadini Voltaire, mettendola in bocca a un pastore calvinista, scrive una delle frasi "incriminate" («occorre insegnargli che se si punisce leggermente un romanziere empio, si punisce con la morte un vile sedizioso») e afferma che «si ha pietà di un folle; ma quando la demenza diventa furore, lo si lega. La tolleranza, che è una virtù, sarebbe in quel caso un vizio». Vi rivela, poi, alcuni fatti disdicevoli della vita di Rousseau, come la povertà in cui faceva vivere la moglie, i cinque figli lasciati all'orfanotrofio e una malattia venerea di cui soffriva.

«Riconosciamo con dolore e rossore che v’è un uomo che porta ancora su di sé il marchio funesto delle sue gozzoviglie e che, travestito da saltimbanco, trascina con sé di villaggio in villaggio e di montagna in montagna l’infelice donna di cui ha fatto morire la madre e di cui ha esposto i figli alla porta di un ospizio.» (Voltaire, I sentimenti dei cittadini)

Per questo dissidio umano e intellettuale sono interessanti anche le lettere scambiate direttamente tra due filosofi: in una missiva sul Discorso sull'origine della diseguaglianza di Rousseau, in polemica col primitivismo del ginevrino, Voltaire gli scrisse che «leggendo la vostra opera viene voglia di camminare a quattro zampe. Tuttavia, avendo perso quest'abitudine da più di sessant'anni, mi è purtroppo impossibile riprenderla». Dal canto suo, sentimenti contrastanti erano in Rousseau (nel 1770 sottoscrisse una petizione per innalzare a Voltaire un monumento). Già nel 1760 Rousseau aveva attaccato Voltaire a causa dell'articolo su Ginevra e per non aver preso le sue parti nel dissidio con d'Alembert:

«Io non vi voglio affatto bene Signore; voi mi avete fatto i mali di cui potevo patire di più, a me, vostro discepolo e vostro fanatico partigiano. Avete rovinato Ginevra come prezzo dell'asilo che vi avete ricevuto; (...) siete voi che mi farete morire in terra straniera (...) Vi odio, insomma, perché l'avete voluto; ma vi odio da uomo anche più degno di amarvi se voi l'aveste voluto. Di tutti i sentimenti di cui il mio cuore era compenetrato, vi resta solo l'ammirazione che non si può rifiutare per il vostro bel genio e l'amore per i vostri scritti.» (Rousseau a Voltaire, 17 giugno 1760)

In una lettera privata del 1766 al segretario di Stato di Ginevra, Voltaire però negò che lui fosse l'autore de I sentimenti dei cittadini, probabilmente basato sulle confidenze degli ex amici di Rousseau (Diderot, Madame d'Epinay, Grimm):

«Non sono per nulla amico del signor Rousseau, dico ad alta voce ciò che penso di buono e di cattivo delle sue opere; ma, avessi fatto il torto più piccolo alla sua persona, fossi servito a opprimere un uomo di lettere, me ne sentirei troppo colpevole.» (Voltaire, lettera del 1766)

Voltaire, in questo periodo, si impegnò anche al fine di evitare il più possibile le guerre che insanguinavano l'Europa. Egli disprezzava il militarismo e sosteneva il pacifismo e il cosmopolitismo; un appello alla pace è presente anche nel Trattato sulla tolleranza. Cercò di fare da mediatore tra la Francia e la Prussia di Federico II, per evitare la guerra dei sette anni.
Al contempo però bisogna ricordare che, nella vita privata, portava avanti lucrosi e poco onesti affari proprio nel campo dei rifornimenti all'esercito. Ricco e famoso, punto di riferimento per tutta l'Europa illuminista, entrò in polemica coi cattolici per la parodia di Giovanna d'Arco in La Pulzella d'Orléans, opera giovanile riedita, ed espresse le sue posizioni in forma narrativa in numerosi racconti e romanzi filosofici, di cui il più riuscito è Candido ovvero l'ottimismo (1759), in cui polemizzò con l'ottimismo di Gottfried Leibniz. Il romanzo rimane l'espressione letteraria più riuscita del suo pensiero, contrario a ogni provvidenzialismo o fatalismo. Da qui ebbe inizio un'accanita polemica contro la superstizione e il fanatismo a favore di una maggiore tolleranza e giustizia.
A questo proposito scrisse il Trattato sulla tolleranza in occasione della morte di Jean Calas (1763) e il Dizionario filosofico (1764), tra le opere non narrative più importanti del periodo, che vide anche la continuazione della collaborazione con l'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert. Si dedicò anche a numerosissimi pamphlet, spesso anonimi, contro gli avversari degli illuministi. Nel caso di Jean Calas, egli riuscì a ottenere la riabilitazione postuma del commerciante protestante giustiziato, e quella della famiglia proscritta e ridotta in miseria, arrivando a orientare la Francia intera contro la sentenza del Parlamento di Tolosa. Alla fine la vedova, sostenuta da Voltaire, si rivolse al Re, ottenendo anche l'appoggio della Pompadour, che sostenne la causa dei Calas in una lettera al filosofo. Luigi XV ricevette in udienza i Calas; poi, lui e il suo consiglio privato annullarono la sentenza e ordinarono una nuova indagine, in cui i giudici di Tolosa vennero sconfessati completamente. Questo fatto segnò l'apice della popolarità e dell'influenza di Voltaire.
Tra le altre opere del lungo periodo a cavallo tra la Prussia e la Svizzera, i racconti Zadig (1747), Micromega (1752), L'uomo dai quaranta scudi (1767), le opere teatrali Zaira (1732), Alzira (1736), Merope (1743), il Poema sul disastro di Lisbona (1756). E infine, le importanti opere storiografiche Il secolo di Luigi XIV (1751), scritto durante il periodo prussiano e in cui contribuisce a rendere celebre l'enigma della famosa Maschera di Ferro, e il Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni (1756). In una delle ultime opere prettamente filosofiche, Le philosophe ignorant (1766), Voltaire insistette sulla limitazione della libertà umana, che non consiste mai nell'assenza di qualsiasi motivo o determinazione.
La sua salute intanto cominciava a declinare, ed egli chiese di poter rientrare in patria. Già amico della precedente favorita di Luigi XV, Madame de Pompadour, strinse amicizia epistolare anche con la nuova maîtresse-en-titre, Madame du Barry. Luigi XV morì nel 1774. Nel 1778 Voltaire ottenne il permesso di tornare nella capitale. Rientrato a Parigi i primi giorni di febbraio del 1778, dopo 28 anni di assenza, ricevette un'accoglienza trionfale dal popolo e dagli intellettuali, tranne che dalla corte del nuovo re, Luigi XVI, che comunque aveva acconsentito alla revoca dell'esilio, e, ovviamente, dal clero. Il 7 aprile entrò nella Massoneria, nella Loggia delle Nove Sorelle. Assieme a lui, venne iniziato anche l'amico Benjamin Franklin.
Nonostante l'ostinato rifiuto, sino alla morte, della religione cattolica e della Chiesa - Voltaire era un deista - viene sostenuta la tesi che il filosofo si sia convertito in extremis alla fede cristiana. A riprova della conversione di Voltaire abbiamo uno studio dello spagnolo Carlos Valverde. Mentre le sue condizioni peggioravano, Voltaire perse lucidità, e assumeva forti dosi di oppio per il dolore.. Un prete, Gauthier, della parrocchia di Saint-Sulpice, dove viveva Voltaire, venne a chiedergli una confessione di fede, perché egli non fosse sepolto in terra sconsacrata. L'unica dichiarazione scritta di suo pugno, o dettata al segretario, fu:

"Muoio adorando Dio, amando i miei amici, non odiando i miei nemici, e detestando la superstizione".

Gauthier non la ritenne sufficiente e non gli diede l'assoluzione, ma Voltaire si rifiutò di scrivere altre confessioni di fede che sancissero il suo ritorno al cattolicesimo. Nonostante ciò, si diffusero, dopo la morte, documenti di dubbia autenticità che indicherebbero che abbia sottoscritto una professione di fede, firmata da Gauthier e dal nipote, l'abbé Mignot, anche questa però, ritenuta insufficiente, anche se più esplicita. La confessione è stata ritenuta da taluni di comodo, su sollecitazione degli amici, per avere degna sepoltura e funerali oppure totalmente falsa, in quanto in contrasto con tutta la sua vita e la sua opera. Anche altri autori hanno riferito di una presunta autenticità della conversione di Voltaire e su i suoi rapporti col parroco Gauthier.
La conversione di Voltaire nei suoi ultimi tempi venne decisamente negata dagli illuministi, in particolare dagli anticlericali, in quanto ritenuta offuscare l'immagine di uno dei loro principali ispiratori e spesso non considerata sincera nemmeno dai cattolici. Bisogna notare inoltre che anche Diderot prese accordi con sacerdoti prima di morire, per poter essere decorosamente sepolto ed entrambi erano spinti con insistenza da amici e parenti, benché, come sappiamo da documenti, perlomeno Diderot non fosse davvero convertito. Anche l'ateo barone d'Holbach fu sepolto in una chiesa (accanto a Diderot stesso), avendo dovuto tenere nascoste le proprie idee in vita, per aggirare la censura e la repressione. Tutte queste analogie rendono probabile che non si trattò di vere conversioni, e che Voltaire non tornò davvero al cattolicesimo, e questo fu il motivo per cui la curia parigina oppose comunque il veto alla sepoltura, in quanto egli era morto senza assoluzione.
La versione degli amici racconta che, in punto di morte, il filosofo respinse ancora il sacerdote, che avrebbe dovuto dare l'assenso alla sepoltura, e che lo invitava a confessarsi chiedendogli un'esplicita dichiarazione di fede cattolica, che Voltaire invece non voleva fare (intuendo che volesse poi venire usata a fini propagandistici): alla domanda se credeva nella divinità di Cristo, Voltaire replicò:

"In nome di Dio, Signore, non parlatemi più di quell'uomo e lasciatemi morire in pace".

Voltaire morì, probabilmente per un cancro alla prostata di cui avrebbe sofferto già dal 1773, la sera del 30 maggio 1778, all'età di circa 83 anni, mentre la folla parigina lo acclamava sotto il suo balcone. La morte fu tenuta segreta per due giorni; il corpo, vestito come fosse vivo e sommariamente imbalsamato, fu portato fuori da Parigi in carrozza, come da accordi presi da madame Denis con un suo amante, un prelato che aveva acconsentito al "trucco". Il suo funerale, molto sontuoso, fu officiato dal nipote, l'abbé Mignot, parroco di Scellières, e nell'attiguo convento ebbe sepoltura lo scrittore. I medici che eseguirono l'autopsia ne asportarono il cervello e il cuore (riunito anni dopo ai resti per volontà di Napoleone III), forse per impedire una sepoltura "completa", dato l'ordine dell'arcivescovo di Parigi di vietare la sepoltura in terra consacrata a Voltaire, o forse, più probabilmente, per poterli conservare come reliquie laiche nella capitale; furono tumulati infatti temporaneamente nella Biblioteca nazionale di Francia e alla Comédie Française. Se Voltaire era comunque morto senza perdono religioso, e la chiesa parigina gli negò ogni onore, tutti i membri della curia dove venne sepolto vollero invece celebrare una messa cantata in sua memoria, e numerose cerimonie. Le proprietà e l'ingente patrimonio di Voltaire passarono, per testamento, a Madame Denis e alla sua famiglia, ossia ai nipoti dello scrittore, nonché alla figlia adottiva Reine Philiberte de Varicourt, che aveva sposato il Marchese de Villette, nella cui casa parigina Voltaire visse i suoi ultimi giorni.
A tredici anni dalla sua morte, in piena Rivoluzione francese, il corpo di Voltaire venne trasferito al Pantheon e qui sepolto l'11 luglio 1791 al termine di un funerale di Stato di proporzioni straordinarie per grandiosità e teatralità, tanto che rimase memorabile persino il catafalco - su cui venne posto un busto del filosofo - allestito per il trasporto della sua salma. Da allora i resti di Voltaire riposano in questo luogo. Nel 1821 rischiò la riesumazione, più volte rifiutata in precedenza da Napoleone I, perché erano molti coloro, nel fronte cattolico, che ritenevano intollerabile la sua presenza all'interno di una chiesa, dato che il Pantheon era stato temporaneamente riconsacrato. Tuttavia re Luigi XVIII non la ritenne necessaria perché

"... il est bien assez puni d'avoir à entendre la messe tous les jours." (cioè "è già punito abbastanza per il fatto di dover ascoltare la Messa tutti i giorni").

