Platone. La Repubblica, libro primo.

Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, mi dedico ora primo libro della Repubblica..

La Repubblica (in greco antico: Politéia) è un'opera filosofica in forma di dialogo, scritta tra il 390 e il 360 a.C. da Platone, la quale ha avuto enorme influenza nella storia del pensiero occidentale.
L'opera ruota intorno al tema della giustizia, sebbene il testo contenga anche una moltitudine di altre teorie platoniche, come il mito allegorico della caverna, la dottrina delle idee, la concezione della filosofia come dialettica, una versione della teoria dell'anima differente rispetto a quella già trattata nel Fedone e il progetto di una città ideale, governata in base a principi filosofici. Quest'ultima è l'esempio più celebre di quelle teorie politiche che col passare dei secoli prenderanno il nome di utopie. Scritta in forma dialogica, La Repubblica riguarda ciò che viene detto "filosofia delle cose umane", e coinvolge argomenti e discipline come l'ontologia, la gnoseologia, la filosofia politica, il collettivismo, il sessismo, l'economia, l'etica medica e l'etica in generale. La Repubblica si presenta come un'opera organica, enciclopedica e circolare, concernente, più in generale, il rapporto tra universale e particolare. L'opera è strutturata in dieci libri e ha per protagonista Socrate, ma un Socrate che, come molti studiosi hanno ben visto, è decisamente diverso da quello degli altri dialoghi, e che in più punti va modificandosi, a poco a poco, in un processo di katábasis, indicato nella frase iniziale del dialogo: «Ieri scesi al Pireo...». Questo processo di purificazione porta Socrate ad abbracciare a poco a poco tesi che non sono sue, bensì appaiono di natura platonica, e legate soprattutto al momento storico che Platone viveva dopo la guerra del Peloponneso: la presa della città ad opera di Crizia, il quale instaurò il governo dei Trenta Tiranni, e la condanna a morte di Socrate. Vediamo quindi il vecchio filosofo esporre teorie che vanno dalla parità dei sessi, alla condivisione delle proprietà private, alla scomparsa della famiglia, e all'obbligo, per coloro che fossero destinati a essere i phylakes ("guardiani") a non avere nessun guadagno dal loro lavoro ed essere mantenuti a spese dei cittadini. Il titolo originale dell'opera è la parola greca p???te?a. La Repubblica, che è la traduzione tradizionale del titolo, è un po' fuorviante, derivata dal latino, e in particolare da Cicerone. Una traduzione più precisa potrebbe essere La Costituzione.

Personaggi
Socrate
Trasimaco: allievo di Socrate, che avvia la discussione, inizialmente sostenendo che la giustizia sia l'"utile del più forte".
Cefalo: anziano proprietario della casa dove si svolge il dialogo, felice d'aver accumulato beni materiali, sostiene che in ciò consistano giustizia e felicità nella vita.
Glaucone: allievo di Socrate che lo accompagna da Cefalo
Polemarco: allievo di Socrate
Adimanto: allievo di Socrate.

Libro I riassunto.
Socrate giunge in casa di Cefalo, dopo aver assistito alle feste Bendidie di Atene. Cefalo si dimostra felice per essere riuscito a recuperare i beni perduti dal padre, offrendo il proprio modello di felicità e giustizia. Polemarco, un allievo, dice la sua sulla giustizia, ossia fare il bene per gli amici e il male per i nemici. Infine parla l'irruente Trasimaco, sostenendo che la giustizia è l'utile di chi è più forte. Socrate interviene una prima volta, dicendo che se i più forti al potere fossero tiranni, potrebbero fare il male di tutti. Socrate lo contraddice ancora, arrivando alla conclusione che l'ingiustizia vuole predominare sia sull'ingiusto che sul giusto, perché molto facilmente con l'ingiustizia si ha il controllo. La giustizia allora sarebbe qualcosa all'infuori delle umane capacità. Infatti la giustizia è virtù dell'anima, come dice Socrate, al contrario di Trasimaco, che vede l'ingiustizia una virtù.

REPUBBLICA LIBRO PRIMO

A cura di M.C. Pievatolo
Cefalo, o la giustizia tradizionale
Socrate, disceso al Pireo, vi si trattiene, per insistenza dei suoi amici, e inizia una conversazione affettuosa con Cefalo, che è anziano e non può incontrarlo in città tanto spesso.Socrate lo interroga sulla vecchiaia, e Cefalo risponde che, se si ha un carattere armonioso e ci si sa accontentare, l'età è una sorta di liberazione dalle passioni della giovinezza, cioè da "molti e pazzi padroni". E' un'età in cui si nutrono timori e speranze per l'aldilà, e si cerca di premunirsi, per non andare all'altro mondo indebito di sacrifici a un dio o di denaro a un uomo.
Socrate si chiede se la dikaiosyne, cioè la giustizia come virtù personale, si possa delimitare o definire correttamente identificandola con il dire la verità e il restituire le cose ricevute, come aveva affermato Cefalo: per esempio, nessuno restituirebbe un coltello a un amico impazzito, né sarebbe completamente sincero con lui. E' difficile estendere questi tradizionali princípi di rettitudine degli uomini d'affari ad ambiti anche di poco più ampi dello scenario in cui sono nati. Per questo, essi non sono sufficienti a definire o fissare i confini della giustizia, perché il loro senso e il loro valore dipende dal contesto. E basta variare le circostanze del contesto perché il loro significato cambi completamente.
