Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

I passi della crisi economica 2008 - 2010 - Parte VIII


Il tiranno tutti gli uomini di cervello li tiene bassi ed esalta gli sciocchi..
Savonarola


L’articolo è  il seguito di
Come si è arrivati alla grande crisi del 2008 Parte I,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte II,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte III,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte IV,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte V,
I passi della crisi 2008 -2010 - Parte VI
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VII

Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il terzo trimestre del 2010,  l’analisi delle performance economiche delle più importanti imprese del pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi. L’articolo viene aggiornato quasi quotidianamente.

Crollano gli investimenti nel 2009 (1 luglio 2010).
Gli investimenti fissi lordi hanno registrato nel 2009 una diminuzione del 12,1% in termini reali, accentuando la fase di contrazione iniziata nel 2008 (-4%). Lo rende noto l'Istat precisando che si tratta di un livello paragonabile solo al calo registrato durante la precedente crisi del 1993, quando si raggiunse un -11,5%. La diminuzione della spesa in beni capitali nel 2008 e nel 2009 ha interessato tutti i settori dell'economia. Gli investimenti fissi lordi del settore industriale sono diminuiti nel 2009 del 14,9% rispetto all'anno precedente, dopo un calo del 4,1% nel 2008 (+4,9 per cento nel 2007). Nel settore dei servizi si rileva un calo della spesa per capitale fisso pari a -10,6% nel 2009 e a -4% nel 2008. Gli investimenti del settore dei servizi, valutati al netto degli investimenti in abitazioni, risultano in calo dell'11,3% nel 2009 e del 5,1 nel 2008. Nel 2009 il settore agricolo ha fatto registrare un'ulteriore flessione (-17,4%), confermando la tendenza negativa registrata nei due anni precedenti (-2,7 per cento nel 2008 e -4,7 per cento nel 2007). La composizione settoriale della spesa per investimenti evidenzia il ruolo dominante del settore dei servizi che, nel 2009, ha effettuato il 68,1% degli investimenti totali (59% al netto delle abitazioni), una quota in crescita rispetto al 67% del 2008 (57,9 per cento al netto delle abitazioni). Il peso del settore industriale si è ridotto dal 29,3% al 28,3% nel 2009, mentre è sostanzialmente stabile quello del settore agricolo (3,6% contro il 3,8% nel 2008). Gi investimenti fissi lordi per addetto ammontano a 9.600 euro, rafforzando la tendenza alla diminuzione manifestatasi già nel 2008 (10.600 euro, contro gli 11.000 euro nel 2007). Gli investimenti per addetto sono pari 10.200 euro nell'industria (in calo rispetto al valore di 11.300 euro del 2008 e di 11.600 euro nel 2007) e a 9.500 euro nei servizi (10.500 euro nel 2008 e 11.000 euro registrato nel 2007). Al netto degli investimenti in abitazioni, gli investimenti per addetto nel settore dei servizi sono pari a 6.600 euro (7.300 euro del 2008 e 7.700 del 2007). Nel settore agricolo gli investimenti per addetto ammontano a 6.400 euro (7.600 nel 2007 e nel 2008).

L'indice mondiale della prosperità (3 luglio 2010).
Non finisce sulle prime pagine dei giornali e non è un "market mover", pur fornendo preziose informazioni sullo stato dei principali paesi del pianeta. Stiamo parlando del Global prosperity index, l'indicatore della prosperità mondiale. L'indice, che coniuga crescita economica, benessere sociale e qualità della vita in 104 paesi, è calcolato dal think tank britannico Legatum Institute ponderando nove fattori chiave che contribuiscono alla crescita economica e al benessere sociale. Questi fattori chiave - rappresentati in sub-indici - sono: fondamentali economici, imprenditorialità ed innovazione, educazione, istituzioni democratiche, governance, sanità, sicurezza, libertà personale e capitale sociale. La classifica 2009 vede quattro paesi scandinavi nelle prime cinque posizioni. Sul podio c'è la Finlandia (dove la banda larga è un diritto dei cittadini), seguita da Svizzera e Svezia. A seguire Danimarca, Norvegia, Australia, Canada, Olanda, Stati Uniti e Nuova Zelanda. Fra i paesi del G-20 , solo tre (Australia, Canada e Usa) si piazzano, dunque, fra i primi 10. Il Regno Unito è dodicesimo, la Germania è quattordicesima, il Giappone è sedicesimo. Nonostante la crisi, gli Stati Uniti restano al top tra i big dell'Occidente, figurando al primo posto assoluto nella capacità di innovare. L'Italia, che fa anche parte del G-8, è in 21esima posizione dietro Hong Kong, Spagna e Slovenia, dunque fuori dal G-20 della prosperità.L'Italia si piazza meglio nei settori sanità (il sub indice la colloca, a sorpresa, all'11esimo posto in classifica) ed educazione (17esimo), ma ancora peggio in altri: al 23esimo posto in istituzioni democratiche, al 25esimo per i fondamentali economici, al 26esimo in imprendotorialità e innovazione, al 31esimo in sicurezza, al 35esimo in governance, al 37esimo in capitale sociale e addirittura al 40esimo in libertà personale. Nell'ambito dei paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina), l'India, 45sima, batte di gran lunga la Cina (75esima). Il Brasile è 41esimo, la Russia 69esima (assieme alla Turchia). Gli Emirati Arabi Uniti si classificano al 47esimo posto per il secondo anno consecutivo, aggiudicandosi così il primato dell'unico paese arabo nella top 50. Gli EAU guadagnano posizioni nei settori quali salute (29) e sicurezza (18), ma perdono sul piano delle istituzioni democratiche (98) e del capitale sociale (77). Più indietro paesi come l'Arabia Saudita (81) l'Egitto (88), l'Iran (94) l'Algeria(96) e lo Yemen (102). L'Iran va male su tutti i fronti, ed è vicino al fondo classifica sia sulla base dei criteri del buon governo(102) che della libertà personale (101).L'Egitto è molto indietro rispetto alle medie mondiali, essendo a fondo classifica per libertà personale (95) e capitale sociale (100). Nonostante la sua enorme ricchezza petrolifera, l'Arabia Saudita si posiziona quasi in fondo alla graduatoria (81) ed è carente in termini di innovazione e imprenditorialità (81), di istituzioni democratiche (101), e di libertà personale (98). Come dire: la crescita economica non basta a definire la prosperità di un paese, il Pil non è tutto, il benessere ha altre declinazioni e sfaccettature che vanno ben oltre la ricchezza economica. In fondo alla classifica, al 102 posto, si trova lo Yemen, paese che continua a dimostrarsi incapace ad affrontare le sfide importanti: lo dimostrano la sua bassa posizione a livello generale, ma anche nelle specifiche categorie.

La ripresa a macchia di leopardo (5 luglio 2010).
Le crisi economiche lasciano profone cicatrici ma sono anche un terreno fertile per la crescita di nuove "piante"; le corazzate Usa ed Europa faticano a riprendersi perchè parte della loro ricchezza era fatta di carta e debiti. Paesi deboli nel periodo pre crisi stanno correndo e creando nuove economie. Negli Stati Uniti quasi un cittadino su dieci è disoccupato. Mentre l'Europa deve fare i conti con i debiti sovrani dei Piigs che minacciano lo stato di salute dell'economia e dell'euro (che ha perso il 15% da inizio anno sul dollaro). Senza dimenticare la Cina, la locomotiva che ha guidato la crescita mondiale negli ultimi anni e che, adesso, nonostante il buon dato del 2009, sta lanciando segnali di raffreddamento. E il Giappone? Non è mai riuscito a riprendersi dopo il collasso delle banche negli anni '90, intrappolato nella morsa di tassi bassi perché lo spettro dell'inflazione farebbe lievitare i costi dell'enorme debito pubblico. Insomma, sarà pur vero che la recessione economica mondiale iniziata nel 2008 ha ormai toccato il fondo e che si cominciano a intravedere i primi segnali di ripresa. Ma è anche vero che le economie più forti del pianeta, quelle che in termini di Pil accumulato sono davanti a tutte, ne stanno uscendo con profonde cicatrici. E non saranno – a giudicare dalle stime di cresciuta per il 2010 elaborate da Fortune – le prime economie a ritornare sui livelli pre-crisi. Perché da qualche altra parte del mondo c'è chi è decisamente più in salute e viaggia, pur partendo da un Pil accumulato nettamente inferiore, in questo momento con una velocità doppia, laddove non tripla. È il caso del Canada, che come l'Australia, è una delle commodities economies, proprio per la sua forte dipendenza dall'andamento delle materie prime e, segnatamente, dal petrolio. Questa volta è la domanda domestica a guidare il recupero dell'economia, che appare dunque più "sano". Ma la vera spinta – segnala Fortune – alla ripresa mondiale sta arrivando dall'Asia, con Singapore in prima linea. E dall'America Latina, con le sorprese Perù e Colombia. Ma il 2010 è anche l'anno dell'Africa, non solo per i mondiali di calcio, ma anche perché nel continente nero ci sono alcuni paesi, come l'Uganda, che stanno diventando esempi di un'accelerazione economica virtuosa.

Calo dei consumi. Non succedeva dal 1999 (5 luglio 2010).
La contrazione della spesa per consumi appare «particolarmente evidente tra le famiglie con livelli di spesa medio-alti». Questa una delle considerazioni fornite dall'Istat in occasione della presentazione dei dati relativi alla spesa per consumi delle famiglie residenti in Italia, sulla base delle informazioni desumibili dall'indagine sui consumi, condotta nel corso di tutto il 2009 su un campione di circa 23 mila famiglie. È la prima volta che l'istituto nazionale di statistica utilizza in questa ricerca specifica i "decili di spesa equivalente" da cui emerge che la famiglia che in media spende 1.670 euro al mese è quella ad avere diminuito di più i consumi nel 2009, del 2.7%. Ai livelli superiori (1.940, 2.240 e 2.595 euro) sono calati rispettivamente del 2,6, del 2,3 e del 2,1%. I consumi dei più abbienti - 4.100 euro al mese - sono invece calati dello 0,4%. Altra novità nel calcolo dei dati è rappresentato dall'introduzione del valore mediano che divide la distribuzione di frequenza in due parti uguali (il 50% delle famiglie presenta un valore di spesa per consumi inferiore o pari alla mediana, il 50% un valore superiore). Si può dire che il 50% delle famiglie calabresi spende meno di 1.473 euro al mese - minor valore in assoluto - mentre sotto la media nazionale (2.020 euro) figurano anche Liguria - con 1.962 euro, un fenomeno spiegato dall'Istat con l'elevata presenza di popolazione anziana - e la provincia di Trento con 1.866 euro dove invece l'Istat parla di stile di vita morigerato e di servizi gratuiti forniti dalle amministrazioni locali. È la prima volta che negli ultimi dieci anni si registra una variazione nominale negativa per la spesa media mensile per le famiglie. L'Istat precisa tuttavia che il calo record si associa al più basso tasso di inflazione relativo sempre allo stesso periodo. L'unico capitolo della spesa media mensile delle famiglie italiane a registrare nel 2009 un aumento è stato quello per combustibili ed energia; una crescita che si associa a un periodo invernale particolarmente lungo e rigido. Nello stesso periodo è diminuita la spesa per diverse voci di bilancio come servizi sanitari, tabacchi e comunicazioni. In generale, nel 2009, la spesa non alimentare a livello nazionale è rimasta stabile, a 1.981 euro mensili.E' evidente che il calo dei consumi nel 2009 cavalca l'onda lunga della crisi partita nel 2008. D'altra parte occorre notare che, a fronte di un calo dei consumi, si registra, sempre nel 2009 e sempre per le stesse fasce di reddito, un aumento del potere d'acquisto di poco inferiore al 2%. La spiegazione più logica di questa contraddizione sta, forse, nel fatto che l'incertezza della ripresa economica fa sì che molte famiglie abbiano aunentato la quota destinata al risparmio. Come ho detto più volte io sono sicuro che al termine della crisi il paese non sarà più quello di prima.

La situazione delle multinazionali nel mondo (5 luglio 2010).
Le multinazionali mondiali hanno messo a segno un forte rimbalzo nei primi tre mesi del 2010, ma le big italiane non hanno agganciato la ripresa con la stessa intensità delle rivali estere. È quanto emerge dallo studio annuale di Mediobanca-ReS sul settore. Anche se va attesa la conferma rispetto all'assai deludente primo trimestre 2009, il fatturato delle multinazionali in media è cresciuto del 22% e l'utile netto addirittura del 210 per cento. Brilla il settore energetico (+46% il fatturato e +85% l'utile), ma buoni progressi emergono anche per auto, pneumatici e cavi, chimica-farmaceutica e utilities (+22%). L'unico settore ancora in difficoltà è quello dei materiali da costruzione, mentre le telecomunicazioni mostrano un modesto recupero (per le tlc non c'era stata però crisi nel 2009). La crisi, sia chiaro, ha riportato le multinazionali a livello globale ai livelli di 4-5 anni fa e ha pesato molto di più sulle europee che sulle americane. Dopo avere tenuto nel 2008 (+9,4%), nel 2009 il fatturato delle multinazionali dei paesi avanzati ha segnato un calo medio del 20%, riportando il relativo indice ai livelli del 2004-2005. Ci vorranno quindi anni per la ripresa, sempre ammesso che il rimbalzo emerso nei primi mesi del 2010 abbia continuità. A livello di risultato corrente già nel 2008 la crisi ha lasciato il segno, in Europa (margine in calo al 10,3% del fatturato dal 12,5%), in America (12,4% dal 13%) e soprattutto in Giappone (0,9% dal 7%) e ha messo fine, almeno per ora, al movimento di avvicinamento dei margini europei rispetto agli Usa iniziato nel 2002. La forbice tra le due sponde dell'Atlantico si è allargata con la crisi anche a livello di rapporto tra utile netto e fatturato: Usa ed Europa coincidevano al 5,8% nel 2008, poi il Nordamerica è migliorato all'8,5%, mentre l'Europa è arretrata al 4,3%. L'evoluzione del Roe (Return on equity, ovvero l'indice di redditività del capitale definito dal rapporto tra utile netto e patrimonio netto societario) amplifica il divario tra i due continenti: 9,5% nel 2009 per le europee e 20,3% per le nordamericane, più efficienti anche nell'uso dei mezzi propri. Rispetto alle medie di settore, le multinazionali italiane nel primo trimestre dell'anno non hanno registrato una ripresa delle vendite particolarmente brillante. Fiat (+15%) e Finmeccanica (+3%) si confrontano con il +32% del settore dei mezzi di trasporto, Prysmian (+5%) e Pirelli (+16%) contro il +24% settoriale, Parmalat (+6%) contro il +11% dell'alimentare, Eni (+5%) contro il +46% del comparto energetico, Italcementi (-11) e Buzzi Unicem (-22%) accusano flessioni più gravi della media del settore (-6%). Anche a livello di struttura finanziaria, mentre nella media mondiale si segnala un irrobustimento dei mezzi propri rispetto al debito, le italiane risultano meno capitalizzate ed evidenziano quindi una relativa fragilità rispetto ai benchmark settoriali. Come nei casi di Prysmian (68% contro 81%), Eni (229% contro 424%), Telecom Italia (66% contro 116%), Enel (68% contro 68%), Fiat (41% contro 64%) e Indesit (89% contro 332%). Italcementi (137%) e Buzzi Unicem (157%) hanno invece una struttura finanziaria più solida della media settoriale (119%). Mediobanca-ReS passa al setaccio 374 gruppi, di cui 18 italiani stilando una classifica che vede al primo posto, per capitale investito. Toyota con 174,6 miliardi di euro, seguita Royal Dutch Shell (120 miliardi) e PetroChina (116) e da un'altra big dell'auto, la Volkswagen (115 miliardi). Prima tra le italiane è Eni, tredicesima (74,9 miliardi), in calo di una posizione. Considerando la capitalizzazione di Borsa, la palma va ad ExxonMobil dall'alto di 379,6 miliardi (ma è solo decima per asset con 86,8 miliardi), davanti a PetroChina, con 245,1 miliardi. Sotto questo profilo Toyota è 15esima ed Eni, con 71,3 miliardi, scivola al 25esimo posto dal 18esimo del 2008. Enel sale al primo posto mondiale (dal secondo) tra le multinazionali del settore utilities, con un capitale investito di 111 miliardi di euro che le ha permesso di strappare il primato a Gdf Suez (108 miliardi). Per capitalizzazione di Borsa la palma va tuttavia a Edf con 76,8 miliardi (terza per asset), davanti alla connazionale Gdf Suez (68,5) e alla tedesca E.On (58,2 miliardi). Enel è quinta con 38 miliardi, in miglioramento dal settimo posto del 2008.

FMI: le stime della crescita (8 luglio 2010).
Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) rivede al rialzo le stime di crescita mondiali per il 2010, mentre lascia invariate quelle per il 2011. Nell'aggiornamento del World Economic Outlook, l'Fmi prevede che l'economia globale si espanderà quest'anno del 4,6%, ovvero 0,4 punti percentuali in più rispetto a quanto previsto in aprile. Per il 2011 la stima è invariata a +4,3%. Per quanto riguarda l'Italia, vengono rialzate le previsioni di crescita per il 2010: il pil dovrebbe crescere dello 0,9% a fronte del +0,8% stimato in aprile. Limata invece la stima 2011, quando l'economia è prevista segnare un +1,1% a fronte del +1,2% stimato in aprile. L'economia di Eurolandia dovrebbe salire, nel 2010, dell'1,0% e nel 2011 dell'1,3%. Una previsione invariata rispetto a quella di aprile, mentre si riduce di 0,2 punti percentuali quella del 2011. Per gli Stati Uniti, il Fondo ritocca al rialzo sia la stima 2010 sia quella 2011: il paese dovrebbe crescere nel 2010 del 3,3% (+0,2 punti percentuali) e nel 2011 del 2,9% (+0,3 punti percentuali). All'interno di Eurolandia, il Fondo stima per la Germania un pil in aumento dell'1,4% nel 2010 (+0,2 punti percentuali rispetto alle previsioni di aprile) e dell'1,6% nel 2011 (-0,1 punti percentuali); per la Francia la previsione è di una crescita dell'1,4% quest'anno (-0,1) e dell'1,6% il prossimo (-0,2); per la Spagna l'economia è prevista contrarsi dello 0,4% nel 2010 (stima invariata) e avanzare dello 0,6% (-0,3) nel 2011. La ripresa globale dovrebbe procedere nonostante le turbolenze sui mercati. Ma i rischi al ribasso sono «sono aumentati notevolmente». L'Fmi prevede che l'inflazione resterà moderata nelle economie avanzate, fra l'1,25% e l'1,5% nel 2010 e nel 2011. Date le deboli pressioni inflazionistiche, «la politica monetaria può restare altamente accomodante nel futuro prevedibile nelle economie avanzate. Questo aiuterà a mitigare gli effetti avversi sulla crescita del risanamento fiscale e - osserva l'Fmi - al nervosismo dei mercati finanziari. Se rischi al ribasso dovessero materializzarsi, la politica monetaria dovrebbe essere la prima arma di difesa in molte economie avanzate. In questo scenario, con i tassi di interesse già vicini allo zero nelle maggiori economie, le banche centrali potrebbero dover ricorrere di nuovo a un utilizzo più forte del proprio bilancio per allentare le condizioni monetarie». Il rischio di frenata della congiuntura globale «è cresciuto in modo consistente». I rischi maggiori sono rappresentati dall'aumento di stress finanziario, «alimentato dalla crescente preoccupazione sul rischio sovrano». In questo contesto, le nuove previsioni dell'Fmi sottolineano l'importanza di un rafforzamento delle strategie per ricostruire fiducia e stabilità, soprattutto nell'area euro, ma ribadendo la necessità di mettere in atto piani "growth friendly", ovvero che non limitino la crescita. In particolare, occorre l'impegno verso «strategie ambiziose e credibili per ridurre il deficit fiscale dei vari paesi nel medio-lungo termine», anche creando obiettivi pluriennali e promuovendo riforme (come quelle delle pensioni e del sistema sanitaro). Per quanto riguarda i piani di consolidamento fiscale, nel documento vengono definiti «largamente appropriati».

La Fiat resta a Pomigliano (9 luglio 2010).
La produzione della Panda resterà italiana. Dopo mesi di trattativa l'accordo è raggiunto. La Fiat e le organizzazioni sindacali Fim-Cisl, Uil-Uilm e Fismic, al termine di un incontro tenutosi oggi a Torino, hanno convenuto di dare attuazione all’accordo raggiunto il 15 giugno scorso per la produzione della futura Panda a Pomigliano d’Arco. Lo ha comunicato, in una nota, il Lingotto. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, e l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. L’Ugl, firmataria anch’essa dell’accordo del 15 giugno, non ha partecipato all’incontro di oggi, ma aveva già incontrato l’impresa in precedenza. Tutti i firmatari dell’accordo, come si legge nella nota, "considerando che la grande maggioranza dei lavoratori ha dato il proprio assenso con il referendum, hanno convenuto sulla necessità di dare continuità produttiva allo stabilimento e a tutto il sistema della componentistica locale, offrendo così prospettive future ai dipendenti dell’impianto di Pomigliano". "L’impresa e le organizzazioni sindacali che hanno firmato l’accordo -si legge ancora nella nota- si impegneranno per la sua applicazione con modalità che possano assicurare tutte le condizioni di governabilità dello stabilimento". "L’esecuzione di questo accordo nei tempi e nei termini concordati -conclude il comunicato della Fiat- è la condizione necessaria per la continuità dell’impegno della Fiat nella realizzazione del progetto Fabbrica Italia". "Scegliere se stare dentro o fuori" "Le regole della competizione internazionale non le abbiamo scelte noi e nessuno di noi ha la possibilità di cambiarle, anche se non ci piacciono. L’unica cosa che possiamo scegliere è se stare dentro o fuori dal gioco". Lo afferma l’Amministratore Delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in una lettera indirizzata "a tutti i dipendenti dell’impresa in Italia e a tutte le persone del Gruppo Fiat in Italia", sottoolineando che "ci troviamo in una situazione molto delicata, in cui dobbiamo decidere il nostro futuro. Si tratta di un futuro che riguarda noi tutti, come lavoratori e come persone, e che riguarda il nostro Paese, per il ruolo che vuole occupare a livello internazionale". "Scrivere una lettera è una di quelle cose che si fa raramente e solo con le persone alle quali si tiene veramente. Se ho deciso di farlo -esordisce Marchionne- è perchè la cosa che mi sta più a cuore in questo momento è potervi parlare apertamente, per condividere con voi alcuni pensieri e per fare chiarezza sulle tante voci che in questi ultimi mesi hanno visto voi e la Fiat al centro dell’attenzione. Non è la Fiat a scrivere questa lettera, non è quell’entità astratta che chiamiamo impresa e non è, come direbbe qualcuno, il padrone. "Vi sto scrivendo prima di tutto come persona, con quel bagaglio di esperienze che la vita mi ha portato a fare. Sono nato in Italia ma, per ragioni familiari e per motivi di lavoro, ho vissuto all’estero la maggior parte dei miei anni e conosco bene -ricorda Marchionne- la realtà che sta al di fuori del nostro Paese. Ed è questa conoscenza che sto cercando di mettere a disposizione della Fiat perchè non resti isolata da quello che succede intorno. Vi scrivo da uomo che ha creduto e crede ancora fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo. Prendete questa lettera come il modo più diretto e più umano che conosco per dirvi come stanno realmente le cose".

La manovra economica. Strappo con le Regioni (10 luglio 2010).
S'è consumato lo strappo finale tra governo e regioni sulla manovra. Al vertice del 9 luglio con Silvio Berlusconi, i governatori hanno dovuto incassare il NO del governo, e soprattutto di Giulio Tremonti: i saldi non si toccano, i tagli restano a quota 8,5 miliardi, non c'è margine per ritocchi o rinvio delle decisioni al Senato perché la manovra la vuole l'Europa e "i mercati lunedì ci farebbero pagare un caro prezzo". L'unica apertura è il via a una commissione mista anti-sprechi. Nonostante l'apparente maggiore disponibilità al dialogo mostrata da Berlusconi il governo ha insomma tenuto sulle richieste dei governatori. Che hanno nuovamente contestato lo squilibrio dei tagli a loro carico. Ma i governatori tutti insieme hanno intanto incassato ben poco dallo schieramento di sette ministri e di Gianni Letta presenti al vertice. Sarà istituita la commissione mista anti-sprechi a più riprese richiesta per fare chiarezza sui bilanci di tutti. Ed è qualcosa, ma con effetti futuri. Qualche promessa più vicina c'è per le quattro regioni commissariate per la sanità (Lazio, Campania, Calabria, Molise), tutte in mano al centrodestra: più tempo per i piani di rientro, magari un prossimo stop alle maxi addizionali Irpef e Irap. Ma la partita grande è tutta da giocare. E l'ipotesi del governo di trovare soluzioni dopo la manovra con la legge di stabilità in autunno preceduta da un tavolo comune al quale ha accennato Tremonti, non basta al fronte delle regioni. Che adesso puntano tutto sul parlamento. In base alle tavole diffuse dal ministro Tremonti, nel 2010 la spesa complessiva delle Pa dovrebbe superare gli 806 miliardi di euro. Di questi 238,3 appartengono allo stato (-2,1% rispetto al 2009), 39,9 alle regioni (con un aumento del 4,5% se rapportato ai 12 mesi precedenti) e 114,9 agli enti sanitari locali (+3,9%) Per i redditi da lavoro dipendente l'intera pubblica amministrazione mette in conto di spendere 175,5 miliardi di euro. Di questi 95,1 miliardi si riferiscono ai ministeri e alle altre Pa centrali (+2,7% sul 2009) a fronte dei 6,1 delle regioni (+2,1%) e dei 37,6 miliardi degli enti sanitari locali (+2,5% sull'anno prima). Dei 139,5 miliardi di euro preventivati dal 2010 dalle pubbliche amministrazioni italiane per l'acquisto di beni e servizi da riutilizzare per l'erogazione dei servizi, 21,3 miliardi di euro (in calo del 7,2% rispetto al 2009) si riferiscono allo stato. Dal canto loro le regioni dovrebbero spenderne 5,4 miliardi (+1,2% in confronto con l'anno prima) mentre gli enti sanitari 70,6 (+4,7%). Le ragioni a nostro avviso non hanno molto da recriminare; gli sprechi che vi si perpetrano sono noti a tutti. Un esempio tra tutti? Siamo bombardati quotidianamente da slogan pubblicitari che decantano le bellezze naturali, architettoniche e artistiche delle singole regioni. A che serve? E a chi serve? Le regioni sono piccoli feudi costosissimi. Si vada velocemente verso il federalòismo fiscale e paghi chi sbaglia! Da quando è stata proposta la manovra economica tutti hanno protestato; regioni, provincie , comuni, comunità montane e Confindustria in primis. Poi la Cgil ha proclamato uno sciopero generale, hanno scioperato ... i magistrati, i sanitari, i docenti, gli addetti al trasporto pubblico, gli aquilani. Molte delle proteste sono fatte in odio a Berlusconi, altre sono fatte per difendere privilegi e poltrone. Siamo un paese irrimediabilmente malato, eppure l'economia sta uscendo dal tunnel della crisi e le imprese italiane stanno ottenendo risultati strepitosi. Ma ricordando l'apologo di Menenio Agrippa, se gli arti non funzionano anche il cuore resterà danneggiato. E se certa stampa e certi conduttori vogliono distogliere l'attenzione dalla gravità della situazione possono sempre proporre la solita tiritera di quanto è bello l'inno di'Italia, che la Padania non esiste e di che cosa ha detto mai Borghezio.

Fondazione Nord-Est. Raporto 2010 (12 luglio 2010).
La Fondazione Nord Est ha realizzato l'undicesimo Rapporto sulla società e l’economia, un appuntamento significativo per valutare lo stato e le prospettive delle nostre regioni e dell’Italia. La finalità del Rapporto, coerentemente con i precedenti, è di offrire strumenti utili ai decisori pubblici e privati al fine di prefigurare gli scenari futuri dello sviluppo del Nord Est e del Paese. Anche l’edizione 2010 del Rapporto, pubblicato dalla Marsilio, ha esplorato, lungo diverse dimensioni, le performance del Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia rispetto alle altre aree del Paese e nei confronti di alcune regioni europee. Il Rapporto realizza, inoltre, un approfondimento sulla reazione e sulle stretegie in risposta alla crisi messe in atto da un gruppo di medie imprese del Nord Est, anche in riferimento ai cambiamenti di scenario che stanno emergendo a livello economico e sociale. Qui è disponibile una sintesi del Rapporto. Interessante l'analisi dei grafici (attendere circa 15 secondi per l'apertura del file) dei più significativi parametri economici.
La versione integrale di NORD EST 2010 è acquistabile nelle librerie (Marsilio, euro 22.00).