La tomba è vicina a quella di Jean-Jacques Rousseau, il rivale di Voltaire, morto poco meno di un mese dopo (il 4 luglio), spesso fatto bersaglio fino alla fine di satire e invettive, ma nonostante questo accomunato a lui nella gloria postuma, venendo traslato al Pantheon nel 1794. Si diffuse però la leggenda che i monarchici ne avessero rubato le ossa nel 1814, insieme con quelle di Rousseau, per gettarle in una fossa comune, nel luogo dove oggi sorge la facoltà di scienza dell'Università parigina di Jussieu. Nel 1878 e successivamente (1898, anno della ricognizione dei sepolcri del Panthéon), tuttavia, diverse commissioni d'inchiesta stabilirono che i resti dei due grandi padri dell'Illuminismo, Jean-Jacques Rousseau e Francois-Marie Arouet detto Voltaire, si trovavano e si trovano tuttora nel Tempio della Fama di Francia.
Pensiero politico
Costituzionalismo e dispotismo illuminato
Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane e democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore (tra essi Condorcet e Bailly). Nel maggio del 1777 Voltaire pubblicò un articolo nel «Journal de politique et de littérature», in cui attaccava il futuro rivoluzionario Jean-Paul Marat prendendosi gioco di quel «genio tanto splendente» che pretendeva di aver «trovato la casa dell'anima», e chiamandolo "un Arlecchino che fa capriole per divertire la platea". Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra.
La repubblica ginevrina, che gli apparve giusta e tollerante, si rivelò un luogo di fanatismo. Lontano da idee populiste e anche radicali, se non sul ruolo della religione in politica (fu un deciso anticlericale), la sua posizione politica fu quella di un liberale moderato, avverso alla nobiltà - che gli fa dubitare di un governo oligarchico - ma sostenitore della monarchia assoluta nella forma illuminata (anche se ammirava molto come "governo ideale" la monarchia costituzionale inglese) come forma di governo: il sovrano avrebbe dovuto governare saggiamente per la felicità del popolo, proprio perché "illuminato" dai filosofi, e garantire la libertà di pensiero (derivato da Platone nella Repubblica. "Uno Stato gerarchico è basato sulla divisione della popolazione in tre classi: i lavoratori al gradino più basso, i guerrieri a cui spetta la difesa della città e al gradino più alto i filosofi, i migliori non per ricchezza o stirpe, ma per virtù e saggezza, che hanno il ruolo di governare lo Stato"). Lo stesso Voltaire trovò realizzazione delle sue idee politiche nella Prussia di Federico II, apparentemente un re-filosofo, che con le sue riforme acquistò un ruolo di primo piano sullo scacchiere europeo. Il sogno del filosofo si rivelò poi inattuato, rivelando in lui, soprattutto negli anni più tardi un pessimismo di fondo attenuato dalle utopie vagheggiate nel Candido, l'impossibile mondo ideale di Eldorado, dove non esistono fanatismi, prigioni e povertà, e la piccola fattoria autosufficiente dove il protagonista si ritira per lavorare, in una contrapposizione borghese all'ozio aristocratico. Nelle opere successive esprime la volontà di lavorare per la libertà politica e civile, concentrandosi molto sulla lotta all'intolleranza, soprattutto religiosa, non appoggiandosi più ai sovrani che lo avevano deluso. Non è contrario in linea di principio a una repubblica, ma lo è nella pratica, in quanto egli, pensatore pragmatico, non vede nella sua epoca la necessità del conflitto monarchia-repubblica, che si svilupperà 11 anni dopo la sua morte con l'inizio della Rivoluzione nel 1789, ma quello monarchia-corti di giustizia (i cosiddetti "parlamenti", da non confondere con l'accezione inglese del termine, oggi usata per ogni organo legislativo), ed egli, contrario agli arbitri di tali magistrati di estrazione nobiliare, si schiera col sovrano che può essere guidato dai filosofi, mentre la riforma delle corti richiede una complicata e lunga ristrutturazione legislativa. Il filosofo deve inoltre orientare la massa e spingerla per il giusto sentiero, guidarla, poiché «le leggi sono fatte dall'opinione pubblica».
Sulle riforme sociali: uguaglianza, giustizia e tolleranza:

«È prudenza assai maggiore assolvere due persone benché siano effettivamente colpevoli, che applicare una sentenza di condanna a una sola che sia giusta o innocente.» (Voltaire, parafrasando Mosè Maimonide, in Zadig o il destino)

La tolleranza, che va esercitata dal governante praticamente sempre (egli cita come esempio molti imperatori romani, in particolare Tito, Traiano, Antonino Pio e Marco Aurelio), è il caposaldo del pensiero politico di Voltaire. Spesso gli è attribuita, con varianti, la frase

"Non sono d'accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo".

Tale citazione trova in realtà riscontro soltanto in un testo della scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall. La citazione non si trova altresì in qualche opera di Voltaire. La frase avrebbe origine non dalla lettera del 6 febbraio 1770 all'abate Le Riche, come spesso si dice ma da un brano delle Questioni sull'Enciclopedia:

«Mi piaceva l'autore de L'Esprit [Helvétius]. Quest'uomo era meglio di tutti i suoi nemici messi assieme; ma "non ho mai approvato né gli errori del suo libro, né le verità banali che afferma con enfasi. Però ho preso fortemente le sue difese, quando uomini assurdi lo hanno condannato".» (Questions sur l'Encyclopédie, articolo "Homme")

Ci sono però molte altre frasi o aforismi di Voltaire che esprimono un concetto affine a questo, con diverse parole: in una lettera sul caso Calas, allegata da Voltaire al Trattato sulla tolleranza:

«La natura dice a tutti gli esseri umani: (...) Qualora foste tutti dello stesso parere, cosa che sicuramente non succederà mai, qualora non ci fosse che un solo uomo di parere contrario, gli dovrete perdonare: perché sono io che lo faccio pensare come lui pensa»,

frase che anticipa il pensiero del liberalismo del secolo successivo;

«Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non resta dunque che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani».

«Di tutte le superstizioni, la più pericolosa è quella di odiare il prossimo per le sue opinioni»; «È cosa crudelissima perseguitare in questa vita quelli che non la pensano al nostro modo»; «Ma come! Sarà permesso a ciascun cittadino di non credere che alla sua ragione e di pensare ciò che questa ragione, illuminata o ingannata, gli detterà? È necessario, purché non turbi l'ordine».


Voltaire accolse favorevolmente le tesi del giovane illuminista italiano Cesare Beccaria sull'abolizione della tortura e della pena di morte, come si evince dal commento molto positivo che fece all'opera Dei delitti e delle pene, invitando i governanti a ridurre drasticamente l'uso della prima, per poi eliminarla completamente, augurandosi che spesso si rileggesse l'opera di quello che definiva "grande amatore dell'umanità". Secondo lui non era dai palazzi che si vedeva la civiltà di una nazione ma dalle carceri. Voltaire e Beccaria ebbero anche uno scambio epistolare. Sulla pena capitale Voltaire si oppone nettamente al suo uso e agli eccessi di violenza che la caratterizzavano; benché in certi casi possa apparire giusta, essa, alla ragione illuministica, si rivela solo una barbarie, in quanto i peggiori e incalliti criminali (assassini e persone pericolose per la sicurezza nazionale), anche se giustiziati, non saranno utili a nessuno, mentre potrebbero lavorare per il bene pubblico e riabilitarsi parzialmente, motivazione principale utilitaristica di Beccaria che Voltaire approva in pieno; egli considera l'ergastolo una punizione sufficiente per i delitti peggiori e violenti:

«Il grande obiettivo è di servire il pubblico, e senza dubbio un uomo dedicato per tutti i giorni della sua vita a salvare una contea dalle inondazioni o a scavare dei canali per facilitare il commercio rende un servizio maggiore allo stato, che non uno scheletro che dondola da un palo, appeso con una catena di ferro.»

Voltaire va anche oltre Beccaria, e considera, da un punto di vista umanitario e giusnaturalista e in polemica con Rousseau, un arbitrio dello stato il togliere la vita, che è diritto naturale di ogni essere umano (mentre la vendetta a sangue freddo squalifica la ragione umana e lo Stato stesso, in quanto non è una legittima difesa della società, ma un accanimento), e non è nella disponibilità della legge, oltre al fatto che è possibile colpire anche innocenti, spesso senza proporzionalità:

«Quando la giustizia penale condanna un innocente è un assassinio giuridico e il più orribile di tutti. Quando si punisce con la morte un crimine che nelle altre nazioni prevede castighi più leggeri la giustizia penale è crudele e non politica. (...) è altrettanto assurdo e crudele punire le violazioni degli usi acquisiti in un paese, i delitti commessi contro l'opinione comune e coloro che non hanno fatto alcun male fisico con lo stesso supplizio col quale si puniscono i parricidi e gli avvelenatori.»

Voltaire usa anche la sua arma più potente, l'ironia, unita al sarcasmo e alla derisione della superstizione popolare:

«Un impiccato non serve a nulla. Probabilmente qualche boia, ciarlatano quanto crudele, avrà fatto credere agli imbecilli del suo quartiere che il grasso dell'impiccato guarirà dell'epilessia.»

Per Voltaire il crimine più orrendo che un uomo possa commettere è la pena di morte applicata per motivi religiosi o ideologici, anche mascherati da crimini comuni, come nel caso Calas, ma dettati dal puro fanatismo religioso, per cui il principio del governo deve essere la tolleranza. Se l'uomo privato farà fortuna proprio con le forniture militari, in un secolo denso di guerre, nello scrittore netta è la condanna che emerge anche nei confronti del militarismo, del nazionalismo (in nome del cosmopolitismo) e della guerra fine a sé stessa, uno dei motivi di rottura con Federico II, esplicitato anche nei racconti filosofici. Voltaire commenta con sarcasmo che

«La guerra, che riunisce tutti questi doni [carestia, peste, violenza, ndr], ci viene dall'inventiva di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di prìncipi o di governanti (...) Non c'è dubbio che sia una bellissima arte, quella che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa crepare, normalmente, in un anno, quarantamila uomini su centomila (...) Questo ritrovato fu usato dapprima dai popoli riuniti per il loro comune benessere… Così il popolo romano, in assemblea, giudicava che fosse nel suo interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio, o contro i Volsci. E qualche anno dopo tutti i Romani, pensando d’aver ragione in una certa lite contro i Cartaginesi, si batterono a lungo per terra e per mare.» (Voltaire, Dizionario filosofico, "Guerra")

La genesi delle guerre settecentesche è individuata nelle pretese dei potenti che accampano diritti basandosi su "prove genealogiche" remote:

«Oggi la cosa è un po’ diversa. Uno studioso di genealogie dimostra a un principe che egli discende in linea retta da un conte, i cui parenti tre o quattro secoli fa avevano fatto un patto di famiglia con una casata di cui non sussiste neppur la memoria; e questa casata aveva delle lontane pretese su una certa regione il cui ultimo possessore è morto di apoplessia. Allora il principe e il suo Consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia appartiene a lui per diritto divino. La provincia in questione, che è a qualche centinaio di leghe di distanza, ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha alcun desiderio di esser governata da lui, che per dar legge ad un popolo bisogna almeno avere il suo consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno alle orecchie del principe, saldo nel suo buon diritto.» (Voltaire, ibidem)

Voltaire attacca poi l'ampio uso dei mercenari di professione:

«Egli trova immantinente un gran numero d’uomini che non ha niente da perdere: li veste d’un grosso panno blu a cento soldi il metro, orla i loro berretti con un bel filetto bianco o dorato, insegna loro a voltare a destra e sinistra e marcia con essi alla gloria. Gli altri principi che sentono parlare di questa bella impresa, subito vi prendono parte, ciascuno secondo il suo potere, e ricoprono così una piccola parte del globo di tanti assassini mercenari quanti non ne ebbero mai al loro seguito Gengis Khan, Tamerlano o Bajazet. Altri popoli lontani, sentendo dire che si sta per battersi, e che ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare per quelli che vogliono partecipare alla festa, si dividono subito in bande, come i mietitori, e vanno ad offrire i loro servigi a chiunque voglia assoldarli. E tutte queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre, non solo senza aver nessun interesse nella faccenda, ma senza neppur sapere di che si tratta. Talvolta vi sono cinque o sei potenze belligeranti tutte insieme: tre contro tre, o due contro quattro, o una contro cinque, che si detestano ugualmente le une e le altre, si uniscono e si attaccano volta a volta, e sono tutte d’accordo in una sola cosa: di fare il maggior male che si può…» (Voltaire, ibidem)

La guerra fa emergere il peggio dell'essere umano, non ci sono eroismi o idealismi che possano reggere:

«Tutti i vizi di tutte le età e di tutti i paesi del globo riuniti assieme non uguaglieranno mai i peccati che provoca una sola campagna di guerra… La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo (...) Ognuno allegramente va incontro al delitto sotto la bandiera del proprio santo (...) Filosofi moralisti, bruciate i vostri libri! Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano che si consacra all'eroismo sarà quanto c'è di più infame nell'intera natura... Che cosa diventano e che m’importano la carità cristiana, la beneficenza, la modestia, la temperanza, la mitezza, la saggezza, la fede, quando una mezza libbra di piombo tirata da mille passi mi fracassa il corpo, e io muoio a vent’anni tra tormenti orribili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi, aprendosi per l’ultima volta, vedono la città dove sono nato distrutta dal ferro e dal fuoco, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono i gemiti delle donne e dei bambini che spirano sotto le rovine? (Voltaire, ibidem)

Egli attacca frequentemente l'uso politico della religione per giustificare le guerre e le violenze, e auspica la distruzione del fanatismo religioso:

«Ci sono meno cannibali di una volta nella cristianità; questo è sempre un motivo di consolazione nell'orribile flagello della guerra, che non lascia mai respirare l'Europa vent'anni in pace. Se la guerra stessa è diventata meno crudele, il governo di ogni Stato sembra divenire ugualmente meno inumano e più saggio. I buoni scritti, pubblicati da qualche anno, sono penetrati in tutta l'Europa, malgrado dei satelliti del fanatismo che controllavano tutti i passaggi. La ragione e la pietà sono penetrate fino alle porte dell'Inquisizione. Gli atti da antropofagi che si chiamavano atti di fede, non celebrano più così spesso il Dio di misericordia alla luce dei roghi e tra i fiotti di sangue sparsi dal boia. In Spagna si incomincia a pentirsi di aver scacciato i Mori che coltivavano la terra; e se oggi si trattasse di revocare l'editto di Nantes, nessuno oserebbe proporre un'ingiustizia così funesta.» (Voltaire, Della pace perpetua)

Per Voltaire l'eguaglianza formale è una condizione di natura, l'uomo selvaggio è libero, anche se non civilizzato. L'uomo civile è schiavo a causa delle guerre e dell'ingiustizia; l'eguaglianza sostanziale non c'è perché ognuno svolga la sua funzione, con l'esempio che egli fa, nel Dizionario filosofico, del cuoco e del cardinale, in cui ognuno deve svolgere la propria attività, come è utile al momento presente, poiché così sussisterà il mondo, anche se umanamente entrambi appartengono alla stessa condizione esistenziale. Voltaire rifiuta quindi ogni soluzione rivoluzionaria. La sua soluzione, vista l'impossibilità di riformare la Francia, è quella di autoesiliarsi.