Polemarco, o la giustizia commerciale
Cefalo si ritira dalla discussione perché deve dedicarsi ai sacrifici. Gli subentra il figlio Polemarco, il quale ribadisce che giustizia è ridare a ciascuno quello che gli è dovuto, nel senso di quello di cui gli siamo debitori (opheilomena).
Per parare l'obiezione che Socrate aveva fatto al padre, Polemarco precisa la sua definizione, che risulta in armonia con la tradizione: giustizia è ridare a ciascuno il dovuto nel senso di fare del bene agli amici e del male ai nemici.
Ma questo significa, dice Socrate,che qui per "dovuto" (opheilomenon) si intende prosekon. Cioè: dal punto di vista della giustizia,ciò che è dovuto non è propriamente ciò di cui siamo debitori, ma ciò che spetta o si addice a ciascuno. In questo senso, si può dire che la giustizia è una techne, proprio come la medicina, che si occupa di dare ai corpi i cibi, le bevande e le medicine che si addicono loro. Che cosa dà la giustizia? E a chi si rivolge? Se la giustizia fosse la techne di fare del bene agli amici e del male ai nemici, essa sarebbe utile solo in guerra. Polemarco replica che essa serve nei contratti commerciali e nelle altre imprese comuni: una persona giusta è una persona cui si può affidare denaro per conservarlo.
Ma se lagiustizia è l'arte della custodia, un bravo custode deve essere esperto anche nell'arte del furto, proprio come un bravo medico conosce sia il modo per proteggersi da una malattia, sia quello per procurarsela. Dunque,conclude Socrate, la giustizia è l'arte del ladrocinio, sia pure finalizzato al vantaggio degli amici e al danno dei nemici.
La società commerciale di Polemarco è la tradizionale società conflittuale, ove la disposizione a danneggiarsi a vicenda è temperata solo da relazioni di "amicizia" o philia.
Socrate guida Polemarco a chiarire che cosa si intenda per amico, anche perché, se questo non fosse chiaro, la giustizia si ridurrebbe a fare del bene a chi viene percepito come amico e del male a che viene percepito come nemico, cioè del bene e del male a chi ci pare. Giustizia, dunque, è l'arte di fare del bene all'amico che è buono e del male al nemico che è cattivo.
Danneggiare un cavallo significa lederlo nel tipo di arete, cioè di eccellenza o funzione esercitata al meglio, che gli è proprio: azzopparlo, per esempio. Questo discorso vale anche per l'uomo? Ossia: l'uomo danneggiato è leso nella arete che è propria degli uomini?
Ora, la giustizia è virtù umana. Pertanto,se danneggiare significa ledere una creatura nella virtù che gli è propria, danneggiare un uomo significa renderlo ingiusto. La giustizia, se dobbiamo intenderla come arte di danneggiare i nemici e di far del bene agli amici, è dunque la techne di rendere ingiusti gli uomini. Ma questa definizione si addice di più all'ingiustizia che alla giustizia: come l'equitazione è una techne che comporta ilrendere gli uomini abili cavallerizzi, così la giustizia dovrebbe saper rendere gli uomini giusti, e non ingiusti. E non si rendono gli uomini giusti facendo loro del male.
La tesi che la giustizia non abbia nulla a che vedere col danneggiare nemici, anche ingiusti, è tipicamente socratica: si ritrova, ad esempio, nel Gorgia. E' una tesi che mette Socrate in contrasto con tutta la morale tradizionale. Tanto è vero che, osserva Socrate ironicamente, la massima che identifica la giustizia con il fare del bene agli amici e del male ai nemici non deve essere attribuita a Simonide o Biante o a qualche altro saggio della tradizione, ma a tiranni come Perdicca o Serse, o qualche altro riccone convinto di avere un grande potere.
In un ambiente etico competitivo - sia esso la guerra o il mercato - non c'è giustizia, perché la "giustizia" della guerra e del mercato non ha a che vedere con l'effetto delle proprie azioni sugli altri, ma solo con l'efficacia delle proprie azioni rispett oai propri interessi. Per questo, può essere solo la giustizia degli imprenditori e dei tiranni, perché ha a che vedere solo con chi agisce e con i suoi interessi, e non invece con chi subisce l'azione. Non regola le relazioni fra gli uomini, ma solo le relazioni fra un uomo (potente), isuoi interessi e le sue azioni.
Trasimaco, o la giustizis mascherata
Il sofista Trasimaco si era agitato in tutto il corso della discussione e non aveva interloquito perché i presenti,interessati allo scambio di battute fra Socrate e Polemarco, lo avevano trattenuto. Ma non appena la conversazione ebbe una pausa, "non poté più restarsene quieto, ma, raccoltosi nella persona come un animale selvaggio,si avventò su di noi quasi volesse sbranarci." Trasimaco di Calcedone irrompe in scena "alla Callicle", e addirittura con maggior violenza. Il suo comportamento contrasta fortemente con quello di Cefalo e Polemarco, che appaiono come due brave persone, gentili e amichevoli. Ma, al di là di questo contrasto temperamentale, possiamo chiederci se ci sia davvero, fra la morale di Trasimaco e quella di Polemarco e Cefalo, una così grande distanza - soprattutto dopo che Socrate ha risolto l'etica tradizionale in etica tirannica.