L'Eurofondo salva banche (12 luglio 2010).
Depositi bancari garantiti fino a 100 miloni di euro, in qualsiasi valuta, e con tempi di rimborso massimi di sette giorni in caso di fallimento della banca: è la proposta presenta oggi dal commissario europeo al Mercato interno, Michel Barnier, dopo mesi di confronto con le istituzioni nazionali. «E' uno dei tasselli della nostra strategia di consolidamento della fiducia dei cittadini europei, dei risparmitori, delle imprese e in fin dei conti dei mercato», ha spiegato il commissario presentanto il pacchetto che si compone anche di una proposta analoga per garantire i risparmiatori che utilizzano le case d'investimeno e di un libro bianco che lancia una consultazione per giungere a un sistema di protezione dei risparmiatori contro i rischi di derivanti dall'eventuale fallimento delle compagnie di assicurazione. «Non vogliamo altri casi Madoff», ha detto Barnier illustrando la seconda proposta che punta ad elevare il livello di garanzia per i clienti delle case d'investimento portando il limite massimo di riborso dagli attuali 20mila euro a 50mila. L'obiettivo dichiarato di Barnier è di non far pesare sui bilanci pubblici - e in ultima analisi sui contribuenti - gli eventuali fallimenti bancari, come accade oggi con le coperture estese nel 2008 per tranquillizzare risparmiatori e mercati. «Le banche paghino per le banche». È lo slogan. Il fondo, dunque, sarà costituito dagli istituti di credito, che avranno 10 anni di tempo per accantonare l'equivalente dell'1,5% degli attivi, secondo «un criterio di equità che terrà conto del rischio relativo di ciascun istituto». La proposta di direttiva contiene i criteri e le formule matematiche per definire il contributo banca per banca e lascia un margine di discrezionalità agli stati membri. Su questo punto, anche se Barnier non ne ha parlato, il lavoro da fare per armonizzare le posizioni tra gli stati membri si preannuncia molto impegnativo. Nelle intenzioni di Barnier, le proposte dovrebbero entrare in vigore tra l 2012 e il 2013. Ma il percorso non è così agevole. La Germania ha già fatto sapere che non rinuncerà al proprio sistema di protezione dei conti correnti bancari. Barnier, tuttavia, spera che il dibattito in consiglio dell'Ue e all'Europarlamento «possa migliorare la proposta». Il commissario Barnier ha poi commentato positivamente la proposta lanciata sul Financial Times da Alessandro Profumo, ceo di Unicredit. «E' incoraggiante che il sistema bancario, attraverso un esponente così autorevole come Profumo, riconosca che sia necessario creare un fondo di garanzia», tanto più che alcuni ministri non siano d'accordo con questa linea che non abbiamo già espresso nel consiglio di Madrid. Secondo Barnier, il fondo privato proposto da Profumo è compatibile con quello della commissione che punta, tra l'altro, ad armonizzare 40 sistemi di garanzia dei depositi bancari presenti nei 27 paesi dell'Unione (in Italia il Fondo di tutela dei depositi).

Bocciati in liberalizzazioni (13 luglio 2010).
Libertà d'impresa, legge annuale sulla concorrenza, misure taglia-carta e anti-burocrazia. Il dizionario delle liberalizzazioni è più che mai fertile ma non sempre alle espressioni felici corrispondono svolte tangibili per i mercati. Il confronto politico è ancora aperto; intanto dall'annuale classifica internazionale realizzata dall'Istituto Bruno Leoni emerge una situazione ancora ingessata. Il governo ha ormai spostato il focus sull'alleggerimento degli oneri per avviare un'impresa mentre ha perso appeal la legge annuale sulle liberalizzazioni che il ministero dello Sviluppo economico avrebbe dovuto confezionare già entro giugno. E' pronta da settimane una bozza dei tecnici dello Sviluppo, ferma al momento, in attesa del via libera di Berlusconi e Tremonti. L'Ibl ha messo a confronto l'Italia in 15 mercati chiave con i paesi europei al top per apertura a nuovi concorrenti e per regolamentazione. Usciamo con un punteggio poco gratificante nel complesso - 49 fatta 100 l'eccellenza - che soprattutto non rappresenta un passo avanti rispetto al passato: 48% nel 2007,47% nel 2008, 50% nel 2009. Come nelle precedenti edizioni dell'Indice, íl mercato più liberalizzato risulta essere quello dell'energia elettrica. Significative le differenze tra settori che già avevano un buon grado di apertura e hanno compiuto ulteriori passi avanti e settori che invece partivano da situazioni più critiche e sono rimasti quasi fermi. Nel suo quarto Indice delle liberalizzazioni l'Istituto Bruno Leoni parla di «stagnazione», «attrito» dopo oltre un quindicennio dall'avvio dei principali processi di deregulation, di persistente difficoltà «per un nuovo entrante di bussare alla porta dei consumatori». Rimarcano, gli esperti del Bruno Leoni, che per liberalizzare davvero nei prossimi anni occorrerà agire sul contesto entro cui si svolge la competizione, in una parola «deregolamentando». Anche se Carlo Stagnaro, che ha coordinato le relazioni sui singoli settori curate da dodici esperti, rileva come l'attuale congiuntura internazionale remi a sfavore. «L'attenzione per i temi delle liberalizzazioni era molto più forte alla vigilia della crisi economica». L'indice non è stato composto in relazione a un benchmark assoluto bensì rispetto al paese più liberalizzato d'Europa, settore per settore: nel caso dell'elettricità e del gas il riferimento è il Regno Unito. Il mercato elettrico, con il 71% rispetto all'eccellenza inglese, è tra i 15 settori analizzati quello piazzato più in alto, grazie a miglioramenti in tutta la filiera. Il gas si piazza invece al sesto posto nella classifica generale (55%). Per le tlc (41%) il discorso è diverso: il Regno Unito, anche in questo caso assunto come benchmark, offre un ventaglio di soluzioni tecnologiche più ampio agli utenti anche in virtù della storica presenza del cavo. Su questo fronte novità significative per l'Italia potrebbero arrivare se il progetto della rete di nuova generazione entrerà in una fase operativa. È invece la Spagna il benchmark considerato per la televisione (65%). Rispetto all'Italia - secondo l'Ibl - Madrid «registra una significativa tendenza all'apertura del mercato e conferma una già assodata marginalità dell'operatore pubblico». Tre settori sono in significativa discesa. Nel trasporto aereo, secondo il rapporto, la normativa ha fatto dei passi indietro e l'accesso al mercato si è ridotto. Il trasporto ferroviario, sottolinea Ibl, sconta problemi storici come il doppio ruolo di Fs (proprietario e gestore della rete) ma anche «l'incremento dei sussidi pubblici a favore di Trenitalia». Il giudizio scivola ancor più verso il basso in materia di autostrade (29% rispetto al benchmark spagnolo), soprattutto per «la durata eccessiva delle concessioni». Il peggior risultato, tra i settori analizzati, lo mettono a segno i servizi idrici (17%) nonostante il decreto Ronchi. L'unico settore in sensibile miglioramento è il lavoro, dal 55 al 60% (il benchmark è il Regno Unito). Merito della reintroduzione di strumenti precedentemente cancellati (lo staff leasing) ma anche di alcune sperimentazioni introdotte con la manovra per aumentare la produttività del lavoro. L'Italia è invece costretta a uno sprint estremo nel settore postale, visto che deve adeguarsi alla terza direttiva europea che dal 1° gennaio 2011 per l'apertura al mercato anche della corrispondenza sotto i 50 grammi. ll risultato è pari a 43 rispetto al top della Svezia. Per quanto riguarda gli altri settori, l'Italia fa qualche passo avanti nella «libertà dalla pubblica amministrazione», pur rimanendo nelle retrovie europee, e resta al di sopra del 50% per il fisco rispetto al modello inglese. da Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2010
Un omino avvolto e immobilizzato da una serie di lacci sull'orlo del precipizio. L'immagine sulla copertina del rapporto sulle liberalizzazioni pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni, i cui contenuti sono stati anticipati dal Sole 24 Ore, è efficace nel descrivere la situazione italiana: il nostro Paese è ancora frenato da monopoli e rendite di posizione. Una situazione che occorre sbloccare al più presto secondo Carlo Stagnaro direttore ricerche e studi dell'istituto Bruno Leoni. «Nonostante la crisi abbia reso fuori moda il tema delle liberalizzazioni - ha detto alla presentazione della ricerca - è proprio in questa fase che occorre accelerare». Per dirla con le parole del capo di gabinetto americano Rahm Emanuel, citato nel rapporto, è importante «non sprecare una seria crisi» perché una fase in cui «è possibile fare cose che non si potevano fare prima». In tempi di crisi il potere delle lobby è decisamente ridimensionato. Aprire nuovi mercati - secondo l'istituto - aiuterebbe poi a far crescere il Pil, senza l'impatto sui conti pubblici di grandi piani di stimolo. Il quadro dipinto dall'indagine dell'istituto Bruno Leoni è a macchia di leopardo. Se infatti alcuni mercati, come quello dell'elettricità, hanno subito un notevole apertura alla concorrenza altri appaiono ancora molto immobilizzati. Come, ad esempio quello dei servizi pubblici locali. «In questi ultimi anni - ha ricordato a questo proposito Antonio Pilati, membro dell'Antitrust - c'è stata un'eccessiva proliferazione di imprese municipalizzate». Su questo fronte il decreto Ronchi, approvato alla fine 2009, che introduce l'obbligatorietà del bando di gara per l'assegnazione dell'appalto, ha rappresentato un buon passo in avanti. Ma la legge, di cui si attendono ancora i decreti attuativi, «non interviene su aspetti fondamentali per la concorrenza nel settore, quali la frammentarietà del quadro regolatorio e il contenuto delle gare». Sul fronte del mercato del lavoro l'istituto premia l'operato del ministro Maurizio Sacconi, intervenuto alla presentazione della ricerca. L'indice sulla liberalizzazione del mercato del lavoro cresce dal 55 al 60% soprattutto per la «reintroduzione di fattispecie contrattuali precedentemente cancellate (lo staff leasing, cioè la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato tramite agenzie ndr.) e da altri interventi di natura normativa». A questo proposito il ministro ha detto di voler continuare sulla strada della deregolamentazione per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. Alla presentazione ha participato anche l'ex ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni (Pd) che ha voluto commentare la situazione del mercato televisivo. Un settore che l'indagine dell'istituto Leoni giudica relativamente aperto, anche per effetto del passaggio al digitale. «Non si può dimenticare - ha ricordato Gentiloni - che il mercato pubblicitario resta dominato dal duopolio Rai Mediaset. In Italia il secondo operatore privato ha appena il 5% del mercato. Un evidente effetto del conflitto di interessi» Da Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2010

Il sommerso nel 2009 (13 luglio 2010).
Nel 2009 sono circa 2 milioni e 966 mila i lavoratori non regolari occupati in prevalenza come dipendenti (circa 2 milioni e 326 mila rispetto alle 640 mila unità di lavoro indipendenti), in crescita rispetto al 2008 (2 milioni e 958 mila unità di lavoro circa). Sempre nel 2008 il valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso economico è compreso tra un minimo di 255 e un massimo 275 miliardi di euro. Lo rileva l'Istat, aggiungendo che il peso dell'economia sommersa è compreso tra il 16,3% e il 17,5% del Pil (nel 2000 era tra 18,2 e 19,1%). Tra il 2000 e il 2008 l'ammontare del valore aggiunto sommerso registra una tendenziale flessione, pur mostrando andamenti alterni: la quota del sommerso economico sul Pil raggiunge il picco più alto (19,7%) nel 2001, per poi decrescere fino al 2007 (17,2%) e mostrare segnali di ripresa nel 2008 (17,5%). Diversi i modi in cui si attuano i comportamenti fraudolenti degli operatori economici per evadere il sistema fiscale e contributivo. Primo tra tutti, l'utilizzo di lavoro non regolare, fenomeno, dice l'istat, "strettamente" connesso "al mancato versamento dei contributi sociali: nel 2008 erano circa 2 milioni e 958 mila le unità di lavoro non regolari (ula)". Questa componente "che rappresenta l'11,9 per cento dell'input di lavoro complessivo nel 2008, raggiunge il 12,2 per cento nel 2009". Se le prestazioni lavorative sono non regolari, e quindi non direttamente osservabili, "producono un reddito che non viene dichiarato dalle unità produttive che le impiegano", continua ancora l'Istat, secondo cui "nel 2008 l'incidenza del valore aggiunto prodotto dalle unità produttive che impiegano lavoro non regolare risulta pari al 6,5 per cento del pil, in calo rispetto al 2000 quando ne rappresentava il 7,5 per cento". Ma l'impiego di lavoro non regolare rappresenta soltanto una componente dell'economia sommersa. "La parte più rilevante del fenomeno è costituita dalla sottodichiarazione del fatturato e dal rigonfiamento dei costi impiegati nel processo di produzione del reddito. Nel 2008 l'incidenza del valore aggiunto non dichiarato dovuto alle suddette componenti raggiunge il 9,8 per cento del pil (era il 10,6 per cento nel 2000)". A livello settoriale, la maggiore incidenza di unità di lavoro non regolari e con un tasso di irregolarità in aumento dal 20,9 per cento del 2001 al 24,5 per cento del 2009 si registra nell'agricoltura. La rilevanza del fenomeno è dovuta al carattere stagionale dell'attività agricola e al forte ricorso al lavoro a giornata, fattori che non hanno trovato nelle misure di regolarizzazione degli stranieri o di regolamentazione del lavoro atipico strumenti di contrasto sufficienti a ridurre l'impiego di manodopera non regolare. Se si considera la sola economia di mercato, senza considerare, cioè, il valore aggiunto prodotto dai servizi non market forniti dalle amministrazioni pubbliche, "il sommerso nel 2008 rappresenta il 20,6 per cento del Pil, contro il 17,5 per cento calcolato per l'intera economia". L'istituto di statistica individua tre diverse tipologie di occupati in nero: gli irregolari residenti, gli stranieri non regolari e le attività plurime non regolari (in pratica chi svolge un secondo lavoro in nero). Dal 2001 gli irregolari residenti rappresentano la componente più rilevante delle unità di lavoro non regolari e si attestano nel 2009 intorno a 1 milione e 652 mila unità. Un'altra componente rilevante è rappresentata dalle unità di lavoro riferibili alle posizioni plurime (937 mila unità). Gli stranieri clandestini rappresentano, invece, la componente più piccola del lavoro non regolare (377 mila unità di lavoro nel 2009). Nonostante gli interventi di sanatoria, tuttavia, è da rilevare che tra il 2001 e il 2008 il numero di lavoratori stranieri irregolari in Italia è cresciuto, subendo un'inversione di tendenza soltanto nel 2009. Tale dinamica è dovuta presumibilmente a una crescita tendenziale della domanda di lavoro da parte delle famiglie (in particolare colf e badanti), che solo nel 2009 è stata controbilanciata dalla diminuzione degli stranieri occupati nelle imprese. "Nel periodo 2001-2008 gli interventi normativi - conclude l'Istat - hanno, quindi, agito nella direzione di un contenimento del lavoro non regolare, consentendo di trasformare lavoratori già occupati irregolarmente in posizioni lavorative regolari. La crisi economica dell'ultimo biennio, invece, ha modificato il quadro che, sebbene ancora basato su evidenze statistiche che dovranno essere consolidate, evidenzia una riduzione complessiva dell'occupazione pari a 660 mila unità, con una forte contrazione del lavoro regolare (-668 mila unità), accompagnata da una lieve crescita del lavoro non regolare (+8 mila unità). La diversa dinamica del lavoro regolare e non regolare ha determinato una modesta crescita del tasso di irregolarità, passato dall'11,9 per cento del 2008 al 12,2 per cento nel 2009".

I quattro pilastri dell'Europa contro la crisi (14 luglio 2010).
Il nuovo patto di stabilità dell'Unione europea comporterà una «colossale devoluzione di poteri dagli stati nazionali a Bruxelles» e sarà un patto «più intelligente e più forte» rispetto al vecchio. È l'analisi, positiva, che il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha consegnato ai giornalisti al termine della riunione dell'Ecofin. Tremonti ha illustrato il «quadrilatero» di strumenti che in pochi mesi, l'Europa è riuscita a mettere in piedi allestando un sistema di protezione «anticrisi». «Fino al primo week end di maggio - ha ricodato Tremonti - non c'erano strumenti di governo» comuni per affrontare le crisi. «Da allora - ha spiegato - abbiamo un quadrilatero. Il primo pilastro è costituito dal nuovo ruolo strategico della Bce, non ancora una Fed ma non più solo il guardiano dell'euro e dell'inflazione. Il secondo è il meccanismo in fase di costruzione (la European financial stability facility)», uno strumento di stabilizzazione finanziaria che potrà andare sui mercati per finanziarsi. Si sta costituendo in questi giorni, partecipata da tutti gli stati, ha sede in Lusseburgo e una struttura di 12 persone guidate dall'ex direttore generale della Dg Ecofin Klaus Reigling. La struttura tecnica è stata affidata alla Bei e all'agenzia nazionale tedesca del debito. Questi due primi due pilastri rappresentano «la difesa contro il nemico esterno, la speculazione». Il terzo pilastro è la «revisione del patto di stabilità e di crescita che deve essere più intelligente, più forte». Il quarto è una «nuova ideologia di austerity e di rigore», la maggiore sorveglianza, le sanzioni più aspre: questi ultimi due sono «la disciplina che l'Europa si dà al suo interno». Un'analisi semplice di passaggi decisivi a cui Tremonti ha contribuito in prima linea, come per esempio quando si è trattato di definie il meccanismo di intervento nelle crisi messo a punto il nove maggio scorso. Una visione che oggi serve al ministro quando, in parlamento, deve tenere invariati i saldi della manovra chiesta e approvata dall'Europa. Quindi, quasi per sillogismo, immodificabile nella sostanza.

Continua il trend negativo per l'auto (15 luglio 2010).
Giugno negativo per le immatricolazioni di nuove auto in Europa (paesi Ue27 + Efta), calate del 6,2% a 1.383.445 unità rispetto allo stesso mese del 2009, mentre il parziale dei primi sei mesi del 2010 é ancora in rialzo dello 0,6% a 7.495.520 unità rispetto allo scorso anno. Secondo i dati Acea, nella sola area Ue27, invece, le vendite sono diminuite in giugno del 6,9% a 1.341.092 unità, mentre nei primi sei mesi del 2010 rimangono positive dello 0,2% a 7.285.487 unità. Vendite in calo in Germania (-32,3%), Italia (-19,1%) e Francia (-1,3%). Positivi invece i mercati di Spagna (+25,6%) e Regno Unito (+10,8%). Il maggior calo é stato segnato in Slovacchia (-40,6%), mentre il maggior incremento in Irlanda (+75,8%). Il gruppo Fiat ha registrato nell'Europa a 27 un calo delle vendite del 20,8% 98.687 unità. Si riduce anche la quota di mercato che passa dall'8,7 al 7,4%, un dato che colloca la casa torinese al sesto posto tra i costruttori. Nei primi sei mesi le vendite sono scese del 10% a 598.382 unità, mentre la quota di mercato è diminuita dal 9,1 all'8,2 per cento. Nel confronto con i risultati dell'anno scorso va considerato che allora, grazie agli eco-incentivi, Fiat Group Automobiles aveva ottenuto volumi e quote record. Anche in giugno, come già a maggio, il calo delle vendite del Gruppo in Europa è causato principalmente dalle minori immatricolazioni in Italia, dove il mercato globale ha registrato una contrazione del 19,1%, e in Germania, dove le immatricolazioni complessive sono scese del 32,3 per cento. Passando in rassegna le altre maggiori case automobilistiche, in giugno sono calate dell'8,1% le immatricolazioni di Volkswagen, del 5,0% quelle di Peugeot, del 14,8% quelle del gruppo Ford, del 12,4% le immatricolazioni di Toyota, mentre c'é stato un saldo positivo invece per il gruppo Renault (+3,8%), per Bmw (+7,1%) e Nissan (+27,1%). La miglior performance mensile appartiene al gruppo Jaguar Land Rover con un +29 per cento.

Relazione dell'Autorità per l'elettricità e il gas (16 luglio 2010).
I prezzi all'ingrosso del gas in Italia sono più alti del 10% rispetto agli altri mercati europei per la "scarsa concorrenzialità del mercato nazionale, con un operatore dominante in tutte le fasi della filiera". Lo ha sottolineato il presidente dell'Autorità per l'Energia Elettrica ed il Gas, Alessandro Ortis, nella sua relazione annuale al Parlamento. Per i prezzi all'ingrosso del gas, ha ricordato, "non esistono ancora riferimenti trasparenti, in assenza di veri e regolati mercati italiani spot o a termine. Tuttavia, sulla base di informazioni ben note, il gas in Italia è più caro mediamente di 3-4 centesimi di euro/metro cubo, ovvero di oltre il 10% rispetto ai mercati all'ingrosso europei". Secondo Ortis "per tale differenza non sussiste una valida motivazione tecnica, salvo quella legata alla già lamentata scarsa concorrenzialità del mercato nazionale, con un operatore dominante in tutte le fasi della filiera". Infatti "nonostante il rapido avvio del processo di liberalizzazione, la situazione reale dei mercati resta insoddisfacente. Negli ultimi anni, la disponibilità di nuova capacità per importazione e diversificazione è rappresentata solo dal nuovo rigassificatore di Rovigo e dai potenziamenti di gasdotti esistenti, imposti da autorità nazionali ed europee". "Il 92% della capacità infrastrutturale per le importazioni - ha rilevato Ortis - resta in mano al Gruppo Eni che, con le vendite oltre frontiera destinate all'Italia, si attesta ancora sul 65% circa delle immissioni". Per leggere la relazione clicca QUI. IMPRESA OGGI vuol far notare che nel settore elettrico lo scorporo della rete (Terna) dall'Enel ha portato due vantaggi: una maggiore concorrenzialità che ha permesso di abbassare le tarife e una maggiore dinamicità da parte di Terna che ha esteso la propria operatività al di fuiori dei confini italiani. Inoltre, lo scorporo della rete del gas va vista anche nell'ottica della costituzione, in un prossimo futuro, di una rete europea che porterebbe a due vantaggi: aumentare la concorrenzialità e ridurre la dipendenza dall'aleatorietà delle forniture da altri paesi allargando considerevolmente le fonti di approvvigionamento.

Il secondo decreto sul federalismo fiscale (23 luglio 2010).
È arrivato il primo via libera del Consiglio dei ministri al decreto attuativo del federalismo fiscale sui fabbisogni standard di Comuni e Province. Il testo ora passerà all'esame della Conferenza Stato-Regioni e della commissione bicamerale per il federalismo fiscale per poi tornare dopo l'estate in Cdm per il via libera definitivo. Si tratta del secondo decreto legislativo della delega sul federalismo fiscale. Il testo prevede il blocco ai fondi per i comuni e per le province che non collaborano all'attuazione del federalismo. La Sose (Società per gli studi di settore), infatti, potrà chiedere ai comuni e alle province di fornire, entro 60 giorni, tutti i dati necessari alla definizione dei fabbisogni standard. Chi non dovesse collaborare sarà «sanzionato con il blocco, sino all'adempimento dell'obbligo, dei trasferimenti a qualunque titolo erogati». Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha rassicurato sui tempi del decreto per l'autonomia fiscale degli enti locali che oggi hanno bocciato all'unanimità i tagli alla manovra: arriverà entro fine mese «nel rispetto dell'accordo firmato con i Comuni». Dunque non ci saranno slittamenti oltre la data prevista del 31 luglio. Anche se «non è facile» e sarà «da scrivere molto meglio». Il ministro ha anche annunciato che si sta studiando «la cedolare secca sugli affitti, pensiamo di dare un grande recupero di gettito ai comuni». Per il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli in questo modo i trasferimenti dello Stato agli enti locali non avverranno più con il criterio della spesa storica. «Oggi si mette la parola fine al criterio della spesa storica. Si interrompe quel vizio del nostro Paese che aveva trasferito risorse non in base alle effettive esigenze ma sulla base della spesa storica, così chi più spendeva, e male, più riceveva. Questo ha determinato sperequazione nei trasferimenti che non ha una logica se non le motivazioni politiche dei vari governi». Il problema, assicura Calderoli, «è stato affrontato in maniera molto seria: i fabbisogni standard sono costruiti interloquendo con Comuni e Province, e con la Sose spa per ricavare effettivamente gli indicatori di riferimento per la valutazione dell'azione pubblica». Un terzo delle funzioni con le relative risorse verranno trasferite nel 2011, un terzo nel 2012, e nel 2013 si completa l'operazione: «L'andata a regime avverrà entro tre anni». Intanto sul federalismo il presidente della conferenza delle regioni, Vasco Errani, è tornato a chiedere un percorso organico che coinvolga le autonomie. «Vogliamo aprire subito un confronto sul federalismo fiscale, vogliamo accelerare ma in un percorso trasparente con una discussione preventiva sui decreti attuativi». Le regioni chiedono di «partecipare alla discussione» anche di questo provvedimento che riguarda comuni e province «convinti che sia importante, ma deve entrare in modo coordinato nell'impianto generale». Per il governatore dell'Emilia Romagna, «la legge 42 prevede che la perequazione deve essere fatta dalle regioni che é fondamentale perché l'impianto sia sostenibile». Altrimenti, avverte, «il federalismo rischia di non reggere e non si possono fare errori su una partita così decisiva». Le Regioni, ha detto il ministro dell'Economia, «scenderanno dai grattacieli e torneranno al tavolo». Per Tremonti «l'atteggiamento allegro e sereno del presidente Errani dimostra che la realtà è un po' diversa da quella che si è voluta forzare. Noi con la municipale - ha aggiunto riferendosi alla futura imposta unica - stiamo con i campanili. Le Regioni sono un po' più lontane, scenderanno dai grattacieli e torneranno al tavolo». Per completezza riporto anche il primo decreto sul federalismo fiscale (riportato integralmente nel precedente articolo). Il Governo raggiunge un'altra tappa verso il federalismo: il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 20 maggio 2010, ha approvato (su proposta dei Ministri Tremonti, Bossi, Calderoli, Fitto e Ronchi) il primo decreto attuativo in materia in attuazione dell’articolo 19 della legge n. 42 del 2009. Si tratta del primo decreto legislativo di attuazione della legge sul federalismo fiscale. Il testo approvato recepisce i pareri espressi dalla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale e dalle Commissioni Bilancio di Camera e Senato. Il decreto del Governo, in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, individua e attribuisce, a titolo non oneroso, a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni parte del demanio pubblico. Lo Stato individua i beni da attribuire, secondo criteri di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con competenze e funzioni, nonché valorizzazione ambientale. Il decreto stabilisce inoltre che gli enti locali in stato di dissesto finanziario, non possono alienare i beni ad essi attribuiti, fino a quando perdura lo stato di dissesto. L’ente territoriale, a seguito del trasferimento, dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata, promuovendo la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale rappresentata. Ciascun ente dovrà garantire trasparenza informativa alla collettività circa il processo di valorizzazione e potrà indire forme di consultazione popolare, anche in forma telematica, in base alle norme dei rispettivi Statuti. I beni oggetto di attribuzione Le maggiori risorse derivanti a regioni ed enti locali dall'alienazione dei beni saranno destinate, per il 75%, alla riduzione del debito dell'ente, e per la parte residua alla riduzione del debito statale. Oggetto dell’attribuzione a Regioni ed Enti locali sono i beni del demanio marittimo, idrico, gli aeroporti di interesse regionale o locale, le miniere e gli altri beni immobili dello Stato e i beni mobili ad essi collegati. Sono comunque esclusi dall’attribuzione: i fiumi e i laghi di ambito sovraregionale, salvo per questi ultimi che vi sia intesa tra le Regioni interessate; i beni della Difesa e i beni culturali, nei termini già previsti dalla normativa vigente; la dotazione della Presidenza della Repubblica e i beni degli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale; gli immobili per uso istituzionale dello Stato, i porti e gli aeroporti di rilevanza economica nazionale ed internazionale, le reti di interesse statale, le strade ferrate dello Stato, i parchi nazionali e le riserve naturali statali. Sono attribuiti alle Regioni i beni del demanio marittimo e del demanio idrico, con la sola eccezione dei laghi chiusi che sono attribuiti alle Province, così come le miniere. Alle Province sarà inoltre garantita una quota dei canoni del demanio idrico trasferito alle Regioni. Gli enti territoriali, al fine di assicurare la migliore utilizzazione dei beni pubblici per lo svolgimento delle funzioni pubbliche primarie attribuite, possono procedere a consultazioni tra di loro e con le amministrazioni periferiche dello Stato, anche all’uopo convocando apposite conferenze di servizi coordinate dal Presidente della Giunta regionale o da un suo delegato. Le risultanze delle consultazioni sono trasmesse al Ministero dell’economia e delle finanze ai fini della migliore elaborazione delle successive proposte di sua competenza e possono essere richiamate a sostegno delle richieste avanzate da ciascun ente.