«Importa poco che taluno si chiami Sua Altezza e un altro Sua Santità. Ciò che è duro è servire l'uno e l'altro. [...] Ogni uomo, in fondo al cuore, ha il diritto di credersi interamente eguale agli altri uomini; non ne consegue che il cuoco di un cardinale debba ordinare al suo padrone di preparargli il pranzo; ma il cuoco può dire: «Sono un uomo come il mio padrone; sono nato come lui piangendo; egli morirà con le mie stesse angosce e con le stesse cerimonie. Facciamo ambedue le stesse funzioni animali. Se i turchi s’impadroniscono di Roma, e se allora io divento cardinale e il mio padrone cuoco, lo prenderò al mio servizio.» Tutto questo discorso è ragionevole e giusto; ma aspettando che il gran Turco s’impadronisca di Roma, il cuoco deve fare il suo dovere, o qualsiasi società umana è sovvertita. Quanto a colui che non è né cuoco di cardinale né riveste alcuna carica statale; quanto al privato che non deve niente a nessuno, ed è seccato d’essere ricevuto dappertutto con aria di protezione o di disprezzo, e sa bene che parecchi monsignori non hanno né maggior cultura, né maggior acume, né maggiore virtù di lui, e che alla fine si stufa di fare anticamera, quale partito dovrà prendere? Quello di andarsene.» (Voltaire, Dizionario filosofico, "Eguaglianza")

Economicamente aderisce in parte al laissez faire liberale che muove i primi passi con l'Illuminismo, perlomeno nel richiedere la libertà del commercio dal controllo statale; tuttavia, egli non è un liberista come Adam Smith. Riteneva infatti che lo Stato potesse intervenire in favore dell'industria, dell'economia e dei cittadini anche facendo ricorso al debito pubblico ("qualsiasi Stato che prende soldi in prestito dal suo popolo non è più povero per questo"). Voltaire crede inoltre che il lusso, quando non è un mero spreco, faccia bene alla grande economia e quindi alla società, rendendo tutti più prosperi e aumentando la sensazione di benessere generale, come riporta alla voce Lusso del Dizionario filosofico del 1764. Nel poema Le mondain del 1736 contesta ogni pratica ascetica o solo ispirata alla frugalità e alla semplicità sostenuta da puritani e cattolici ed esalta invece il materiale gusto di vivere e la non rinuncia a godere sino in fondo quanto la vita può offrire. La sua opinione cambia radicalmente dopo l'evento del terremoto di Lisbona del 1755 quando comincia a dubitare dell'esistenza del male come scelta provvidenziale di Dio, divenendo molto meno ottimista.
Politicamente, invece, il suo pensiero non aderisce al liberalismo democratico poiché ancora legato a una concezione oligarchica e gerarchica della società, come si evince ad esempio da questo passaggio:

«Lo spirito di una nazione risiede sempre nel piccolo numero che fa lavorare il gran numero, ne è nutrito e lo governa.»

Pensiero filosofico
Tra le esperienze più significative del Voltaire intellettuale sono certamente da annoverare i viaggi, quello nei Paesi Bassi e soprattutto quello nel Regno Unito; qui il giovane parigino vide praticare attivamente la tolleranza religiosa e la libertà di espressione di idee politiche, filosofiche e scientifiche. Al suo spirito insofferente di ogni repressione assolutistica e clericale (anche perché reduce dall'esperienza nelle rigide scuole dei gesuiti) il Regno Unito appare come il simbolo di una forma di vita illuminata e libera.
Immerso nello studio della cultura anglosassone, Voltaire rimane accecato dalle luminose e rivoluzionarie dottrine scientifiche di Newton e dal deismo e l'empirismo di John Locke. Egli trae, da questo incontro con la filosofia del Regno Unito, il concetto di una scienza concepita su base sperimentale intesa come determinazione delle leggi dei fenomeni e il concetto di una filosofia intesa come analisi e critica dell'esperienza umana nei vari campi. Nacquero così le Lettres sur les anglais o Lettres philosophiques (1734) che contribuirono ad allargare l'orizzonte razionale europeo ma che gli attirarono addosso i fulmini delle persecuzioni.
Le Lettres vengono condannate, per quanto riguarda i princìpi religiosi, da coloro che sostenevano la necessità politica dell'unità di culto; dal punto di vista politico, esse, esaltando l'onorabilità del commercio e la libertà, si opponevano spudoratamente al tradizionalistico regime francese, e dal lato filosofico, in nome dell'empirismo, tentavano di svincolare la ricerca scientifica dall'antica subordinazione alla verità religiosa. Il programma filosofico di Voltaire si delineerà in maniera più precisa successivamente con il Traité de métaphisique (1734), la Métaphisique de Newton (1740), Remarques sur les pensées de Pascal (1742), il Dictionnaire philosophique (1764), il Philosophe ignorant (1766), per citare i più importanti.

«L'universo mi imbarazza, e non posso fare a meno di riflettere / che se esiste un tale orologio debba esistere un orologiaio»(Voltaire, Les cabales, 1772)

Il problema che Voltaire principalmente si pone è l'esistenza di Dio, conoscenza fondamentale per giungere a una giusta nozione dell'uomo. Il filosofo non la nega, come alcuni altri illuministi che si dichiaravano atei (il suo amico Diderot, D'Holbach e altri) perché non trovavano prova dell'esistenza di un Essere Supremo, ma nemmeno, nel suo razionalismo laico, assume una posizione agnostica. Egli vede la prova dell'esistenza di Dio nell'ordine superiore dell'universo, infatti così come ogni opera dimostra un artefice, Dio esiste come autore del mondo e, se si vuole dare una causa all'esistenza degli esseri, si deve ammettere che sussiste un Essere creatore, un Principio primo, autore di un Disegno intelligente.

«[Un modo] per acquisire la nozione di "essere che dirige l'universo" è considerare il fine al quale ogni essere appare essere diretto. Quando vedo un orologio con una lancetta che segna le ore, concludo che un essere intelligente ha progettato la meccanica di questo meccanismo così che appunto la lancetta segni le ore. Perciò, quando vedo il meccanismo del corpo umano, concludo che un essere intelligente ha progettato questi organi per essere nutriti all'interno del ventre materno per nove mesi; gli occhi per vedere, le mani per afferrare e così via. Ma da simile argomento, non posso concludere nient'altro, a parte per il fatto che sia probabile che un essere intelligente e superiore ha preparato e dato forma alla materia con abilità; non posso concludere da tale argomento e basta che questo essere ha creato la materia dal nulla o che è infinito in qualsiasi senso s'intenda. A ogni modo cerco con intensità dentro alla mente mia la connessione tra le seguenti idee — "è probabile che io sia il prodotto di un essere più potente di me stesso, quindi questo essere è eterno, quindi ha creato tutto quanto, quindi è infinito e così via." — Non riesco a intravedere il filo che porti direttamente a quella conclusione. Posso solo constatare che v'è qualcosa di più potente di me stesso, e nient'altro.» (Voltaire, Trattato di metafisica, seconda versione, 1736, capitolo II)

La sua posizione fu pertanto deista, come già accennato:

«Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo, ma tutta la natura ci grida che esiste.» (Voltaire, Épître 104 – Épître à l'Auteur du Livre des Trois Imposteurs, v. 22.)

Dunque Dio esiste e sebbene abbracciando questa tesi si trovino molte difficoltà, le difficoltà che si pongono abbracciando l'opinione contraria sarebbero ancora maggiori, vivendo Voltaire in un'epoca in cui le leggi dell'evoluzione non erano ancora scoperte e l'alternativa al deismo era l'eternità della "materia", che comunque è un principio originale. Il Dio di Voltaire non è il dio rivelato, ma non è neanche un dio di una posizione panteista, come quella di Spinoza. È una sorta di Grande Architetto dell'Universo, un orologiaio autore di una macchina perfetta (tra l'altro, gli orologi erano una passione di Voltaire, che si dedicava alla costruzione di essi a Ferney). Voltaire non nega una Provvidenza, ma non accetta quella di tipo cristiano, ossia non accetta una provvidenza che sia contemporaneamente buona e onnipotente non aderendo alle risposte leibniziane sul problema del male (come ampiamente spiegato nel Candido); secondo le sue convinzioni (come quelle di molti del suo tempo), l'uomo nello stato di natura era felice, avendo istinto e ragione, ma la civiltà ha contribuito all'infelicità: occorre quindi accettare il mondo così com'è, e migliorarlo per quanto è possibile. Aveva contribuito a queste sue convinzioni lo studio di Newton, conosciuto, come detto, nel periodo inglese: la cui scienza, pur rimanendo estranea, in quanto filosofia matematica, alla ricerca delle cause, risulta strettamente connessa alla metafisica teistica, implicando una razionale credenza in un Essere Supremo (Être Supreme, a cui si ispirerà vagamente il Culto della Ragione di Robespierre).
Voltaire inoltre è spinto dalla censura, specialmente in alcune opere che egli voleva fossero a larga diffusione, fuori dall'ambiente accademico ed enciclopedico dei philosophes, a non mettere troppo in dubbio il cristianesimo e il concetto di divinità tradizionale, onde convincere i propri interlocutori: ad esempio nel Trattato sulla tolleranza, in cui spesso fa riferimento ai Vangeli o al cattolicesimo, sapendo di dover convincere - in primo luogo i giuristi cattolici - a riaprire il caso Calas, senza quindi entrare troppo in urto con la Chiesa e la fede diffusa. Voltaire crede comunque in un Dio che unifica, Dio di tutti gli uomini: universale come la ragione, Dio è di tutti. Come altri pensatori-chiave del periodo si considera espressamente un deista/teista, esprimendosi così:

«Cos'è la fede? È credere in qualcosa di evidente? No. Alla mia mente è perfettamente evidente l'esistenza di un necessario, eterno, supremo, e intelligente Essere. Questa non è materia di fede, ma di ragione».

Questa concezione assomiglia a quella del Dio impersonale/Logos degli stoici, di Cicerone e dei platonici, e in generale di quasi tutta la filosofia antica.
Il deismo di Voltaire comunque si rifiuta di ammettere qualsiasi intervento di Dio nel mondo umano, ed è restio, soprattutto dopo il terremoto di Lisbona, ad ammettere l'esistenza di una vera e propria Divina Provvidenza.

"Il Supremo ha solo avviato la macchina dell'universo, senza intervenire ulteriormente, come gli dei di Epicuro, dunque l'uomo è libero, ovvero ha il potere di agire, anche se la sua libertà è limitata; il filosofo può comunque rivolgersi all'Essere supremo, anche per incitare alla tolleranza."

Anche il naturalista Buffon, pre-evoluzionista, la condivide, e sarà invece Diderot a staccarsene gradualmente dopo che i semi dell'evoluzionismo cominciano a diffondersi (anche se sarà solo nel XIX secolo con Charles Darwin che nascerà ufficialmente il concetto di selezione casuale delle specie). All'epoca della formazione culturale di Voltaire, la maggioranza dei razionalisti ammettevano la divinità come garante di ordine morale e "motore immobile" dell'universo e della vita, in quanto pareva una spiegazione più semplice del materialismo ateo, propugnato ad esempio da Jean Meslier e da d'Holbach, in senso completamente meccanicista e determinista, e più cautamente da Diderot. Voltaire accetta l'idea teologica di Newton, John Locke e David Hume, per cui, se in certi frangenti è difficile credere, è comunque un'idea accettabile, allo stato delle conoscenze dell'epoca. Solo con la scoperta dell'evoluzione darwiniana e la teoria cosmologica del Big Bang, questa molto successiva a Voltaire, molti scienziati e filosofi razionalisti abbandoneranno il deismo per l'agnosticismo e lo scetticismo.
Voltaire critica razionalmente anche i testi biblici, mettendo in dubbio la storicità e la validità morale di gran parte dei testi. Il suo approccio generale è ispirato a quello di alcuni riformatori, ma l'attitudine profondamente scettica del pensatore francese lo separa però sia da Locke sia dai teologi unitariani come appunto Fausto Socini, oltre che da Rousseau, deista tendente al calvinismo, e sostenitore di una religione civile "imposta" per legge, cioè religione di Stato, che invece Voltaire considera inutile e ingiusta, se ciò genera oppressione e violenza verso altri culti.
Obiettivo principale di Voltaire e di tutto il suo pensiero, o, se si vuole, la missione della sua vita, è l'annientamento della Chiesa cattolica (che lui chiama l'infame, anche se utilizza questo termine con riferimento a ogni spiritualità forte, che senza mezzi termini ritiene semplicemente fanatismo religioso). Egli infatti tenta di demolire il cattolicesimo per proclamare la validità della religione naturale. In una lettera a Federico II del 1767, scrive riferendosi al cattolicesimo:

"La nostra [religione] è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo".

La sua fede nei principi della morale naturale mira a unire spiritualmente gli uomini al di là delle differenze di costumi e di usanze. Proclama quindi la tolleranza contro il fanatismo e la superstizione (che stanno «alla religione come l'astrologia all'astronomia») nel Trattato sulla tolleranza (1763), nonché la laicità tramite molti scritti anticlericali: uno dei suoi obiettivi è la completa separazione tra Chiesa e Stato, ad esempio con l'istituzione del matrimonio civile. Voltaire era solito firmare la fine delle sue lettere con Écrasez l'infame (schiacciate l'infame); in seguito lo abbreviò con Ecr. L'inf..Per liberare le religioni positive da queste piaghe è necessario trasformare tali culti, compreso il cristianesimo, nella religione naturale, lasciando cadere il loro patrimonio dogmatico e facendo ricorso all'azione illuminatrice della ragione.
Dal cristianesimo primitivo Voltaire accetta alcuni insegnamenti morali, ovvero la semplicità, l'umanità, la carità, e ritiene che voler ridurre questa dottrina alla metafisica significa farne una fonte di errori. Più volte infatti, elogiando la dottrina cristiana predicata da Cristo e dai suoi discepoli (anche se dubita della veridicità dei racconti evangelici), addebiterà la degenerazione di questa in fanatismo, alla struttura che gli uomini, e non il Redentore, hanno dato alla chiesa. Il Cristianesimo, se vissuto in maniera razionale, senza dogmi, riti, miracoli, clero e fede cieca, nel pensiero di Voltaire coincide con la legge di natura.
Voltaire porta avanti una doppia polemica, contro l'intolleranza e la sclericità del cattolicesimo, e contro l'ateismo e il materialismo, sebbene gran parte della sua speculazione parta da elementi materiali.