Trasimaco attacca Socrate urlando, e lo accusa, come già Polo nel Gorgia, di riservare a stesso la facile parte dell'interrogare, quando si sa che replicare è molto più difficile, e di essere un dissimulatore che ricorre a espedienti per non rispondere alle domande. Socrate, affettando ignoranza, se ne va in giro a imparare dagli altri e non ringrazia neppure. Vale la pena notare che l'espressione eironeia, in bocca a Trasimaco, conserva il significato, ancora prevalente nel V secolo, di dissimulazione finalizzata a ingannare, e non il senso, che dopo Socrate diverrà predominante, di figura retorica che consiste nel dire scherzosamente il contrario di quello che si intende. Trasimaco si vanta di avere, sulla questione della giustizia, una splendida risposta, molto migliore di quelle offerte finora. E, sebbene sia ansioso di dirla, per fare bella figura, si fa pregare, anche perché vorrebbe essere pagato. Alla fine, la sua ambizione sofistica ha la meglio sulla sua avidità economica, e la sua sapienza può liberamente sgorgare: la giustizia è l'utile(sympheron) del più forte. Le poleis sono governate come tirannidi, democrazie e aristocrazie. E in ciascuna città è il governo a detenere la forza. ... ciascun governo istituisce leggi (nomoi) per il proprio utile; la democrazia fa leggi democratiche, la tirannide tiranniche e allo stesso modo gli altrigoverni. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i governati si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore sia della legge sia della giustizia. In ciò consiste, mio ottimo amico, quello che dico giusto, identico in tutte quante le poleis, l'utile del potere costituito. Ma, se non erro,questo potere detiene la forza. Così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre identico all'utile del più forte.
La tesi diTrasimaco è ancor più radicale di quella espressa da Tucidide nel colloquio fra Ateniesi e Melii, e di quella di Callicle nel Gorgia. In Tucidide, appare conveniente parlare di giustizia in situazioni di parità, cioè dove c'è un equilibrio di forza. Callicle afferma che la giustizia del nomos (democratico) è un inganno,perché impone l'uguaglianza ove, secondo natura, avrebbe diritto a dominare il più forte. Ma in entrambi i casi si riconosce alla giustizia un contenuto proprio: la giustizia, cioè, non è riducibile alla forza appunto perché è o un modus vivendi fra persone che sono soggett ea una uguale necessità, o una convenzione ingannevole imposta dai deboli per sfuggire al legittimo dominio dei forti. Trasimaco, con questa tesi,si sottrae alle difficoltà caratteristiche della critica aristocratica alla democrazia, che, dopo aver invocato il principio generale della prevalenza della forza, lo affermava come legittimo solo nel caso particolare del governo aristocratico. La giustizia, per Trasimaco, si riduce in tutti i casi a uno strumento del potere costituito - sia esso democratico, aristocratico o tirannico -finalizzato al suo utile.
Socrate dice di essere d'accordo che il giusto sia qualcosa di utile, ma di non aver chiaro il senso dell'aggiunta "del più forte". E comincia a interrogare Trasimaco,seguendo una linea di attacco simile a quella usata contro Polo nel Gorgia: se il giusto è l'utile del più forte, e questi, ingannandosi,ordina ciò che gli sembra utile, ma non lo è, i deboli che gli ubbidiscono non fanno in realtà l'utile del più forte. Forse si dovrebbe dire, suggerisce un altro dei presenti, Clitofonte, che Trasimaco identifica col giusto ciò che il più forte stima tale.
Trasimaco non cade nella trappola: dopo aver dato a Socrate del sicofante, che tende tranelli per farlo incorrere in contraddizione, precisa che lui per kreitton, più forte, intende colui che è più competente e non sbaglia: il governante, perché è al governo e riesce a rimanerci, non sbaglia, e stabilisce il giusto come suo utile. Trasimaco compie questa precisazione per evitare che Socrate possa ricorrere alla strategia argomentativa del Gorgia per la quale chi ha potere senza avere conoscenza è debole e impotente, perché fa ciò che gli sembra bene, ma non fa ciò che vuole. La precisazione di Trasimaco connette strettamente potere e conoscenza: chi è al potere, lo è perché ha una competenza tale da permettergli di mantenere la sua posizione.
Socrate, allora, passa a esaminare quale sia il contenuto di questa competenza. L'esperto di una techne si qualifica come tale non tanto perché sa badare al proprio interesse economico ma perché sa fare l'utile di ciò di cui la techne stessa è oggetto: un bravo medico, per esempio, non è in primo luogo un abile uomo d'affari, ma uno che sa curare i malati. Analogamente, un buon governante non si occupa tanto del proprio utile, quanto di quello dei suoi sudditi.
Trasimaco reagisce in modo sprezzante: i pastori e i bovari, certo, si preoccupano che il loro bestiame sia grasso, ma per il loro utile e non certo per quello degli animali. E così fanno anche i governanti nei confronti dei sudditi. ...la giustizia (dikaiosyne) e il giusto(dikaion) sono in realtà un bene altrui (allotrionagathon), un utile di chi è più forte e governa, ma un danno proprio di chi ubbidisce e serve; e l'ingiustizia è l'opposto e comanda a quegli autentici ingenui che sono i giusti; e i sudditi fanno l'utile di chi è più forte e lo rendono felice servendolo, mentre non riescono assolutamente a rendere felici se stessi.
I giusti, continua Trasimaco, nelle relazioni con gli ingiusti perdono sempre, sia nei contratti d'affari, sia quando si tratta di pagare le tasse, sia quando si tratta di ricoprire una carica pubblica. L'ingiusto, che sa pleonektein, è invece felice: e la massima felicità si realizza con l'ingiustizia perfetta, cioè con la tirannide. Infatti, chi viene sorpreso a commettere ingiustizia in un ambito parziale (meros) viene punito e ricoperto di biasimo. Ma se realizza l'ingiustizia perfetta, divenendo tiranno, viene detto da tutti felice (eudaimon) e beato(makarios). Chi biasima l'ingiustizia lo fa solo perché teme di subirla. Ma se realizzata in modo adeguato, l'ingiustizia è più forte, più da uomo libero e più da signore della giustizia.