Il terzo decreto sul federalismo fiscale (23 luglio 2010).
Il PdR Visto l'articolo 87, quinto comma, della Costituzione; Visto l'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400; Visto l’articolo 23-bis e, in particolare, i commi 4-bis e 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni; Visto l’articolo 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 17 dicembre 2009; Acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, espresso nella seduta del 29 aprile 2010; Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso nell’adunanza della Sezione consultiva per gli atti normativi del 24 maggio 2010; Acquisito il parere della Commissione Affari costituzionali della Camera dei Deputati in data 14 luglio 2010 e della Prima Commissione del Senato della Repubblica in data 20 luglio 2010; Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 22 luglio 2010 Sulla proposta del Ministro per i rapporti con le regioni e per la coesione territoriale; Emana il seguente regolamento ART. 1 (Ambito di applicazione) 1. Il presente regolamento, in attuazione dell’articolo 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, di seguito denominato “articolo 23-bis”, si applica ai servizi pubblici locali di rilevanza economica, di seguito denominati “servizi pubblici locali”. 2. Con riguardo alla gestione del servizio idrico integrato restano ferme l’autonomia gestionale del soggetto gestore, la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo delle risorse stesse, ai sensi dell’articolo 15, comma 1-ter, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166. 3. Sono esclusi dall’applicazione del presente regolamento: a) il servizio di distribuzione di gas naturale, di cui al decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164; b) il servizio di distribuzione di energia elettrica, di cui al decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e alla legge 23 agosto 2004, n. 239; c) il servizio di trasporto ferroviario regionale, di cui al decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422; d) la gestione delle farmacie comunali, di cui alla legge 2 aprile 1968, n. 475; e) i servizi strumentali all’attività o al funzionamento degli enti affidanti di cui all’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e successive modificazioni. ART. 2 (Misure in tema di liberalizzazione) 1. Gli enti locali verificano la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando l’attribuzione di diritti di esclusiva, ove non diversamente previsto dalla legge, ai casi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale ed efficienza, a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità, e liberalizzando in tutti gli altri casi le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità ed accessibilità del servizio. 2. All’esito della verifica l’ente adotta una delibera quadro che illustra l’istruttoria compiuta ed evidenzia, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio. 3. Alla delibera di cui al comma precedente è data adeguata pubblicità; essa è inviata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini della relazione al Parlamento di cui alla legge 10 ottobre 1990, n. 287. 4. La verifica di cui al comma 1 è effettuata entro dodici mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento e poi periodicamente secondo i rispettivi ordinamenti degli enti locali; essa è comunque effettuata prima di procedere al conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi. 5. Gli enti locali, per assicurare agli utenti l’erogazione di servizi pubblici che abbiano ad oggetto la produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, definiscono, ove necessario, gli obblighi di servizio pubblico, prevedendo le eventuali compensazioni economiche alle aziende esercenti i servizi stessi, tenendo conto dei proventi derivanti dalle tariffe e nei limiti della disponibilità di bilancio destinata allo scopo. 6. All’attribuzione di diritti di esclusiva ad un’impresa incaricata della gestione di servizi pubblici locali consegue l’applicazione di quanto disposto dall’articolo 9 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, e successive modificazioni. 7. I soggetti gestori di servizi pubblici locali, qualora intendano svolgere attività in mercati diversi da quelli in cui sono titolari di diritti di esclusiva, sono soggetti alla disciplina prevista dall’articolo 8, commi 2-bis e 2-quater, della legge 10 ottobre 1990, n. 287, e successive modificazioni. ART. 3 (Norme applicabili in via generale per l’affidamento) 1. Le procedure competitive ad evidenza pubblica, di cui all’articolo 23-bis, comma 2, sono indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla legge, ove esistente, dalla competente autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti affidanti. 2. Le società a capitale interamente pubblico possono partecipare alle procedure competitive ad evidenza pubblica di cui all’articolo 23-bis, comma 2, lettera a), sempre che non vi siano specifici divieti previsti dalla legge. 3. Al fine di promuovere e proteggere l’assetto concorrenziale dei mercati interessati, il bando di gara o la lettera di invito: a) esclude che la disponibilità a qualunque titolo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali non duplicabili a costi socialmente sostenibili ed essenziali per l’effettuazione del servizio possa costituire elemento discriminante per la valutazione delle offerte dei concorrenti; b) assicura che i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara siano proporzionati alle caratteristiche e al valore del servizio e che la definizione dell’oggetto della gara garantisca la più ampia partecipazione e il conseguimento di eventuali economie di scala e di gamma; c) indica, ferme restando le discipline di settore, la durata dell’affidamento commisurata alla consistenza degli investimenti in immobilizzazioni materiali previsti nei capitolati di gara a carico del soggetto gestore. In ogni caso la durata dell’affidamento non può essere superiore al periodo di ammortamento dei suddetti investimenti; d) può prevedere l’esclusione di forme di aggregazione o di collaborazione tra soggetti che possiedono singolarmente i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara, qualora, in relazione alla prestazione oggetto del servizio, l’aggregazione o la collaborazione sia idonea a produrre effetti restrittivi della concorrenza sulla base di un’oggettiva e motivata analisi che tenga conto di struttura, dimensione e numero degli operatori del mercato di riferimento; e) prevede che la valutazione delle offerte sia effettuata da una commissione nominata dall’ente affidante e composta da soggetti esperti nella specifica materia; f) indica i criteri e le modalità per l’individuazione dei beni di cui all’articolo 10, comma 1, e per la determinazione dell’eventuale importo spettante al gestore al momento della scadenza o della cessazione anticipata della gestione ai sensi dell’articolo 10, comma 2; g) prevede l’adozione di carte dei servizi al fine di garantire trasparenza informativa e qualità del servizio. 4. Fermo restando quanto previsto al comma 3, nel caso di procedure aventi ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio, il bando di gara o la lettera di invito assicura che: a) i criteri di valutazione delle offerte basati su qualità e corrispettivo del servizio prevalgano di norma su quelli riferiti al prezzo delle quote societarie; b) il socio privato selezionato svolga gli specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio per l’intera durata del servizio stesso e che, ove ciò non si verifica, si proceda a un nuovo affidamento ai sensi dell’articolo 23-bis, comma 2; c) siano previsti criteri e modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione. ART. 4 (Parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato) 1. Gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere di cui all’articolo 23-bis, comma 4, se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento supera la somma complessiva di 200.000,00 euro annui. 2. Nella richiesta del parere di cui al comma 1, esclusivamente per i servizi relativi al settore idrico, l’ente affidante può rappresentare specifiche condizioni di efficienza che rendono la gestione “in house” non distorsiva della concorrenza, ossia comparativamente non svantaggiosa per i cittadini rispetto a una modalità alternativa di gestione dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento: a) alla chiusura dei bilanci in utile, escludendosi a tal fine qualsiasi trasferimento non riferito a spese per investimenti da parte dell’ente affidante o altro ente pubblico; b) al reinvestimento nel servizio almeno dell’80 per cento degli utili per l’intera durata dell’affidamento; c) all’applicazione di una tariffa media inferiore alla media di settore; d) al raggiungimento di costi operativi medi annui con un’incidenza sulla tariffa che si mantenga al di sotto della media di settore. 3. Nel rendere il parere di cui al comma 1 si tiene espressamente conto delle condizioni rappresentate ai sensi del comma 2 e dichiarate dall’ente affidante sotto la personale responsabilità del suo legale rappresentante. 4. L’effettivo rispetto delle condizioni di cui al comma 2 è verificato annualmente dall’ente affidante, che invia gli esiti di tale verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. In caso negativo, anche su segnalazione della medesima Autorità, l’ente procede alla revoca dell’affidamento e al conferimento della gestione del servizio ai sensi dell’articolo 23-bis, comma 2. ART. 5 (Patto di stabilità interno) 1. Al patto di stabilità interno sono assogettati gli affidatari “in house” di servizi pubblici locali ai sensi dell’articolo 23-bis, commi 3 e 4. 2. Gli enti locali vigilano sull’osservanza, da parte dei soggetti indicati al comma 1 al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno. 3. Le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al patto di stabilità interno dei soggetti di cui al comma 1 sono definite in sede di attuazione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, lett. h), della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di bilancio consolidato. ART. 6 (Acquisto di beni e servizi da parte delle società “in house” e delle società miste) 1. Le società “in house” e le società a partecipazione mista pubblica e privata, affidatarie di servizi pubblici locali, applicano, per l’acquisto di beni e servizi, le disposizioni di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni. 2. L’articolo 32, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni, limitatamente alla gestione del servizio per il quale le società di cui al comma 1, lettera c), del medesimo articolo sono state specificamente costituite, si applica se la scelta del socio privato è avvenuta secondo quanto previsto dall’articolo 23-bis, comma 2, lettera b). Restano ferme le altre condizioni stabilite dall’articolo 32, comma 3, numeri 2) e 3), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni. ART. 7 (Assunzione di personale da parte delle società “in house” e delle società miste) 1. Le società a partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Il presente articolo non si applica alle società quotate in mercati regolamentati. ART. 8 (Distinzione tra funzioni di regolazione e funzioni di gestione) 1. Gli amministratori, i dirigenti e i responsabili degli uffici o dei servizi dell’ente locale, nonché degli altri organismi che espletano funzioni di stazione appaltante, di regolazione, di indirizzo e di controllo di servizi pubblici locali, non possono svolgere incarichi inerenti la gestione dei servizi affidati da parte dei medesimi soggetti. Il divieto si applica anche nel caso in cui le dette funzioni sono state svolte nei tre anni precedenti il conferimento dell’incarico inerente la gestione dei servizi pubblici locali. Alle società quotate nei mercati regolamentati si applica la disciplina definita dagli organismi di controllo competenti. 2. Il divieto di cui al comma 1 opera anche nei confronti del coniuge, dei parenti e degli affini entro il quarto grado dei soggetti indicati allo stesso comma, nonché nei confronti di coloro che prestano, o hanno prestato nel triennio precedente, a qualsiasi titolo attività di consulenza o collaborazione in favore degli enti locali o dei soggetti che hanno affidato la gestione del servizio pubblico locale. 3. Non possono essere nominati amministratori di società partecipate da enti locali coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società. 4. I componenti della commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente alla gestione del servizio di cui si tratta. 5. Coloro che hanno rivestito, nel biennio precedente, la carica di amministratore locale, di cui al comma 3, non possono essere nominati componenti della commissione di gara relativamente a servizi pubblici locali da affidare da parte del medesimo ente locale. 6. Sono esclusi da successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità di componenti di commissioni di gara, abbiano concorso, con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con sentenza non sospesa, all’approvazione di atti dichiarati illegittimi. 7. Si applicano ai componenti delle commissioni di gara le cause di astensione previste dall’articolo 51 del codice di procedura civile. 8. Nell’ipotesi in cui alla gara concorre una società partecipata dall’ente locale che la indice, i componenti della commissione di gara non possono essere né dipendenti né amministratori dell’ente locale stesso. 9. Le incompatibilità e i divieti di cui ai commi precedenti si applicano alle nomine e agli incarichi da conferire successivamente alla data di entrata in vigore del presente regolamento. 10. In caso di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali ai sensi dell’articolo 23-bis, comma 3, e in tutti i casi in cui il capitale sociale del soggetto gestore è partecipato dall’ente locale affidante, la verifica del rispetto del contratto di servizio nonché ogni eventuale aggiornamento e modifica dello stesso sono sottoposti, secondo modalità definite dallo statuto dell’ente locale, alla vigilanza dell’organo di revisione di cui agli articoli 234 e seguenti del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni. Restano ferme le disposizioni contenute nelle discipline di settore vigenti alla data di entrata in vigore del presente regolamento. ART. 9 (Principio di reciprocità) 1. Le imprese estere, non appartenenti a Stati membri dell’Unione europea, possono essere ammesse alle procedure competitive ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici locali a condizione che documentino la possibilità per le imprese italiane di partecipare alle gare indette negli Stati di provenienza per l’affidamento di omologhi servizi. ART. 10 (Cessione dei beni in caso di subentro) 1. Alla scadenza della gestione del servizio pubblico locale o in caso di sua cessazione anticipata, il precedente gestore cede al gestore subentrante i beni strumentali e le loro pertinenze necessari, in quanto non duplicabili a costi socialmente sostenibili, per la prosecuzione del servizio, come individuati, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, lettera f), dall’ente affidante, a titolo gratuito e liberi da pesi e gravami. 2. Se, al momento della cessazione della gestione, i beni di cui al comma 1 non sono stati interamente ammortizzati, il gestore subentrante corrisponde al precedente gestore un importo pari al valore contabile originario non ancora ammortizzato, al netto di eventuali contributi pubblici direttamente riferibili ai beni stessi. Restano ferme le disposizioni contenute nelle discipline di settore, anche regionali, vigenti alla data di entrata in vigore del presente regolamento, nonché restano salvi eventuali diversi accordi tra le parti stipulati prima dell’entrata in vigore del presente regolamento. 3. L’importo di cui al comma 2 è indicato nel bando o nella lettera di invito relativi alla gara indetta per il successivo affidamento del servizio pubblico locale a seguito della scadenza o della cessazione anticipata della gestione. ART. 11 (Tutela non giurisdizionale) 1. I contratti di servizio e, se emanate, le carte dei servizi concernenti la gestione di servizi pubblici locali prevedono la possibilità, per l’utente o per la categoria di utenti che lamenti la violazione di un diritto o di un interesse giuridico rilevante, di promuovere la risoluzione non giurisdizionale delle controversie, che avviene entro trenta giorni successivi al ricevimento della richiesta. 2. La procedura conciliativa prevista al comma 1 è avviata secondo lo schema-tipo di formulario di cui all’allegato A del presente regolamento. 3. Restano ferme le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 461, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, nonché quelle contenute nelle discipline di settore vigenti alla data di entrata in vigore del presente regolamento. ART. 12 (Abrogazioni e disposizioni finali) 1. A decorrere dall’entrata in vigore del presente regolamento sono o restano abrogate le seguenti disposizioni: a) articolo 113, commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9, escluso il primo periodo, 11, 14, 15-bis, 15-ter e 15-quater, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni; b) articolo 150, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, ad eccezione della parte in cui individua la competenza dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione; c) articolo 202, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, ad eccezione della parte in cui individua la competenza dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione. 2. Le leggi, i regolamenti, i decreti, o altri provvedimenti, che fanno riferimento al comma 7 e 11 dell’articolo 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, abrogato dal comma 1, lettera a), si intendono riferiti, rispettivamente, al comma 1 e 5 dell’articolo 3 del presente regolamento. 3. All’articolo 18, comma 3-bis, secondo periodo, del decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, e successive modificazioni, la parola “esclusivamente” è soppressa. 4. Per il trasporto pubblico locale il presente regolamento si applica in quanto compatibile con le disposizioni del regolamento (CE) 23 ottobre 2007, n. 1370/2007. 5. Le disposizioni del presente regolamento si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in quanto compatibili con gli statuti speciali e le relative norme di attuazione. 6. Al fine di assicurare il monitoraggio delle modalità attuative del presente regolamento il Ministro per i rapporti con le regioni e per la coesione territoriale promuove la stipula di un apposito protocollo d’intesa. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

La Fiat produrrà anche in Serbia (23 luglio 2010).
Fiat alza la posta nella discussione sul piano Fabbrica Italia: l'amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato ieri nella conference call con gli analisti finanziari che l'impresa ha deciso di produrre in Serbia una delle vetture che nel piano industriale presentato lo scorso 21 aprile era destinata a Mirafiori; si tratta della Monovolume finora indicata come L0 (L Zero anche se LO è la piattaforma sulla quale possono essere prodotte più auto), ovvero la vettura che dalla fine dell'anno prossimo dovrebbe sostituire la Lancia Musa e le Fiat Idea e Multipla. La decisione, presa nei giorni scorsi dal Group Executive Council, comporterà naturalmente un vuoto a Mirafiori nel momento in cui gli attuali modelli usciranno di produzione. Non solo: Marchionne ha detto agli analisti che «non sarebbe saggio» confermare nuovi investimenti in Italia «data l'incertezza» sull'accordo per aumentare la produttività a Pomigliano. «Fiat non può assumere rischi non necessari in merito ai suoi progetti: dobbiamo essere in grado di produrre macchine senza incorrere in interruzioni dell'attività» ha spiegato il manager. Non si può produrre con il 90% dei dipendenti, è il suo ragionamento: ci vuole un'adesione totale al progetto, come quella – che cita spesso ad esempio – dei dipendenti Chrysler. L'amministratore delegato del Lingotto ha ribadito peraltro che a Pomigliano la Fiat «ha intenzione di portare avanti l'investimento (da 700 milioni), lavorando insieme alla maggioranza dei sindacati che lo ha approvato». L'arrivo della Panda da fine 2011 è dunque confermato. Ma di fronte alla possibilità di una conflittualità che metta a rischio la produzione di un modello così importante, il manager tiene comunque aperta la strada del ritiro - anche a costo di perdere parte dei fondi investiti; troppo importante la partita della competitività degli impianti italiani. «Dobbiamo convincere i sindacati sull'assoluta necessità di modernizzare i rapporti industriali in Italia». La decisione di ieri è destinata ad acuire lo scontro sindacale. Giorgio Airaudo, segretario della Fiom a Torino, ha detto che «se venisse confermata la volontà di portare il nuovo modello in Serbia si aprirebbero problemi a Mirafiori, smentendo gli impegni che la Fiat aveva illustrato il 21 aprile ai sindacati. Non vogliamo pensare che la Fiat – ha proseguito Airaudo – si relazioni con i lavoratori e i sindacati italiani contrapponendo sempre le produzioni tra un sito estero e un sito italiano». Il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha avvertito che «se la Fiat farà davvero quello che ha prospettato oggi, verrebbe meno uno dei punti chiave della produzione a Mirafiori». «Non vorrei che fosse Mirafiori, che più di ogni altro ha creduto nella possibilità di un rilancio – ha aggiunto il sindaco – a pagare i costi della vicenda Pomigliano». L'operazione serba risolve in realtà un altro problema a Fiat: fa avanzare il progetto di joint venture con la Zastava, che dopo la firma dell'accordo di 2 anni fa era ancora in attesa di un modello forte da produrre; né il progetto della piccola Topolino né quello di una low cost da esportare hanno infatti finora avuto via libera. L'investimento in Serbia vale quasi un miliardo di euro per arrivare a una capacità produttiva di 190mila vetture annue; la produzione della nuova monovolume dovrebbe iniziare tra la fine del 2011 e i primi mesi del 2012. La somma di 1 miliardo di euro verrà coperta per 250 milioni dal governo di Belgrado; 400 verranno da un prestito dalla Bei e il resto dall'impresa torinese; quest'ultima dovrebbe spendere dunque una somma comparabile con quanto avrebbe investito per produrre la Monovolume a Mirafiori; nel 2008 si era parlato per Zastava di un investimento di 700 milioni, di cui 200 contribuiti da Belgrado. I SITI PRODUTTIVI DELLA FIAT ALL'ESTERO - SERBIA Fiat ha rilevato gli stabilimenti della Zastava a Kragujevac e avviato l'opera di ristrutturazione e ampliamento della fabbrica. Sergio Marchionne ha annunciato ieri agli analisti che intende spostare qui la produzione della prossima monovolume. POLONIA L'impianto della Fiat in Polonia conta attualmente circa 6.500 dipendenti. nello stabilimento polacco si producono attualmente la Panda, la Fiat 500, la Fiat 500 Abarth e la Ford Ka. Tychy vanta una capacità di circa 450 mila vetture l'anno. TURCHIA La città di Bursa, in Turchia, è centrale nel paese per l'industria automobilistica: Renault-Oyak, Peugeot-Karsan e Tofas (joint venture tra Fiat e il gruppo finanziario turco Koç) hanno siti produttivi nei dintorni della città.

Nasce Fabbrica Italia Pomigliano (27 luglio 2010).
Nasce Fabbrica Italia Pomigliano. La società, iscritta al registro delle Imprese della Camera di Commercio di Torino è controllata al 100% da Fiat Partecipazioni ed ha sede legale a Torino. Il presidente è l'ad del Lingotto, Sergio Marchionne, affiancato in consiglio da Gianni Baldi (capo auditing del gruppo), Camillo Rossotto (tesoriere) e Roberto Russo (general counsel). L'oggetto sociale della Newco, che ha un capitale sociale di 50mila euro, è «l'attività di produzione, assemblaggio e vendita di autoveicoli e loro parti. A tal fine può costruire, acquistare, vendere, prendere e dare in affitto o in locazione finanziaria, trasformare e gestire stabilimenti, immobili e imprese». La società può compiere inoltre «le operazioni commerciali, industriali, immobiliari e finanziarie, queste ultime non nei confronti del pubblico, necessarie o utili per il conseguimento dell'oggetto sociale, ivi comprese l'assunzione e la dismissione di partecipazioni ed interessenze in enti o società, anche intervenendo alla loro costituzione». La nascita di Fabbrica Italia Pomigliano è un passo preliminare per la costituzione di una nuova società, una new company in cui riassumere, con un nuovo contratto, i 5.000 lavoratori attuali della fabbrica campana. Si tratta del progetto Futura Panda a Pomigliano, per il quale la Fiat ha raggiunto un accordo con i sindacati il 15 giugno, non firmato dalla Fiom. La Fiat, intanto, sarebbe pronta ad uscire da Federmeccanica e disdire il contratto di lavoro nazionale che regola il rapporto con i dipendenti del gruppo. L'annuncio, secondo quanto riportato da organi di stampa, potrebbe essere dato giovedì all'Unione industriale di Torino, dove la Fiat ha convocacato i sindacati delle imprese metalmeccaniche. La disdetta interesserebbe 25.000 dipendenti - i lavoratori degli stabilimenti di Mirafiori, Cassino, Pomigliano e Termini Imerese e degli impiegati degli enti centrali - e diventerebbe operativa il 31 dicembre 2012, quando scadrà l'attuale contratto di lavoro e quindi la Fiat uscirebbe dalla Federmeccanica il primo gennaio 2013. Non si placano, nel frattempo, le polemiche sulla delocalizzazione in Serbia di una parte della produzione Fiat. Spostare degli stabilimenti per ragioni di profitto non è «eticamente» giusta e a nessuno è «consentito sfruttare il lavoro umano»: è quanto afferma, ai microfoni della Radio Vaticana, monsignor Beniamino De Palma, vescovo di Nola, diocesi in cui si trova anche lo stabilimento di Pomigliano d'Arco. «In questi giorni - ha spiegato il presule - siamo tornati alla paura di prima. Nel senso che le notizie che ci arrivano mettono in crisi, mettono in ansia tutto il mondo del Pomiglianese e del Nolano». «Per quanto riguarda l'ipotesi di spostare una parte della Fiat in Serbia unicamente per i profitti, non so se questo sia eticamente giusto» ha osservato il vescovo. «L'Italia - ha aggiunto - non può perdere il lavoro. Il diritto al lavoro viene prima e soprattutto prima del profitto, che non è l'unico valore». A proposito dei costi più bassi in Serbia (400 euro) rispetto a quelli italiani (1.300 euro), monsignor De Palma ha ammonito come a nessuno sia «lecito sfruttare il lavoro umano, a nessuno e per nessun motivo». «Con il lavoro - ha proseguito - non si scherza» e la Fiat deve «rispettare quelle che sono le esigenze umane del mondo del lavoro».

La Fiat allo scontro con la Fiom (28 luglio 2010).
Di che cosa si parlerà tra Fiat e sindacati? La convocazione del ministro del Lavoro parla di verifica del piano Fabbrica Italia, quello lanciato da John Elkann e Sergio Marchionne il 21 aprile, che prevede, all'interno del piano generale dei 6 milioni di vetture tra Fiat e Chrysler, di farne in Italia 1,4 milioni, di cui due terzi da esportare. Dopo il referendum di Pomigliano, governo e sindacati hanno continuato a ripetere che quella era una grande vittoria, e a sollecitare Fiat ad andare avanti, incominciando a spendere i 700 milioni promessi. Il gioco non è riuscito, ma probabilmente Marchionne confermerà che lui quelle vetture vuole proprio farle in Italia. C'è da credergli, perché questo non è dovuto alla sua benevolenza, ma al suo interesse.E', infatti, interesse della Fiat mantenere un'importante presenza manifatturiera in Italia perché in nessun paese del mondo una fabbrica di auto ha un terzo del mercato senza avervi una forte presenza industriale. Perché ce ne corre tra il non ricevere aiuti di stato (che l'Italia non potrebbe dare e che i concorrenti farebbero sanzionare da Bruxelles) ed essere un'impresa apolide. Perché nessuna impresa che si ritrova con due passaporti ne butta via uno. Fiat con il piano Fabbrica Italia dice le quantità che intende produrre in Italia; con l'accordo di Pomigliano dice le condizioni - garanzia dei costi e rispetto delle consegne - che ritiene indispensabili per venderle. Una nuova organizzazione del lavoro che è ormai standard mondiale, retribuita secondo lo standard nazionale, negoziata in un serrato confronto con i sindacati, e approvata da tutti tranne dalla Fiom-Cgil. Quindi, nell'incontro odierno, c'è un problema solo di cui parlare. Oggi, un dipendente di Pomigliano, anche iscritto a uno dei sindacati che hanno firmato l'accordo, potrà aderire allo sciopero degli straordinari già dichiarato dai Cobas da qui al 2014, senza nessuna delle sanzioni previste dall'accordo. A legislazione vigente, un accordo anche se firmato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei dipendenti, oppure ratificato dalla maggioranza dei partecipanti a un referendum aziendale, è zoppo dal punto di vista dell'efficacia nei confronti di tutti i dipendenti. Altro che fare domande: è la risposta che manca alla richiesta di garanzie che l'accordo firmato con i sindacati sia rispettato da tutti in fabbrica. Scartata l'ipotesi di provare a convivere con una microconflittualità strisciante, Fiat ha elaborato una sua soluzione: conferire Pomigliano a una nuova società che assumerà tutti i dipendenti attuali, ma che non aderirà a Federmeccanica, e a cui quindi non si applica il contratto nazionale che questa ha firmato. Cisl e Uil, quando dicono sì alla NewCo, ma no alla disapplicazione del contratto, dicono una cosa contraddittoria: la sola ragion d'essere della NewCo è di evitare il contratto nazionale. Sarà così risolto il problema giuridico dell'incerta efficacia, nella nuova impresa, delle deroghe al contratto nazionale, non più applicabile; ma si apriranno problemi pratici non meno gravi. In base al referendum del 1995 hanno diritto a costituire rappresentanze sindacali soltanto i sindacati che abbiano firmato un contratto collettivo di qualsiasi livello applicato nell'impresa. La Fiom, che non ha firmato l'accordo per Pomigliano, naturalmente non lo firmerà neppure con la nuova società. Quindi i suoi tesserati saranno assunti, ma il sindacato da cui vogliono essere rappresentati resterà fuori dallo stabilimento e dal suo nuovo sistema di relazioni industriali. Dato che nulla impedisce di replicare questo modello in tutte le fabbriche Fiat in Italia, e in tutte le imprese italiane che abbiano interesse a farlo, nulla impedirà, sul piano giuridico, che il maggior sindacato italiano venga di fatto estromesso dalle imprese. La prima conseguenza sarà di buttare Epifani nelle braccia di Cremaschi. Ma poi? Non si vede il rischio che, con l'intento di rendere una fabbrica più governabile, si peggiori fino all'ingovernabilità l'intero sistema delle relazioni industriali in Italia? Il governo ha una posizione incerta. Sul piano NewCo, sembra considerarlo un affare della Fiat, senza quindi né sostenerlo né sconfessarlo. Come se le responsabilità per quello che può succedere non fossero in primo luogo sue. Tanto più che esiste una soluzione legislativa, praticabile probabilmente senza difficoltà politiche, che darebbe le stesse garanzie sull'applicazione del contratto, comprese le clausole sanzionatore applicabili alla totalità dei dipendenti, senza mettere la Fiom fuori dalla porta. Anche questo è stato detto più volte: basterebbe approvare una legge che riconosca la possibilità per il contratto aziendale di derogare dal contratto nazionale se stipulato dalla coalizione maggioritaria o approvato a maggioranza dai lavoratori, e quindi il carattere vincolante per tutti delle clausole di tregua inserite nel contratto stesso. Certo che il first best è un accordo interconfederale che contenga queste regole; ma perché esso risolva il problema occorre che sia firmato da tutte le confederazioni maggiori. In mancanza di ciò l'intervento legislativo è necessario in via provvisoria e sussidiaria; ma è pur sempre indispensabile. Che dire di un sindacato che rifiuta la soluzione contrattuale del problema? E che dire di un legislatore che, di fronte allo stallo sindacale, scarta a priori la soluzione legislativa?