«Voltaire non si sente l'animo di decidersi né per il materialismo né per lo spiritualismo. Egli ripete spesso che "come non sappiamo che cosa sia uno spirito, così ignoriamo cosa sia un corpo"».
Voltaire dirà che "l'ateismo non si oppone ai delitti ma il fanatismo spinge a commetterli", anche se concluderà poi che essendo l'ateismo quasi sempre fatale alle virtù, in una società è più utile avere una religione, anche se fallace, che non averne nessuna. È principalmente un problema etico, sulla religione come instrumentum regnii, e come coscienza del popolo e del re, oltre che l'utilizzo della nozione di Dio come una sorta di "motore primo" della creazione. Voltaire crede che la colpa non sia però degli atei espliciti e convinti (ed è molto più sfumato nei giudizi verso il generico panteismo o l'irreligiosità), ma delle religioni rivelate, principalmente del cristianesimo, che, rendendo odioso il loro Dio, hanno spinto a negarlo del tutto. La religione razionale può essere utile a mantenere l'ordine nel popolo ignorante, come già ricordava Niccolò Machiavelli, che pure non vi credeva. La superstizione è ritenuta sbagliata e ridicola, a meno che non serva a evitare che il popolo divenga intollerante e ancora più dannoso; Voltaire teme difatti, come un superstizioso intollerante, anche un ateo violento e intollerante, affermando che l'ateo morale (di cui parla invece d'Holbach), è cosa molto rara. Fa anche l'esempio delle religioni e delle credenze pagane, che spesso svolgevano una funzione morale ed erano personificazioni di principi e comportamenti, pur essendo ridicole anch'esse agli occhi di un filosofo. Afferma che "Les lois veillent sur les crimes connus, et la religion sur les crimes secrets" (la legge vigila sui crimini conosciuti, la religione su quelli segreti).
Non solo il cristianesimo, soprattutto il cattolicesimo, ma ogni religione rivelata, è solo una superstizione inventata dall'uomo, ed è ormai troppo corrotta perché si possa recuperare in pieno.
Quasi ironicamente, la casa parigina di Voltaire divenne un deposito della Società Biblica protestante di Francia. Voltaire attacca anche, nelle sue opere, l'Islam e altri culti non cristiani, ad esempio in Maometto ossia il fanatismo e in Zadig. Per spiegare il male, Voltaire afferma che accade per colpa dell'uomo, che combatte guerre e cede a fanatismo e violenza o è insito nella natura delle cose, ma il progresso e il lavoro umano lo attenuerà per quanto possibile. Del resto, scrive, "sarebbe strano che tutta la natura, tutti gli astri obbedissero a delle leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi, potesse agire sempre come gli piace solo secondo il suo capriccio". Sull'immortalità dell'anima e sull'esistenza di una vita dopo la morte, invece, Voltaire è più ambiguo, e mantiene una posizione di agnosticismo, evitando di pronunciarsi esplicitamente su questo argomento.
Degna di menzione è la polemica che Voltaire porterà avanti contro Blaise Pascal, che diventerà soprattutto polemica contro l'apologetica e il pessimismo cristiano in genere. Voltaire dice di prendere le difese dell'umanità contro quel "misantropo sublime", che insegnava agli uomini a odiare la loro stessa natura. Più che con l'autore delle Provinciales, egli dice di scagliarsi contro quello dei Pensées, in difesa di una diversa concezione dell'uomo, del quale sottolinea piuttosto la complessità dell'animo, la molteplicità del comportamento, affinché l'uomo si riconosca e si accetti per quello che è, e non tenti un assurdo superamento del suo stato. In conclusione si può asserire che entrambi i filosofi riconoscono che l'essere umano per la sua condizione è legato al mondo, ma Pascal pretende che egli se ne liberi e se ne distolga, Voltaire vuole che la riconosca e l'accetti: era il mondo nuovo che si scagliava contro il vecchio. Tra gli argomenti polemici di Voltaire vi è un deciso attacco all'idea teologica della differenza essenziale e sovrannaturale fra l'essere umano e gli animali e della superiorità di diritto divino da parte dell'uomo nei confronti dell'intera natura. Partendo da questa critica, lo scrittore condanna la vivisezione e i tormenti inflitti agli animali d'allevamento, mostrando simpatia per il vegetarismo dei pitagorici, di Porfirio e di Isaac Newton. La questione della crudeltà verso gli animali e del vegetarismo è affrontata da Voltaire in parecchie opere, dagli Elementi della filosofia di Newton al Saggio sui costumi (nel capitolo sull'India), e anche in Zadig, nel Dizionario filosofico in La principessa di Babilonia e specialmente nel Dialogo del cappone e della pollastrella.
Voltaire – che può essere considerato, sotto questo aspetto, un precursore di Jeremy Bentham – pone aspramente in discussione le posizioni cartesiane che riducevano l'animale ad una macchina senza coscienza. Nel Dizionario filosofico , egli sottolinea quale vergogna sia stata «aver detto che le bestie sono macchine prive di coscienza e sentimento» e, rivolgendosi al vivisettore che seziona un animale nella più assoluta indifferenza, gli chiede:

«tu scopri in lui gli stessi organi di sentimento che sono in te. Rispondimi, meccanicista, la natura ha dunque combinato in lui tutte le molle del sentimento affinché egli non senta?».

Voltaire e la storiografia umana.

«Cosa ha prodotto dunque il sangue di tanti milioni di uomini, il saccheggio di tante città? Nulla di grande, nulla di considerevole (...) quasi tutta la Storia non è che una lunga sequenza di inutili atrocità» (Voltaire, Saggio sui costumi)

Voltaire fu uno dei più celebri storici del suo secolo. Le concezioni filosofiche di Voltaire sono inscindibili dal suo modo di fare storia. Infatti egli vuole trattare questa disciplina da filosofo, cioè cogliendo al di là della congerie dei fatti un ordine progressivo che ne riveli il significato permanente.
Dalle sue grandi opere storiche (Historie de Charles XII del 1731, Les siècle de Louis XIV del 1751, Essai sur les moeurs et l'esprit des nations del 1754-1758), nasce una storia "dello spirito umano", ovvero del Progresso inteso come il dominio che la ragione esercita sulle passioni, nelle quali si radicano i pregiudizi e gli errori, infatti l'Essai presenta sempre come incombente il pericolo del fanatismo. La filosofia della storia di Voltaire inaugura, dopo il precursore Giambattista Vico, il cosiddetto "storicismo", per cui la realtà è storia, calata nel suo contesto, e immanenza.
La storia non è più orientata verso la conoscenza di Dio, problema filosofico, non è questo lo scopo dell'uomo, il quale deve invece dedicarsi a capire e a conoscere sé stesso fino a che la scoperta della storia si identifichi con la scoperta dell'uomo. La storia è diventata storia dell'Illuminismo, del rischiaramento progressivo che l'uomo fa di sé stesso, della progressiva scoperta del suo principio razionale. A volte, però, sacrifica la perfetta veridicità, come quando applica la filosofia alla storia, per semplificare alcuni concetti e renderli chiari.
Il modello antropologico di fondo dell'orientalismo settecentesco, ripreso poi da Diderot, può inoltre essere ben percepito nell'Essai sur les mœurs di Voltaire. In questa "storia universale" - così infatti si intitolava una versione precedente del Essai che l'autore aveva scritto - Voltaire scosse l'establishment clericale e accademico ponendo la Cina, e soprattutto l'India, a capo della sua cronologia, con gli ebrei (tradizionalmente posti all'origine della cronologia sacra della storia) ben dietro. Voltaire infatti presentò l'India e la Cina come le prime civiltà avanzate del mondo antico e, aggiungendo al danno la beffa, suggerì che gli ebrei non solo succedettero a civiltà precedenti, ma anche che le avevano copiate: «Gli ebrei hanno copiato tutto da altre nazioni». Voltaire diffuse queste affermazioni eterodosse anche nei suoi Contes. e nelle critiche agli ebrei contenute nel Dizionario filosofico.
Secondo il filosofo di Ferney, i progenitori di tutte le conoscenze erano soprattutto gli Indiani:

«Sono convinto che tutto provenga dalle rive del Gange, l'astronomia, l'astrologia, la metempsicosi etc...».

Questa ipotesi era particolarmente seduttiva, perché poteva essere estesa agli aspetti più sofisticati della cultura umana, vale a dire, ad esempio, le scienze. In qualità di storico, approfondì anche le convinzioni religiose, come il buddhismo, degli asiatici.
Voltaire e l'astronomo francese Jean Sylvain Bailly ebbero un vivace scambio epistolare che fu pubblicato dallo stesso Bailly nelle Lettres sur l'origine des sciences. Bailly, pur apprezzando l'ipotesi di Voltaire, cerca comunque di confutarla per propugnare la sua tesi di un antichissimo popolo nordico progenitore dell'umanità, secondo la propria concezione della storia.
Secondo lo storico David Harvey, «sebbene colpito dalla storia dell'astronomia di Bailly, Voltaire era ben poco convinto dalla sua pretesa delle origini nordiche della scienza». Dichiarando di essere «convinto che ogni cosa sia giunta a noi dalle sponde del Gange». Voltaire rispose che i Brahmani «dimorando in un clima incantevole e al quale la natura aveva donato tutti i suoi doni, dovevano, mi sembra, avere più tempo libero per contemplare le stelle rispetto ai Tartari e agli Uzbeki» facendo riferimento ai territori, quelli della Scizia e del Caucaso, che secondo Bailly avevano ospitato quella sconosciuta civiltà avanzata di cui parlava. Al contrario, sosteneva che «la Scizia non ha mai prodotto nulla, se non le tigri, capaci solo di divorare i nostri agnelli» e chiese ironicamente a Bailly: «È credibile che queste tigri siano partite dalle loro terre selvagge con quadranti e astrolabi?». Lo storico Rolando Minuti ha notato che le «metafore zoomorfe» erano centrali nella rappresentazione di Voltaire dei popoli "barbari" del Asia centrale, e gli servivano, all'interno della sua macro-narrativa sull'origine della civiltà, per giustapporre la natura distruttiva e animalesca dei popoli nomadi con la coltivazione delle arti e delle scienze dalle civiltà urbane originarie del Gange, dipingendo le prime come «le antagoniste storiche della civilizzazione». Questa concezione dell'India come origine della civiltà avrà molta fortuna nel XIX secolo, essendo ripresa anche da Arthur Schopenhauer.
Shaftesbury disse che "non c'è miglior rimedio del buon umore contro la superstizione e l'intolleranza e nessuno mise in pratica meglio di Voltaire questo principio"; infatti

"il suo modo di procedere si avvicina a quello di un caricaturista, che è sempre vicino al modello da cui parte, ma attraverso un gioco di prospettive e di proporzioni abilmente falsate, ci dà la sua interpretazione".

Per Voltaire, nonostante ci sia sempre del buono che ha impedito la totale autodistruzione del genere umano, lungo la storia e nel presente si vedono enormi ingiustizie e tragedie, e l'unico modo per affrontare il male con lucidità, è quello di riderne, anche cinicamente, tramite un umorismo che ridicolizzi l'ottimismo consolatorio e teorico, scaricando attraverso l'ironia e la satira, fiorente nel Settecento, la tensione emotiva, anziché dirottarla sul sentimento, come faranno i romantici.
L'umorismo, l'ironia, la satira, il sarcasmo, l'irrisione aperta o velata, sono da lui adoperati di volta in volta contro la metafisica, la scolastica o le credenze religiose tradizionali. Ma talvolta, questo semplicizzare ironicamente certe situazioni, lo porta a trascurare o a non cogliere aspetti molto importanti della storia.

«Forse Voltaire pensò che l'umanità non merita un'analisi più complessa. È probabile che non si sbagliasse.» (Jorge Luis Borges)

Nel suo libro Storia dell'Impero russo sotto Pietro il Grande emerge una delle molte facce di Voltaire, predicatore della tolleranza e del teismo, in contrasto con il materialismo di Holbach e degli enciclopedisti, poeta epico, ironico, avventuroso e, in questo caso, costruttivo. Là dove il giovane Voltaire nella Storia di Carlo XII, figura intorno alla quale Heidenstam scriverà la Karolinerna, mostra il fascino verso l'eroismo e la bellezza, nella sua maturità lo stesso Carlo XII viene messo accanto a Pietro il Grande e Voltaire

«rinnega quell'entusiasmo e quella simpatia; di qui il costante parallelo tra il re sognatore che ha trascinato la patria in una folle avventura conclusa con una grande rovina, e lo zar che lentamente, pietra su pietra, ha creato la grandezza moscovita».

La filosofia, per Voltaire, deve essere lo spirito critico che si oppone alla tradizione per discernere il vero dal falso, bisogna scegliere tra i fatti stessi i più importanti e significativi per delineare la storia delle civiltà. In conseguenza Voltaire non prende in considerazione i periodi oscuri della storia, ovvero tutto ciò che non ha costituito cultura secondo l'Illuminismo, ed esclude dalla sua storia "universale" i popoli barbari, che non hanno apportato il loro contributo al progresso della civiltà umana.
Come prova del fatto che Voltaire non fosse d'accordo con lo schiavismo (era stato oggetto di accuse in tal senso) vengono portati anche alcuni passaggi dei suoi scritti in cui attacca la tratta degli schiavi e l'uso della schiavitù: nel Commentaire sur l'Esprit des lois (1777) elogia Montesquieu per aver «chiamato obbrobrio questa odiosa pratica», mentre nel 1769 aveva espresso entusiasmo per la liberazione dei propri schiavi effettuata dai quaccheri, nelle Tredici Colonie dell'America del Nord. Inoltre Voltaire depreca la crudeltà e gli eccessi dello schiavismo nel capitolo XIX di Candido, in cui fa parlare delle sue disgrazie uno schiavo nero, il quale viene mostrato avere una mente razionale, umana e niente affatto "bestiale", mentre il protagonista Candido simpatizza decisamente per lui.