La tesi di Trasimaco non riguarda i contenuti della giustizia, ma solo la sua funzione, nella prospettiva di un soggetto morale che è molto simile all'agathos dell'etica aristocratica. Chi vuol essere giusto, anche solo parzialmente, si fa asservire dal potere costituito; il perfetto ingiusto, cioè il tiranno, è l'unico in grado di smascherare il potere che sta dietro l'inganno della giustizia. Ma questo smascheramento può aver luogo solo sostituendo potere a potere: anche il tiranno, divenuto tale, imporrà a proprio vantaggio l'inganno della sua giustizia. Inoltre, Trasimaco accetta acriticamente una ben precisa ontologia del soggetto morale e della sua eudaimonia: ontologia che, come si diceva,ricorda quella della tradizione aristocratica come riportata nei poemi omerici.
A questo punto Trasimaco, avendo profuso la sua saggezza, vuole lasciare la compagnia. Socrate lo trattiene, perché vuole avere chiarimenti. E comincia a interrogarlo, puntando a distinguere fra gli effetti e le motivazioni di una techne per chi la esercita, e l'oggetto di questa techne, che consiste in una dynamis (facoltà, potere) particolare e distinta. Questa dynamis è finalizzata a particolari vantaggi: l'arte medica si occupa della salute, per esempio, mentre l'arte del pilota procura una navigazione sicura. L'oggetto proprio dell'arte va distinto dagli effetti dell'arte su chi la esercita: il pilota, andando per mare, migliora la sua salute, ma non per questo diventa medico. Il medico guadagna il suo onorario, ma non per questo diventa un esperto dell'arte mercenaria. Una cosa è saper fare il medico o il pilota, un'altra è saper farsi pagare, cioè essere un esperto dell'arte mercenaria.
Le gente si rivolge al medico o la pilota non perché sono bravi a farsi pagare, ma perché le loro technai procurano loro dei vantaggi; tanto è vero che la capacità di arrecare vantaggi propria del medico e del pilota non verrebbero sminuite se essi lavorassero gratis. Il vantaggio che l'esercizio di un arte arreca a chi la esercita è qualcosa di esterno all'arte, e dunque è del tutto inservibile se si vuole definire quell'arte. Pertanto, se la giustizia deve essere una techne, essa deve essere finalizzata all'utile dei governati. E in una città di uomini buoni si farebbe a gara per sottrarsi alle cariche pubbliche, proprio perché esse non darebbero nessun vantaggio personale.
Ma anche ammettendo che l'oggetto della giustizia come techne sia l'utile dei governati, rimaniamo col problema di spiegare perché la vita del giusto sia preferibile a quella dell'ingiusto. Socrate, nel suo dialogo con Trasimaco, ha convenuto almeno con una tesi di quest'ultimo, e cioè con l'idea che la giustizia sia un "bene altrui". Trasimaco sosteneva questa posizione dal puntodi vista dei governati; Socrate la afferma dal punto di vista dei governanti. Un governante giusto non fa il suo interesse, ma quello dei suoi sudditi. Perché, allora, essere giusti?
Per Trasimaco,l'ingiustizia è arete e la giustizia una nobile ingenuità. Gli ingiusti sono prudenti e agathoi, se riescono a realizzare l'ingiustizia perfetta, sottomettendo città e popoli. Questa ingiustizia è eccellenza e sapienza.
Socrate, di fronte alla coerenza di Trasimaco, pone il problema delle relazioni della persona giusta e della persona ingiusta con gli altri, fermo restando che, come afferma il suo interlocutore, sono gli ingiusti ad essere intelligenti e virtuosi. I giusti vogliono pleonektein solo gli ingiusti; gli ingiusti, di contro, vogliono soverchiare su tutti. In ambito scientifico, lo scienziato non vuole prevalere su chi è altrettanto esperto: in questo caso, infatti, converrà con lui. Un medico non prescrive una terapia differente da quella prescritta da un collega di cui riconosce la perizia solo perché vuole prevalere. Questa volontà di prevalere si manifesta solo nel caso abbia a che fare con un incompetente. Di contro, una persona ignorante non sarà in grado di distinguere l'esperto dall'inesperto e cercherà di primeggiare su tutti - esattamente come fa l'ingiusto. Il giusto, come l'esperto in una qualche arte o scienza, ha dei criteri, diversi dall'ansia di primeggiare, per governare le proprie relazioni con gli altri; l'ingiusto, di contro, è guidato solo dalla sua ansia di primeggiare. L'ingiustizia, dunque, è ignoranza (amathia): l'ingiusto è uno che non ha lavolontà di imparare. Una morale dell'ingiustizia è una morale che non può essere argomentata intersoggettivamente, perché non offre nessun criterio didiscussione comune a tutti.
La giustizia come funzionalità?
Trasimaco, che già era incredibilmente sudato, diventa tutto rosso. Socrate è riuscito nell'impresa di condurre un sofista a riconoscere che stava esaltando l'ignoranza - cosa, questa, che un sofista non può permettersi, se non altro per ragioni di mercato. Nella parte finale del I libro Trasimaco, domato ma recalcitrante, fa da "spalla" di Socrate, che prosegue la sua indagine per conto proprio. ...secondo te, una polis o un esercito o una banda di predoni o di ladri, o qualsiasi altro gruppo di persone, accomunate in una impresa ingiusta, riuscirebbero a combinare qualcosa se i loro componenti si facessero reciprocamente ingiustizia? L'ingiustizia è fonte di discordia e rende impossibile agire in comune. Ovunque sorga ingiustizia - in una polis, in un clan, in un esercito - l'unità che ne è colpita diventa incapace di agire e nemica di se stessa e dei giusti. E lo stesso fenomeno si verificherà nella singola persona ingiusta. Socrate applica il medesimo concetto di giustizia come armonia interiore al gruppo e all'individuo.