Accordo Marcegaglia Marchionne (29 luglio 2010).
La Fiat va in Serbia ma le relazioni industriali non si balcanizzano. La strategia di Sergio Marchionne per indurre i sindacati a una gestione più razionale delle regole contrattuali e più in linea con le necessità di un'impresa con lo sguardo-mondo ha avuto due risultati. Primo: ha indotto l'intera struttura associativa delle imprese, Confindustria, grazie alla mediazione di Emma Marcegaglia, a uno sforzo di leadership per cercare quegli spazi normativi adatti alle esigenze di una multinazionale vera che compete su mercati veri, alla ricerca di clienti veri. Dopo il vertice tra Marchionne e Marcegaglia in Farnesina, Fiat resterà in Confindustria e in Federmeccanica, dove è da sempre uno dei soci storici, e avrà le opportune franchigie per la Newco di Pomigliano che diventerà uno stabilimento di frontiera anche per le relazioni industriali del futuro. Secondo: ha imposto nel mercato dell'auto italiano a tutti – dai sindacati che difendono il lavoro, agli enti locali che sono interessati agli impianti sul territorio, al governo che deve pensare la politica industriale – di adattarsi alla globalizzazione. Non c'è più il dialetto semi-consociativo degli anni 70: non c'è un'impresa che scambia commesse pubbliche con la politica, peoccupata di avere consenso, non c'è più l'impresa che baratta l'attenzione al sindacato con la pace sociale. Il tutto magari pagato dall'inflazione e dalle vecchie, miracolose, svalutazioni competitive. Non c'è più quel mondo che tanti rimpiangono, magari fingendo di sognare il futuro con toni stentorei, ma in realtà con nostalgia per l'Italietta dove ci si metteva d'accordo tra pochi soci di un club decadente. Non a caso mai frequentato dai vertici attuali di Fiat e Confindustria. Ora c'è la necessità di produrre velocemente e a costo minore automobili che piacciano al pubblico. C'è la necessità di investire in ricerca, di studiare soluzioni tecnologiche che siano già ora il domani, di incrociare i gusti mutevoli di milioni di consumatori duramente colpiti dalla crisi mondiale. Si tratta di produrre su scala inimmaginabile prima, su volumi che fino a un anno fa apparivano semplicemente colossali e che ora sono semplicemente il livello di sopravvivenza. Si chiama aumentare la produttività. Non diminuire i diritti, non diminuire i costi o le retribuzioni. Nella sua disarmante semplicità, la visione del mondo alla Marchionne, in un contesto di bizantinismi negoziali e di continue contaminazioni tra mondo della politica e lobbies, è apparsa rivoluzionaria. È un bene che la spallata del manager Fiat si sia rivelata, alla fine, sollecitazione a rivitalizzare l'aria. Tanto più ora che l'architettura delle relazioni industriali in Italia è stata appena ritoccata nell'ultimo accordo interconfederale che vede ancora contraria la Cgil. Quell'accordo in realtà ha già in se stesso tutto il potenziale di flessibilità normativa di cui ha bisogno la Fiat per avere certezze dopo gli impegni presi per Pomigliano: basta applicarlo nei suoi dettagli operativi o utilizzarlo come strumento per compiere un uteriore passo verso l'adattabilità delle forme contrattuali soprattutto impresa per impresa. Quando da Confindustria è partita quella spinta, non tutti ne hanno compresa la potenzialità riformista: ora ne appaiono più chiare le ragioni. È un bene che non si siano create le condizioni di scontro nelle relazioni industriali, settore in cui l'Italia vanta comunque una tradizione che ha garantito coesione sociale anche nei momenti duri degli anni '70. Ma tutti devono comprendere come le prossime stagioni o sono di evoluzione o di arretramento.

Rapporto Mediobanca sui big dell'industria italiana (29 luglio 2010)
Per i 40 big industriali di Piazza Affari il 2009 nel complesso è stato ancora un anno no. La fotografia scattata da R e S Mediobanca vede per l'aggregato ricavi in calo del 12%, il margine operativo netto giù di oltre il 21%, l'utile netto addirittura in caduta del 43%. Per fortuna il primo trimestre di quest'anno ha segnato un'inversione di rotta, dato che il fatturato complessivo è cresciuto del 7,6%, il margine operativo netto del 19%, il risultato corrente del 26%, l'utile del 9%. Meglio il comparto pubblico del privato quanto a ricavi (+8,6% contro +6,4%) e margini industriali (+21,3% contro +14,1%), il contrario per risultato corrente (+56,8% i privati e +36,3% i pubblici) e profitti netti (+23,6% contro -1% i pubblici, principalmente per i minori proventi straordinari iscritti dall'Enel). Per l'intero 2009, a voler distinguere, si scopre che anche l'anno scorso ha confermato il miglior andamento dei gruppi pubblici. Intendiamoci, sempre di calo si tratta, ma la flessione del fatturato è stata del 10% rispetto al -14,7% dei privati, con una diminuzione dei profitti netti del 30,8% contro il -66% degli altri. Tuttavia, le vendite all'estero sono andate relativamente meglio: -9% rispetto al -18% del mercato domestico. Ma in casa hanno giocato meglio i privati che hanno visto i ricavi flettere del 9% mentre i gruppi pubblici hanno accusato una debacle del 26%. Tutti quanti però dipendono più dai mercati d'oltreconfine, dal momento che per le imprese private il fatturato estero rappresenta il 57,6% del totale, per le pubbliche il 59,6 per cento. Nel complesso i big quotati hanno ridotto l'occupazione del 2%, ma anche qui c'è da distinguere tra i gruppi pubblici che hanno aumentato dell'1,6% il numero dei dipendenti e quelli privati che li hanno ridotti del 3,8%. Non sorprende che il conto sia stato più salato per l'Italia (-3,7%) che per l'estero (-1%), ma forse non è noto che le grandi imprese della penisola hanno più personale oltrefrontiera (il 52,7% del totale) che entro i confini domestici. Gruppi come Buzzi, Pirelli e Parmalat hanno addirittura oltre l'80% degli addetti all'estero, e anche Fiat è sopra la media con il 57,7 per cento. Tagli comunque hanno riguardato anche gli investimenti, scesi del 5,4% nel 2009, salvo che i gruppi pubblici li hanno incrementati dello 0,6% a 22,7 miliardi, i privati li hanno ridotti del 15,5% a 11,2 miliardi (il Lingotto del 37%). Sul lato della struttura finanziaria i maggiori gruppi industriali di Piazza Affari hanno aumentato il debito del 9%, però hanno lavorato sulla sua composizione, spingendo sull'allungamento delle scadenze e facendo maggior ricorso al mercato. Infatti, mentre l'indebitamento a breve è cresciuto del 2,5%, quello a lungo termine ha registrato un balzo dell'11%. E, soprattutto, le obbligazioni sono aumentate del 32%, mentre le altre fonti di finanziamento, principalmente prestiti bancari, si sono ridimensionate del 7,2%. Grazie anche a questa politica la liquidità delle imprese è esplosa del 32% con 43 miliardi di mezzi a disposizione, ad appannaggio soprattutto dei gruppi privati che hanno incrementato la liquidità del 54%, mentre i pubblici la hanno ridotte del 7 per cento. Allargando l'orizzonte, rispetto a cinque anni fa – e comprendendo tutti i 51 gruppi censiti, incluse banche e assicurazioni – la crème di Piazza Affari appare piuttosto in affanno. Il risultato netto del drappello di punta del listino ha macinato nel 2009 il 52% in meno degli utili del 2005, anche se la Borsa ne ha ridimensionato le quotazioni "solo" del 29,5%. Solo 12 gruppi su 51 non sfiguarano al confronto. Ma soprattutto sono andate male le compagnie d'assicurazione, che hanno asciugato i profitti del 74%, mentre banche (-51%) e società industriali (-50%) sono andate di pari passo. In Borsa però le imprese di assicurazione hanno perso meno del credito: -26% contro -42%. Nella imprese pubbliche, escludendo l'Eni che è stata penalizzata dall'andamento del petrolio, il confronto a cinque anni avrebbe evidenziato utili in aumento del 7%: il dato complessivo è invece -27% rispetto al -79,8% dei privati. Peggio è andata per le utilities locali (-72%) rispetto ai gruppi a controllo statale (-23%). Meno utili, ma su un giro d'affari allargato: in cinque anni la crescita è stata del 23% (+41% i gruppi pubblici, +6,6% i privati). Quanto ai debiti (+46%) sono cresciuti più dei mezzi propri (+29%) e di conseguenza il rapporto debt/equity è passato da 0,94 a 1,06. L'effetto Enel-Endesa è stato sensibile sull'aggregato pubblico che ha peggiorato il rapporto da 0,56 a 0,95. Più indebitato comunque il comparto privato nonostante il rapporto debt/equity sia sceso da 1,29 a 1,21. Una "curiosità" riguarda la differente ripartizione del valore aggiunto nei diversi assetti proprietari: nel 2009 il costo del lavoro ha assorbito il 61,4% del valore aggiunto dei gruppi privati e solo il 35,8% dei pubblici. Eppure, rispetto a cinque anni fa, il costo del lavoro è aumentato più nel pubblico (+3,8%) che nel privato (+2,1%). Come si spiega? Se si guarda al valore aggiunto pro-capite, che è una misura della produttività, si vede che nel comparto pubblico è aumentato del 4,5%, in quello privato è calato del 15 per cento. Se ci si sofferma in particolare sui dati Fiat, si scopre che il costo del lavoro assorbe il 65% del valore aggiunto prodotto, sebbene lo stipendio medio al Lingotto sia appena di 36mila euro all'anno, ben sotto la media di 49mila euro dell'industria e i 54mila euro del comparto pubblico.

Il quarto decreto attuativo del federalismo fiscale (3 agosto 2010).
Approda al Consiglio dei ministri di oggi il quarto decreto attuativo del federalismo fiscale. Dalla cedolare secca al 20% sugli affitti all'introduzione dell'imposta unica municipale, il provvedimento introduce una vera e propria rivoluzione per la fiscalità degli enti locali. Lo schema di decreto attuativo, che ha ottenuto ieri sera il via libera della riunione tecnica del preconsiglio, conferma l'attuazione della fiscalità dei comuni in due fasi: la prima partirà dal prossimo 1° gennaio con la devoluzione in un fondo sperimentale di riequilibrio di una quota dei tributi applicati alla fiscalità immobiliare, cui si aggiungerà la cedolare secca sugli affitti. La seconda fase prevede l'arrivo dal 2014 dell'imposta municipale propria e la municipale secondaria facoltativa in cui verranno assorbiti una serie di tributi erariali, inclusa l'Ici e una lunga serie di balzelli propri della fiscalità locale. Non solo. Viene espressamente previsto che la nuova municipale non potrà mai essere in nessun caso applicata alle abitazioni principali. Nella messa a punto del testo che verrà sottoposto all'esame collegiale di Palazzo Chigi è stata comunque oggetto di continua riscrittura la tassazione della nuova municipale che si applicherà dal 2014 sulle compravendite. Dopo aver ipotizzato un abbattimento dal 10/11% complessivo tra registro e imposte catatstali anche fino al 7%, nella versione finale predisposta dall'Economia l'aliquota dell'imposta municipale propria applicata in via ordinaria è tornata all'iniziale del 9 per cento. In caso di trasferimenti che hanno per oggetto la prima abitazione (escluse case di lusso, ville e castelli) o beni ereditati l'aliquota complessiva del 3% viene ridotta al 2%. Ma anche in questo secondo caso non si possono escludere ulteriori ritocchi da parte di via XX settembre. L'imposta sulle compravendite in ogni caso non potrà mai essere inferiore a 1.000 euro. Novità anche sull'imposta municipale applicata al possesso dell'immobile. Nella stesura dello schema di decreto attuativo viene previsto che l'aliquota sarà determinata già entro il 30 novembre 2010 con decreto del presidente del consiglio dei ministri e non si applicherà alle abitazioni principali e alle loro pertinenze, come box, cantine e altro. La misura dell'imposta, si legge ancora nel decreto, dovrà comunque garantire la neutralità finanziaria ai fini del rispetto dei saldi di finanza pubblica. Saranno di fatto tassati tutti gli altri immobili, nonché le case di lusso come ville, castelli e palazzi di eminenti pregi artistici o storici. I comuni, inoltre, avranno la possibilità di aumentare o diminuire il prelievo di 0,3 punti percentuali (in sostanza fino al 3 per mille). Inoltre nel caso in cui l'immobile sia concesso in locazione, l'imposta municipale di possesso è ridotta della metà; mentre nel caso di contratto di locazione di immobili a uso abitativo, sul canone di locazione stabilito dalle parti continuerà a potersi applicare la cedolare secca. La riduzione della metà della municipale di possesso è prevista anche per gli immobili diversi dall'abitazione principale utilizzati per attività di impresa, arti e professioni ovvero posseduti da enti non commerciali. Su quest'ultima "rivoluzione", nella tassazione degli immobili il decreto che verrà licenziato dal Consiglio dei ministri conferma l'introduzione della cedolare al 20% sugli affitti degli immobili a uso abitativo. Altra novità riguarda l'esplicita esclusione dall'applicazione della cedolare secca alle locazioni di unità immobiliari a uso abitativo effettuate nell'esercizio di un'attività d'impresa o di arti e professioni o da enti non commerciali. Il reddito di questi contratti, si legge ancora nello schema di decreto, non potrà essere inferiore al reddito determinato con l'applicazione delle tariffe d'estimo, stabilite secondo le norme della legge catastale per ogni categoria e classe, ovvero, per i fabbricati a destinazione speciale o particolare, mediante una stima diretta. Confermata, infine, la stretta sanzionatoria, cui si aggiunge un giro di vite sotto l'aspetto più strettamente commerciale, per l'emersione degli affitti in nero o fittizzi. NOTA I valori delle varie imposte sono ancora in una fase interlocutoria. Aggiornamento del 12 agosto 2010. La cedolare funzionerà così: dal 2011, a scelta del contribuente (che potrebbe anche continuare ad applicare la vecchia Irpef) i canoni annui sono assoggettati a un'imposta del 20% sostitutiva dell'Irpef e delle relative addizionali regionali e comunali (quando previste). Assorbe anche l'imposta di registro (ma non l'adempimento della registrazione); per i contratti a libero mercato, per studenti, transitori e a canone concordato in comuni non ad alta tensione abitativa questa agevolazione scatta però solo dal 2014. Si può applicare anche sui contratti per meno di 30 giorni (quelli turistici). Il versamento della cedolare segue, quanto alle scadenze, le regole Irpef: saldo al 16 giugno, acconto in novembre. Il Dlgs enuncia poi alcune regole generali, valide anche per chi sceglie la vecchia Irpef. Gli affitti vanno comunque indicati nella dichiarazione dei redditi. La norma afferma poi che la registrazione del contratto assorbe anche l'obbligo di segnalazione alla Ps. Quanto all'applicabilità della cedolare, la norma pone limiti precisi: riguarda solo i contratti di locazione abitativa e solo se il locatore è una persona fisica. Sono quindi escluse tutte le locazioni «uso diverso» (uffici, negozi, eccetera), anche se il proprietario è una persona fisica, e tutte quelle effettuate in esercizio d'impresa, arti, professioni o da enti non commerciali (anche se abitative). La ragione di questi limiti è chiara: l'evasione sui canoni si realizza nell'abitativo, dove gli inquilini hanno meno interesse diretto alle detrazioni (o comunque non le chiedono). Ma il governo si è dimenticato un aspetto, dice Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia: «Un pensionato che possiede un'abitazione e un negozio, ambedue affittati, e finora non li dichiarava, ora dovrebbe presentare Unico per il solo magazzino e in più senza cedolare. Così, tra burocrazia e svantaggio fiscale, si rischia che tutto rimanga in nero. Occorrerebbe estendere l'agevolazione per tutti i contratti dove il proprietario sia persona fisica. E di estendere la cedolare anche alle società immobiliari che affittano abitazioni, in modo da favorire gli investimenti, creare più offerta e far abbassare i canoni». Il discorso sanzioni, sulla cedolare secca, è invece fin troppo articolato. A bocce ferme, si può dire che ne esistono molti tipi: per reddito omesso o dichiarato in misura inferiore, dal 200% al 400% dell'imposta; per ritardo nei versamenti, il 30% del dovuto; mentre l'accertamento con adesione prevede da 258 a 1.032 euro (dichiarazione omessa), dal 100% al 200% dell'imposta (omissione parziale) e 30% dell'imposta (versamento ritardato). Poi la norma stabilisce nuove sanzioni che valgono in generale per tutti i contratti, anche se assoggettati a Irpef: sulla mancata registrazione scatta la solita sanzione dal 120% al 240% dell'imposta di registro dovuta (anche se assorbita dalla cedolare viene calcolata "virtualmente" alla solita aliquota del 2 per cento). Ma il Dlgs aggiunge una sanzione speciale, che si aggiunge e non si sostituisce alle altre, valida per tutte le locazioni abitative (quindi anche se il proprietario non è persona fisica) a carico di chi non effettua la registrazione, o indica un importo minore nel contratto, o ancora fa un contratto di comodato fittizio: il canone pattuito viene ridotto al triplo della rendita catastale, cioè dal 70% al 90% in meno di quelli di mercato (è quasi impossibile che un contratto «concordato» non venga registrato). Inoltre, scatta la nullità del contratto. Ma questo è un problema: se il contratto è nullo, come far scattare la riduzione coattiva del canone? È chiaro che si tratta di un errore nella norma e che andrà tolto il riferimento all'articolo 1, comma 346, della legge 311/2004, anzi, la norma andrebbe proprio esclusa dalle tipologie previste dal Dlgs. Comunque, per chi registra il contratto entro il 31 dicembre questa sanzione della riduzione del canone non si applicherà. Si applicheranno, invece, tutte le sanzioni Irpef sui periodi pregressi, se il fisco riuscirà a dimostrare che il contratto era già in vigore.

Il debito degli enti locali (6 agosto 2010).
Il debito finanziario dei comuni supera i 62 miliardi di euro. Così scrive la Corte dei conti nella sua relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali 2008-2009. Si tratta di un dato che fa suonare il campanello d'allarme, anche se, precisano i giudizi contabili, il disavanzo «cresce limitatamente rispetto al precedente esercizio». Più spinta è invece la crescita del debito delle province che raggiunge quasi 11,5 miliardi. Praticamente, spiega la Corte, «il debito dei comuni grava sulla popolazione residente per quasi 1.100 euro pro-capite e incide sul Pil per il 3,97 per cento. Quello delle province, pesa invece per 200 euro a testa e rappresenta lo 0,75% del Pil». Critica è anche la sostenibilità del debito. Specie, è scritto nella relazione, per il peso degli interessi e per quello delle quote capitale «che risulta in parte coperto con risorse di natura straordinaria». Scorrendo le 359 pagine del documento, emerge anche come siano in aumento gli enti in disavanzo: nel 2008, sono passati da 63 a 82, con l'ammontare del disavanzo complessivo in crescita di oltre il 20 per cento. Una situazione, sottolineano i giudici contabili, che «non appare nel complesso incoraggiante, risultando in aumento gli enti interessati e le situazioni di alcuni di essi appaiono allarmanti». Nel 2009 l'importo dei debiti fuori bilancio è in aumento, ma tale andamento sconta la non completezza degli enti interessati alle rilevazioni. Bisogna però stare attenti. «La patologia dei debiti extra bilancio - sottolinea lo studio - rischia di diventare un evento fisiologico, anche se la recente normativa ha posto limitazioni all'uso dello strumento e l'obbligo di denuncia alle procure della Corte dei conti». Nelle province l'importo dei debiti riconosciuti riguarda maggiormente quelli originati da sentenze, seguiti da quelli per acquisto di beni e servizi. Nei comuni la situazione si presenta simile anche se con una minore incidenza dei debiti da sentenze. Il fenomeno del dissesto appare nel complesso circoscritto, anche se a seguito dell'introduzione del divieto di indebitamento per la copertura di spese correnti è divenuto maggiormente problematico finanziare il risanamento. E ciò, spiega la Corte, dimostra come sia sempre più arduo «raggiungere il risanamento senza intervento erariale». Va comunque detto che, rispetto al passato, le nuove situazioni sono circoscritte per numero e dimensioni. Secondo la Corte poi gli organi straordinari hanno accumulato ritardi nelle procedure di liquidazione e nelle concessioni dei mutui per il ripiano delle passività pregresse. La procedura semplificata di liquidazione con definizione transattiva consente di concludere più rapidamente il risanamento, riducendosi significativamente la massa passiva. Tuttavia però, evidenza il rapporto, «in assenza di mutui con oneri a carico dello Stato per il risanamento, gli enti hanno scarso interesse a dichiarare il dissesto che rappresenta un fallimento politico e incide per il risanamento sui cittadini elettori, per cui può verificarsi il rischio che enti in gravi condizioni ritardino la dichiarazione di dissesto, aggravando ulteriormente la situazione».

Pil italiano in crescita (6 agosto 2010).
Nel secondo trimestre del 2010 il prodotto interno lordo italiano, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dell'1,1% rispetto al secondo trimestre del 2009. Lo stima l'Istat. La crescita acquisita per il 2010 è pari allo 0,8 per cento. La stima precedente dell'istituto di statistica, collegata al trend dell'economia dopo il primo trimestre, indicava +0,6%. L'Istat, precisa che si tratta di dati elaborati in base alle informazioni finora disponibili e che il valore del Pil è espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2000, corretto per effetti di calendario e destagionalizzato. Il secondo trimestre, aggiunge l'Istituto, ha avuto una giornata lavorativa in più sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto al secondo trimestre del 2009. A confronto con gli altri Paesi, nel secondo trimestre il Pil è aumentato in termini congiunturali dell'1,1% nel Regno Unito e dello 0,6% negli Stati Uniti. Mentre, in termini tendenziali, è cresciuto del 3,2% negli Usa e dell'1,6% nel Regno Unito. Segnali incoraggianti, a differenza della locomotiva tedesca, sul fronte della ripresa arrivano anche dalla produzione industriale. A giugno ha registrato un aumento tendenziale dell'8,2% (al top da dicembre del 2000) mentre nel primo semestre la variazione rispetto allo stesso periodo del 2009 è stata pari al +5,5%. Rispetto a maggio l'aumento destagionalizzato è dello 0,6%. Stando alle previsioni del Centro Studi Confindustria poi, questo trend dovrebbe continuare anche a luglio. anche se non accompagnato da una pari ripresa del mercato del lavoro. L'indice grezzo della produzione, fa sapere l'Istat, ha registrato un aumento dell'8,1% rispetto a giugno 2009 mentre su base annua, rispetto al primo semestre del 2009, l'aumento è stato del 6,2%. Su base trimestrale la variazione media rilevata dall'Istat è pari al +2,2% sul trimestre precedente. Gli indici destagionalizzati dei raggruppamenti principali di industrie registrano variazioni congiunturali positive per i beni strumentali (+2,3%), per i beni intermedi (+0,9%) e per l'energia (+0,8%). L'unica variazione negativa ha riguardato i beni di consumo (-1,1%, con un -3,1% per i beni durevoli e di -0,8% per i beni non durevoli). Nel confronto con giugno 2009 l'indice della produzione industriale corretto per gli effetti di calendario ha segnato aumenti in tutti i raggruppamenti principali di industrie: +12,9% per i beni strumentali, +10% per i beni intermedi, +4,8% per l'energia, +2,9% per i beni di consumo. Nel confronto con il primo semestre del 2009, l'Istat ha registrato incrementi su base annua per i beni intermedi (+8,6%), per i beni strumentali (+4,4%) per i beni di consumo (+3,5%) e per l'energia (+2,7%). Guardando ai diversi settori di attività economica l'indice corretto per gli effetti di calendario ha segnato gli aumenti più sensibili nei macchinari e attrezzature (+27,1%) e per le apparecchiature elettriche e non elettriche (+22,6%). Nel confronto tra il primo semestre del 2010 e del 2009 gli aumenti maggiori hanno riguardato le apparecchiature elettriche e non elettriche (+14,5%) e i prodotti chimici (+11,2%).

L'impresa in Italia (10 agosto 2010).
Per le imprese censite nell'ultima indagine "Dati cumulativi" dell'ufficio studi Mediobanca la ripresa riguarda soprattutto i margini. L'industria manifatturiera, infatti, nel primo semestre 2010 ha evidenziato un recupero dei due terzi dei margini operativi persi nel 2009. Ma sui ricavi ancora non ci siamo. Nel primo semestre infatti è stato di circa il 7% l'aumento del fatturato, vale a dire un terzo di quanto perso lo scorso anno: se va avanti così il 2010 rischia di chiudersi con un giro d'affari inferiore a quello del 2008. Più tonico, in questo contesto, il comparto dell'energia: ma è tutto merito dei prezzi di vendita visto che, nei primi sei mesi di quest'anno, le quotazioni del petrolio, tradotte in euro, sono salite addirittura del 50%. Il risultato è che il fatturato del settore, nella prima metà del 2010, è cresciuto del 20%, mentre i margini operativi sono migliorati del 25%, il che significa non solo aver recuperato, ma anche superato i livelli pre-crisi. Si tratta di indicazioni significative per tastare il polso all'economia reale, perchè, anche se le semestrali non sono disponibili per tutte le imprese analizzate, il giro d'affari complessivo del campione di 2025 società è rappresentativo del 51% dell'industria italiana (il 43% della manifattura), il 68% dei servizi pubblici, il 33% delle attività nei trasporti, il 24% della distribuzione al dettaglio. Un ricco campione, dunque, che evidenzia come la crisi nata dalla finanza si sia scaricata sul mondo produttivo soprattutto nel 2009. Un anno che ha visto il fatturato complessivo ridimensionarsi del 16,5%. Con una differenza sostanziale: mentre i ricavi delle imprese industriali sono scesi del 19,4% (giù in particolare le energetiche, -24,7%), le aziende dei servizi se la sono cavata con una limatura del 2,4% (che sconta in particolare l'arretramento dell'11,6% dei trasporti). L'eccezione è rappresentata dal settore delle costruzioni che anche lo scorso anno, seppur di poco (+0,3%), hanno ampliato il giro d'affari, grazie però in particolare ai cantieri all'estero (+27,3% l'export). È il contrario di quanto registrato a livello dell'intero campione, dato che le vendite totali delle 2025 imprese analizzate hanno subito una battuta d'arresto più pesante oltre confine (-19,2%) che sul mercato domestico (-15,5%). Pochi altri comparti sono riusciti ad attraversare la crisi senza perdite: il farmaceutico, cresciuto del 3,3%, e la grande distribuzione, che ha aumentato il giro d'affari dell'1,5% ma soprattutto grazie all'apertura di nuovi punti vendita. Se si riclassificano le imprese per dimensioni, all'interno dell'industria manifatturiera (-17,2% i ricavi), si vede che hanno sofferto di più i maggiori gruppi (-19,1%) e le aziende medio-grandi (-19,3%), piuttosto che le medie imprese (-16,3%) che oltretutto hanno tagliato di meno investimenti (-15,5% contro la media del 23,1%) e occupazione (-1,7% contro -2,8%). Nel 2009 il valore aggiunto è sceso dell'8,1%, il margine operativo netto del 22,5% e l'utile corrente ante-imposte del 17,3%. A salvarsi, anche sotto questo profilo, le imprese farmaceutiche (+36,2% gli utili lordi) e delle costruzioni (+6,8%), affiancate da alcuni rami dell'alimentare grazie al calo dei prezzi delle materie prime, dall'impiantistica (+14,4%), da gomma e cavi (+10,8%). Tiene il terziario (-1,9% il valore aggiunto, -0,9% il risultato corrente prima delle imposte), con la distribuzione al dettaglio che aumenta gli utili lordi di oltre il 42%. Le imprese a capitale privato soffrono più delle aziende pubbliche (-20,2% l'utile lordo delle prime contro il -12,8% delle seconde); e, nel comparto manifatturiero, più i maggiori gruppi (-46,7%) delle medie aziende (-20,5%). Il campione delle 2025 aziende salda con un risultato netto di 16,9 miliardi, il 36,7% in meno rispetto al 2008, nonostante l'aiuto della gestione finanziaria tornata positiva per oltre 2 miliardi. Meno utili, meno investimenti. Gli investimenti tecnici, in particolare, hanno toccato il minimo del decennio: il rapporto tra fatturato netto e immobilizzazioni materiali lorde è crollato dal 118% del 2008 al 95,4% del 2009. In impianti e macchinari le 2025 società hanno speso 27 miliardi, 6 in meno dell'anno prima (-18,6%). A tirare il freno soprattutto le imprese a controllo estero (-21,5%, con la spesa per nuovi investimenti più che dimezzata in un anno), ma anche le imprese pubbliche (-20,9%), meno le grandi imprese (-15,9%) e le aziende di medie dimensioni (-15,3%). Al contrario gli investimenti finanziari sono leggermente aumentati (13,4 miliardi contro 12,5), anche se per importo rappresentano meno della metà degli investimenti tecnici. Alla fine il cash flow prodotto si è asciugato da 57 a 49 miliardi (-13,6%), e agli azionisti sono andati 8 miliardi contro i quasi 27 miliardi dell'anno prima. A fare le spese della congiuntura difficile anche l'occupazione: nell'insieme delle 2025 società lo scorso anno sono stati persi più di 26mila posti di lavoro, di cui quasi 13mila nelle imprese a controllo estero che stanno ridimensionando la presenza in Italia. La produttività è calata dell'8,8%, ma le imprese, a causa della crisi, non sono riuscite a recuperare aumentando i prezzi dei prodotti (che sono anzi scesi del 3,1%) e il risultato è un valore della produzione per dipendente crollato dell'11,6%. Si è cercato di agire sul costo del lavoro (-3,3% il costo per dipendente), ma non abbastanza da evitare una perdita di competitività di oltre otto punti, al top del decennio. Dal 2000 complessivamente la produttività è scesa del 3,6 per cento.