«Avvicinandosi alla città s'incontrarono in un negro disteso in terra, che non aveva che la metà del suo abito, cioè un par di braghe di tela azzurra; mancava a questo povero uomo la gamba sinistra, e la mano dritta. - Mio dio! gli dice Candido, che fai tu là, amico, in questo stato orribile in cui ti vedo? - Attendo il mio padrone il signor Vanderdendur il famoso negoziante, risponde il negro. - E questo signor Vanderdendur, dice Candido, ti ha conciato così? - Sì, signore, risponde il negro, quest'è l'uso: ci vien dato un par di brache di tela per vestito due volte l'anno: quando lavoriamo alle zuccheriere, e che la macina ci acchiappa un dito, ci si taglia la mano; quando vogliam fuggire ci si taglia la gamba; a questo prezzo voi mangiate dello zucchero in Europa. Intanto, allorchè mia madre mi vendè per dieci scudi patacconi sulla costa di Guinea, ella mi diceva: figliuol mio, benedici i nostri feticci, adorali tutti i giorni, essi ti faran vivere fortunato; tu hai l'onore d'essere schiavo de' nostri signori i bianchi, e tu fai la fortuna di tuo padre e di tua madre. Ah! io non so se ho fatto la lor fortuna, so bene che essi non han fatto la mia: i cani, le scimmie, i pappagalli son mille volte meno disgraziati di noi. I feticci olandesi che mi han convertito, mi dicon tutte le domeniche che noi siamo tutti figli d'Adamo, bianchi e neri; io non sono genealogista, ma se quei predicatori dicono il vero noi siam tutti fratelli cugini; or voi converrete che non si possono usare tra parenti trattamenti più orribili. - O Pangloss! grida Candido, tu non avevi pensato a questa abominevole circostanza; ed è pur cosa di fatto; bisognerà finalmente che io rinunzii al tuo ottimismo. - Che cos'è quest'ottimismo? dice Cacambo. - Ah, risponde Candido, è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male. Intanto versava lagrime riguardando il negro, e piangendo entrò in Surinam.» (Voltaire, Candido, capitolo XIX, Ciò che accadde loro a Surinam e come Candido fece conoscenza con Martino)

Nel finale del Trattato sulla tolleranza (1763), rivolgendosi a Dio, Voltaire scrive al proposito dell'uguaglianza fra gli uomini:

«Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione. (...) Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! (...) Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.»

Voltaire è un convinto antigiudaico. Alcuni brani del Dizionario filosofico non sono affatto teneri verso gli ebrei:

«"Antropofago": Perché i giudei non sarebbero stati antropofagi? Questa fu la sola cosa che mancò al popolo di Dio per essere il più abominevole popolo della terra. "Giudei": Voi non troverete in essi che un popolo ignorante e barbaro, che raggiunse dopo lungo tempo la più sordida avarizia e la più detestabile superstizione e il più invincibile odio per tutti i popoli che li tollerano e li arricchiscono. Ma non per questo bisogna mandarli al rogo.»

«Sono l'ultimo di tutti i popoli fra i musulmani e i cristiani, ma credono di essere il primo. Questo orgoglio nella loro umiliazione è giustificato da un argomento senza risposta; il fatto che in realtà sono i progenitori sia dei cristiani che dei musulmani. Il cristianesimo e l'islam riconoscono l'ebraismo come loro "madre" e per una singolare contraddizione entrambi hanno nei suoi confronti rispetto misto ad orrore... da quanto risulta dalla Storia gli Ebrei sono quasi sempre stati o randagi, o ladri, o schiavi, o sediziosi e ancora ai giorni nostri vagabondano per la terra, con sommo orrore degli uomini, di modo che sia il cielo sia la terra che tutti gli uomini sembrano essere stati creati solo per loro vantaggio (...) il mio amore per te è più di una semplice parola... abbiamo strappato a forza con i denti per farci dare il tuo denaro... ancora ti permettiamo in più di una città la libertà di respirare l'aria; abbiamo sacrificato al tuo Yahweh in più di un regno; abbiamo bruciato olocausti. Perché io non voglio, nel tuo esempio, nascondere il fatto che abbiamo offerto a Dio sacrifici umani di sangue?»

Nella voce "Stati e governi" vengono definiti "un'orda di ladri e usurai". Tuttavia, nonostante la sua virulenza antigiudaica, non possiamo dire che Voltaire fosse completamente: in altre occasioni considera gli ebrei meglio dei cristiani, poiché più tolleranti in campo religioso.

«È con rammarico che parlo degli ebrei. Questa nazione è, per molti versi, la più detestabile che abbia mai contaminato la terra (...) ma cosa devo dire a mio fratello l'Ebreo? Gli offro la cena? Si! (...) Né gli egiziani, né gli stessi giudei, cercavano di distruggere l'antica religione dell'Impero; non correvano per le terre e per i mari a far proseliti: pensavano solo a far quattrini. Mentre è incontestabile che i cristiani volevano che la loro fosse la religione dominante. Gli ebrei non volevano che la statua di Giove stesse a Gerusalemme; ma i cristiani non volevano ch'essa stesse in Campidoglio. San Tommaso ha il coraggio di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori, fu solo perché non ci riuscirono.» (Dizionario filosofico, Tolleranza) e nei capitoli XII e XIII (quest'ultimo intitolato Estrema tolleranza degli ebrei) del Trattato sulla tolleranza arriva anche ad elogiarli in parte: «È vero che, nell'Esodo, nei Numeri, nel Levitico, nel Deuteronomio, ci sono delle leggi severissime sul culto, e dei castighi ancora più severi. (...) Mi pare sia abbastanza evidente nelle Sacra Scrittura che, malgrado la punizione straordinaria ricevuta dagli ebrei per il culto di Apis, essi conservarono a lungo una libertà totale: può anche darsi che il massacro di ventitremila uomini che fece Mosè per il vello eretto da suo fratello, gli abbia fatto capire che con il rigore non si otteneva nulla, e che fosse stato obbligato a chiudere un occhio sulla passione del popolo per gli dei stranieri. (...) Lui stesso sembra presto trasgredire la legge che ha dato. Aveva proibito qualsiasi simulacro, tuttavia eresse un serpente di bronzo. La stessa eccezione alla legge si ritrova poi nel tempio di Salomone: questo principe fa scolpire dodici buoi a sostegno della grande vasca del tempio; nell'arca sono posti dei cherubini; hanno una testa di aquila e una testa di vitello; e con ogni probabilità fu questa testa di vitello mal fatta, trovata nel tempio dai soldati romani, che fece a lungo credere che gli ebrei adorassero un asino. Il culto degli dei stranieri è proibito invano; Salomone è sicuramente idolatra.» (Trattato sulla tolleranza, XII) «E così, dunque, sotto Mosè, i giudici, i re, voi vedrete sempre degli esempi di tolleranza. (...) In poche parole, se si vuole esaminare da vicino l'ebraismo, ci si stupirà di trovarvi la più grande tolleranza tra gli orrori più barbari. È una contraddizione, è vero; quasi tutti i popoli si sono governati con delle contraddizioni. Felice quello che pratica dei costumi miti quando si hanno delle leggi di sangue!» (Trattato sulla tolleranza, XIII) Voltaire qui elogia la tolleranza pratica degli ebrei, a dispetto della loro religione "intollerante"; gli ebrei pacifici e secolarizzati hanno diritto di vivere tranquilli, ma non sarebbe così se seguissero alla lettera le prescrizioni religiose: «Sembra che gli Ebrei abbiano più diritto degli altri di derubarci e di ucciderci: infatti, benché ci siano cento esempi di tolleranza nell'Antico Testamento, tuttavia vi sono anche esempi e leggi di rigore. Dio ordinò loro talvolta di uccidere gli idolatri, e di risparmiare solo le figlie nubili: essi ci considerano idolatri, e anche se noi oggi li tollerassimo, potrebbero bene, se fossero loro a comandare, non lasciar al mondo che le nostre figlie. Sarebbero soprattutto assolutamente obbligati ad assassinare tutti i Turchi, cosa ovvia; infatti i Turchi posseggono i territori degli Etei, dei Gebusei, degli Amorrei, dei Gersenei, degli Evei, degli Aracei, dei Cinei, degli Amatei, dei Samaritani. Tutti questi popoli furono colpiti da anatema: il loro paese, che si estendeva per più di venticinque leghe, fu donato agli Ebrei con successivi patti. Essi devono rientrare in possesso dei loro beni: i maomettani ne sono gli usurpatori da più di mille anni. Se gli Ebrei ragionassero così, è chiaro che non ci sarebbe altro modo di rispondere loro che mandandoli in galera.» (Trattato sulla tolleranza, capitolo, XVIII, Gli unici casi in cui l'intolleranza è di diritto umano) Altrove prende invece la difesa del cristianesimo delle origini (che altrove spesso critica), contro gli ebrei che lo diffamavano: «Di tutte le opere prodotte dalla loro cecità, nessuna è così odiosa e stravagante come l'antico libro intitolato: Sepher Toldos Jeschut, disseppellito dal signor Wagenseil, nel secondo tomo della sua opera intitolata: Tela ignea ecc. È in questo Sepher Toldos Jeschut che si legge una storia mostruosa della vita del nostro Salvatore, fabbricata con tutta la passione e la malafede possibili. Così, per esempio, si è osato scrivere che un tale Panther o Pandera, abitante a Betlemme, si era innamorato di una giovane donna maritata a Jochanan. Egli ebbe da questo commercio impuro un figlio chiamato Jesua o Gesù. Il padre del bambino fu costretto a fuggire e si rifugiò a Babilonia. Quanto al piccolo Gesù, fu mandato a scuola; ma, aggiunge l'autore, ebbe l'insolenza di alzare la testa e di scoprirsi il capo davanti ai sacrificatori, invece di presentarsi davanti a loro a testa bassa e col viso coperto, com'era costume: arditezza che fu vivamente riprovata, e indusse a esaminare la sua nascita, che fu trovata impura ed espose ben presto il bimbo alla pubblica ignominia. Questo detestabile Sepher Toldos Jeschut era conosciuto fin dal II secolo: Celso lo cita con rispetto, e Origene lo confuta nel suo nono capitolo.» (Dizionario filosofico, voce "Messia")

Siccome nelle lettere private e in altri testi («concludo dicendo che ogni uomo assennato, ogni uomo probo, deve avere in orrore la setta cristiana»), Voltaire è assai critico con il cristianesimo, non è chiaro se si tratti di finta ironia elogiativa nei confronti di esso, come appare anche nel Trattato sulla tolleranza e anche altrove nel Dizionario filosofico, dove parla della "nostra santa religione" in termini spesso sarcastici (anche perché essendo Voltaire un non cristiano appare strano che definisca Gesù "il nostro Salvatore"). Gli ebrei sono bersaglio di ironia anche nel Candido (in particolare per le loro presunte abitudini, come l'usura e l'avarizia, ma non per razzismo "biologico", Voltaire non considera gli ebrei "una razza", ma un popolo o un gruppo religioso) dove appare ad esempio un giudeo avaro e corrotto di nome don Issacar, benché si opponga con decisione alle persecuzioni contro di loro, e non da meno Voltaire si espresse sui cristiani (nel libro satireggiati ad esempio dalla figura del Grande Inquisitore, contraltare cattolico di don Issacar) e sugli arabi musulmani, fatto che ha portato alcuni ad accusare Voltaire di antisemitismo o perlomeno di razzismo generico. Più che di antisemitismo, sarebbe più giusto, secondo alcuni, parlare di antigiudaismo, in quanto Voltaire prende di mira principalmente quella che giudica la crudeltà e l'ignoranza della religione ebraica e di certa cultura giudaica, come fanno anche altri philosophes.

«Ben lungi dall’odiarvi, vi ho sempre compatiti (...) lungi dall’accusarvi, signori, io vi ho sempre guardati con compassione (...) tuttavia non bisogna bruciarli» (Dizionario filosofico, "Giudei").

La studiosa di ebraismo Elena Loewenthal afferma che il testo della voce Juifs, peraltro spesso espunto da numerose edizioni del Dizionario e pubblicato anche come pamphlet singolo, lascia «stupiti, colpiti, delusi» pur riconoscendo l'assenza d'invettive proprie dell'antisemitismo, trattandosi perlopiù di riprese delle posizioni di filosofi romani come Cicerone e di attacchi culturali e religiosi, non etnici. Però, quando Voltaire scrive sugli ebrei, secondo Loewenthal, l'astio va ben oltre la polemica antireligiosa, anche se il filosofo condanna esplicitamente i pogrom e i roghi d'ogni tempo; egli poi «propone agli ebrei di tornarsene in Palestina, idea che sarebbe piaciuta ai futuri sionisti se non fosse accompagnata da sarcasmi come "potreste cantare liberamente nel vostro detestabile gergo la vostra detestabile musica"». Sempre nella voce Giudei, pare anche trattare con benevolenza gli ebrei moderni, preferendoli ai cristiani, e distinguendoli dagli ebrei antichi, considerati "mostri di crudeltà e fanatismo" come i cristiani:

«Vi chiedo soltanto di lasciare due o tre famiglie ebraiche, per avviare, dalle parti del monte Krapack, dove abito, una piccola, utile attività commerciale. Perché se come teologi siete molto ridicoli (e noi anche), come commercianti siete molto intelligenti, e noi no. (...) Voi foste dei mostri di crudeltà e di fanatismo in Palestina, noi lo siamo stati nella nostra Europa: dimentichiamo tutto questo, amici miei. Se volete vivere in pace, imitate i Baniani e i Ghebri: sono molto più antichi di voi, sono dispersi come voi, come voi sono senza patria. I Ghebri soprattutto, che non sono altro che gli antichi Persiani, sono schiavi come voi, dopo essere stati per lungo tempo vostri padroni. Non aprono bocca: fate anche voi così. Siete degli animali calcolanti; sforzatevi di essere degli animali pensanti.» (Dizionario filosofico, "Giudei")

In sostanza Voltaire tollera gli ebrei che si riconoscono nelle leggi dello Stato, e sostiene la tolleranza religiosa nei loro confronti, ma non li apprezza.