Si tratta di una prospettiva olistica?
A questo punto, Socrate introduce il concetto di ergon di una cosa: lavoro o funzione di una cosa è ciò che essa sola può compiere, o comunque meglio di ogni altra cosa. Funzione degli occhi è il vedere, funzione di una roncola, fabbricata apposta per quello scopo, è potare. L'arete è l'eccellenza di una cosa nello svolgere la propria funzione. Funzione dell'anima è amministrare, governare e deliberare; e la sua arete, cioè l'eccellenza nello svolgimento di questa funzione, è la giustizia. Ma tutto questo, dice Socrate, non ci serve a nulla, perché non sappiamo che cos'è la giustizia, e ci siamo persi a discutere se sia vizio o virtù. Socrate riconosce, in un certo senso,di aver proceduto alla maniera del Polo del Gorgia: Trasimaco ha parlato solo dalla funzione della giustizia, dando per scontate le preferenze dei soggetti, e senza interrogarsi sul suo contenuto, e Socrate si è fatto trascinare in una sorta di élenchos propagandistico, quando il problema sta proprio in ciò che si è dato per scontato: che cos'è la giustizia? Per chi è lagiustizia?
Platone sta parlando sul serio?
Autori come Gadamer e Leo Strauss vedono nella Repubblica un'opera ironica: le riforme proposte da Platone sono, per loro, solo paradossi scherzosi. La serietà di questa tesi interpretativa dipende, a sua volta, dalla serietà dell'attacco di Trasimaco. Trasimaco fa sul serio, quando smaschera la giustizia come utile del più forte? L'unico modo per rispondere all'attacco di Trasimaco, incentrato sulla funzione della giustizia, è mostrare che la giustizia ha un suo contenuto caratteristico, rispondendo alla domanda "che cos'è lagiustizia?" Una strategia che miri a legittimare la giustizia in termini funzionali a qualche scopo, assunto come indiscusso e dato, ricade nella logica di Trasimaco, cioè dà per scontati i valori e le preferenze dei soggetti morali per i quali la giustizia è detta "utile".

TESTO LIBRO I

Ieri scesi al Pireo con Glaucone, figlio di Aristone, [1] per pregare la dea e nello stesso tempo per vedere come avrebbero celebrato la festa, [2] dato che è la prima volta che la fanno. Mi sembrò davvero bella anche la processione della gente del posto, ma non appariva meno decorosa quella condotta dai Traci. Fatte le nostre preghiere e contemplato lo spettacolo, stavamo tornando in città quando Polemarco, figlio di Cefalo, [3] avendo visto da lontano che ci incamminavamo verso casa, mandò di corsa il suo giovane schiavo per invitarci ad aspettarlo. E il ragazzo, afferratomi da dietro per il mantello, mi disse: "Polemarco vi prega di aspettarlo". Io mi voltai e gli chiesi dove fosse. "Eccolo qui dietro che arriva", rispose. "Aspettatelo". "Certo che lo aspetteremo!", disse Glaucone. Poco dopo arrivarono Polemarco, Adimanto fratello di Glaucone, Nicerato figlio di Nicia [4] e altre persone, che probabilmente tornavano dalla festa. Allora Polemarco disse: "Mi sembra che voi, Socrate, vi siate mossi per fare ritorno in città". "Hai proprio ragione!", replicai. "Ma non vedi", disse, "quanti siamo?" "Come no?" "Allora", fece lui, "o siete più forti di costoro o rimanete qui". "Non c'è ancora un'alternativa", obiettai, "ovvero se riusciamo a persuadervi che conviene lasciarci andare?" "Potreste forse persuadere chi non vi presta ascolto?", replicò. "Proprio no", disse Glaucone. "E allora state certi che non vi ascolteremo". Allora intervenne Adimanto: "Ma non sapete che verso sera ci sarà una corsa a cavallo con fiaccole in onore della dea?" "A cavallo?", feci io. "Questa è nuova! Gareggeranno a cavallo con delle fiaccole che si passeranno l'un l'altro? Intendi questo?" "Proprio così", rispose Polemarco. "E inoltre faranno una festa notturna, che vale la pena di vedere: dopo cena usciremo e andremo ad assistervi. E assieme a noi ci saranno tanti giovani, con cui potremo parlare. Rimanete dunque, non fate altrimenti". Allora Glaucone disse: "Bisogna rimanere, a quanto sembra". "Se la decisione è questa", dissi io, "conviene fare così". Andammo dunque a casa di Polemarco, e vi trovammo Lisia ed Eutidemo, fratelli di Polemarco, e inoltre Trasimaco di Calcedonia, Carmantide di Peania e Clitofonte figlio di Aristonimo. [5] Dentro c'era anche Cefalo, il padre di Polemarco, che mi sembrò assai vecchio; era molto che non lo vedevo. Sedeva su uno sgabello ricoperto da un cuscino e aveva un corona in capo, poiché aveva compiuto un sacrificio nell'atrio. Ci sedemmo quindi accanto a lui, su alcune sedie disposte in cerchio che si trovavano lì. Non appena mi vide Cefalo mi salutò con affetto e disse: "Socrate, non scendi spesso da noi al Pireo; eppure dovresti. Se io fossi ancora in forze per recarmi con mio agio in città, non ci sarebbe alcun bisogno che tu venissi qui, ma verremmo noi da te; ora invece sei tu che devi recarti qui più di frequente. Sappi bene che per me, quanto più appassiscono gli altri piaceri del corpo, tanto più s'accrescono i desideri e piaceri della conversazione. Perciò