Chrysler in miglioramento (10 agosto 2010).
Nel secondo trimestre, Chrysler, del gruppo Fiat, ha registrato un utile operativo di 183 milioni di dollari, pari a 40 milioni in più (+28%) rispetto al trimestre precedente. Secondo il comunicato diffuso dalla casa statunitense, sull'insieme del primo semestre l'utile operativo si è attestato a 326 milioni di dollari. Proprio grazie a questo la perdita netta è calata a 172 milioni di dollari su aprile-giugno, contro i 197 milioni dei primi tre mesi del 2010, mentre sull'insieme dei primi sei mesi dell'anno la perdita netta è stata pari a 369 milioni di dollari. Alla luce di un secondo trimestre che ha riservato risultati "complessivamente positivi", l'amministratore delegato Sergio Marchionne parla di «numeri importanti», che rendono «matematicamente impossibile» non ritoccare al rialzo le previsioni sull'intero 2010. E nella conference call con gli analisti sugli ultimi dati di bilancio, il numero uno di Fiat ha ribadito l'obiettivo di riportare Chrysler in Borsa nel prossimo anno, con una offerta pubblica (Ipo). Per quanto riguarda la quota di mercato del Gruppo Chrysler negli Stati Uniti, nel secondo trimestre i marchi Chrysler, Jeep, Dodge e Ram Truck hanno registrato una penetrazione del 9,4 per cento, in rialzo dal 9,1 per cento del primo trimestre e contro l'8,1 per cento del quarto trimestre 2009. La società ha confermato le previsioni sull'intero anno, ma ha anche annunciato una possibile revisione in meglio in base alla dinamica del terzo trimestre. I ricavi sono stati pari a 10.5 miliardi di dollari, l'8,2 per cento in più rispetto ai 9,7 miliardi del trimestre precedente (per il primo semestre il dato è pari a 20,165 miliardi di dollari). «L'utile operativo nel secondo trimestre conferma che il Gruppo Chrysler sta procedendo in linea con gli obiettivi annunciati il 4 novembre 2009, fermo restando il fatto che uno straordinario lavoro si prospetta davanti a noi», ha detto l'amministratore delegato Sergio Marchionne. «Secondo le attese - prosegue Marchionne - il 2010 si sta concretizzando come un anno di transizione e stabilizzazione. Il Gruppo deve continuare il proprio percorso di crescita con rigore, massima disciplina e focalizzazione sugli obiettivi». A fine giugno, prosegue il comunicato, la disponibilità di cassa di Chrysler è cresciuta a 7.8 miliardi di dollari, dai 7.4 miliardi del primo trimestre, grazie al contributo positivo del cash flow del secondo trimestre di 474 milioni di dollari. La liquidità disponibile totale è superiore a 10 miliardi di dollari, inclusi 2.3 miliardi non utilizzati, ma ancora disponibili, relativi a due linee di credito erogate dal dipartimento al Tesoro americano e del Governo canadese e dell'Ontario. L'indebitamento netto industriale è stato ridotto a 3.4 miliardi, mentre quello lordo si è attestato a 11.2 miliardi. La società ha lasciato invariati gli obiettivi finanziari per il 2010 (breakeven operativo, giro d'affari netto tra i 40 e i 45 miliardi), preannunciando però che potrebbero essere rivisti al rialzo sulla base dei risultati del terzo trimestre 2010.

I profitti delle imprese (12 agosto 2010).
Nell'immaginario collettivo, il 2008 resterà per molto tempo come una sorta di anno zero per il mondo economico e finanziario. La crisi innescata dai mutui subprime prima e amplificata dall'inaspettato crack Lehman ha radicalmente mutato lo scenario per i mercati. «Niente sarà più come prima» è stata la parola d'ordine fra gli investitori. Niente, o quasi niente di vero. I risultati delle trimestrali che le imprese europee e degli Stati Uniti stanno diffondendo in questi giorni mostrano che non sono certo poche le società che hanno fatto il pieno di utili. Molte di esse hanno addirittura raggiunto livelli da primato, superando anche quel 2007 che pareva destinato a rimanere ineguagliato a lungo. In Europa, quando ben 295 società componenti lo Stoxx600 (pari al 64% della capitalizzazione dell'intero listino) hanno già presentato i risultati dei primi sei mesi si può azzardare una previsione: se nella restante parte dell'anno non si verificheranno «catastrofi» finanziarie – simili a quelle dell'autunno 2008 – il livello generale dei profitti aziendali potrebbe raggiungere in questo 2010 quello realizzato proprio nel 2007 dei record. Naturalmente il discorso vale per le società non finanziarie, perché le banche – pur in ripresa – restano ancora piuttosto lontane dai quei picchi. Tracciare l'identikit delle imprese che hanno bruciato i record in questo trimestre è semplice. «Si tratta – spiega Alessandro Capeccia, gestore di Azimut Sgr – in generale di gruppi o conglomerati che hanno sfruttato la crisi per operare profonde ristrutturazioni, che hanno approfittato per mettere a segno importanti acquisizioni e per diversificare i ricavi anche al di fuori dell'Europa, in particolare nei paesi emergenti». Il miglioramento dei bilanci, insomma, è il risultato del ricorso alla delocalizzazione e dell'incremento del peso di nuovi mercati di sbocco, Asia in primis, ma anche sudamerica. I campioni del profitto sono società come la tedesca Linde, oppure come Bmw, Lvmh e Burberry, marchi ben noti che hanno sfruttato al massimo la capacità di penetrazione in Oriente. Oppure gruppi attivi nel settore del retail food quali Carrefour, Casino e Tesco. E se è vero che chi ha nel frattempo effettuato acquisizione ha una ragione in più per battere i livelli del 2007, è anche vero che nei confronti dell'anno d'oro dei profitti queste imprese sono riuscite a migliorare i margini, a testimonianza del loro ottimo stato di salute. C'è da chiedersi quanti di questi risultati siano stati ottenuti grazie alla compressione dei costi e quanti invece grazie a un'effettiva espansione del giro d'affari, ma anche sotto questo aspetto si nota qualche indicazione favorevole: «Se fino a tutto il 2009 fa era stato il controllo ferreo delle spese a propiziare il recupero sugli utili – suggerisce Capeccia – con le ultime trimestrali si è assistito anche a una sensibile crescita dei ricavi». Considerazioni sulla reale qualità degli utili a parte, stupisce vedere come a questi risultati non corrisponda un movimento altrettanto significativo delle Borse, che non sembrano ancora essersi del tutto riprese dallo shock del 2008. A ben vedere, infatti, l'indice paneuropeo Stoxx 600 si trova ancora ben al di sotto dei livelli di fine 2007, un gap di quasi il 30% che è abbastanza improbabile, per non dire impossibile, possa essere recuperato da qui a fine anno. Quand'anche si consideri in questo valore la performance di borsa dei titoli finanziari (sotto del 44% rispetto a 3 anni fa), il ritardo dei mercati azionari resta significativo e nasconde motivazioni differenti. La prima ragione è legata ai timori degli investitori, che non hanno certo dimenticato le pesanti punizioni subite nell'annus horribilis, così come le incertezze degli ultimi mesi, e che di conseguenza hanno ridotto la propria propensione al rischio. Vista sotto questo aspetto, la prudenza degli operatori nasconderebbe un potenziale di apprezzamento dei mercati del 30% circa. L'altra faccia della medaglia è invece decisamente meno incoraggiante: rispetto al 2007, quando si riteneva (a torto) che l'età dell'oro potesse protrarsi a tempo pressoché indefinito, adesso il futuro sembra essere meno definito, anzi piuttosto nebuloso anche a sentire le stesse previsioni delle società che oggi stupiscono con i loro ricavi o utili da favola. Lo spettro di una maggior volatilità negli anni a venire rende quindi più avveduti gli investitori. E questo potrebbe non essere un male.

La Cina supera il Giappone (16 agosto 2010).
La Cina è la seconda economia mondiale, prima del Giappone e dopo gli Stati Uniti. Il sorpasso è stato sancito dalle statistiche ufficiali sull'andamento delle due economie nel secondo trimestre del 2010. Pechino ha registrato un Pil di 1.339 miliardi di dollari, contro i 1.288 miliardi del Giappone. Tokyo mantiene (almeno per il momento) la posizione di numero due nel conteggio dei primi sei mesi dell'anno. Il Pil nominale giapponese (cioè espresso nel suo valore in moneta attuale) ammonta infatti a 2.578,1 miliardi di dollari nel totale del semestre. Quello cinese a 2.532,5 miliardi di dollari. La totalità degli analisti dà però per certo l'allungo definitivo di Pechino sul Sol Levante nell'ultimo trimestre dell'anno. Una volata che porterebbe così la Cina alla seconda posizione assoluta. Il sorpasso era largamente prevedibile se si osserva il grafico del tasso di crescita dei due paesi negli ultimi 10 anni. Il Giappone, dopo decenni di sviluppo, è entrato negli anni novanta in una fase di stagnazione, aggravata dagli effetti della deflazione. La Cina, per contro, ha cominciato ad espandersi a ritmo sostenuto. Il basso costo del lavoro (e le tutele pressoché nulle dei diritti degli operai nonostante la Cina resti un paese comunista ndr.) ha spinto le esportazioni e attratto gli investimenti delle aziende di tutto il mondo che qui hanno aperto stabilimenti. Il risultato è una crescita a doppia cifra del prodotto interno lordo che l'ha portata dal settimo al secondo posto nella classifica delle economie globali. Nel 2007 ha sorpassato la Germania e ora il Giappone. Il gap con gli Stati Uniti è ancora molto ampio. Per il 2010 la Cina dovrebbe far segnare un prodotto interno lordo pari a 5000 miliardi di dollari, mentre gli Usa sono a quota 15mila. Anche se, ed è abbastanza improbabile, la Cina continuasse a crescere al ritmo dei primi anni 2000 anche in futuro, ci vorrebbe un decennio o più per raggiungere gli Stati Uniti. Ma tra gli addetti ai lavori già si scommette su quando arriverà il sorpasso. Secondo Jim O'Neill, capo economista di Goldman Sachs, nel 2027. Un'altra economia emergente che sta scalando la classifica mondiale è il Brasile che si piazza all'ottavo posto tallonando l'Italia, che segue a breve distanza la Gran Bretagna. La Francia si piazza al quinto posto mentre la Germania è al quarto. Il tasso di crescita dell'economia cinese, come annunciato dai recenti dati macroeconomici, dovrebbe peraltro rallentare nel corso del 2010. Secondo quanto dichiarato da Fan Jianping, direttore della divisione di ricerca congiunturale del Centro statale di informazione, al quotidiano cinese «People's Daily», il tasso di crescita sarà del 9,2% nel terzo trimestre, ma frenerà in seguito a un ritmo dell'8-8,5% nel quarto trimestre (+10,3% nel secondo trimestre e +11,9% nel primo). L'anno prossimo il ritmo di crescita non terrà il passo con il 2010, ma «resterà almeno intorno all'8%» ha detto l'economista, secondo il quale una nuova accelerazione é possibile da metà 2011. "Non ci sono motivi - dice Jianping - di preoccuparsi eccessivamente per la crescita" e il Governo non prevede di mettere a punto nuovi piani di sostegno alla congiuntura.

La ripresa vista da Wall-Mart (17 agosto 2010).
Wal-Mart è una delle catene della grande distribuzione i cui risultati sono molto attesi perché dànno il polso dell'economia reale. Ebbene, la trimestrale del numero uno mondiale della distribuzione sembra fotografare quello che già si sapeva: nel secondo trimestre gli utili netti sono pari a 3.596 miliardi di dollari, in rialzo del 3% rispetto a un anno fa. La produttività, quindi, è aumentata, un po' come ci si aspettava. Le vendite, dal canto loro, sempre nel trimestre sono cresciute del 2% a valuta costante alla somma di 103,73 miliardi di dollari. Il che indica, di nuovo, quello che si più o meno sapeva: c'è la ripresina, ma poi bisognerà vedere se l'economia reale riuscirà a mantenere il passo. In generale, comunque, alla luce dei risultatilievemente superiori alle attese per quanto riguarda gli utili, Wal-Mart ha alzato le stime per l'intero anno in una forbice compresa tra 3,95-4,05 dollari ad azione contro i 4,01 dollari attese dagli analisti. Wal-Mart ha inoltre reso noto di aver effettuato operazioni di buy-back azionario nel corso del trimestre per complessivi 4,1 miliardi e di aver avuto riserve di cash per 10,2 miliardi alla data del 30 giugno. Hanno deluso tuttavia nel trimestre le vendite nei negozi negli Stati Uniti aperti da almeno un anno, che sono calate dell'1,8%, contribuendo a generare un risultato sulle vendite che ha mancato le attese di Wall Street (103 contro 105 previsti dal consensus). «Malgrado le difficoltà del quadro economico in cui operiamo - ha detto il direttore generale Mike Duke - continuiamo a registrare un aumento degli utili». Guardando in avanti, Duke ha dichiarato che «la ripresa lenta peserà sui nostri consumatori e noi ci attendiamo che rimangano prudenti nelle loro spese».

La risposta di Napolitano ai tre operai della Fiat (24 agosto 2010).
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha risposto ai tre lavoratori della Fiat Sata di Melfi. Il Capo dello Stato ha scritto di aver «letto con attenzione la lettera che avete voluto indirizzarmi e non posso che esprimere il mio profondo rammarico per la tensione creatasi in relazione ai licenziamenti che vi hanno colpito e, successivamente, alla mancata vostra reintegrazione nel posto di lavoro». Anche per quest'ultimo sviluppo della vicenda, ha scritto ancora Napolitano, «è chiamata a intervenire, su esplicita richiesta vostra e dei vostri legali, l'Autorità Giudiziaria: e ad essa non posso che rimettermi anch'io, proprio per rispetto di quelle regole dello Stato di diritto a cui voi vi richiamate». Napolitano ha detto di comprendere «molto bene come consideriate lesivo della vostra dignità percepire la retribuzione senza lavorare», rilanciando l'auspicio «vivissimo», che sia ascoltato anche dalla dirigenza della Fiat, «che questo grave episodio possa essere superato». In giornata infatti erano tornati davanti ai cancelli della Fiat Sata di Melfi Giovanni Barozzino, Marco Pignatelli e Antonio Lamorte, i tre lavoratori licenziati dall'azienda e riassunti con un decreto del giudice del lavoro. Ieri, l'azienda aveva consentito il loro ingresso nella fabbrica, ma non il ritorno sulle linee di produzione. All'ingresso del secondo turno, che è scattato alle ore 14, i tre operai hanno voluto essere presenti per ribadire la loro posizione: «Tornare a lavoro come ha disposto il magistrato». Intanto, continua a far discutere la decisione della Fiat di non consentire ai tre operai di Melfi reintegrati dal giudice di accedere alla produzione. L'appello perchè Fiat applichi la sentenza del giudice è corale: dai sindacati al governo, anche se con posizioni diverse. «Le sentenze vanno rispettate anche quando non fanno piacere - ha detto, da Rimini, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli - se il nostro Paese è uno Stato di diritto non lo può essere a fasi alterne. Qui c'è una sentenza e la sentenza deve essere rispettata». Giudizio condiviso dal sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, che è convinto che l'azienda «da un lato debba applicare le sentenze della magistratura come necessario e dall'altro continuare a rimanere dalla parte della ragione». Secondo Saglia, «il problema è che con questa vicenda, così come a Pomigliano, si stanno riscrivendo le regole delle relazioni industriali a monte di una decisione che è stata condivisa da tutti, eccetto dalla Cgil». Ora Fiat, ha aggiunto, «non deve mettere in imbarazzo una parte importante del sindacato che ha condiviso questo percorso». «C'è una sentenza esecutiva della procura di Potenza - ha spiegato il vice segretario generale Susanna Camusso - e la Fiat deve rispettarla. Non c'e nessuno che possa esimersi dal rispettare una sentenza della magistratura con nessuna motivazione e quelle peraltro fonite in questa occasione dalla Fiat sono del tutto pretestuose». Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, la Fiat «sta facendo il gioco della Fiom e sta spostando l'attenzione su un problema assolutamente residuale» perchè «il fatto importante è l'investimento».

Marcegaglia: su Melfi ha ragione la Fiat (25 agosto 2010).
Su Melfi «la nostra posizione è che quanto ha fatto Fiat è in linea con la legge e con la prassi seguita». Così la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, secondo la quale «tutti debbono rispettare le decisioni del giudice. Quello che sta facendo la Fiat non è in disaccordo con quanto deciso dal giudice». La sentenza di reintegro, ha ricordato Marcegaglia intervenendo al Meeting di Comunione e liberazione, parla di comportamento antisindacale dell'azienda, ma «Fiat permette a queste persone di fare attività sindacale». I legali della Fiom-Cgil hanno depositato al tribunale di Melfi un'istanza per chiedere al giudice del lavoro di chiarire le modalità attuative del reintegro disposto con la sentenza del 9 agosto scorso per i tre lavoratori della Fiat-Sata, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli (la Fiom-Cgil non si accontenta che siano stati reintegrati solo per le attività sindacali, ma chiede la reintegrazione sulla linea di produzione). Lo ha reso noto l'avvocato della Fiom-Cgil, Lina Grosso, che ha detto ora «di attendere una risposta da parte della magistratura». Contestualmente, gli stessi legali Fiom hanno presentato in procura una memoria integrativa (in fatto e diritto) rispetto alla denuncia presentata l'altra sera nei confronti del Lingotto per violazione dell'articolo 650 Codice penale, relativo all'inottemperanza a provvedimenti dell'autorità. In mattinata, è arrivata anche la notizia che i lavoratori dello stabilimento di Melfi della Fiat - dove si produce la «Punto Evo» - saranno collocati in cassa integrazione dal 22 settembre all'1 ottobre prossimo. La cassa integrazione, a quanto si apprende da fonti aziendali, è stata decisa a causa della «discesa della richiesta di mercato». Intanto, i tre operai licenziati e reintegrati dal magistrato hanno deciso, anche oggi, di presentarsi davanti ai cancelli dello stabilimento di Melfi. «Non entreremo in fabbrica ma saremo qui ogni giorno, al turno delle ore 14», hanno detto, due di loro, Giovanni Barozzino e Antonio Lamorte, che si sono detti soddisfatti per la risposta ricevuta dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano alla loro lettera. Lamorte, parlando poi con i giornalisti, ha sottolineato anche «l'importanza delle dichiarazioni del ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, sulla necessità che le sentenze dei giudici siano rispettate, anche se non piacciono». La presa di posizione di ieri del Capo dello Stato è stata duramente criticata dal segretario generale della Fismic, Roberto Di Maulo, che ha parlato di «una grave ingerenza nel merito dell'operato dei magistrati». Un plauso invece alle parole del Colle è giunto dalla Cei, la Conferenza episcopale italiana, che per bocca del presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, monsignor Giancarlo Maria Bregantini ha bacchettato Fiat, sostenendo che il Lingotto «sta commettendo un grave errore etico, negando i diritti delle persone». In sostanza Marcegaglia e Marchionne stanno facendo le veci del governo e la Cei quelle del sindacato.

Marcegaglia la necessità di un rilancio (26 agosto 2010).
«Serve un cambiamento forte altrimenti sarà il declino e nessuno verrà più a investire in Italia». A dirlo è la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia che dal palco di Rimini, al meeting di Comunione e Liberazione, illustra la sua ricetta in cinque punti per superare la crisi e riprendere a correre. Al primo posto, serve puntare dritto sulla produttività. «Se non torniamo a crescere almeno del 2% l'anno non ci sarà aumento dell'occupazione e crescita dei redditi. Da quando c'è l'euro abbiamo perso 32 punti percentuali rispetto alla Germania: se non recupereremo, non avremo la capacità di competere e crescere. ... La strada da percorrere passa per nuove relazioni sindacali, che non siano cinesi, ma allineate a tutti gli altri paesi occidentali. Vale a dire, lavorare di più, lavorare meglio, con più formazione e più tecnologia, avere turni e in questo modo pagare di più i lavoratori». Marcegaglia ha poi sottolineato che «forse il peggio è alle spalle, ma siamo in una fase di assoluta, totale incertezza. ...Si parla della possibilità di una nuova recessione negli Usa e al contrario delle aspettative in Europa dove la Germania cresce più degli altri. Per questo abbiamo bisogno di una discontinuità assoluta e strategica rispetto al passato, di una politica che stia sulle cose. Perchè non si tratta solo di uscire dalla crisi». Chiaro il messaggio al Governo: «che deve andare avanti e non può permettersi di vivacchiare». Per la Marcegagliai, poi, il secondo punto fondamentale per abbattere la crisi è dato dalle infrastrutture, che, ha detto, «si possono anche fare coi soldi dei privati, ma che richiedono regole e tempi certi». Al terzo posto c'è il problema delle tasse, perchè, ha ricordato, «chi fa impresa arriva a pagare anche il 70%-80% del proprio reddito. Per questo gli introiti della lotta all'evasione fiscale devono andare verso la riduzione delle tasse di chi le paga». Gli ultimi due temi sono quello della nuova linea di confine fra Stato e mercato e quello del capitale umano e della ricerca. Da un lato, ha rilanciato, «come ha detto il ministro Sacconi, ci vuole meno Stato e più società, ma serve anche meno stato e più mercato: abbiamo bisogno di meno concorrenza sleale da parte delle imprese pubbliche, di meno sprechi, di meno enti inutili, visto che lo Stato intermedia il 50% del Pil e spesso lo fa male». Dall'altro, «per dare un futuro ai giovani, dobbiamo investire di più in scuola, università, ricerca». «Per la prima volta - ha concluso Marcegaglia - con la riforma Gelmini si introducono elementi che premiano il merito. Un fatto positivo perchè dobbiamo permettere a chi può correre di correre».

Marchionne: necessità di cambiamento (27 agosto 2010).
«L'unica area del mondo in cui Fiat è in perdita e l'Italia». Lo ha detto Sergio Marchionne, intervenendo al meeting di Comunione e Liberazione. «Trovo assurdo che la Fiat sia apprezzata e riceva complimenti ovunque fuorché in Italia. Non ci aspettiamo fanfare ma neanche fischi. La Fiat è sempre la stessa sia che si guardi all'Europa, agli Stati Uniti o al Sud America I principi della Fiat sono uguali in ogni parte del mondo, è un'azienda seria, gestita da persone serie con forti cariche e patrimonio di valori». Ma a margine del suo intervento, Marchionne ha anche detto di voler accogliere l'invito del Capo dello Stato per trovare una soluzione al caso Melfi, specificando «il grandissimo rispetto» per il suo rolo e per l'appello rivolto ieri all'azienda. La risposta di Napolitano in una nota del Quirinale afferma: «Anche in Italia si sa apprezzare lo straordinario sforzo compiuto per rilanciare l'azienda e proiettarla nel mondo di oggi». Per Marchionne «in Italia ci manca la voglia e abbiamo paura di cambiare». «In questi giorni c'è una contrapposizione fra due modelli: uno difende il passato e l'altro che vuole andare avanti. Se non lasciamo alle spalle vecchi schemi non ci sarà spazio per vedere nuovi orizzonti». «A volte penso che gli sforzi di Fiat in Italia non siano compresi. Non siamo più negli anni Sessanta non c'è una lotta fra capitale e lavoro, fra padroni e operi. Se l'Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero non raggiungeremo mai niente. Ora c'è bisogno di uno sforzo collettivo, un patto sociale per condividere impegni, sacrifici e consentire al Paese di andare avanti. Un'occasione per costruire il paese che lasceremo alle nuove generazioni». Quanto all'azione complessiva del gruppo, Marchionne ha rivendicato l'orgoglio Fiat, facendo notare come alcune scelte, tipo la produzione della Panda a Pomigliano, siano dettate più dal cuore che dal business. «La maggior parte delle persone ha compreso l'impegno e la sfida» ha detto l'amministratore delegato del gruppo torinese, che davanti alla platea di Cl ha ringraziato esplicitamente i segretari generali di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti senza invece citare la Cgil. In ogni caso, Marchionne si è detto «assolutamente disponibile» ad incontrare il leader della Cgil, Guglielmo Epifani: «Sono totalmente aperto anche io a parlare con Epifani: è una persona che rispetto e che ha un profilo intellettualmente onesto». Poi Marchionne ha assicurato di non avere intenzione di vendere l'Alfa. «Se ho detto che non la vendo, vuol dire che la mia risposta è no». Con Volkswagen (che secondo indiscrezioni avrebbe trattato l'acquisto) «non ci sono rapporti» in particolare: «Parliamo con loro, con i francesi, con tutti, parliamo sempre e parliamo di tutto». Quanto a possibili nuove collaborazioni industriali allo studio, Marchionne risponde: «Mi guardo sempre intorno». Marchionne, nel corso dell'intervento, è tornato a parlare del caso dei tre operai dello stabilimento di Melfi prima sospesi dall'azienda poi reintegrati dal giudice ma a cui non sono state riaffidate mansioni operative. «Non è onesto usare i diritti di pochi per piegare i diritti di molti. Non sono difendibili gli illeciti arrivati fino al sabotaggio. Non è giusto nei confronti dell'azienda e non è giusto nei confronti di altri lavoratori». Marchionne ha fatto notare che Fiat «ha rispettato la legge e dato seguito al primo provvedimento della magistratura» e ha parlato di «enfasi mediatica che ha in parte travisato la realtà dei fatti». Inoltre ha chiesto che si instauri un «rapporto di fiducia» nei confronti dell'azienda e ha sottolineato che «dignità e diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». L'ad si è poi detto pronto ad accogliere l'invito del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a trovare una soluzione in merito alla vicenda. «Ho grandissimo rispetto per il presidente della Repubblica come persona e per il suo ruolo istituzionale: per la sua posizione istituzionale accetto quello che ha detto come un invito a trovare una soluzione». Clicca qui per leggere tutto l'intervento.