Islam
Voltaire, come espresse numerose opinioni anticattoliche, oltre al suo noto anticlericalismo, in coerenza con la propria filosofia deista criticò anche l'Islam. Nel Saggio sui costumi critica Maometto e gli arabi (pur esprimendo qualche apprezzamento per alcuni aspetti della loro civiltà), già bersaglio, ad esempio nell'omonima opera teatrale Maometto ossia il fanatismo, nonché ebrei e cristiani. Nel Dizionario filosofico parla del Corano:

«Questo libro governa dispoticamente tutta l'Africa settentrionale, dai monti dell'Atlante al deserto libico, tutto l'Egitto, le coste etiopiche sull'oceano per una profondità di seicento leghe, la Siria, l'Asia minore, tutti i paesi che si affacciano sul mar nero e il mar Caspio, fatta eccezione del regno di Astracan, tutto l'impero dell'Indostan, tutta la Persia, gran parte della Tartaria e nella nostra Europa la Tracia, la Macedonia, la Bulgaria, la Serbia, la Bosnia, tutta la Grecia, l'Epiro e quasi tutte le isole fino allo stretto d'Otranto dove finiscono questi immensi possedimenti.» (Voltaire, ALCORAN, ou plutôt LE KORAN. dal Dizionario filosofico)

Critiche si trovano sparse anche nel Candido e in Zadig. Nel detto Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (francese: Essai sur les moeurs et l'esprit des nations), una panoramica dei popoli e delle nazioni senza il desiderio di scendere su dettagli statistici, Voltaire dedica: il Capitolo VI ad Arabia e a Maometto il Capitolo VII al Corano ed alle leggi musulmane. Riguardo a Maometto dice:

«dopo aver ben conosciuto il carattere dei suoi concittadini, la loro ignoranza, la loro creduloneria e la loro predisposizione all'entusiasmo, si rese conto di potersi trasformare in un profeta. Si propone di eliminare il Sabismo, che consiste nel fondere insieme il culto di Dio con quello degli astri; il giudaismo detestato da tutte le nazioni, e che aveva grande presa in Arabia; infine il cristianesimo, che conosceva solo per gli abusi di diverse sette diffuse nei paesi limitrofi al suo.» «È probabile che Maometto, come tutti gli entusiasti, violentemente colpito dalle sue stesse idee, prima le *carica* di buona fede e poi le fortifica con dei sogni tanto che prende in giro se stesso e gli altri e sostiene infine, con delle furbate indispensabili, una dottrina che credeva buona. [...e così] si trovò alla testa di quarantamila uomini presi nel suo entusiasmo» «di tutti i legislatori che hanno fondato una religione, è l'unico che abbia diffuso la sua con delle conquiste. Altri popoli hanno imposto ad altre nazioni i loro culti con il ferro e con il fuoco; ma nessun fondatore di una setta è mai stato un conquistatore (...) Un mercante di cammelli provoca un'insurrezione nel suo villaggio. Alcuni miserabili seguaci si uniscono a lui; li convince che egli parla con l'arcangelo Gabriele; si vanta di essere stato portato in paradiso, dove ha ricevuto in parte questo libro incomprensibile, ognuna delle cui pagine fa tremare il buon senso; per seguire questo libro, egli mette a ferro e fuoco la sua terra; taglia la gola dei padri e rapisce le figlie; concede agli sconfitti di scegliere fra la morte e l'Islam. Nessun uomo può scusare cose del genere, a meno che non sia nato turco o la superstizione non abbia estinto il suo lume.»

Aspre critiche vengono da lui anche sui prussiani, sui francesi, definiti, "folli" (come del resto definì anche gli inglesi) e abitanti di un "paese dove le scimmie stuzzicano tigri", popolo a cui lui stesso apparteneva, consentendo di sfumare parte del cosiddetto razzismo voltairiano - che mai invoca stermini e sottomissioni di popoli, per quanto "inferiori" siano - nella derisione verso chi non utilizza i "lumi" della ragione o a quella verso i generici "barbari", atteggiamento eurocentrico tipico degli intellettuali e delle persone del suo tempo.

«...non c'è nazione più feroce di quella francese.» (Dizionario filosofico)

«Soltanto da persone illuminate può essere letto questo libro [il Dizionario filosofico, ndr]: l'uomo volgare non è fatto per simili conoscenze; la filosofia non sarà mai suo retaggio. Chi afferma che vi sono verità che devono essere nascoste al popolo non può in alcun modo allarmarsi; il popolo non legge affatto; lavora sei giorni la settimana e il settimo va al cabaret. In una parola, le opere di filosofia non son fatte che per i filosofi, e ogni uomo onesto deve cercare di essere filosofo, senza vantarsi di esserlo.» (Introduzione al Dizionario filosofico)

In generale Voltaire ha rappresentato l'Illuminismo, con il suo spirito caustico e critico, il desiderio di chiarezza e lucidità, il rifiuto del fanatismo superstizioso, con una ferma fiducia nella ragione, ma senza inclinazioni eccessive all'ottimismo e alla fiducia nella maggior parte degli individui. A questo riguardo è esemplare il romanzo satirico Candide (Candido, 1759), ove Voltaire si fa beffe dell'ottimismo filosofico difeso da Leibniz. Egli infatti accusa violentemente l'ottimismo ipocrita, il "tout est bien" e la cosiddetta teoria dei migliori dei mondi possibili, perché fanno apparire ancora peggiori i mali di origine naturale e non, che sperimentiamo, rappresentandoli come inevitabili e intrinseci nell'universo. A esso oppone il vero ottimismo, ovvero la credenza nel progresso umano di cui la scienza e la filosofia illuminista si fanno portatori, anche se una minima parte di quei mali sono davvero intrinseci e occorrerà comunque sopportarli.


"era un uomo che godeva sino in fondo della mondanità, con i suoi veleni e le sue delizie. Quello che pochi sanno è che dedicava, ogni anno, un giorno alla solitudine e al lutto: un giorno in cui si chiudeva in casa, rinunciando ad ogni commercio umano, per elaborare il lutto sino in fondo. E questo giorno era il 24 agosto, anniversario della notte di san Bartolomeo: un evento che il Nostro soffriva quasi fisicamente, perché simbolo degli effetti del fanatismo religioso, benedetto, a cose fatte, dalla gioiosa commozione del papa. A quanto sembra, Voltaire dedicava quel giorno all'aggiornamento di una sua personale statistica: quella dei morti nelle persecuzioni e nelle guerre di religione, arrivando, si dice, ad una cifra di circa 24/25 milioni".

A Voltaire si sono ispirati moltissimi intellettuali successivi, vicini e lontani nel tempo, tra cui, anche in minima parte: Thomas Jefferson, Benjamin Franklin, Maximilien de Robespierre, il Marchese de Sade, Bailly, Condorcet, Cesare Beccaria, Alfieri[, Leopardi, Marx, Kant, Schopenhauer, Nietzsche, Victor Hugo, Benedetto Croce e molti altri. Egli è citato criticamente in molte opere anti-rivoluzionarie, spesso attribuendogli posizioni estremiste che non ebbe mai (ad esempio ne L'antireligioneria di Vittorio Alfieri, nella Basvilliana di Vincenzo Monti, oltre che da Joseph de Maistre). A Voltaire viene spesso attribuita la frase «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire», che però non è sua bensì di Evelyn Beatrice Hall. Giuseppe Parini lo cita ironicamente in una strofa de Il giorno (ne Il mattino, scritto nel 1763) definendolo "de la Francia Proteo multiforme, / Voltaire troppo biasmato, e troppo a torto / Lodato ancor [...] maestro / Di coloro che mostran di sapere".

VITA E OPERE

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OPERE PRINCIPALI

Edipo, tragedia, 1718
Artémire, tragedia, 1720
La lega o Enrico il grande, poema epico, 1723
Erode e Mariamne, tragedia, 1724
La festa di Bélébat, commedia, 1725
Enriade, epopea, 1728, riedizione de La lega
Storia di Carlo XII, 1730
L'indiscreto, commedia, 1730
Bruto, tragedia, 1730
Gli originali o il Signor Capo Verde, commedia, 1732
Erifile, tragedia, 1732
Zaïre, tragedia, 1732
Sansone, libretto d'opera musicale, 1732
Il tempio del gusto, saggio, 1733
Tanis e Zélide ovvero i Re pastori, tragedia, 1733
Lettera a Urania, 1733
Lettere inglesi o Lettere filosofiche, 25 lettere, 1734
Adelaide del Guesclin, tragedia, 1734
Lo scambio, commedia, 1734
Trattato di metafisica, saggio, 1734
La morte di Cesare, tragedia, 1735
Mondain, 1736, seguito da una Difesa
Epistola su Newton, 1736
Il figliol prodigo, commedia, 1736
Alzire o Gli americani, tragedia, 1736
Saggio sulla natura del fuoco, 1738
Elementi della filosofia di Newton, 1738
L'invidioso, commedia, 1738
Discorso in versi sull'uomo, 1738
Zulime, tragedia, 1740
Pandora, libretto d'opera musicale, 1740
Maometto ossia il fanatismo, tragedia, 1741
Mérope, tragedia, 1743
Teresa, 1743
La Principessa di Navarra, commedia balletto, 1745
Il Tempio della gloria, libretto d'opera, 1745
Il facchino guercio, racconto, 1746
Così-sancta, facezia, 1747
La Prude, commedia, 1747
Sogno di Platone, 1748
Di quel che non si fa e di quel che si potrebbe fare, 1748
Zadig o Il destino, romanzo, 1748
Il mondo come va, racconto, 1748
Lettera d'un turco, 1748
Memnone o la saggezza umana, 1748
Semiramide, tragedia, 1748
La femmina che ha ragione, commedia, 1749
Nanine o Il pregiudizio sconfitto, commedia, 1749
Oreste, tragedia, 1750
Discorsi di Voltaire all'Accademia di Francia, 1750
Storia dei viaggi di Scarmentado, 1750
Roma salvata ovvero Catilina, tragedia, 1750
Lettera di un turco sui fachiri e sul suo amico Bababec, racconto, 1750
Il secolo di Luigi XIV, 1751
Il Duca d'Alençon o I fratelli nemici, tragedia (variante di Adelaide del Guesclin), 1751
Micromega, 1752
Amélie o Il Duca de Foix, tragedia (ulteriore variante di Adelaide del Guesclin), 1752
La Pulzella d'Orléans, poema eroicomico 1755
L'orfano della Cina, tragedia, 1755
Poema sul disastro di Lisbona, 1756
Poema sulla legge naturale, 1756
Storia del dottor Akakia, 1756
Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (Essai sur les mœurs et l'esprit des nations et sur les principaux faits de l'Histoire depuis Charlemagne jusqu'à Louis XIII), 1756
I due consolati, racconto, 1756
Galimatias drammatico, dialogo, 1757
Relazione del gesuita Berthier, 1758
Relazione del fratello Garassise, 1758
Candido o l'ottimismo, racconto, 1759
Socrate, tragedia, 1759
Storia di un buon brahmano, racconto, 1759
Memorie per servire alla "Vita" del signor Voltaire, scritte da lui medesimo, 1759-1760
La scozzese, commedia, 1760
Dialogo tra un bramino e un gesuita, 1760
Dialoghi tra Lucrezio e Posidonio, 1760
Pensieri per gli sciocchi, 1760
Tancredi, tragedia, 1760
Il diritto del signore, commedia, 1762
Il sermone dei cinquanta, 1762
Olympie, tragedia, 1762
Trattato sulla tolleranza, 1763
Quello che piace alle signore, 1764
Dizionario filosofico, 1764
Jeannot e Colin, racconto, 1764
Il triumvirato, tragedia, 1764
Dell'orribile pericolo della lettura, saggio, 1765
Questioni sui miracoli, 1765
La filosofia della storia, 1765
Il filosofo ignorante, 1766
Piccola digressione, 1766
Le domande di Zapata, 1766
L'ingenuo, racconto, 1767
Gli Sciiti, tragedia, 1767
La guerra civile di Ginevra, 1767 Charlot ovvero La Contessa de Givry, dramma, 1767
L'uomo dai quaranta scudi, racconto, 1768
La Principessa di Babilonia, racconto, 1768
L'A, B, C Dio e gli uomini, 1769
La canonizzazione di san Cucufino, 1769
Le lettere di Amabed, 1769
Il custode, commedia, 1769
I Guèbres o La tolleranza, tragedia, 1769
Il Barone d'Otranto, opera buffa, 1769
Questioni sull'Enciclopedia, 1770
I Pelopidi, ovvero Atreo e Tieste, tragedia, 1771
Le lettere di Memmio, 1771
Bisogna prendere una parte, 1772
I due barili, opéra-comique, 1773
Le leggi di Minosse, tragedia, 1773
Sofonisba, tragedia, 1774
Don Pèdre, tragedia, 1774
Il grido del sangue innocente, 1775
Dell'anima, 1776
La Bibbia spiegata infine da alcuni cappellani di S.M.L.R.D.P., 1776
L'oste e l'ostessa, divertimento, 1776
Dialoghi di Evemero, 1777
Commentario sullo Spirito delle leggi, 1777
Irene, tragedia, 1778
Agathocle, tragedia, 1778
Storia di Jenni ovvero Il saggio e l'ateo, racconto, 1778
Correspondance, 13 voll., 1877-1882
Stupidità del cristianesimo, brani editi e inediti raccolti in volume, 2001
Corrispondenza con Vauvenargues, lettere inedite, 2006


CANDIDO O L'OTTIMISMO

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Illustrazione del Candido il protagonista ha appena ucciso per difesa il ricco giudeo don Issacar in casa di Cunegonda