dammi retta, sta' in compagnia di questi giovincelli e vieni di frequente qui da noi: siamo tuoi amici, e molto intimi". Al che replicai: "Caro Cefalo, provo grande piacere a discorrere con le persone anziane. Mi sembra infatti che da loro, come da chi e già avanti in un cammino che forse anche noi dovremo percorrere, si debba apprendere quale sia questo cammino, se aspro o duro, oppure facile e agevole. In articolare, poi, dato che sei ormai giunto a quell'età che a detta dei poeti sta "sulla soglia della vecchiaia", [6] sarei lieto di sapere da te se ti pare un momento difficile della vita, o che notizie ne dai". "Sì, per Zeus!", disse. "Ti dirò cosa ne penso, Socrate. Spesso ci riuniamo io e altri che abbiamo all'incirca la stessa età, tenendo fede all'antico proverbio. [7] Orbene, in queste riunioni la maggior parte di noi si lamenta, rimpiangendo i piaceri della giovinezza e ricordando le gioie dell'amore, le bevute, i banchetti e altre cose che si legano a queste; costoro si indignano perché pensano di essere stati privati di grandi beni e sono convinti che allora vivevano bene, mentre quella di adesso non è neanche vita. Alcuni poi deplorano le umiliazioni che subiscono dai familiari perché sono vecchi, e a questo attaccano il solito ritornello della vecchiaia causa di tutti i loro mali. A me però, Socrate, sembra che costoro non adducano la vera ragione, poiché se fosse questa anch'io avrei sofferto di questi stessi mali per via della vecchiaia, così come tutti gli altri che sono giunti a questa età. Ora invece io ho incontrato altre persone che non si trovano in tale stato, e per di più una volta fui presente quando un tale chiese al poeta Sofocle: "Come ti va nelle faccende d'amore Sofocle? Sei ancora in grado di andare con una donna?". E lui rispose: "Taci tu! Me ne sono liberato con la massima gioia, come se fossi fuggito a un padrone rabbioso e selvaggio". Già allora mi era parso che avesse detto bene, e ora non ne sono meno convinto. Nella vecchiaia infatti, almeno in queste cose, c'è una pace e una libertà assoluta: quando le passioni cessano di tirare e allentano la briglia, si verifica in tutto e per tutto ciò che diceva Sofocle e si può essere liberi da un gran numero di padroni folli. Ma di questi affanni e dei rapporti coi familiari la causa, Socrate, non è la vecchiaia, bensì l'indole degli uomini. Se fossero equilibrati e affabili, anche la vecchiaia sarebbe un peso moderato; altrimenti, Socrate, a una persona del genere riesce molesta tanto la vecchiaia quanto la gioventù". Io avevo ammirato le sue parole, e volendo che continuasse lo incitavo dicendogli: "Cefalo, credo che i più non siano d'accordo con le tue affermazioni, ma pensino che sopporti facilmente la vecchiaia non per il tuo carattere, ma perché possiedi molte sostanze: i ricchi, a quanto dicono, hanno molte consolazioni" "È la verità", disse. "Essi non sono d'accordo e hanno una qualche ragione, ma non nella misura in cui credono: calza bene invece il detto di Temistocle, il quale, a uno di Serifo che lo ingiuriava dicendo che la sua fama era dovuta non ai suoi meriti, ma alla sua città, rispose che né egli stesso sarebbe divenuto famoso se fosse stato di Serifo né quell'altro se fosse stato ateniese. [8] Lo stesso discorso va bene anche per chi non è ricco e sopporta di malanimo la vecchiaia: un uomo equilibrato non potrebbe certo sopportare facilmente una vecchiaia unita a povertà, ma neppure un uomo non equilibrato, per quanto ricco, sarebbe mai in pace con se stesso". Allora io gli chiesi: "La maggior parte dei tuoi averi, Cefalo, l'hai ricevuta in eredità o te la sei procurata tu?" "Vuoi sapere", disse, "quali beni ho accumulato, Socrate? Sono a metà tra le ricchezze di mio nonno e di mio padre. Il nonno, mio omonimo, ricevette in eredità all'incirca il patrimonio che ora possiedo io e lo raddoppiò molte volte, Lisania, mio padre, lo rese ancora più esiguo di quello che è ora; io mi accontento di lasciarlo a questi miei figli non minore, ma un poco maggiore di quello che ho ricevuto". "Ti ho fatto questa domanda", precisai, "perché mi è sembrato che tu non amassi molto il denaro, e questo lo fanno per lo più coloro che non l'hanno guadagnato da sé; quelli che invece l'hanno guadagnato lo apprezzano il doppio degli altri. Infatti, come i poeti amano le loro opere e i padri i loro figli, così anche quelli che si sono arricchiti s'occupano con premura dei propri averi perché è opera loro, oltre che, come gli altri, per l'utilità che ne ricavano. Perciò la loro compagnia è molesta, dal momento che non sono disposti ad elogiare altro che la ricchezza". "Hai ragione", disse. "Proprio così!", ribadii. "Ma dimmi ancora una cosa: qual è il più grande bene che pensi di aver ricavato dal possedere molte sostanze?" "Forse non sarei molto convincente, se lo dicessi," rispose, "perché devi sapere, Socrate, che quando si avvicina il momento in cui uno pensa dì morire, gli sottentra una paura e un'ansietà per