Disoccupazione stabile in Italia. Fiducia in aumento (31 agosto 2010).
A luglio in Italia disoccupazione stabile all'8,7 per cento mentre il clima di fiducia nelle imprese manifatturiere continua a crescere e torna sui livelli di maggio 2008: ad agosto - fa sapere l'Isae - il relativo indice, considerato al netto dei fattori stagionali, sale da 98,3 a 100,5. Gli imprenditori, riferisce l'Istituto nell'indagine mensile, danno un giudizio «nettamente più favorevole dello scorso mese circa l'andamento corrente della domanda (sia interna sia estera), mentre le giacenze di prodotti finiti sono stabili e le attese di produzione si riducono lievemente». Migliorano i giudizi sull'andamento corrente della produzione, mentre «peggiorano nettamente le previsioni a breve termine sulla domanda; si allentano inoltre le tensioni inflazionistiche e recuperano le attese relative alla situazione economica del Paese». Guardando ai settori, la fiducia accusa però una battuta d'arresto - dice ancora l'Isae - tra i produttori di beni d'investimento (a 96,1 da 97,3), ed è invece sostanzialmente stabile nei beni di consumo (a 100,2 da 101,6) e negli intermedi (a 100 da 100,4 a luglio). L'aumento della fiducia è invece diffuso in tutte le ripartizioni geografiche a eccezione del nord-ovest (da 103,5 a 102,6): l'indice migliora infatti nel nord-est (da 99,8 a 100,8) e soprattutto nel centro-sud (rispettivamente nel centro da 96 a 99 e nel Mezzogiorno da 88,1 a 90,5). Guardando infine al livello dimensionale, tra giugno e agosto la fiducia è migliorata nelle medie e grandi imprese; più nel dettaglio, l'indice è salito da 99,7 (giugno) a 103,2 (agosto) nelle medie imprese e da 97 (giugno) a 101,9 (agosto) nelle grandi. Ad agosto i prezzi al consumo in Italia sono aumentati dello 0,2% rispetto a luglio e dell'1,6 rispetto ad agosto 2009. Lo comunica l'Istat nella stima preliminare, ricordando che l'inflazione è in calo rispetto all'1,7 registrato a luglio, soprattutto grazie al calo dei prodotti energetici.

Fortune dedica la copertina a Marchionne (31 agosto 2010).
"A prima vista" può sembrare un professore di materie umanistiche in una piccola facoltà di lettere: veste in modo casual, fuma sigarette e sciorina citazioni storiche. Ma la prima impressione può essere "fuorviante"… È l'immagine con cui la rivista Fortune inizia un ampio reportage su Sergio Marchionne, amministratore delegato dei gruppi Fiat e Chrysler. Il magazine descrive il manager e la strategia con cui sta rilanciando Chrysler, dopo avere riportato in attivo la casa torinese. Marchionne è veloce nelle decisioni, lavora in continuazione, è accessibile 24 ore al giorno sette giorni alla settimana e senza falsa modestia mostra "un'incrollabile fiducia" nelle proprie capacità". Il "velocista" del risanamento Chrysler – nota il magazine - "non è un bohèmien", colleziona orologi svizzeri e possiede diverse Ferrari. Dietro la sua cultura umanistica c'è l'uomo d'affari: egli "combina il fascino del venditore con la capacità analitica dell'attuario". Ed è convinto che il suo vantaggio competitivo sia la velocità. "Spazzando via strati di management e prendendo decisioni in fretta si avvicina al mercato e sforna nuovi modelli più rapidamente dei suoi più lenti rivali". Il "personale approccio alla velocità" di Marchionne, sottolinea Fortune, è stato messo in evidenza quando nel giugno 2009 Fiat ha acquisito il 20% della Chrysler post-bancarotta e lui è diventato "Ceo" di entrambi i gruppi. Ha spezzato la vecchia catena di comando di Chrysler e l'ha sostituita con un'organizzazione orizzontale con lui in cima. I suoi 25 dirigenti top fanno rapporto direttamente a lui. Ha riorganizzato non solo il management, ma anche lo staff: ha setacciato l'azienda per valorizzare i giovani manager che vogliono "assumersi più responsabilità, essere disponibili in ogni momento, mettere l'azienda al di sopra dei propri interessi". La nuova collezione Chrysler, che sarà svelata al pubblico nei prossimi tre mesi, dimostra "quello che la velocità può fare": entro la fine dell'anno conta di rinnovare 16 modelli, il 75% dell'offerta. Ma il gran colpo Marchionne lo tiene in serbo per dicembre, quando porterà la nuova Fiat 500 negli Stati Uniti. Secondo Fortune, il successo o il fallimento della versione americana della Cinquecento, costruita in Messico, sarà decisivo nel delineare l'immagine futura dei prodotti Chrysler. Con il suo stile di management "non ortodosso", Marchionne ha ristrutturato la Fiat ed è riuscito a stare a galla nell'affollato mercato automobilistico europeo. "Se un tipico a.d. italiano fosse stato sulla mia poltrona, l'azienda non sarebbe dov'è ora", dice "immodestamente". Chrysler ora è in condizioni migliori della Fiat nel 2004: "Mentre il mercato automobilistico Usa rimane debole, Chrysler ha registrato un piccolo utile operativo nel primo e secondo trimestre" e dovrebbe riuscire a cavarsela fino all'arrivo dei nuovi modelli. Le ambizioni di Marchionne negli Usa "vanno al di là di Chrysler", scrive Fortune. Vuole portare negli Stati Uniti "un pezzetto d'Italia": oltre a lanciare la nuova 500, "ha promesso di riportare l'Alfa Romeo di Fiat in America dopo 18 anni di assenza". C'è però il nodo della qualità: "Il maggiore punto interrogativo che pende sull'intera impresa Fiat-Chrysler è la qualità del prodotto", sottolinea la rivista Usa, ricordando la scarsa reputazione di Fiat quando lasciò il mercato americano nel 1985. Marchionne è "categorico", afferma che la qualità di Chrysler "non deve essere seconda a nessuno" ed è soddisfatto dei progressi fatti finora: "Chrysler ha fatto in 12 mesi quello che Fiat ha fatto in 5 anni". Fortune conclude osservando che nell'alleanza Fiat-Chrysler costruita da Marchionne manca una rete di sicurezza: "Marchionne non ha pubblicamente designato un numero 2 né alla Fiat né alla Chrysler". "E non ci sono molti che sceglierebbero di seguire il suo esempio". Se Fortune sottolinea che Fiat non ha una buona fama rispetto alla qualità dei prodotti dimentica che Chrysler aveva una fama ancora peggiore, tanto che negli ultimi anni circolavono in Usa, pungenti barzellette proprio sulla scarsa qualità dei prodotti Chrysler.

L'ex CEO di Lehman Brothers accusa (2 settembre 2010).
Ancora ritornano alla mente le immagini delle proteste contro di lui nei giorni caldi della crisi: i cartelli rosa con la scritta "shame", vergogna o "captain greed", capitano avido. Dure critiche che non sembrarono scolvolgerlo allora, pochi giorni dopo il fallimento che ha segnato la storia del capitalismo finanziario americano. E sembrano fargli un baffo adesso. Lui è Richard Fuld, uno degli dei della finanza (semi) caduto, ex amministratore delegato di Lehman Brothers. Oggi ha testimoniato di fronte alla Financial Crisis Inquiry Commission, a Washington. E chi si attendeva un Fuld remissivo è stato deluso. Anzi, come nelle migliori difese, è andato all'attacco. «Lehman -ha detto - fu lasciata fallire non perché si rifiutò di agire con responsabilità; né perchè non volle cercare soluzioni alla crisi». Tutt'altro. «In realtà fu a causa di una decisione, basata su informazioni sbagliate, di non sostenere la banca con le stesse misure che furono adottate, di lì a pochi giorni, in favore dei suoi competitor e di altre sociètà non finanziarie». Le considerazioni di Fuld sono state già smentite nel passato. Ben Bernanke, per esempio, ha detto che in quel famoso settembre 2008 Lehman non aveva garanzie sufficienti per evitare il collasso. «Non c'erano meccanismi, non c'erano alternative, non c'era un insieme di regole. Non c'erano fondi sufficienti per gestire la situazione». Fuld, dal canto suo, non ha mai accettato simili considerazioni. Oggi ha ribadito: «Chiedemmo la possibilità» di convertirci in una holding bancaria «cui fosse permesso raccogliere depositi. Di più: facemmo richiesta di vietare lo short selling nudo», cioè la vendita allo scoperto dei titoli senza averne il possesso. «Tutte queste richieste - ha ricordato Fuld- ci furono negate. Al contrario, vennero concesse a gruppi come Morgan Stanley o Goldman Sachs, che divennero banche commerciali nel settembre 2008». Infine, i rumors sulla mancanza di liquidità della banca, ha ribadito l'ex ceo, erano falsi. Al contrario, i regulator, «all'inizio del 2008, aiutarono Jp Morgan ad acquisire Bear Stearns che era già in cattive acque». Le critiche furono moltissime: «Una sorta di precedente di come non gestire il problema successivo che si sarebbe proposto». E che, di fatto, avrebbe influenzato anche la scelta su Lehman. Le polemiche, ovviamente, sono destinate a proseguire. Anche perchè Fuld non può di certo considerarsi immune da colpe. Poco dopo il fallimento, fu chiamato a testimoniare davanti alla Commissione sul controlo e la riforma dell'amministrazione. Può essere utilie ricordare alcuni passi di quell'audizione: Il presidente della Commissione: «Passiamo agli ultimi giorni della Lehman. In un'email fra un alto dirigente della banca e il responsabile mondiale dell'investment banking era scritto: «Il duro lavoro fatto potrebbe sgretolarsi velocemente. I senior manager devono essere meno arroganti e ammettere i gravi errori che sono stati fatti». Quando ha letto questa email che cosa ha fatto? Sono curioso di saperlo... Fuld: Mi scusi, ma qual era la data? Presidente: Il 9 giugno 2008. Ora ricorda? Fuld: Non so...Onestamente no. Presidente: Glielo dico io che cosa ha fatto. Tre giorni dopo ha licenziato Aaron Allen, il direttore finanziario, e Joseph Gregory, il direttore operativo. Lei non si è assunto nessuna responsabilità. Anzi, finora ha solo attribuito le colpe ad altri. Ora le chiedo: è d'accordo sul fatto che sotto la sua guida la Lehman abbia assunto una leva finanziaria troppo alta? Risponda sì o no. Fuld: Non è facile rispondere. In certi momenti la leva è stata molto elevata, ma quando ho capito che il mercato stava peggiorando la leva è stata ridotta gradualmente. E non è solo arroganza o gestione (più o meno corretta) del potere. Non possono scordarsi , infatti, le accuse sui mancati controlli e sulle irregolarità contabili. In un paper realizzato da Aton Valukas, su richiesta della commissione, venivano sottolineate le scorrettezze sul fronte contabile. Come? Secondo il report, bisogna focalizzarsi sul cosiddetto "repo" market, con cui un'azienda vende degli asset in cambio di cash per finanziare la sua operatività a breve. Ebbene, Valukas sottolina che Lehman, nell'intento di mantenere un merito di credito favorevole, aveva gestito un'attività di contabilizzazione interna, chiamata "Repo 50", per portare fuori bilancio circa 50 miliardi di asset. Con questa mossa Lehman, a occhi esterni, appariva meno oberata di debito e con libri contabili migliori. In una ordinaria transazione "repo", Lehman avrebbe realizzato il cash con la vendita degli asset, obbligandosi simultaneamente a riaquistarli in pochi giorni. L'operazione avrebbe dovuto essere contabilizzata come un finanziamento, e gli asset avrebbero dovuto rimanere iscritti a bilancio. Ma attraverso "repo 50" così non è stato. Ma non è stata solo la giornata di Lehman. A testimoniare è stato chiamato anche l'ex amministratore delegato di Wachovia, Robert Steel. Stell ha ricordato che, nel 2008, la Federal Deposit Insurance (Fdic) gli intimò di trovare un compratore alla sua società, perché il suo eventuale fallimento costituiva un rischio sistemico: «Avrebbe portato alla fusione del sistema bancario». Il presidente della Fidic, Sheila Bair, comunicò a Steel che avrebbe dovuto iniziare le discussioni con Citigroup. Quest'ultima, com'è noto, fece un'offerta poi superata da quella di Wells fargo. Insomma, vengono alla luce i particolari, le commistioni di potere, i conflitti, che caratterizzarono quei giorni ( e non solo). Un groviglio di rapporti che la dice lunga su come, non possono condursi alla semplice avidità di qualche "captain greed", o qualche bonus milionario, le cause della crisi finanziaria. Sarebbe troppo facile, anche se in molti continuano a sostenere quest'impostazione.

Bernanke e la crisi (3 settembre 2010).
Prima l'atto di accusa dell'ex ceo di Lehman Brothers, Richard Fuld. Ora il mea-culpa, ma anche la difesa e l'attacco, di Ben Bernanke. Il presidente della Federal reserve americana, di fronte alla Financial Crisis Inquiry Commission ammette le manchevolezze dei regulators durante la crisi ma elogia il lavoro fatto per evitare il peggio e si rallegra della nuova riforma della finanza che ha ridotto le eccessive libertà di Wall Street. «La Federal reserve fu lenta nell'individuare e gestire gli abusi nella concessione dei prestiti subprime, specialmente quelli che la Fed regola direttamente. I regulator avrebbero dovuto fare di più nel tentare di identificare il rischio per il sistema finanziario». Ma il mea culpa del governatore americano finisce qui. Non è vero, come ha tentato di sostenere ieri Fuld, che la Fed e il governo, in particolare il ministero del Tesoro, abbiano usato misure e pesi diversi per arginare lo tsunami finanziario. Né che a Lehman Brothers furono negati aiuti concessi, poi, ad altri. «Quello che mi fu detto in quella domenica di settembre 2008 è che Lehman non disponeva di sufficienti garanzie per prestargli il denaro di cui aveva bisogno. Non possiamo dare finanziamenti senza avere una ragionevole probabilità che il denaro ci venga restituito». Insomma, è la tesi, di Bernanke non potevamo fare diversamente. Lo stesso caso di Aig, salvata con un prestito da 180 milairdi di dollari e spesso portata a esempio di trattamento privilagiato, è stato in realtà«molto diverso. «Prima di tutto Aig era il principale gruppo assicurativo negli Stati Uniti mentre Lehman non era la principale istituzione finanziaria». E, poi, tra Aig e Lehman c'erano differenze fondamentali», in merito alle garanzie offerte. In ogni caso Bernanke ha sottolineato che la Fed «assolutamente rientrerà del prestito». Al di là della questione del fallimento di Lehman Brothers, Bernanke ha preso una forte posizione sul tema del «Too-big-to-fail»: cioè, delle istituzioni che sono troppo grandi, troppo interconnesse con il mercato per essere lasciate fallire. «Sono state queste banche sia una delle cause della crisi ma anche una delle situazioni che ha impedito» di gestirla al meglio. Il presidente della riserva federale Usa ha espresso, comunque, fiducia rispetto al futuro anche grazie alla riforma appena approvata di Wall Streeet. «Una legge che, insieme alle pressioni del mercato, dovrebbero scoraggiare le società finaziarie ad assumersi troppi rischi. Credo che, anche senza l'intervento diretto del governo, assisteremo al break up» di qualche grande istituzione finanzaria e «alla riduzione in generale della loro complessità». Se le grandi istituzioni minacciano il sistema vanno chiuse. Bernanke ha inoltre detto che le autorità di regolamentazione devono essere pronte a intervenire e chiudere le grandi istituzioni finanziarie se queste minacciano la stabilità del sistema. «Se noi decidiamo che queste società sono troppo grandi noi abbiamo il potere di costringerle a disinvestire certi business o di smembrale». La nuova riforma «non permetterà facilmente al governo di fare nuovi salvataggi» come nel passato. Rispetto al tema dell'innovazione finanziaria, Bernanke ha di fatto un po' censurato le sue stesse posizioni pre-crisi. Egli, infatti, più volte aveva "inneggiato" all'ingegneria finanziaria quale elemento essenziale per la crecsita dei mercati. Una posizione oggi un po' rinnegata: « L'innovazione -ha detto Bernanke- non sempre è una cosa buona. Ci sono delle situzioni in cui (...) vengono creati rischi sistemici che, peraltro, non sono sempre evidenti». Quali allora le cause della crisi, più in generale? Le accuse di una politica monetaria troppo espansiva sono rispedite al mittente: in un'analisi, che di fatto diventa arringa difensiva anche per Alan Greenspan, Bernanke sottolinea che non ci sono sufficienti prove di un legame «tra i tassi troppo bassi e la bolla immobiliare». Il vero problema, al contrario, è il sistema di «contabilizzazione ombra delle banche, la carenza di regolamentazione e l'insostenibile maccanimso di funding sul breve periodo».

Federmeccanica rescinde il contratto nazionale (8 settembre 2010).
Il direttivo di Federmeccanica ha dato mandato al presidente Pierluigi Ceccardi di comunicare fin d'ora il recesso dal contratto nazionale siglato il 20 gennaio 2008. La disdetta dell'accordo come ha spiegato lo stesso presidente Pierluigi Ceccardi, è avvenuta «a fronte delle minacciate azioni giudiziarie della Fiom relative all'applicazione di tale accordo» ed è comunicata «in via meramente tecnica e cautelativa allo scopo di garantire la migliore tutela delle aziende». La disdetta avviene a far data dal primo gennaio 2012. «Fiat non ha spinto per niente - ha detto il presidente Ceccardi - l'accelerazione che abbiamo imposto oggi è per tutelare le esigenze delle aziende metalmeccaniche e di un milione di lavoratori che dipendono da esse». Nei mesi scorsi il Lingotto aveva ipotizzato l'uscita da Confindustria per poter aggirare il contratto nazionale. Con la rescissione del contratto di fatto si scongiura questa ipotesi. Ceccardi ha spiegato che «il consiglio direttivo ha preso in esame l'evoluzione dei rapporti sindacali nel settore dopo il rinnovo del contratto nazionale del 15 ottobre 2009 e la vicenda relativa allo stabilimento Fiat di Pomigliano d'Arco». Secondo l'industriale mantovano, dal dibattito è emerso «il convincimento unanime che è necessario proseguire con determinazione nell'adeguamento delle relazioni industriali, sindacali e contrattuali alla domanda di maggior affidabilità e flessibilità che proviene dalle imprese per consentire loro una migliore tenuta rispetto all'urto della competizione globale». La situazione era giunta a un punto di ingovernabilità. Per la Fiom era valido il contratto del 2008, mentre, per Federmeccanica, Cisl, Uil e altri era valido quello del 2009 (non firmato dalla Fiom) e la Fiom minacciava azioni giudiziarie per far rispetare l'accordo del 2008 e non quello del 2009. Per fare chiarezza ed evitare problemi giudiziari alle imprese, da parte di Federmeccanica non c'era, pertanto, altra soluzione che disdettare il contratto del 2008, con l'accordo di Cisl e Uil. Il titolo in prima pagina dell'Unità è Modello Marchionne. Il pugno del padrone. - "Federmeccanica si adegua al diktat della Fiat e disdetta il contratto delle tute blu firmato due anni fa. Vuole mani libere con gli operai. Si strappa la tela delle relazioni industriali. In nome di una malintesa modernità, si fanno a pezzi i diritti consolidati del lavoro. La Fiom dà battaglia: «Una decisione irresponsabile». Landini: «Presto toccherà ad altri lavoratori». - " Io ritengo che, oramai, la Cgil sia al di fuori di qualunque logica sindacale e che essa voglia surrogare i partiti dela sinistra nel contrastare il governo Berlusconi. Nel dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino, la Cgil era la cinghia di trasmissione del Pci ora è la cinghia di trasmissione di teorie vetero socialiste in un mondo che cammina a una velocità che non consente a qualunque "vetero" di tenere il passo. Oggi la vera opposizione al governo di Berlusconi viene da Cgil e da Fini.

La Fed vede segni di rallentamento (8 settembre 2010).
L'economia statunitense continua a crescere ma «tra luglio ed agosto ha mostrato ampi segnali di rallentamento». Lo scrive la Fed nel suo Beige Book. Tra i principali fattori di questo rallentamento c'è in primo luogo il cattivo stato di salute del settore immobiliare. La Fed spiega che sui dati delle vendite di case e costruzioni in genere ha pesato la fine, a giugno, del programma di incentivi fiscali del governo. Nel rapporto rilasciato dalla Federal Reserve a due settimane dal vertice sulla politica monetaria si fa inoltre riferimento al fatto che cinque dei dodici distretti registrano condizioni «miste o di decelerazione». Nel rapporto precedente, solo due distretti, quelli di Atlanta e di Chicago, avevano mostrato dei cedimenti. Sui consumi, i segnali sono contrastati. Nella maggior parte dei distretti ci sono stati miglioramenti, con un aumento generale delle spese. Ma ad Atlanta, per esempio, i consumi sono diminuiti. Mentre a New York e Dallas la crescita è rallentata. «Le spese sono complessivamente aumentate, nonostante il perdurare della cautela dei consumatori che limitano gli acquisti non essenziali, mentre l'attività nel settore del turismo é stata relativamente superiore alle media stagionale». Mentre la ripresa economica sembra avere perso forza negli ultimi mesi, l'amministrazione Obama cerca soluzioni per ridare slancio alla crescita (in questo senso va anche la proposta di nuovi incentivi fiscali per le aziende e di investimenti per circa 50 miliardi di dollari nelle infrastrutture). Tuttavia, anche se la ripresa sembra avere perso slancio, gli esperti non prevedono che il Paese scivolerà nuovamente nella recessione, convinti dell'efficacia delle misure volute dalla Federal Reserve e confortati dalle parole del presidente della Banca Centrale Ben Bernanke, che si é impegnato a fare di più riprendendo ad acquistare asset se fosse necessario per sostenere l'economia. I tassi d'interesse, già al minimo storico, tra lo 0 e lo 0,25%, non possono essere ridotti ancora, ma la banca centrale potrebbe riprendere il suo programma di acquisti di buoni del Tesoro, lo stesso che sta mettendo in atto la Bce in Europa. All'inizio in piccole quantità, e in seguito con maggiore intensità. Secondo Bernanke, gli Stati Uniti torneranno a crescere in modo più sostenuto nel corso del 2011, quando i consumi torneranno a cresce più intensamente.

L'Ocse non vede rosa (9 settembre 2010).
L'Italia rischia di subire una contrazione del Pil su base annua nel corso del terzo trimestre pari allo 0,3 per cento. Lo prevede l'Ocse, specificando che si tratta dell'unico valore negativo tra i paesi del G7 (anche se l'ente parigino si mantiene un margine di errore piuttosto ampio su queste previsioni, pari a un punto percentuale e mezzo). Oggi l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha rivisto al ribasso le sue stime sui Sette grandi, rilevando la possibilità di un rallentamento dell'economia più accentuato di quanto atteso in precedenza. Tornando all'Italia, fanalino di coda tra i G7, l'Ocse prevede un +0,1 per cento del Pil su base annua negli ultimi tre mesi dell'anno, mentre sull'insieme del G7 viene previsto un +1,4 per cento del Pil nel terzo trimestre e un +1 per cento nel quarto. Per la Bce, invece, una ripresa moderata ma ancora incerta. Una ripresa «moderata ma inevitabilmente segnata da una perdurante incertezza». Così la situazione dell'economia della Ue nei prossimi mesi secondo la Banca centrale europea, che ha pubblicato oggi il suo bollettino mensile. I dati più recenti continuano, comunque, a «indicare una dinamica di fondo positiva della ripresa», anche se sulle prospettive dell'area euro pesano alcune incertezze collegate alla crescita di altre economie avanzate su scala mondiale. Il riferimento è soprattutto ai segnali di rallentamento dell'economia americana indicati dalla Fed soprattutto per quanto riguarda il secondo semestre dell'anno in corso, anche se per l'Eurotower «in prospettiva l'economia statunitense dovrebbe continuare a crescere a ritmi moderati». Per i paesi che in passato hanno subìto una perdita di competitività, o che soffrono di disavanzi di bilancio o commerciali elevati, la Bce indica la strada di «profonde riforme tese a potenziare la crescita della produttività». Parlando del mercato del lavoro, la Banca centrale europea chiede che «il processo di contrattazione dei salari ne consenta il flessibile e appropriato adeguamento alle condizioni di disoccupazione e alle perdite di competitività». Il mercato del lavoro nell'area euro «non riesce a tenere il passo» della ripresa; nel complesso, tuttavia, «le aspettative per l'occupazione sono migliorate dai loro minimi, suggerendo che la disoccupazione non dovrebbe aumentare ulteriormente nei prossimi mesi» rispetto all'attuale 10%. Dall'Eurotower un richiamo anche alle banche, che devono dimostrarsi «capaci di incrementare la disponibilità di credito» alle imprese, quando queste aumenteranno la propria domanda di prestiti». L'appello tiene conto del fatto che i prestiti bancari continuano a rivelare un andamento positivo nel caso delle famiglie, mentre per le società non finanziarie restano negative, anche se meno che in passato. «Ove necessario - scrive ancora la Bce - le banche dovrebbero trattenere gli utili ed eventualmente ricorrere al mercato per rafforzare il proprio patrimonio». Per quanto riguarda i conti pubblici il 2010 dovrebbe essere l'anno della svolta, secondo l'istituto di Francoforte. «Dopo il brusco deterioramento nel 2009, ci si attende che il disavanzo pubblico complessivo dell'area euro registri una sostanziale stabilizzazione».

Accordo Basilea 3 (13 settembre 2010).
Il comitato di Basilea sulla vigilanza bancaria ha dato il via all'accordo Basilea 3 per rafforzare il patrimonio delle banche ed evitare crisi globali future. Il rafforzamento dei requisiti patrimoniali concordato viene attuato essenzialmente in due modi: in primo luogo si chiede una decisa ricomposizione dei requisiti patrimoniali verso gli strumenti di qualità più elevata, si potenzia cioè il cosiddetto Common Equity composto da capitale più riserve. L'attuale requisito minimo per il patrimonio complessivo non cambia e resta all'8% in rapporto alle attività ponderate per il rischio, ma le banche che oggi stanziano il 2% come common equity nel regime Basilea 3 dovranno avere il 4,5% di questo capitale di alta qualità; inoltre il Tier one, cioè il requisito del patrimonio di base che include anch'esso altri strumenti di qualità rafforzata, passa dal 4% al 6 per cento. In secondo luogo verrà richiesto alle banche di mantenere un cuscinetto ("buffer") di capitale aggiuntivo sopra i minimi, pari al 2,5%; questo cuscinetto, spiega il comunicato, potrebbe anche aumentare nelle fasi di surriscaldamento del credito. Anche il buffer dovrà essere composto di capitale di elevata qualità . La nuova calibrazione dei requisiti è quindi più severa di quella prevista attualmente. Ma, in considerazione dell'esigenza di non compromettere la ripresa in corso , è prevista molta gradualità, in modo da permettere alle banche di continuare ad assicurare i necessari flussi di credito all'economia. L'effetto di diluizione nel tempo dell'applicazione delle regole è legato a tre meccansimi: in primo luogo c'è un'entrata in vigore graduale dei minimi e dei buffer per la conservazione del capitale (al 2013 requisiti più bassi, poi innalzamento graduale; introduzione del buffer solo in un secondo tempo); in secondo luogo, le nuove e più severe regole sulle deduzioni dal patrimonio di vigilanza entreranno in vigore progressivamente; infine, gli strumenti di capitale oggi ammessi verranno esclusi a mano a mano e quelli sottoscritti dai governi,come a esempio i Tremonti bonds, potranno rimanere integralmente per un periodo lungo. Come effetto di questi meccanismi, i nuovi requisiti saranno a regime pienamente solo nel 2020, cioè tra 10 annni e gli strumenti non più computabili nel patrimonio saranno completamente esclusi solo a partire dal 2023. Ci sarà quindi molto tempo per l'aggiustamento da parte delle banche.