Candido, o l'ottimismo (Candide, ou l'Optimisme), è un romanzo filosofico che mira a confutare le dottrine ottimistiche come quella leibniziana. Lo scrittore francese fu stimolato sicuramente dal terremoto di Lisbona del 1755 che distrusse la città, mietendo migliaia di vittime. Voltaire scrisse prima un poema sul cataclisma (1756) e successivamente redasse il Candido (1759); egli scrive il Candido in un periodo successivo a numerose persecuzioni nei suoi confronti che l'hanno portato sulla via di una visione disincantata del mondo. Il romanzo, a dispetto della brevità, è considerato il magnum opus dello scrittore e filosofo "patriarca dell'illuminismo".
Nonostante la presa d'atto dell'esistenza del male, non risulta, comunque, che Voltaire nel Candido esalti il pessimismo, quanto si limiti a stigmatizzare la pretesa di "vivere nel migliore dei mondi possibili", precetto su cui Leibniz aveva montato il cardine della propria filosofia. Non a caso l'illuminista francese incarna nella figura del precettore Pangloss il filosofo tedesco, intento ad istruire il giovane Candido a vedere il mondo che lo circonda con ottimismo, sebbene si succedano in continuazione controversie e disavventure.
Trama
In Vestfalia, in uno "splendido" castello "dotato anche di porte e finestre", di proprietà del barone di Thunder-ten-Tronckh, "il più grande signore della provincia e perciò del mondo", vive un giovane dal carattere ingenuo e sincero, di nome Candido; è orfano ma si dice che sia figlio della sorella del barone e del suo amante, un nobile delle vicinanze, che non aveva potuto sposarla perché non aveva abbastanza "quarti di nobiltà". Suo precettore è Pangloss (dal greco p??, pan, tutto, e ???ssa, glossa lingua e quindi "tutto lingua": parodia dei discepoli di Leibniz come Christian Wolff), che insegna a lui e alla figlia del barone la "metafisico-teologo-cosmologo-nigologia", la dottrina filosofica secondo la quale il mondo è "il migliore dei mondi possibili" in quanto "tutto ciò che esiste ha una ragione di esistere", ad esempio "i nasi servono ad appoggiarvi gli occhiali, ed infatti noi abbiamo degli occhiali".
Candido segue molto volentieri le lezioni di Pangloss, in quanto trova molto bella Cunegonda (personaggio ispirato dalla nipote e compagna di Voltaire madame Denis), la figlia del barone, e trascorre il tempo a guardarla. Successivamente la ragazza, stimolata dall'aver spiato una "lezione di anatomia" che si stava svolgendo dietro un cespuglio tra Pangloss e una servetta, bacia Candido dietro un paravento, ma i due vengono scoperti dal barone. Egli allora spedisce Candido fuori dai suoi possedimenti e fuori dal feudo, "a calci nel sedere". Poco dopo i Bulgari saccheggiano il castello e la famiglia viene trucidata; si salva solo Cunegonda, che però sparisce, diventando preda di guerra per la soldataglia. Durante la guerra dei sette anni tra bulgari (prussiani) e abari (francesi), Candido viene arruolato a forza dai primi; quando pensa di disertare, viene scoperto subito e bastonato da duemila soldati, poi condannato a morte, fino a che viene graziato da Federico II. Durante la battaglia riesce a scappare e ritrova poi Pangloss, malato di sifilide.
Candido e Pangloss vengono aiutati da un mercante anabattista, Jacques, insieme al quale s'imbarcano e raggiungono Lisbona. Durante il viaggio Jacques muore affogato a causa di una tempesta, e Candido e Pangloss vengono "accolti" nel paese (dopo aver assistito alla distruzione della città nel terremoto di Lisbona del 1755), nel quale il giorno seguente il filosofo maestro di Candido viene impiccato durante un autodafé dall'Inquisizione, mentre il giovane viene nuovamente fustigato a sangue. Il ragazzo viene curato da una vecchia, che si scopre essere conoscente della bella Cunegonda, la figlia del barone di cui Candido era innamorato, che in realtà era sfuggita alla morte, e i due si rincontrano. Candido uccide per difesa due potenti del luogo che si contendono l'amore della ragazza, un giudeo di nome don Issacar e il Grande Inquisitore in persona. Scappano quindi su una nave e attraversano l'Atlantico. Cunegonda e la vecchia (che si rivela essere una principessa, figlia di un papa, ma caduta in disgrazia dopo essere finita schiava di pirati) rimangono a Buenos Aires, ospiti del governatore, mentre Candido e il servitore Cacambo scappano rifugiandosi dai gesuiti. Il capo di questi è in realtà il giovane barone fratello di Cunegonda, anche lui scampato alla morte; questi litiga con Candido (non volendo che la nobile sorella sposi un borghese) e lo aggredisce, e il giovane è costretto a uccidere anche lui; scappa poi nella foresta dove s'imbattono nei selvaggi cannibali Orecchioni e infine lui e Cacambo risalgono un fiume.
Questi eventi portano Candido e il suo amico fedele Cacambo nella splendida città di El Dorado, dove l'oro e le pietre preziose sono considerate fango e dove non esistono litigi né guerre. Persuasi di poter ricevere quantità d'oro sufficienti a riscattare Cunegonda, che nel frattempo era ormai in potere del governatore, Candido e Cacambo abbandonano la città con molti montoni carichi di pietre preziose per fare ritorno in Europa; ma ancora una volta s'imbattono in una serie di eventi sfortunati e i due dovranno dividersi. Candido incontra Martino, un manicheo dalle idee completamente opposte a quelle di Pangloss, e prosegue insieme a lui il suo viaggio alla ricerca dell'amata, passando per la Francia (dove viene imbrogliato ripetutamente e alla fine deve fuggire per evitare di finire arrestato, durante le repressioni seguite all'attentato di Damiens contro Luigi XV) e l'Inghilterra (dove assiste all'esecuzione dell'ammiraglio Byng). Candido va poi a Venezia, dove incontra diversi personaggi, tra cui Paquette, la servetta del barone divenuta prostituta, il nobile Pococurante, sei sovrani in esilio e il frate Giroflée, che vuole abbandonare il convento e "farsi turco". Infine ritrova Cacambo e finisce a viaggiare su una galea, diretta a Costantinopoli, città dove la sua amata vive facendo la serva. Nella galea ritrova, come schiavi rematori, il filosofo Pangloss, sfuggito miracolosamente alla morte, e il fratello barone di Cunegonda (anche lui sopravvissuto), e li riscatta. A Costantinopoli si ritrovano così Candido, Cunegonda, Martin, Cacambo, Paquette, la vecchia e il frate Giroflée, ormai convertito all'islam; e dopo aver rispedito – tramite galea – il barone gesuita a Roma, finiscono per vivere tutti insieme umilmente in una piccola fattoria (comprata da Candido con i resti delle ricchezze di Eldorado; molte infatti le perde o gli vengono rubate) per dedicarsi a "coltivare il nostro Orto" (spazio di terra ben definito).
Personaggi
Candido: un giovane ingenuo cresciuto alla corte del barone di Thunder-den-Tronckh e probabilmente figlio della sorella del barone. Innamorato di Cunegonda, figlia del barone, viene cacciato da questi e dovrà subire moltissime peripezie – essere arruolato a forza dai bulgari (prussiani) contro gli abari (francesi), essere frustato per diserzione e poi come eretico, fare più volte naufragio, ecc. – prima di poter ritrovare l'amata e vivere in pace.
Cunegonda: figlia del barone e amante di Candido all'inizio del romanzo, e alla fine sua moglie (lui la sposa quasi "per dovere", nonostante sia diventata brutta).
Barone gesuita: figlio ed erede del barone, sfugge al saccheggio del castello. Creduto morto per mano di Candido in Paraguay dove è colonnello dei gesuiti, finisce infine a remare sulle galere turche in attesa di essere rispedito a Roma. Con la sua ossessione per i quarti di nobiltà, rappresenta il vano orgoglio dell'aristocrazia.
Pangloss: il precettore del castello, nonché filosofo maestro di Candido. Parodia dei leibniziani, crede di vivere nel migliore dei mondi possibili, nonostante tutto quello che gli capita (si ammala di sifilide, deve scappare dai bulgari, finisce quasi annegato, poi quasi impiccato e sezionato da un chirurgo, e infine diventa schiavo dei turchi).
La vecchia: una serva e cameriera assegnata a Cunegonda e che aiuta Candido, ma che in realtà è figlia di papa Urbano X (pontefice immaginario) e della principessa di Palestrina. Il resoconto delle sue sciagure personali e famigliari, che da principessa l'hanno ridotta a schiava e poi serva in giro per l'Europa, occupano due capitoli del romanzo.
Martino: amico di Candido e filosofo manicheo; con il suo pessimismo, ispirato a quello di Pierre Bayle, è il contraltare di Pangloss.
Cacambo: servo meticcio di Candido, abile e scaltro nell'aiutare il padrone.
Stile e argomenti
Candido è strettamente indicativo dell'intera opera di Voltaire, di cui il romanzo rappresenta una delle massime espressioni. Come lo stesso Voltaire disse, il fine di Candido era quello di "portare il divertimento a un piccolo numero di uomini d'ingegno". L'autore raggiunge questo obiettivo unendo il suo spirito tagliente con una divertente parodia del classico romanzo di avventura e romanticismo. Candido si confronta con terribili eventi, descritti nei minimi dettagli così spesso, che diventa divertente in maniera grottesca. Il teorico letterario Frances K. Barasch ha descritto il racconto di Voltaire affermando che esso tratta temi come la morte e il massacro "freddamente, come un bollettino meteo". Il veloce e improbabile sviluppo della trama in cui i personaggi sfuggono alla morte più volte, permette che si abbattano tragedie sugli stessi personaggi in maniera ripetuta. Alla fine, Candido è soprattutto, come descritto dal biografo di Voltaire Ian Davidson, "corto, leggero, veloce e divertente."
Dietro la facciata giocosa di Candido, che ha divertito tanti, si trova una critica molto dura della civiltà europea contemporanea, che provocò le ire di molti. I governi europei, specie la Francia, la Prussia, il Portogallo e l'Inghilterra sono attaccati spietatamente dall'autore: i francesi e prussiani per la guerra dei sette anni, i portoghesi per l'Inquisizione, e gli inglesi per l'esecuzione di John Byng. La religione organizzata è aspramente trattata in Candide. Ad esempio, Voltaire prende in giro l'ordine dei Gesuiti della Chiesa Cattolica Romana. Lo studioso Alfred Owen Aldridge offre un esempio caratteristico di tali passaggi anticlericali per cui il lavoro è stato vietato in numerosi paesi alla sua uscita e Voltaire dovette farlo circolare come un racconto anonimo: ad esempio suggerisce che la missione cristiana in Paraguay sta approfittando della popolazione locale. Voltaire descrive i gesuiti come persone che tengono i popoli indigeni come schiavi, mentre dicono di essere lì per aiutarli.
Satira
Lo stile della satira di Candide è quello di mescolare ironicamente tragedia e commedia. La storia non inventa o esagera i mali del mondo, ma visualizza quelli veri in maniera anche cruda (ma sempre "leggera", come nello stile tipico della prosa voltairiana), permettendo a Voltaire di semplificare filosofie e tradizioni culturali, mettendo in evidenza i loro difetti. Così Candido deride l'ottimismo, per esempio, con un diluvio di fatti orribili, storici (o almeno plausibili) senza qualità positive apparenti.
Un semplice esempio di satira di Candido è nel trattamento dell'evento storico che vede testimoni Candido e Martino nel porto di Portsmouth. Lì, il duo vede un ammiraglio anonimo, che rappresenta John Byng, giustiziato per non aver guidato correttamente una flotta contro i francesi. L'ammiraglio è bendato e fucilato sul ponte della sua nave, ma solo "per incoraggiare gli altri" (pour encourager les autres). Questa rappresentazione della pena militare banalizza la morte di Byng (che pure Voltaire, conoscente dell'ammiraglio, tentò invano di scongiurare). La secca e concisa spiegazione "per incoraggiare gli altri" satireggia così un grave evento storico nella maniera tipicamente voltairiana. Per il suo spirito classico, questa frase è diventata una delle più spesso citate da Candide. La frase è citata anche da Jorge Luis Borges ne Il miracolo segreto.
Voltaire rappresenta il peggio del mondo e lo sforzo disperato del suo eroe patetico di inserirlo in una visione ottimistica. Quasi tutto Candido è una discussione di varie forme del male: i suoi personaggi raramente trovano tregua anche temporanea. C'è almeno una notevole eccezione: l'episodio di El Dorado, un paese fantastico in cui gli abitanti sono semplicemente razionali, e la loro società è giusta e ragionevole. La positività di El Dorado può essere in contrasto con l'atteggiamento pessimista della maggior parte del libro. Anche in questo caso, la beatitudine di El Dorado è fugace: Candido lascia presto il villaggio per cercare Cunegonda, con la quale alla fine si sposa solo per un senso di obbligo.
Un altro elemento della satira si concentra su ciò che William F. Bottiglia, autore di numerosi lavori pubblicati su Candido, chiama le "debolezze sentimentali dell'epoca" e l'attacco di Voltaire su di esse. I difetti della cultura europea sono evidenziati come parodia nelle avventure di Candido e nei cliché da pre-romanticismo, imitando lo stile del romanzo picaresco e del romanzo di formazione.
Un certo numero di personaggi archetipici (tipici del romanzo dell'epoca e della cronaca settecentesca degli ambienti borghesi e nobiliari; si vedano anche l'autobiografia di Giacomo Casanova o le opere liriche di Mozart, come Le nozze di Figaro o il Don Giovanni) hanno quindi manifestazioni riconoscibili nel lavoro di Voltaire: Candido si suppone che sia il "ladro alla deriva" o l'avventuriero di bassa classe sociale che però se la cava sempre, Cunegonda l'interesse sessuale, Pangloss il mentore esperto e Cacambo l'abile valletto factotum. Come la trama si dipana, i lettori scoprono che Candido non è davvero una canaglia, Cunegonda diventa brutta e Pangloss è uno stupido testardo. I personaggi di Candide sono - sempre secondo William F. Bottiglia - irrealistici, bidimensionali, meccanici, e simili a marionette; sono semplicistici e stereotipati, servono a Voltaire per dimostrare le sue teorie. Il protagonista, ingenuo all'inizio, alla fine arriva comunque ad una conclusione di maturazione.
Il motivo del "giardino"
I giardini sono ritenuti, da molti critici, svolgere un ruolo simbolico fondamentale nel Candide. Il primo luogo comunemente identificato come un giardino è il castello del barone, da cui Candido e Cunegonda sono sfrattati nello stesso modo in cui Adamo ed Eva sono cacciati dal Giardino dell'Eden nella Genesi. Ciclicamente, i principali personaggi di Candide concludono il romanzo in un giardino, luogo che potrebbe rappresentare il paradiso. Altro "giardino" più importante è El Dorado, che può essere un falso Eden, perché immaginario, dove come nei sogni di Voltaire si praticano il deismo e la tolleranza. Altri giardini, forse simbolici, includono il padiglione dei Gesuiti, il giardino di Pococurante, il giardino di Cacambo, e il giardino del turco.
Questi giardini sono probabilmente i riferimenti al giardino dell'Eden, ma è stato anche proposto, da Bottiglia, per esempio, che i giardini si riferiscono anche alla Encyclopédie, e che la conclusione di Candido che bisogna coltivare il "giardino" simboleggia il sostegno di Voltaire per questa impresa. Candido e compagni, mentre si trovano alla fine della novella, sono in una posizione molto simile a una cerchia filosofica unita che Voltaire ha sostenuto con la Encyclopédie (il circolo di Diderot): i principali personaggi di Candide vivono in clausura a "coltivare", proprio come Voltaire suggerì ai suoi colleghi, che lasciano la società per scrivere (come fa Voltaire stesso). In aggiunta, ci sono prove nella corrispondenza epistolare di Voltaire che aveva usato altrove la metafora del giardinaggio per descrivere la scrittura del Encyclopédie. Un'altra possibilità interpretativa è che Candido coltiva "il suo giardino", come impegno in occupazioni necessarie, per nutrirsi e come lotta contro la noia. Candido è sia epicureo (filosofia del giardino, appunto) che stoico, come detto da Peter Gay.
Interessante è il punto di vista di Voltaire sul giardinaggio: il filosofo era un giardiniere dilettante nelle sue tenute di Les Délices e Ferney, e spesso scrive nella sua corrispondenza che il giardinaggio è stato un suo importante passatempo, essendo un modo straordinariamente efficace per tenersi occupato, quando non scriveva, studiava o riceveva ospiti.
Il breve romanzo filosofico ha suscitato ammirazioni e critiche, sia subito sia in seguito, fino ai giorni nostri. Poco dopo l'uscita venne posto all'indice dei libri proibiti dalla Chiesa. Venne posto al bando anche da numerosi paesi, fino al XX secolo, e ha influenzato l'umorismo e la satira di numerosi autori, compreso molti scrittori noti per il cinismo e l'umorismo nero.
Ammirato da Leopardi che ne riprese, estremizzandoli, certi temi e atteggiamenti nelle sue prose (si vedano le Operette morali La scommessa di Prometeo e Dialogo della Natura e di un Islandese), venne deprecato da altri, che pur talvolta rispettavano l'autore nel complesso. Madame de Staël parla di "gaiezza infernale" che "ride delle miserie di questa specie umana", "riso sardonico", "filosofia beffarda così indulgente in apparenza, così feroce in realtà", un'opera "scritta da un essere di un genere altro dal nostro". Il giudizio della Stael risente di quello dell'eterno rivale di Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, che nelle Confessioni rappresenta Voltaire come il manicheo Martin, che crede che Dio esista e sia malvagio, pur essendo un uomo che ha avuto fortuna nella vita. Rousseau - nell'ottica del romanzo - sembra quasi schierarsi dalla parte dell'ottimismo panglossiano (si veda anche la vivace corrispondenza sul terremoto di Lisbona e le opere coeve di Voltaire, come i pessimistici Poema sulla legge naturale e Poema sul disastro di Lisbona, dalle tematiche simili a La ginestra di Leopardi).