cose di cui prima non si preoccupava. Le storie che si raccontano sull'Ade e sulla pena che chi ha commesso ingiustizia su questa terra deve scontare laggiù, fino ad allora derise, a questo punto gli sconvolgono l'anima perché teme che siano vere; di conseguenza, o per la debolezza della vecchiaia o perché ormai si sente più vicino all'aldilà, pone maggiore attenzione a queste cose. Perciò diventa pieno di sospetto e di paura e si scruta dentro, considerando se ha fatto dei torti a qualcuno. Chi trova nella propria vita molte colpe si sveglia di frequente anche dai sogni come i fanciulli e vive nella paura, tra brutti presentimenti; a chi invece è conscio di non aver commesso alcuna ingiustizia sta sempre accanto una lieta speranza e una buona "nutrice di vecchiaia", per citare Pindaro. Con molta grazia, Socrate, egli ha detto che quando uno ha condotto una vita giusta e santa "scalda il suo cuore e l'accompagna dolce speranza, nutrice di vecchiaia, che la volubile mente dei mortali sovranamente regge". [9] Che bei versi, davvero ammirevoli! Sotto questo aspetto ritengo che il possesso di ricchezze abbia molto valore, non per chiunque, ma solo per l'uomo equilibrato e moderato. Infatti il possesso di ricchezze contribuisce molto a non ingannare il prossimo e a non mentire neanche controvoglia, a non dovere dei sacrifici a un dio o del denaro a un uomo, e infine a non andarsene di qui pieni di paura. Offre poi molti altri vantaggi, ma a prenderli in esame uno per uno, Socrate, non metterei come ultimo il fatto che a questo scopo la ricchezza è della massima utilità per un uomo assennato". "Parole egregie, Cefalo", dissi. "Ma affermeremo che la giustizia in sé consiste semplicemente nella verità e nel restituire ciò che si è preso in prestito da uno, o queste stesse azioni sono a volte giuste, a volte ingiuste? Un esempio: se uno ricevesse delle armi da un amico che è in senno e poi questi, impazzito, le chiedesse indietro, chiunque direbbe che non bisogna restituirgliele e che non agirebbe giustamente chi gliele restituisse, così come se volesse dire tutta la verità a uno che si trova in tale stato". [10] "Hai ragione", disse. "Allora la definizione di giustizia non è questa, dire il vero e restituire ciò che si è preso in prestito". "E invece sì, Socrate!", intervenne Polemarco. "Almeno se si deve dare credito a Simonide". [11] "Comunque", disse Cefalo, "io lascio a voi la discussione: ora devo occuparmi del sacrificio". "D'altronde", feci io, "Polemarco non è il tuo erede?" "Precisamente!", rispose lui ridendo, intanto che si avviava a compiere il sacrificio. "Dimmi un po'", continuai, "tu che sei l'erede della discussione: qual è la massima di Simonide sulla giustizia che secondo te è ben detta?" Egli rispose: "Che è giusto restituire a ciascuno il dovuto; in questo a mio parere dice bene". "Indubbiamente", ribattei, "è difficile non prestar fede a un uomo sapiente e divino come Simonide. Ma forse tu, Polemarco, conosci il significato di questa affermazione, io invece lo ignoro: è chiaro infatti che non significa ciò che dicevamo poco fa, ossia restituire a uno che non è sano di mente qualcosa che ha lasciato in deposito, se la richiede. O no?" "Sì". "Ma non bisogna restituire proprio nulla quando chi lo richiede non è in senno?" "Esattamente". "Allora Simonide, a quanto pare, intende un'altra cosa quando dice che è giusto restituire il dovuto". "Sicuro, per Zeus, un'altra cosa!", esclamò. "Egli ritiene che gli amici debbano fare agli amici del bene, mai del male". "Capisco", dissi. "Chi restituisce del denaro a uno che l'ha lasciato in deposito non restituisce il dovuto, se il restituire e il riprendere si traducono in un danno e chi riprende e chi restituisce sono amici. Non suona così l'affermazione di Simonide, stando a quanto dici?" "Proprio così". "E allora? Bisogna restituire ai nemici ciò che è loro dovuto?" "Senz'altro", rispose, "ciò che è loro dovuto: il nemico, credo, deve al nemico ciò che appunto gli spetta, cioè del male". "Quindi Simonide", feci io, "ha usato, a quanto pare, enigmi in forma poetica per definire il giusto. Sembra infatti che abbia inteso il giusto come il restituire a ciascuno ciò che gli spetta, e a questo abbia dato il nome di dovuto". "Ma tu che cosa pensi?", domandò. "Per Zeus!", dissi. "Se uno gli avesse chiesto: "Simonide, l'arte chiamata medicina che cosa dà di dovuto e conveniente, e a chi lo dà?", che cosa ci avrebbe risposto, secondo te?" "È chiaro", rispose: "somministra medicine, cibi e bevande". "E la cosiddetta arte culinaria a chi e che cosa dà di dovuto e conveniente?" "I condimenti alle pietanze". "Bene. E l'arte definibile giustizia che cosa offre, e a chi?" "Se bisogna essere coerenti con quanto detto prima", rispose, "la giustizia, Socrate, è l'arte di beneficare gli amici e arrecare danno ai nemici". "Quindi Simonide definisce la giustizia come il fare del bene agli amici e del male ai nemici?" "Così mi sembra". "Chi più di tutti è in