Federalismo fiscale: flessibilità per Irpef e Irap (15 settembre 2010).
Con il federalismo crescerà la leva fiscale in mano ai governatori. Oltre alla possibilità di azzerare l'Irap i presidenti di regione potranno manovrare a loro piacimento l'addizionale Irpef. Sia in basso che in alto. Nei limiti di un "tetto" che dall'odierno 0,9% (elevabile all'1,4%) potrebbe passare al 3 per cento. A prevederlo è una bozza del decreto legislativo sull'autonomia di entrata degli enti territoriali elaborata dai tecnici della Semplificazione e su cui è cominciato il confronto informale con i rappresentanti delle autonomie. L'obiettivo dichiarato del ministro Roberto Calderoli è quello di riuscire a portare il testo in Consiglio dei ministri già la prossima settimana insieme con il dlgs sui costi standard sanitari. Così da chiudere la partita sull'attuazione della riforma entro quattro mesi. Per farlo dovrà però superare le perplessità già manifestate dalle regioni. Il provvedimento è ancora un semi-lavorato. Lo conferma il fatto che l'unica cifra indicata è quella sul tetto massimo della futura addizionale Irpef. Che per ora è stabilito al 3% ma che è ancora suscettibile di variazioni. Nell'attribuire ai presidenti di regione la facoltà di «aumentare o diminuire l'aliquota», il dlgs fissa un paletto anche in basso: dovrà assicurare un gettito equivalente all'ammontare dei trasferimenti regionali ai comuni che lo stesso provvedimento punta a cancellare dal 2014 in poi. Più o meno 6 miliardi di euro, stando ai dati raccolti dalla commissione tecnica paritetica guidata da Luca Antonini e contenuti nella relazione depositata in parlamento il 30 giugno scorso dal responsabile dell'Economia, Giulio Tremonti. Mani più ampie, almeno in teoria, le avranno nella gestione dell'Irap. Al posto della deducibilità dall'Ires del costo del lavoro e degli interessi passivi relativi alla quota Irap, prevista in una bozza precedente, il testo contempla ora la possibilità di ridurre fino ad azzerare, con legge regionale, l'aliquota dell'imposta sulle attività produttive (che oggi è del 3,9% variabile in su o in giù dello 0,92%). Completa il paniere a disposizione dei governatori per finanziare i livelli essenziali delle prestazioni (a costi standard) nelle loro funzioni fondamentali una compartecipazione Iva, che dal 44,7% attuale dovrebbe scendere al 25-30%, e una quota fissa del gettito Irpef per ognuno dei cinque scaglioni d'imposta, su cui potranno essere introdotte delle detrazioni a favore dei nuclei familiari. Anche in questo caso la bozza non indica il quantum. Ma specifica che la parte destinata allo stato andrà ridotta «in modo corrispondente» alla quota destinata alle regioni. Se, per ipotesi, la scelta cadesse sul 10%, la quota statale sullo scaglione più basso (23%) passerebbe al 13 per cento. Il decreto interviene poi sulla finanza provinciale. In primis trasformando la tassa di circolazione sui veicoli diversi dalle autovetture in un tributo proprio degli enti di area vasta, modificabile con proprio regolamento. Magari da affiancare all'imposta sulla Rcauto. Per i mezzi diversi dalle auto la bozza prevede anche la possibilità di versare contestualmente le imposte all'agenzia assicurativa. Inoltre, per compensare i circa 4 miliardi di trasferimenti provenienti dalle regioni che dal 1° gennaio 2014 verranno cancellati, le amministrazioni provinciali potrebbero avere diritto a una compartecipazione del gettito regionale del bollo auto nel suo complesso. In una quota da pattuire sul territorio. A partire dalla stessa data verrebbe cancellata la compartecipazione delle province all'Irpef e passerebbero allo Stato gli introiti dell'addizionale sull'energia elettrica. Come annunciato dal ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, sono quasi pronti i testi del decreto legislativo sull'autonomia di entrata degli enti locali e quello per la determinazione dei costi standard e dei fabbisogni standard nel settore sanitario. Obiettivo del governo, se l'esame dei testi procederà come auspicato dal ministro nonostante la difficile crisi politica, la partita per l'attuazione della riforma-bandiera del Carroccio potrebbe chiudersi entro l'anno.

La riforma sui derivati (15 settembre 2010).
«Nessun mercato finanziario resterà in un territorio da selvaggio west». Con queste parole il commissario Ue al mercato interno Michel Barnier ha presentato la proposta di regolazione di derivati, cds e vendite allo scoperto che stringerà le maglie della vigilanza e dei comportamenti delle società finanziarie. «È l'assenza di regolazione che ha contribuito alla crisi finanziaria» ha aggiunto Barnier. Con le proposte di oggi la Commissione Ue si avvia a completare il lavoro di riforma delle regole della finanza europea, regole che dovranno misurarsi naturalmente con quanto stanno decidendo i governi delle altre aree del mondo in particolare con gli Stati Uniti. Oggi Barnier ha teso a minimizzare il rischio di «incoerenza» delle regole che può portare ad arbitraggi nelle transazioni finanziarie. In Giappone e negli Usa (con il Dodd-Frank Act) sono state varate regole sui derivati: la Commissione «usa approcci diversi ma é in linea con la legislazione adottata in altre parti del mondo perché é importante assicurare che non ci siano arbitraggi regolatori». La proposta della Ue prevede una stretta sulle vendite allo scoperto (short selling) e sui credit default swap dal primo luglio 2012, sui derivati entro fine 2012. Sulle vendite allo scoperto di azioni, la Commissione propone di aumentare la trasparenza prevedendo che tutti gli ordini siano notificati come tali in modo che i regolatori ne siano a conoscenza. Gli investitori dovranno informare i regolatori sulla posizione netta in azioni «short» quando arrivano allo 0,2% del capitale e il mercato quando arrivano allo 0,5%. I regolatori potranno rilevare i possibili rischi alla stabilità dei mercati del debito sovrano perché riceveranno i dati sulle posizioni «short» inclusi quelle che coinvolgono i credit default swap. In tempi di stress finanziari la trasparenza da sola non basta. Attualmente sono i regolatori nazionali ad avere il potere di limitare o proibire le vendite allo scoperto. La proposta di oggi dà ai regolatori nazionali chiari poteri in situazioni eccezionali di limitare o proibire «temporaneamente» il divieto di short selling in qualsiasi strumento finanziario in situazioni eccezionali, ma i regolatori nazionali dovranno essere sottoposti al coordinamento dell'Autorità europea per i mercati finanziari (Esma) che avrà in ogni caso la possibilità di intervenire direttamente a due condizioni: che ci sia una minaccia per l'ordinato funzionamento dei mercati e per la loro integrità o che i regolatori nazionali non abbiano preso misure o le misure prese non siano sufficienti. Il blocco delle vendite di azioni allo scoperto e delle transazioni sui cds può essere solo temporaneo, può durare fino a tre mesi e può essere esteso per ulteriori periodi che non superino i tre mesi a volta. La Commissione stessa dovrà definire i criteri per determinare quando si configura una «situazione eccezionale» e agirà attraverso atti delegati che Europarlamento e Consiglio possono revocare. Nel caso in cui il prezzo di uno strumento finanziario crolli in misura significativa (per le azioni il 10%) i regolatori nazionali possono limitare le vendite allo scoperto sino alla fine del giorno di trading successivo. Ciò per rallentare o fermare il calo dei prezzi che viene amplificato dallo short selling in periodi di stress. Per le vendite «nude» (lo short selling operato senza essere in possesso dei titoli), che potenzialmente amplificano il rischio di fallimento, la Commissione propone che un investitore debba prendere a prestito lo strumento finanziario, accordarsi per prenderlo a prestito. o accordarsi con una terza parte affinché ciò possa avvenire in modo a poter chiudere l'operazione entro i termini del regolamento, cioé al più tardi quattro giorni dopo la transazione. Il divieto delle vendite allo scoperto era stata una delle misure adottate per attenuare il crollo dei mercati alla fine del 2008. Nei mesi scorsi aveva fatto discutere la decisione, nei mesi caldi della crisi della Grecia, la scelta della Germania di tornare a imporre il divieto alle vendite allo scoperto. Berlino fu accusata di aver preso una decisione senza consultare i partner europei. La mossa si sarebbe di fatto rivelata inefficace proprio perché non concertata a livello internazionale. In un contesto globalizzato come quello dei mercati finanziari infatti il divieto sarebbe stato facilmente aggirato. L'obiettivo della riforma dell'Unione europea è anche evitare che situazioni del genere si ripetano.

Irlanda, rischio default (19 settembre 2010).

Martedì, 21 settembre, Dublino andrà sul mercato dei bond con un'asta di titoli con scadenza a quattro e otto anni per verificare la fiducia degli investitori e il rischio default. Si tratta di un test molto importante per Dublino e sopratutto l'Eurozona visto che venerdì 17 settembre la Bce è intervenuta sul mercato dei bond irlandesi per stabilizzarne i rendimenti, cosa che ha avuto ripercussioni sui mercati finanziari. La situazione è critica poiché sull'Irlanda aleggia lo spettro del default sulla scia di rumors secondo cui la difficile situazione delle banche irlandesi potrebbe spingere il Governo a intervenire ancora una volta per sostenerle ed evitarne il collasso finanziario. Venerdì i credit default swaps (cds) sui titoli di Stato della ormai dimenticata 'Tigre Celtica' sono schizzati di 38 punti base toccando il massimo storico di 428,3 punti, secondo i dati di Cma DataVision, mentre il differenziale di rendimento, tra i titoli decennali irlandesi e il bund tedesco è salito a 387 punti, toccando il record dall'introduzione dell'euro nel 1999. La febbre sale e di riflesso anche i titoli portoghesi e spagnoli (il tanto temuto rischio contagio che esplose con la crisi greca) hanno visto un rialzo dello spread contro il bund. Nel caso della Spagna la forbice si è allargata soprattutto dopo che l'agenzia intenazionale Fitch ha tagliato il rating sulla regione dell'Andalusia e della Catalogna per l'aggravarsi della situazione dell'indebitamento. Tuttavia, tra i periferici di Eurolandia, quella più sotto pressione al momento è l'Irlanda che nonostante abbia fatto i compiti a casa ha una situazione bancaria difficile. «Dublino è considerata l'anello debole di Eurolandia a causa del precario stato di salute del suo settore bancario», spiegano gli analisti. A destare preoccupazioni, secondo quanto detto al Workshop Ambrosetti da Joaquim Almunia, commissario europeo all'antitrust, è in particolare l'Anglo Irish Bank, nazionalizzata a gennaio 2009 e per la quale il governo irlandese ha già speso 22,9 miliardi di euro. Un ulteriore intervento di sostegno, afferma l'agenzia di rating Standard e Poor's, potrebbe far lievitare i costi del salvataggio a 35 miliardi di euro, far esplodere il deficit pubblico già sotto pressione drenando ulteriore liquidità dalle casse del Tesoro irlandese, spiega un rapporto di Barclays Capital, forzando «il governo a chiedere aiuto» alla comunità internazionale, cioè al Fondo monetario internazionale. Un rapporto del Credit Suisse è più ottimista e ricorda i progressi macroeconomici di Dublino. Anche il ministro delle Finanze irlandese, Brian Lenihan, getta acqua sul fuoco cercando di rassicurare i mercati. Secondo Lenihan «è impensabile» che l'Irlanda finisca in default a causa della situazione del suo settore bancario, sottolinea che il paese non ha nessun problema a trovare capitali sui mercati internazionali e che l'aumento dei rendimenti dei titoli di stato è normale» alla vigilia di un'asta, in programma il 21 settembre prossimo. Per il ministero delle Finanze, inoltre, sono prive di qualsiasi «fondamento» le indiscrezioni secondo cui Dublino potrebbe chiedere aiuti all'esterno per riparare le proprie finanze. E a dar man forte al governo irlandese interviene anche il Fondo monetario internazionale dichiarando, attraverso la portavoce Conny Lotze, che «le autorità irlandesi hanno adottato tutte le misure necessarie per far fronte alla crisi del settore bancario e che quindi l'Fmi non prevede che l'Irlanda abbia bisogno di un'assistenza finanziaria» dall'esterno. Assistenza, invece, che potrebbe essere estesa alla Grecia oltre i tre anni previsti, ha spiegato il Fondo, secondo quanto riporta il Wall Street Journal. Nonostante alcune assicurazioni giova notare che la ex tigre celtica, che basava la propria prosperità su banche, speculazione finanziaria e alcune delocalizzazione favorite dai fondi europei, era in realtà un gatto europeo.

Tre tappe per il fisco federale. Il parere di confindustria (20 settembre 2010).
Otto anni, quasi due legislature. La strada che porta al federalismo – tracciata dalla bozza di decreto legislativo definito dal governo – vedrà il traguardo solo all'inizio del 2019, quando andrà a regime il nuovo fisco di regioni, province e comuni. Prima bisognerà superare due fasi: quella preparatoria, che si chiuderà con la quantificazione dei costi standard; e quella sperimentale, in cui il nuovo meccanismo verrà gradualmente messo in rodaggio. In pratica, si tratta di abbandonare definitivamente il modello storico dei finanziamenti a piè di lista. Addio, dunque, ai trasferimenti statali che coprono tutte le spese decise da sindaci e governatori. Sarà stabilito il costo "giusto" delle prestazioni essenziali – quali la sanità o la scuola – e in base a quel parametro sarà modulato l'intervento centrale. Quindi, se una regione spenderà più del dovuto (perché ha amministratori spreconi o vuole offrire più servizi), dovrà cavarsela da sola. Al contrario, le aree povere che non ricaveranno dai propri tributi le risorse sufficienti a finanziare i servizi di base, potranno contare sull'àncora di salvataggio del fondo perequativo. Il sistema, una volta a regime, promette di innescare una selezione virtuosa delle classi dirigenti, perché renderà ancora più trasparente la governance a livello locale. E anche perché gli amministratori avranno la possibilità di manovrare la leva tributaria: per esempio, riducendo o eliminando l'Irap, oppure aumentando l'addizionale Irpef fino al 3% in più. Nella fase di passaggio sarà decisiva la funzione della compartecipazione ai tributi nazionali. Oggi le regioni ricevono una grossa fetta dell'Iva (44,7%), ma questo importo viene suddiviso in modo tale da farlo funzionare come un "trasferimento mascherato". A dimostrarlo ci sono i numeri riportati nelle tabelle, estrapolate dal "Cruscotto di indicatori socioeconomici", «uno strumento che conta 55 indicatori – spiega Federico Caner, capogruppo Lega Nord della Regione Veneto, che lo ha elaborato in collaborazione con Università Bocconi e Centro studi Sintesi – che verrà messo a disposizione, in via telematica, dei gruppi consiliari della Lega, presenti in nove regioni, per aiutarli nelle loro decisioni amministrative». Se si guarda al peso dei tributi propri sul totale delle entrate, si scopre che oggi la regione con il più elevato indice di autonomia territoriale è il Lazio, seguito da Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte. In queste zone, la maggiore ricchezza delle basi imponibili e le scelte di politica fiscale fanno sì che il prelievo locale copra almeno il 45% delle entrate complessive. In Basilicata, invece, l'incidenza dei tributi propri sul totale è appena superiore al 20 per cento. Se però si include anche la compartecipazione, la Basilicata raggiunge il Lazio. Detto diversamente, la regione lucana riceve 1.719 euro per ogni abitante, contro i 741 del Lazio e i 1.037 della Lombardia. Tutte queste cifre saranno rimodulate, anche per effetto del diverso criterio che dal 2013 detterà la suddivisione del gettito Iva, tenendo conto del luogo in cui avviene il consumo. L'adeguamento, però, sarà graduale: dal 2014 dovrebbe entrare in funzione il fondo perequativo, ma per il primo anno le risorse saranno ancora assegnate a copertura dei costi storici, mentre per i quattro anni successivi si avvicineranno progressivamente al livello dei costi standard. Indicazioni, queste, che attendono conferme dall'incontro governo-regioni. Dalla partita non sono esclusi i comuni, che anzi saranno i primi a testare l'effetto del federalismo: lo schema di Dlgs varato prima delle ferie prevede per gennaio dell'anno prossimo il debutto della cedolare secca sugli affitti.
«Abbiamo sempre detto che riteniamo il federalismo fiscale una grande riforma, purché porti a una riduzione della spesa pubblica improduttiva, degli sprechi e degli enti inutili». Così il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, dall'assemblea generale di Bergamo. Secondo la leader degli industriali, la norma «di cui si parla e che prevede la ineleggibilità degli amministratori che non rispettano i conti, soprattutto quelli sanitari, ritengo che sia giusta e importante. La chiedevamo da tempo». Il presidente di Confindustria ha ribadito che «se il federalismo diventa riduzione della spesa pubblica, maggiore resposabilità e penalizzazioni per gli amministratori locali che operano male, siamo d'accordo». Per la ripresa, accanto al federalismo fiscale e al nucleare, servono però altri provvedimenti: «serve una scommessa seria su ricerca, innovazione, scuola, infrastrutture, il taglio della burocrazia. La crescita - ha concluso Emma Marcegaglia - viene da una serie di riforme che vanno portate avanti senza indugi». Il numero uno di Viale dell'Astronomia ha parlato anche del «problema fondamentale» della pressione fiscale, « che va affrontato ridistribuendo il carico per ridurlo su imprese e lavoratori che tengono in piedi il paese». La Marcegaglia ha poi affrontato il nodo della lotta all'evasione fiscale, i cui proventi, «debbono essere destinati anche al taglio alle tasse su lavoratori e imprese e non solo a coprire i conti pubblici».

La cacciata di Profumo da Unicredit (22 settembre 2010).
Alessandro Profumo non è più alla guida di Unicredit. L’amministratore delegato, dopo quindici anni nel gruppo, è stato alla fine sfiduciato dal board, al termine di una giornata snervante, fitta di notizie e smentite sulle sue dimissioni, circolate prima del Cda straordinario fissato nel tardo pomeriggio. «C'è stata una richiesta di dimissioni da parte del Consiglio di amministrazione di Unicredit, e mio marito si è dimesso firmando questa richiesta» ha detto a tarda serata la moglie del top manager, Sabina Ratti. Le deleghe passano al presidente Dieter Rampl che, nelle prossime settimane, come spiega un comunicato diffuso nella notte, identificherà il nuovo ad. Nel frattempo, il gruppo sarà guidato dal presidente supportato dai Deputy CEO. Contrariamente alle previsioni della vigilia, si è dunque arrivati alla "conta". Secondo le indiscrezioni trapelate, durante la riunione durata quasi cinque ore, alcuni consiglieri avrebbero manifestato contrarietà all’uscita di Profumo dal gruppo, anche per motivi legati alla stabilità della banca. Alla fine però, hanno nettamente prevalso i favorevoli alla sfiducia. Il Cda ha così attribuito ad interim le deleghe che erano di Profumo al presidente Dieter Rampl, la cui figura esce a questo punto a testa alta dal confronto-scontro con l’amministratore delegato sulla mancata comunicazione dell’incremento della presenza della compagine libica nell’azionariato. Del drappello di "difensori" dell’ad risulterebbero far parte Salvatore Ligresti e il vice presidente Farhat Bengdara, numero uno della Banca Centrale della Libia, che detiene il 4,988% di Unicredit. L'accordo sulla buonuscita di Profumo c'è, come ha spiegato la moglie lasciando, a tarda serata, lo studio legale Erede Bonelli Pappalardo. All'ormai ex ad di Unicredit, che percepiva uno stipendio di oltre 4 milioni di euro l'anno e che ha firmato la risoluzione consensuale con l'istituto di credito, andranno circa 40 milioni di euro. «Ci tengo a dirvi che una parte della buonuscita, due milioni di euro, sarà data in beneficenza a Don Colmegna». «Io e mio marito siamo serenissimi - ha aggiunto -, non è la fine del mondo, non c'è solo Unicredit, ci saranno altre opportunità». La situazione di impasse venutasi a creare in Consiglio di amministrazione non era prevedibile, visto l'accordo di massima raggiunto in precedenza e che prevedeva l'addio dell'amministratore delegato. Profumo però ha voluto giocare le sue carte fino all'ultimo, cercando la fiducia del consiglio. Ha trovato solo il voto favorevole del consigliere indipendente, Lucrezia Reichlin. E a nulla è servito, nella fase degli incontri preventivi, l'intervento a suo sostegno di uno dei principali azionisti di Unicredit, Ligresti che si era detto «favorevole alla stabilità». Alla base del redde rationem di Piazza Cordusio pare non ci sia solo la questione libica, ovvero il ruolo della Banca centrale libica - che detiene il 4,99 per cento - e quello del fondo Libyan Authority Investment (Lia), che ha ufficializzato alla Consob di essere salito al 2,594 per cento. Alcuni azionisti - in primis i «falchi» Luigi Maramotti e Fondazione Cariverona - sembra fossero critici da tempo sul ruolo dell'ad, nel mirino anche per il progetto «One4C», il cosiddetto «bancone». Sulla questione libica è intervenuto anche l'imprenditore franco-tunisino, e membro del patto di sindacato di Unicredit, Tarak Ben Ammar che ha detto di non credere che i soci di Tripoli siano irritati per la vicenda Profumo. La giornata, caratterizzata dalla flessione del titolo in Borsa e dai forti scambi azionari, si era aperta con i grandi azionisti che, in particolare tramite il presidente Dieter Rampl, avevano tenuto ferme le posizioni di aspra critica verso Profumo. E l'amministratore delegato aveva capito che i margini per un accordo in extremis risultavano pressoché inesistenti. Un peso decisivo ha avuto la reazione dei consiglieri di amministrazione tedeschi, infastiditi anche dal pressing della politica che nelle ultime ore si era fatto insistente nel tentativo di sostenere Profumo. Al Cda nella sede di Unicredit ha partecipato, per la prima volta (fino ad ora era apparso solo in videoconferenza), Farhat Omar Bengdara, Governatore della Banca centrale Libica, azionista con il 4,99 per cento dell'istituto. «Quella su Profumo e sul suo successore è una scelta che spetta al cda e ai soci. Dopodiché, io auspico soprattutto che adesso gli organismi di controllo, Bankitalia, Consob, fermino la scalata libica a Unicredit» il sindaco di Verona, il leghista Flavio Tosi, commenta le dimissioni di Profumo. «In questa vicenda - ha ricordato Tosi - io sono intervenuto come sindaco che rappresenta un territorio nel quale questa banca, Unicredit, ha molti interessi. A prescindere dal ruolo di Profumo, io ho manifestato la preoccupazione riguardo alla possibilità che l'istituto, per il legame che ha con il nostro territorio, potesse passare sotto il controllo libico». Il Comune di Verona esprime diversi consiglieri in Cariverona, la cui Fondazione detiene il 4,98% di Unicredit. Oggi tutta la stampa italiana si occupa del "caso Profumo" le interpretazioni sulla vicenda sono molto discordi; chi attribuisce la caduta di Profumo a Berlusconi, chi alla Lega, chi al suo essersi dichirato favorevole al Pd, chi a Mediobanca. Io ritengo che Francesco Gavazzi sul Corriere abbia fatto un'analisi in buona parte corretta "Non è il disaccordo sulla presenza dei libici che ha indotto le fondazioni italiane e gli azionisti tedeschi a sfiduciare Alessandro Profumo .... Sarebbe infatti sciocco opporsi a un socio di minoranza che non esita a mettere mano al portafogli quando la banca ha bisogno di capitale fresco. La Libia è solo un pretesto. Il vero scontro che oppone Profumo ai grandi azionisti della banca è la sua decisione di trasformare Unicredit da una somma di feudi locali (Monaco di Baviera, Verona, Torino, Modena, Treviso...) in una struttura unica, come lo sono le grandi banche internazionali, a esempio Hsbc (Hong Kong and Shanghai Banking Corporation), la più estesa e la migliore banca al mondo. Una banca unica è più efficiente, ha costi inferiori ed è in grado di offrire ai propri clienti (aziende e famiglie) credito e servizi a condizioni più favorevoli. È evidente che se fossero i clienti a decidere sceglierebbero una banca unica; ma non sono loro, e gli interessi dei grandi azionisti di Unicredit non coincidono con quelli dei suoi clienti. Per creare una banca unica è necessario smantellare tanti piccoli feudi, ciascuno con i suoi interessi locali, con le sue parrocchie e le sue poltrone da difendere. «Quando ci sono delle decisioni che incidono sul mio territorio ho diritto di dire la mia» ha proclamato ieri Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona. Non vi è dubbio, anche se il suo diritto si limita a poter esprimere un’opinione perché il sindaco di Verona non è un azionista di Unicredit. Tosi omette di spiegare perché teme la banca unica: forse perché essa ridurrebbe il suo «peso politico» in Unicredit? Oppure pensa che danneggerebbe le aziende della sua città? Ma se così fosse, come mai ieri Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, è scesa in campo in difesa del progetto di Profumo? ... I piccoli feudi non esistono solo in Italia: l’altro ieri la Süddeutsche Zeitung lamentava che Monaco di Baviera non è più un grande centro finanziario; sono rimaste BayernLB, una cassa di risparmio in difficoltà, e l’ex Hvb, una banca che Unicredit ha acquistato salvandola dal fallimento. È curioso che dopo i loro clamorosi insuccessi i bavaresi oggi reclamino posizioni di comando in Unicredit (caso mai, voce in capitolo nella gestione della banca potrebbe chiederla a giusto titolo la Polonia, dove Unicredit va a gonfie vele). Alessandro Profumo ha anche commesso degli sbagli: comprare Capitalia, per esempio, e gestire troppo frettolosamente l’ingresso dei libici. Ma oggi paga per una sua scelta giusta: non aver accettato di venire a patti con le consorterie che comandano in Italia. In quindici anni ha creato l’unica grande multinazionale con una testa italiana. I piccoli feudi sono fermamente intenzionati a distruggerla. Con il capitalismo dei feudi le nostre imprese non andranno lontane. E le modalità ieri usate dagli azionisti possono solo danneggiare la reputazione dell’Italia." Io, personalmente, temo che invece di cadere in mano libica Unicredit possa cadere in mano tedesca.

Disoccupazione a livello record (23 settemvre 2010).
Disoccupazione a livelli record nel secondo trimestre dell’anno, nonostante la ripresa dell’economia. Ad aprile-giugno - comunica l’Istat - il tasso di disoccupazione è salito all’8,5%, con un aumento di 0,1 decimi di punto rispetto al primo trimestre e di 1 punto nel confronto con il secondo trimestre dell’anno scorso. L’8,5% è il dato più elevato dal terzo trimestre del 2003. L'incremento tendenziale della disoccupazione si concentra nel Nord tra gli ex-occupati; nel Centro e nel Mezzogiorno tra gli altri gruppi dei disoccupati. Alla crescita della disoccupazione si accompagna un moderato aumento degli inattivi rispetto al secondo trimestre 2009 (+92.000 mila unità), sintesi di una lieve riduzione delle non forze di lavoro italiane e di un ulteriore incremento di quelle straniere. La caduta tendenziale dell'occupazione riflette il sensibile calo della componente maschile (-1,2%, pari a -172.000 unità) e la contenuta flessione di quella femminile (-0,2%, pari a -23.000 unità). In forte aumento i disoccupati nel secondo trimestre dell’anno: raggiungono il livello massimo da quasi dieci anni. Ad aprile-giugno - comunica l’Istat - il numero delle persone in cerca di lavoro raggiunge quota 2,136 milioni, con un aumento dell’1,1% rispetto al primo trimestre (+24mila persone) e del 13,8% su base annua. Era dal secondo trimestre del 2001 che non si raggiungeva un livello così alto di disoccupati. Prosegue la forte riduzione degli occupati italiani (-257.000 uomini, pari al -2%; -108.000 donne, pari al -1,3%) a fronte di un nuovo significativo incremento degli stranieri (+85.000 uomini e +86.000 donne). A livello territoriale, alla riduzione del Nord (-0,9%, pari a -114.000 unità) e del Mezzogiorno (-1,4%, pari a -88.000) si accompagna la sostanziale stabilità del Centro. Con riferimento alla crescita tendenziale dell'occupazione in Valle D'Aosta, nella provincia autonoma di Bolzano, in Friuli V. Giulia, nelle Marche e nel Lazio, si segnala che gli intervalli di confidenza, al 95% di probabilità, si sovrappongono dando luogo a variazioni statisticamente non significative. Il tasso di occupazione degli uomini tra i 15 e i 64 anni scende, nel secondo trimestre 2010, al 68% (-1,1 punti percentuali su base annua), quello delle donne al 46,5 per cento (-0,3 punti percentuali). Dal primo trimestre del 2009, e nonostante la crescita del numero di occupati, il tasso di occupazione degli stranieri continua a ridursi, posizionandosi al 63,6% (65,2% nel secondo trimestre 2009). Per gli stranieri, l'indicatore si attesta al 76,1% tra gli uomini (78,4% nel secondo trimestre 2009) e al 52,1% tra le donne (52,7% nel secondo trimestre 2009). Oltre un giovane su quattro in Italia è disoccupato. Il tasso di disoccupazione dei giovani di 15-24 anni, segnala l'Istat, nel secondo trimestre del 2010 raggiunge il 27,9%. Si tratta del dato più alto dal secondo trimestre del 1999.