«Il suo preteso Dio è soltanto un essere che fa del male e prende gusto solo a nuocere. L'assurdità di questa dottrina salta agli occhi, ma soprattutto è rivoltante in un uomo colmato di ogni bene che, dalla rocca della sua buona sorte, cerca di indurre alla disperazione tutti i suoi simili con l'immagine penosa e crudele di tutte le calamità da cui egli è immune. Poiché sono più autorizzato di lui a contare e pesare i mali della vita umana, ne feci un esame equilibrato e gli provai come di tutti questi mali non ve sia uno solo imputabile alla Provvidenza o che non abbia la sua matrice nell'abuso compiuto dall'uomo delle sue facoltà anziché nella natura stessa.» (J.-J. Rousseau, Le confessioni)

Stendhal amava il libro, ma affermava di sentirsi turbato dal "fondo cattivo" del romanzo, dal feroce sarcasmo del Voltaire più disilluso (e lo è perché in fondo non riesce ad accettare questa realtà) e Flaubert sosteneva che Candide avesse come sfondo un "digrignar di denti". Per il cattolico Barbey d'Aurevilly è invece un "libro scellerato (...) un odioso libello contro la Divina Provvidenza". Il riso di Voltaire, scrive Jean Starobinski, è ambivalente: rappresenta da un lato la festa della ragione critica, dall'altra una denuncia amara delle disgrazie umane (Voltaire ride per non piangere, insomma). Per il critico Francesco De Sanctis, Candide è invece espressione dell'"ironia bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto tanta malizia". La "superficialità" è necessaria in un'operazione satirica come questa: occorre indurirsi e ridere del male, per poterlo affrontare lucidamente e senza sentimentalismi. Voltaire quando parla, ad esempio, di "fanciulle sventrate dopo aver appagato i bisogni naturali di alcuni eroi", non intende ovviamente deridere lo stupro e l'omicidio di massa, perpetrato dai militari prussiani e francesi in guerra, quanto dirottare la tensione verso un'amara risata, anziché sull'emozione, mirando a una reazione intellettuale, non emotiva come quella della Stael.
Per quanto riguarda lo stile, Paul Valéry paragona il ritmo di Candide alla musica di Offenbach, mentre per Italo Calvino, grande ammiratore di Voltaire e del romanzo:

«la grande trovata del Voltaire umorista è quella che diventerà uno degli effetti più sicuri del cinema comico: l'accumularsi di disastri a grande velocità. E non mancano le improvvise accelerazioni di ritmo che portano al parossismo il senso dell'assurdo: quando la serie delle disavventure già velocemente narrate nella loro esposizione “per disteso” viene ripetuta in un riassunto a rotta di collo. È un gran cinematografo mondiale che Voltaire proietta nei suoi fulminei fotogrammi, è il giro del mondo in ottanta pagine».

Per la maggioranza della critica, egli vuole lanciare un messaggio positivo e razionalista: Voltaire nega così l'ottimismo acritico, ma non si schiera nemmeno col pessimismo, ma piuttosto si fa portavoce di un ottimismo razionale. Egli non si schiera né con Martin (come faranno - a vario titolo - alcuni esponenti del tardo illuminismo tendenti all'ateismo e alla negazione di ogni provvidenza, come d'Holbach, lo stesso Diderot o soprattutto il Marchese de Sade, o come farà Leopardi più tardi) come gli imputano Rousseau e gli spiritualisti, né ovviamente con Pangloss, la cui filosofia è il principale oggetto della satira.
Voltaire è turbato dal male dell'umanità e della natura, ma non è sfiduciato a tal punto da negare ogni speranza, che vede appunto incarnata nell'etica del lavoro e della semplicità di Candido, oltre che dalla fiducia in un lento progresso spinto dai Lumi. Pessimismo e provvidenzialismo gli sono estranei, così come non esiste in lui la derisione per l'umanità sfortunata di cui lo accusa Rousseau: il Voltaire di Candide non è nichilista, misantropo o sadico (e Candido non è la Justine sadiana, tuttalpiù che i suoi nemici spesso ricevono il giusto castigo, si vedano la sorte del barone gesuita e dell'inquisitore), non ha secondi fini e non si compiace delle disavventure (non c'è nemmeno quello di cui lo accusarono molti sulla scia di André Chénier, ossia un Voltaire "filosofo-parassita", il ricco che ride delle disgrazie altrui dal suo castello, come una sorta di precursore del darwinismo sociale spenceriano o di Nietzsche), anzi simpatizza per Candido e i suoi amici (anche quando satireggia Pangloss), i quali non muoiono mai, sopravvivono quasi tutti; essi vanno avanti fino alla fine del romanzo con cauto ottimismo, senza dover per forza giustificare o spiegare gli eventi tragici, né trarne una morale metafisica che vada a favore o contro la virtù.


ZADIG O IL DESTINO

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Zadig o il destino. Storia orientale è un romanzo filosofico, scritto tra il 1745 e il 1747, e pubblicato incompleto per la prima volta nel 1747 con il titolo di "Memnon, histoire orientale". L'anno successivo uscì l'edizione definitiva, con l'aggiunta di tre capitoli rispetto alla versione precedente, intitolata "Zadig ou la Destinée. Histoire orientale". Successivamente, il testo venne rielaborato e vennero aggiunti come appendice due capitoli nell'edizione di Kehl del 1784, i quali si situavano narrativamente uno prima dell'arrivo del protagonista in Siria, e l'altro dopo il capitolo XIII.
Voltaire per il racconto del cap. 3, Il cane e il cavallo, trasse spunto dal libro Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo di Cristoforo Armeno, probabilmente nella traduzione francese di Simon Gueulette, pubblicata nel 1712.
Zadig, ambientato nel medioevo, nell'anno 837 dell'egira, è una delle opere più apprezzate di Voltaire, in cui l'autore mostra tutto il suo stile vivo e brillante, ironizzando contro i pregiudizi del tempo. La vivacità della narrazione, disseminata di peripezie, sottolinea come, per quanto l'esistenza sia piena di cambiamenti, resti comunque legata al suo destino.
Il nome del protagonista, Zadig, viene dall'ebraico Zaddiq a sua volta imparentato con l'arabo "?adiq", che significa "giusto", "retto". Il riferimento alle qualità morali del protagonista del racconto di Voltaire è evidente.
Trama
Zadig è un giovane uomo ricco e pieno di qualità, che crede di avere tutto ciò di cui ha bisogno per essere felice. Diventa invece vittima di una serie di disavventure, che lo portano a credere che sia impossibile per l'uomo sfuggire alla sfortuna e alla malasorte, finché incontra un eremita che gli rivela il segreto della felicità. Difatti, è solamente sottostando ai decreti della Provvidenza che Zadig riesce infine ad ottenere ciò che più desidera, e ad essere felice.

  • Cap 1: Zadig è il più fortunato di tutti a Babilonia. Ha amici perché ha soldi, deve sposarsi con Semira, ma il nipote di un ministro, Orcan, tenta di farla rapire. Zadig, lottando per salvarla, viene ferito all'occhio sinistro. Il medico Ermete dice che è incurabile, ma lui guarisce. Semira però, si è sposata nella notte con Orcan, ripugnando i guerci. Zadig, si mette con Azora.
  • Cap 2: Zadig, a seguito delle lamentele di Azora sul comportamento di una sua amica da poco vedova, decide di metterla alla prova fingendosi morto mentre lei è in campagna e facendola poi corteggiare dall'amico Cador. Mentre è a cena con Azora, Cador si sente male e le dice che l'unico rimedio è il naso di un uomo morto il giorno prima. Lei decide quindi di tagliare il naso a Zadig, il quale la riesce a fermare in tempo, rivelando l'inganno.
  • Cap 3: Ripudia Azora. Gli chiedono se ha visto la cagna della regina e il cavallo del re scappare, lui dice di no e li descrive grazie ad alcuni indizi. Lo mettono in prigione.
  • Cap 4: Zadig ha una bella casa ed è amico di tutti, in una discussione sui grifoni lui dice che se ci sono non van mangiati, e se non ci sono anche. Un sapiente lo accusa davanti a Yébor e lo vuol impalare, Cador lo salva. L'Envieux taglia una poesia e la dà al re come se fosse un insulto, mentre quella originale è di complimenti, lo mettono in prigione senza processo, ma la regina trova l'originale e lo liberano.
  • Cap 5: Si elegge il più generoso ogni cinque anni, il premio va a Zadig.
  • Cap 6: Zadig diventa primo ministro ed è equo.
  • Cap 7: Ne sa più di Yébor. Ci son due sette religiose, lui è equo. Tutti sostengono Zadig, non perché è saggio ma perché è primo ministro. La donna dell'Envieux ci prova ma lui non ci sta, invece viene sedotto da una serva di Astarté.
  • Cap 8: Si innamora di Astarté, lo confessa a Cador, con un inganno dell'Envieux il re pensa di uccidere Zadig, che scappa verso l'Egitto.
  • Cap 9: Missouf viene picchiata, Zadig la difende e uccide un uomo, arrivano 4 babilonesi e prendono Missouf.
  • Cap 10: Gli egiziani curano Zadig, non è assassino ma ha ucciso, quindi diventa schiavo. Viene venduto a Sétoc, è subordinato al proprio paggio perché sopporta meno la fatica, finché non lo aiuta a riprendere dei soldi.
  • Cap 11: Zadig convince Sétoc che non deve adorar le stelle ma chi le ha create. Le donne si bruciano quando il marito muore, seduce Almona e distrugge la tradizione.
  • Cap 12: Al mercato di Balzora, diverse persone di diverse nazionalità discutono e litigano sul cibo sacro, Zadig dice che tutti adorano il creatore di quel cibo, non il cibo in sé.
  • Cap 13: I soldi delle donne che bruciano andavano ai preti delle stelle, che accusano Zadig di blasfemia. Almona seduce il capo dei preti poi lo dice ai giudici e li fa arrestare. Sétoc sposa Almona.
  • Cap 14: Va in Siria, viene preso da alcuni briganti. Arbogad, il loro capo, vuole comprare Zadig alla propria causa. Gli racconta la propria storia e che il re di Babilonia Moabdar è morto.
  • Cap 15: Vede un pescatore sulla riva che vuole suicidarsi, è rovinato anche per colpa di Zadig, che gli restituisce un po' di soldi e lo manda da Cador.
  • Cap 16: Alcune donne cercano un basilisco per il proprio padrone malato che deve mangiarlo. Zadig incontra Astarté. Zadig si propone come medico e guarisce il signore Ogul facendogli fare un po' di esercizio fisico.
  • Cap 17: Il principe di Hyrcanie muore, si organizza un torneo per trovare un marito ad Astarté. Il pretendente deve vincere a duello e poi risolvere degli indovinelli. Itobar perde e mentre Zadig dorme gli ruba l'armatura.
  • Cap 18: Incontra un eremita. Questo si comporta in modo strano e contraddittorio, ma ottiene sempre il bene, alla fine si rivela: è un angelo di Orosmade.
  • Cap 19: Zadig arriva a corte, risolve gli indovinelli e poi dimostra, sconfiggendo Itobar, che questo ha rubato la sua armatura. Si sposa ed è felice, fa favori e ringrazia tutti quelli che l'hanno aiutato, è l'unico re ad avere un amico: Cador.

I temi su cui la storia ruota sono riscontrabili in molti testi dell'illuminismo. Infatti questo romanzo è una critica al sistema politico e religioso della società parigina del '700. Oltre al fanatismo religioso, il problema della monarchia senza giustizia (con la corruzione), è aggiunto il tema della ricerca della felicità ostacolata dagli interessi dei politici e dei religiosi dell'epoca. Infine, la scelta dei luoghi orientali è stata fatta non solo perché era in voga in quel tempo, ma anche per criticare attraverso l'ironia i personaggi potenti non illuminati europei; per evitare di essere sottomesso a censura e per non essere né esiliato, né carcerato.


7 febbraio 2024 - Eugenio Caruso

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