Confindustria piano di rilancio per le piccole e medie imprese (24 settembre 2010).
Confindustria, Piccola Industria e Intesa Sanpaolo hanno sottoscritto un nuovo accordo, che fa seguito a quello del luglio 2009, per assistere al meglio le piccole e medie imprese industriali italiane «nell'attuale fase congiunturale ancora difficile ma certamente più orientata alla crescita e allo sviluppo». L'accordo mette inoltre a disposizione 10 miliardi di euro di plafond specificamente destinati a interventi e investimenti nei tre ambiti strategici individuati da Piccola Industria e Intesa Sanpaolo per rilanciare la competitività delle aziende italiane: internazionalizzazione, innovazione e crescita dimensionale. «Chiediamo al governo - ha detto la leader degli industriali - che, da qui a dicembre, metta in piedi un progetto per le riforme, per la competitività, con provvedimenti e stanziamenti a favore della ricerca e dell'innovazione, ma anche dell'internazionalizzazione utilizzando la leva fiscale per favorire la capitalizzazione e l'aumento dimensionale delle imprese». Per Emma Marcegaglia è fondamentale «che il governo faccia la sua parte» e ha sottolineato che «in questo momento difficile, dobbiamo unire le forze e mettere a disposizione delle piccole e medie imprese strumenti concreti che permettano loro di essere più competitive, in una congiuntura ancora complicata». Il rigore dei conti pubblici, ha ribadito Marcegaglia, é ineludibile ma va coniugato con lo sviluppo. «Il momento é complesso - dice - ma dobbiamo porci obiettivi chiari. È un momento in cui, ci piaccia o no, il rigore dei conti pubblici é fondamentale ma va portata avanti anche una strategia di crescita. Avendo pochi soldi da investire, ci sono alcuni punti» da portare avanti con chiarezza: crescita dimensionale delle piccole e medie imprese, ricerca e innovazione, internazionalizzazione. Crescita e capitalizzazione sono «una missione per le piccole e medie imprese», ha spiegato Marcegaglia, «una parte consistente della nostra industria manifatturiera ha bisogno di crescere perché se non c'é capacità di crescita vuol dire che non c'é capacità di attrarre investimenti» e per questo sono necessari «strumenti fiscali per la capitalizzazione e il reinvestimento degli utili nelle imprese». Su ricerca e innovazione, secondo la presidente di Confindustria, «il Governo deve fare una scelta chiara» anche perché «la Germania ha tagliato tutto tranne ricerca, innovazione e scuola». Per l'internazionalizzazione Confindustria chiede che «venga varata una ristrutturazione di tutte le reti del sistema Italia all'estero e nei prossimi giorni proporremo una riorganizzazione della rete Italia».

Marchionne: la situazione in Italia è seria (27 settembre 2010).
Ha dato il «la» il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei che, al convegno sulle relazioni industriali di Genova nel week end scorso, invitava al dialogo i sindacati. Aveva risposto, seppure con prudenza e sempre allo stesso convegno, il segretario nazionale dell Cgil. In un passaggio durante la tavola rotonda, Guglielmo Epifani aveva detto: «In una fabbrica dove la maggioranza dei lavoratori vota un accordo ebbene la minoranza deve attuarlo» . Un riferimento, evidentemente, al caso di Termini Imerese. Oggi, mentre le agenzie battono la notizia che la Fiom ha deciso di volare Oltreoceano per incontrare i rappresentanti dei sindacati americani, Sergio Marchionne, tra un dato di produzione e l'altro, ha detto: «Quello che è successo lo scorso week end a Genova, al convegno della Confindustria, è un'apertura che giudico molto positiva. Sono sempre stato convinto che è sulla strada del dialogo costruttivo che si devono affrontare i problemi e che si possono trovare le soluzioni». Secondo Marchionne, «la situazione in cui ci troviamo, in Italia, è estremamente seria» occorre «mettere mano alla situazione» e «fare qualcosa prima che sia troppo tardi». «Quello che so - ha detto Marchionne - è che il resto del mondo non sta ad aspettare i nostri tempi, i nostri timori, i nostri rinvii. I lavoratori meritano soluzioni e prospettive certe». Proprio sul tema delle relazioni industriali, e su come si stia tentando di trovare un nuovo spirito tra Confindustria e i sindacati (in particolare con la Cgil), da annotare la dichiarazione di Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica. «È stato spinto per lasciare fuori la Cgil, io mi sono impuntato e ho detto che il contratto (dei chimici, ndr) doveva essere firmato da tutti», ha detto l'industriale. In questa fase difficile per l'economia italiana, dove il rischio è di «uscire dalla crisi - sono le parole del segretario del Pd Pier Luigi Bersani sempre a Genova - con una base produttiva più piccola di quella con cui ci siamo entrati», viene quindi evocato quello che potrebbe definirsi lo "spirito" di Genova. In quella sede Bombassei ha sottolineato che «ci sono tutte le condizioni per decidere di fare insieme un primo tagliando all'accordo del 2009 e, con i sindacati tutti, firmatari e no, verificare oggettivamente lo stato dell'arte». «I tempi? Al più presto, entro l'anno mi sembra ragionevole», ha aggiunto. L'invito della Confindustria era rivolto anche alla Cgil: «Non abbiamo alcun preconcetto contro nessuno - ha spiegato Bombassei - più siamo meglio è. L'importante è che non si pongano condizioni, non si mettano limiti. Bisogna sedersi sgombri da preconcetti, con l'obiettivo di guardare avanti e non con lo specchietto retrovisore». Gli industriali, ha aggiunto il vicepresidente di Confindsutria, sono anche «pronti» a un accordo interconfederale sulle regole di rappresentanza. «Non una legge. La legge eventualmente dopo, per darne validità generale». Tornando all'oggi, la Cgil ha presentato un rapporto sulla crisi dei salari. Secondo l'analisi del sindacato i lavoratori dipendenti italiani hanno perso in dieci anni oltre 5 mila euro di potere d'acquisto. Nel decennio 2000-2010 le retribuzioni hanno avuto, a causa dell'inflazione effettiva più alta di quella prevista, una perdita cumulata del potere di acquisto di 3.384 euro ai quali si aggiungono oltre 2 mila euro di mancata restituzione del fiscal drag che porta la perdita nel complesso a 5.453 euro.

La crisi ha colpito di più il Nord - Stime del Pil in ralzo (30 settembre 2010).
La crisi ha colpito in proporzione più duramente al Nord che al Sud. Nel 2009 il Pil infatti si è ridotto del 6% nel Nord-Ovest, del 5,6% nel Nord-Est, del 3,9% nel Centro e del 4,3% nel Mezzogiorno, a fronte di un valore nazionale pari a -5%. Lo rende noto l'Istat nello studio «Principali aggregati dei conti economici regionali». Il Pil per abitante ai prezzi di mercato , misurato dal rapporto tra Pil nominale e numero medio di residenti nell'anno, segna una flessione del 3,7% a livello nazionale. Il calo è più contenuto nel Mezzogiorno (-2,7%) e nel Centro (-2,9%), mentre è più marcato nel Nord-Ovest (-4,6%) e nel Nord-Est (-4,5%). In valori assoluti il Pil ai prezzi di mercato per abitante del Centro-Nord continua ad essere sensibilmente più elevato di quello del Mezzogiorno: 30.036 euro nel Nord-Ovest, 29.746 euro nel Nord-Est e 28.204 euro nel Centro, contro i 17.324 euro del Mezzogiorno. Stime di crescita del Pil italiano nel 2010 riviste al rialzo. Quest'anno il prodotto interno lordo crescerà dell'1,2%, in aumento rispetto alle precedenti previsioni che lo fissavano all'1%. Lo prevede il nuovo quadro macroeconomico contenuto nella Decisione di finanza pubblica (Dfp), che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha presentato ed è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Il documento di finanza pubblica prevede una crescita dell'1,3% nel 2011, inferiore rispetto alle precedenti stime (1,5%). Per il 2012-2013 la crescita dovrebbe essere intorno al 2%. Il rapporto debito/Pil si assesterà invece nel 2010 al 118,5% anziché al 118,4%, nel 2011 al 119,2% anziché al 118,7% e dal 2012 tornerà a scendere, portandosi al 117,5%. Il peggioramento del debito - spiega il Dfp - si deve alla minore crescita e all'impatto del contributo per la Grecia. Confermate le stime per il deficit/Pil al 5% quest'anno e al 3,9% nel 2011.

Unicredit di Ghizzoni (30 settembre 2010).
«UniCredit resterà una banca paneuropea e siamo pronti a crescere in alcune aree dell'Est. Ma credo si imponga una rivisitazione del perimetro delle attività, anche perché Basilea 3 ci impone di ottimizzare l'allocazione del capitale. Nei Paesi baltici, per esempio, siamo presenti con tre banche che hanno una quota di mercato dell'1%. È un'area sulla quale ha senso fare una riflessione. Ma a livello strategico non vi saranno rivoluzioni rispetto all'era Profumo». Federico Ghizzoni, piacentino, 55 anni di cui oltre 15 trascorsi all'estero, è il nuovo amministratore delegato di UniCredit Group. Al termine di una lunga giornata di incontri con il management e con la stampa, concede la sua prima intervista da ceo. Seduto accanto al presidente Dieter Rampl negli uffici di Piazza Cordusio, non nasconde l'emozione e l'orgoglio del bancario che è diventato banchiere. «La prima chiamata che ho fatto dopo la nomina è stata ad Alessandro Profumo, che ha costruito questo gruppo». In mattinata ha ricevuto gli auguri del Premier Silvio Berlusconi. E insieme a Rampl è stato in contatto con Bankitalia e Ministero dell'Economia, dove nei prossimi giorni andrà a presentare le "credenziali". L'inizio della conversazione, malgrado la riservatezza cui l'intero board deve attenersi, non può che partire dall'uscita di Profumo. Presidente Rampl, quale è stata la vera motivazione della sfiducia a Profumo? RAMPL: I giorni dell'uscita di Profumo sono stati tra i più pesanti della mia vita. Capisco le vostre curiosità, ma non posso e non voglio dire molto di più. Profumo ha costruito questa banca. E durante la crisi siamo andati avanti insieme, difendendone l'indipendenza. Ma poi ci sono state diverse tensioni tra il board e Profumo. Diciamo: problemi di governance, di rispetto dei ruoli. La priorità del board non poteva che essere la banca, non le singole persone. Diciamo che, dopo quindici anni di apprezzato lavoro al vertice, forse era arrivato il tempo di cambiare. Scusi ma insistiamo: è vero che ha pesato anche l'ipotesi di vendita del Mediocredito Centrale alle Poste e alle cooperative, necessario al Governo per creare la Banca del Sud? E la cessione andrà avanti o si è fermata? GHIZZONI: Il dossier Mcc l'ho ereditato e posso rispondere su quello che faremo d'ora in poi. Per noi Mcc non è un asset strategico, quel business può essere fatto da altre società del gruppo. Le trattative, dunque, vanno avanti. L'eventuale cessione dipenderà anche dal prezzo. Due anni fa, parlando di Profumo, il presidente Rampl disse: "He is the bank". Adesso "who is the bank"? Lei, presidente? O il ceo Ghizzoni? O il board? RAMPL: Esistono figure particolari di banchieri che hanno costruito una banca. Ma in un grande gruppo internazionale con 165mila dipendenti, esiste una prima linea di top management. Sarebbe sbagliato pensare a una persona. Il Santander, per fare un esempio, non è rappresentato solo da Emilio Botin ma da un grandissimo management internazionale. Lo stesso vale per UniCredit. Ghizzoni: Su questo punto vorrei che venisse riconosciuto a Profumo il grande merito di aver creato un forte team che ha lavorato insieme a lui. Però in prima battuta, la ricerca era stata condotta anche all'esterno. Tanto che avevate tentato di "ingaggiare" Andrea Orcel di Bofa-Merrill Lynch, un investment banker dal profilo completamente diverso rispetto a Ghizzoni. Come lo spiega? RAMPL: . Quando un grande gruppo deve nominare un nuovo chief executive officer, ha l'obbligo di valutare tutte le opzioni. Abbiamo contattato Orcel, che stimiamo. E poi abbiamo valutato i diversi profili con i membri del board, a partire da quelli del comitato nomine. La scelta unanime è stata Ghizzoni, che a nostro giudizio ha tutte le qualità per guidare la banca con indipendenza nei prossimi anni. Le Fondazioni, come ha sostenuto il presidente delle Generali Cesare Geronzi, sono state decisive nell'allontanamento di Profumo? E quanto ha pesato la politica in queste scelte? RAMPL: La politica non ha avuto alcun ruolo. E le Fondazioni sono azionisti con gli stessi diritti di tutti gli altri. Vorrei ricordare che abbiamo il board più internazionale tra le società italiane. E il gruppo ha uno standing internazionale. Veniamo al resto dell'azionariato. Ha fatto molto discutere l'avanzata dei soci libici, ora al 7,5%, che si aggiunge al fondo di Abu Dhabi che ha il 4,9%. Senza contare la forte presenza nel board di consiglieri tedeschi, che non trova corrispondenza in un proporzionale peso nell'azionariato. Sarà un UniCredit sempre meno italiano? GHIZZONI: Sul tema dei libici, il presidente Rampl e il board hanno già detto di avere bisogno di ulteriore documentazione per valutare l'indipendenza dei due veicoli d'investimento. In generale, posso dire che ogni grande banca ha bisogno di investitori stabili e di lungo periodo. E sia l'arrivo dei libici che di Abu Dhabi va in questa direzione. Rampl: La presenza nel board di consiglieri tedeschi deriva dagli accordi di fusione tra UniCredit e Hvb, che ora sono scaduti. Il consiglio è stato comunque eletto per tre anni nell'assemblea del 2009. Nel nostro capitale, è presente Allianz con più del 2%. ma anche, con una quota minore la AVZ Fondazione di Vienna, ex azionista di Bank Austria. Ricordo che l'ex-ministro delle Finanze tedesco Theodore Waigel rappresenta gli investitori istituzionali ed è stato indicato per il board da Assogestioni. Veniamo al team di vertice. Chi sarà il nuovo direttore generale? GHIZZONI: Io ho già le idee molto chiare su come riorganizzare le deleghe. Datemi qualche giorno di tempo per parlare con i manager interessati. Sono convinto che ci sia spazio per tutti. Quali sono le sue priorità nell'agenda? GHIZZONI: Nel breve periodo, oltre alla definizione del team di vertice, penserò a continuare i progetti in corso. In Italia è prioritario il varo del progetto banca unica. Per noi è una sfida essenziale perché ci riavvicineremo al territorio. E non è uno slogan, ma un grande progetto organizzativo che, di fatto, per come è stato impostato, porterà alla creazione di 100 banche locali. Con un forte decentramento nel processo di erogazione del credito. L'Italia pesa per circa il 50% dell'attivo, ma nel 2009 ha contribuito solo per il 5-10% all'utile. Esistono problemi specifici? Quanto ha pesato la coda dell'acquisizione di Capitalia? GHIZZONI: L'operazione Capitalia ha portato più vantaggi che svantaggi. Grazie alla fusione, abbiamo ottenuto importanti sinergie di costo. No, i problemi sono altri. Alcuni di sistema Paese, penso alla scarsa capitalizzazione delle imprese rispetto alla Germania. O ai diversi tassi di crescita dell'economia. A questo, bisogna aggiungere che con l'attuale livello dei tassi d'interesse, guadagnare nel retail è difficile per tutti. L'impressione, però, è che UniCredit abbia problemi propri. Anche a livello commerciale...Non ci nascondiamo le difficoltà. Altrimenti non avremmo varato un grande progetto come la "banca unica". Abbiamo le risorse per rilanciarci anche in Italia. Nel frattempo andiamo avanti con la riorganizzazione della rete. Abbiamo chiuso 600 filiali. E continuiamo ad avere un forte focus sui costi. E all'estero? Quanto c'è di vero sulle ipotesi di spin-off delle attività in Germania che potrebbero tornare in mano a investitori tedeschi? RAMPL. È una ipotesi a cui assolutamente non ha mai pensato nessuno.E nel Centro Est Europa? GHIZZONI: Le ho già detto che da alcune aree, come i Paesi baltici, possiamo uscire. Valuteremo questa opzione anche in altre aree dove siamo presenti con quote di mercato non rilevanti. In altri Paesi, come la Slovenia dove siamo la settima banca del Paese, ci concentreremo molto più sul corporate che sul retail. In Polonia e Turchia invece puntiamo a crescere ancora. Si tratta di Paesi, soprattutto la Turchia, assimilabili ai Bric. In un Paese con 75milioni di abitanti e con tassi di crescita dell'economia del 10%, abbiamo una banca leader con 950 filiali. Investiremo ancora.È stato uno sbaglio comprare la banca in Kazhakistan nel 2007? Si dice che sia uno degli errori che vengono imputati a Profumo. La banca è in vendita? GHIZZONI: A posteriori, l'investimento non è stato profittevole. Ma all'epoca c'erano tutte le condizioni per farlo. Si tratta di un Paese che ha grandi risorse naturali e grandi potenzialità, dove sono presenti molte altre banche dell'Occidente. Per il momento, lavoriamo per ristrutturala e riportarla in utile. Certo, non è il momento adatto per venderla.A proposito di cessioni, la quota in Mediobanca può essere messa in vendita? E quanto c'è di vero nelle ipotesi di merger con UniCredit? RAMPL: Abbiamo detto più volte che la partecipazione è strategica. Oltretutto, venderla a questi prezzi non avrebbe alcun senso. Una fusione tra UniCredit e Mediobanca? Fatico a capire quale beneficio ci sarebbe.Tema Basilea 3. Ubs ha appena annunciato che potrebbe non distribuire dividendi agli azionisti per accumulare capitale. È un'ipotesi che anche UniCredit sta valutando? GHIZZONI: Assolutamente no. Noi crediamo di avere capitale sufficiente per affrontare le nuove regole di Basilea 3 senza rinunciare al dividendo. Naturalmente, siamo consapevoli di dover lavorare per ottimizzare l'allocazione del capitale. E sarà necessario rivedere il business model di alcune attività. Certo, le banche europee sono penalizzate rispetto a quelle americane a causa delle autonomie regolamentari dei diversi Paesi. In Polonia, per esempio, abbiamo un Core Tier 1 del 18%, in Croazia del 20%. Ma il patrimonio in eccesso non è facilmente trasferibile. Ghizzoni e la politica. Finora ha lavorato all'estero, dove però coordinava 19 banche in 16 Paesi diversi. Che rapporti aveva con i Governi? Quando da "straniero" operi in un Paese, devi cercare di essere percepito come locale. Io, per esempio, durante la crisi, ho sempre dato direttive di sostenere le economie e le aziende. Ma ovviamente la politica non deve mai interferire in una banca privata. Io finora non ho avuto problemi di sorta.Una curiosità finale, e molto italiana, ancora per Ghizzoni. Anche lei, come Profumo, era andato a votare per le primarie del Partito Democratico? (sorridendo...). Sa che non ricordo?

Il destino di Alfa Romeo (30 settembre 2010).
«Volkswagen vuole l'Alfa Romeo? Che aspetti. Nel nostro radar di opzioni quella non c’è». Lo ha detto l'amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, parlando con i giornalisti presso lo stand Ferrari al Salone dell'auto di Parigi. Marchionne ha ricordato che su Alfa «abbiamo preso un impegno» e che l’alleanza con Chrysler «dà una base forte, tecnica all’Alfa. Poi se si presentano con 100 miliardi... sto scherzando». Mercoledì sera, il management di Volkswagen aveva rilanciato l’offerta per l’Alfa, dicendosi disposta ad aspettare il tempo necessario, anche due anni. «Il terzo trimestre si chiuderà per la Fiat con conti positivi superiori alle attese. Alzeremo gli obiettivi del 2010 del Gruppo», ha aggiunto l'amministratore delegato del Lingotto. In precedenza il presidente del consiglio di sorveglianza di Volkswagen, Ferdinand Piech, proprio su una possibile proposta di acquisizione del brand Alfa Romeo da parte della casa automobilistica tedesca aveva detto: «Osserviamo con attenzione a quello che sta facendo Fiat in Italia e all'estero. Siamo ancora interessati ad Alfa Romeo, che è uno dei brand con maggiore potenzialità di crescita e su questo argomento ne potremo riparlare tra un paio d'anni». Sollecitato sulle speculazioni riguardanti una possibile vendita di Seat per acquisire Alfa Romeo, Piech ha smentito categoricamente e ha anzi precisato: «Seat potrebbe essere per Alfa quello che Skoda è per Volkswagen». Una sottile osservazione che lascia intendere come nella possibile strategia del Gruppo vi sia un'area «emozionale e sportiva» in cui la Casa del Biscione potrebbe diventare il marchio leader e la Seat un brand satellite, che utilizza le stesse tecnologie e le stesse competenze progettuali per portare a un pubblico più vasto i valori Alfa Romeo. Marchionne è poi intervenuto anche sul tema Ferrari: «Ci riprenderemo il 5% della Ferrari, il nostro obiettivo è di riportare il 90% a casa. E' un impegno che ho preso quando sono entrato nel gruppo nel 2004. La vendita è stata fatta in modo affrettato. Credo sia ora di riportare Ferrari a casa: appartiene alla Fiat». Il riferimento è alla trattativa con il fondo sovrano di Abu Dhabi, Mubadala. Marchionne ha aggiunto, che per quanto riguarda la quotazione della Ferrari «è una delle cose che può succedere, ma non c'è nessun piano immediato». Il piano di investimenti del Gruppo Fiat in Italia, che è subordinato agli accordi con i sindacati, va realizzato entro l'anno ha poi spiegato Marchionne: «Se ci giochiamo un anno avremo un impatto disastroso sul piano sviluppo del prodotto e saremo costretti a guardare alternative. Stiamo arrivando ai limiti, entro fine anno dobbiamo decidere». L'ad della Fiat si è poi soffermato sugli aspetti finanziari relativi alla casa automobilistica. «Probabilmente le società di rating confermeranno l'outlook negativo di Fiat. Ormai - ha aggiunto Marchionne - ho imparato una cosa con le agenzie di rating, è inutile cercare di spingere. Hanno un certo percorso e lo devono fare, fino a quando non si rendono conto che la realtà è cambiata, ma non credo che siano le prime a chiamare veramente il problema per quello che è. Con tutto il dovuto rispetto verso di loro la realtà è un'altra. Lo abbiamo vissuto sulla pelle del sistema finanziario e della Fiat».

La Cina fa shopping (30 settembre 2010).
Il passo è destinato a cambiare i rapporti strategici nell'area del Mediterraneo orientale. La Cina, la seconda potenza economica del mondo dopo gli Stati Uniti, si è impegnata a sostenere la Grecia nelle prossime emissioni di obbligazioni a lungo termine. Un aiuto di cui si era molto parlato a maggio, nel momento più acuto della crisi di Atene, e che ora è finalmente uscito allo scoperto mettendo Washington e Bruxelles in una situazione piuttosto imbarazzante, visto che Ue e Fmi hanno già messo sul piatto un piano di salvataggio da 110 miliardi di euro, piano che Atene evidentemente non ritiene sufficiente. La notizia è stata confermata da fonti governative greche, al termine di un incontro ad Atene tra il primo ministro greco Georges Papandreou e il suo omologo cinese Wen Jiabao in visita nel paese per due giorni. La notizia è stata poi confermata da Wen, che in conferenza stampa ha dichiarato che «la Cina farà un grande sforzo per sostenere l'economia dell'Eurozona e la Grecia. La Cina parteciperà all'acquisto di nuove obbligazioni greche». Atene, messa in ginocchio da un debito pari a 300 miliardi di euro, ha dovuto fare ricorso lo scorso maggio agli aiuti finanziari forniti dall'Fmi e dai membri dell'Eurozona, in cambio dell'adozione di un drastico piano di austerità che ha causato un profondo malcontento sociale. Dal lancio del piano, la Grecia ha emesso obbligazioni a breve termine (tre e sei mesi, i Tbill) per rifinanziarsi, e ha avviato una campagna di comunicazione per rilanciare la sua immagine tra i risparmiatori e convincere gli osservatori e gli investitori della serietà delle sue politiche, nella speranza di far abbassare i tassi che hanno 10 punti di spread sui bund e ricorrere nuovamente al mercato a lungo termine. La Grecia ha intenzione di tornare a emettere obbligazioni a lungo termine nel 2011. La prospettiva cinese di investimento sull'area dell'Egeo è di lungo periodo. In particolare Cina e Grecia stanno lavorando insieme per costruire al Pireo, il porto commerciale di Atene, il più grande centro di distribuzione e di transito tra Asia ed Europa. La società cinese Cosco, una delle maggiori al mondo, ha ottenuto la concessione, dopo molte contestazioni sindacali, per gestire due terminal container per 35 anni. Non solo. La Cosco ha fatto il bis con il porto turco di Smirne. La Cina, che creerà un fondo da 5 miliardi di dollari in sostegno della marina mercantile greca, acquisterà anche sei navi mercantili da armatori greci, tra cui due cargo dal valore di 111 e 84,5 milioni di dollari, e una nave cisterna da 75 milioni di dollari. Il premier, accompagnato da una decina di ministri e da diversi uomini d'affari, tra cui il presidente del gigante cinese dei trasporti Cosco (China Ocean Shipping Company) Wei Jiafu e il governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan, si fermerà in Grecia fino a lunedì. Successivamente si recherà a Bruxelles, e poi farà tappa in Italia e in Turchia.

Migliorano i conti pubblici (30 settembre 2010).
Migliorano i conti pubblici nella prima parte dell'anno. Nel primo semestre del 2010 il rapporto tra deficit e Pil, il prodotto interno lordo, è sceso al 6,1% dal 6,3% dello stesso periodo dell'anno scorso. La notizia arriva dall'Istat, che ha diffuso i dati sull'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche. Il saldo primario, nel secondo trimestre, é stato positivo e con un'incidenza sul Pil dell'1,5%, ma nel totale dei sei mesi risulta negativo e pari all'1,5% del Pil. In calo invece le entrate fiscali. Nel secondo trimestre, la dimunuzione è stata dell'1,8%, con un rapporto tra entrate e Pil che sale al 44,7 per cento. In sei mesi le entrate totali sono scese dello 0,8%, con un'incidenza sul Pil del 42,3 per cento. Le sole entrate correnti hanno registrato, nel secondo trimestre 2010, una diminuzione tendenziale dello 0,1%, dovuto all'effetto combinato di una diminuzione delle imposte dirette (-1,8%), delle altre entrate correnti (-1%) e di una crescita delle imposte indirette (+1,1%), dei contributi sociali (+1 per cento). La forte diminuzione delle entrate in conto capitale (-47,2%), spiegano dall'Istat, è dovuta principalmente alla contabilizzazione dei versamenti una tantum relativi all'imposta sostituiva di alcuni tributi. La spesa pubblica nel secondo trimestre di quest'anno è diminuita in termini tendenziali dell'1,2%, a fronte dell'aumento del 2,5% rilevato nel corrispondente periodo dell'anno precedente. Il loro valore in rapporto al Pil è stato pari al 48,2 per cento (49,9% per centonel corrispondente trimestre del 2009). Nel primo semestre le uscite totali hanno registrato una diminuzione dello 0,9%, rispetto all'aumento del 3,4% segnato nello stesso semestre del 2009. Ed una incidenza rispetto al Pil pari al 48,4% (era 49,6% nello stesso periodo del 2009). Le uscite correnti hanno registrato nel secondo trimestre un aumento tendenziale dello 0,5 per cento. Tale aumento è l'effetto combinato di un aumento dei redditi da lavoro dipendente (+2,2%), delle prestazioni sociali in denaro (+2,4%), degli interessi passivi (+0,6%) e di una diminuzione dei consumi intermedi (-5,5%), delle altre uscite correnti (-2 per cento). Le uscite in conto capitale sono diminuite in termini tendenziali del 20,2 per cento. In particolare, gli investimenti fissi lordi sono diminuiti del 18,3% e le altre uscite in conto capitale del 22,8 per cento.
Eugenio Caruso
Luglio - settembre  2010

Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

LOGO


1

www.impresaoggi.com