grado di fare del bene agli amici ammalati e del male ai nemici per quanto riguarda la malattia e la salute?" "Il medico". "E chi è più in grado di aiutare o danneggiare i naviganti nei pericoli del mare?" "Il timoniere". "E l'uomo giusto? In quale campo d'azione e in quale opera è più di tutti in grado di giovare agli amici e danneggiare i nemici?" "Nel combattere da avversario e da alleato, mi pare". "Bene. Ma a chi non è ammalato, caro Polemarco, il medico non serve". "Vero". "E così il timoniere a chi non naviga". "Sì". "Quindi anche l'uomo giusto è inutile a chi non è in guerra?" "Questo non mi sembra proprio". "Allora la giustizia è utile anche in pace?" "Sì, lo è". "E così l'agricoltura. O no?" "Sì". "Perché procura il frutto della terra?" "Sì". "E lo stesso vale per l'arte del calzolaio?" "Sì". "Perché, suppongo tu dica, fornisce le calzature?" "Certo!". "E allora per quale impiego e quale acquisto dirai che la giustizia è utile in pace?" "Per i contratti, Socrate". "Per contratti tu intendi le associazioni o qualcos'altro?" "Le associazioni, certo". "Ma nel disporre le pedine sulla scacchiera [12] il compagno buono e utile è il giusto o il giocatore esperto?" "Il giocatore esperto". "E nella posa di mattoni e pietre l'uomo giusto è un compagno più utile e più valente del muratore?" "Nient'affatto". "Per quale associazione allora il giusto è un compagno migliore del muratore e del suonatore di cetra, come il suonatore di cetra è più bravo dell'uomo giusto nel toccare le corde?" "Nelle questioni di denaro, mi sembra". "Tranne forse, Polemarco, nell'impiego del denaro, quando si tratta di acquistare o di vendere in comune un cavallo; allora, credo, vale di più l'esperto di cavalli. O no?" "Pare di sì". "E quando si tratta di un'imbarcazione, il costruttore di navi vale di più del timoniere?" "Così sembra". "Pertanto, quando si tratta di impiegare in comune dell'argento o dell'oro, il giusto è più utile di chiunque altro?" "Quando lo si deve depositare e custodire, Socrate". "Ti riferisci dunque al caso in cui non lo si deve impiegare, ma lasciare in giacenza?" "Per l'appunto". "Allora la giustizia è utile per il denaro quando esso non viene impiegato?" "Forse è così". "E quando bisogna custodire una falce, la giustizia è utile sia alla comunità sia all'individuo; quando invece bisogna usarla, serve l'arte del vignaiuolo?" "Pare di sì". "Allo stesso modo dirai che quando bisogna custodire uno scudo e una lira senza farne uso è utile la giustizia, quando invece bisogna adoperarli serve l'arte del soldato e del musicista?" "Per forza". "E anche in tutti gli altri campi la giustizia è inutile nell'impiego di ciascuna cosa, utile quando non la si adopera?" "Forse è così". "Quindi, caro amico, la giustizia non sarà una cosa molto seria, se viene a essere utile per ciò che non si usa. Ma consideriamo questo caso: chi è molto abile a colpire in battaglia o nel pugilato o in un'altra forma di lotta, non lo è anche nel difendersi?" "Sicuro". "Quindi chi sa difendersi da una malattia è anche molto abile nell'infonderla di nascosto in altri?" "Mi sembra di si". "Ma allora il buon difensore di un accampamento è chi sa anche carpire ai nemici i piani e le altre operazioni di guerra?" "Certamente". "Di conseguenza, chi è buon custode di qualcosa, ne è anche un buon ladro". "Così pare". "Quindi, se il giusto è bravo a custodire, lo è anche a rubare". "Questo almeno è il senso del discorso", disse. "L'uomo giusto si è dunque rivelato, a quanto pare, un ladro, e probabilmente tu l'hai appreso da Omero: egli infatti apprezza molto Autolico, il nonno materno di Odisseo, e dice che "tra tutti eccelleva in ruberie e spergiuri". [13] Pertanto sembra che secondo te, secondo Omero e secondo Simonide la giustizia sia un'arte del rubare, sia pure a vantaggio degli amici e a danno dei nemici. Non è questo che volevi dire?" "No, per Zeus!", rispose. "Ma io non so più che cosa ho detto. Tuttavia rimango del parere che la giustizia consiste nel giovare agli amici e danneggiare i nemici". "Ma per amici tu intendi coloro che a ciascuno sembrano onesti, o coloro che lo sono anche se non lo sembrano? Lo stesso vale anche per i nemici". "È naturale", rispose, "amare coloro che si reputano onesti e odiare coloro che si reputano malvagi". "Ma non è forse vero che gli uomini si sbagliano in proposito, tanto che molti sembrano loro onesti senza esserlo, e viceversa?" "Sì, si sbagliano". "Quindi a costoro i buoni sembrano nemici, e i malvagi amici?" "Appunto". "Tuttavia in questo caso è giusto giovare ai malvagi e danneggiare i buoni?" "Così pare". "Eppure i buoni sono giusti e incapaci di compiere ingiustizia?" "È vero". "Quindi, secondo il tuo ragionamento, è giusto fare del male a chi non commette alcuna ingiustizia". "Ma nient'affatto, Socrate!", disse. "Questo ragionamento sembra immorale". "Allora", ribattei, "è giusto danneggiare gli ingiusti, e giovare ai giusti?" "Questo discorso sembra migliore del precedente". "Dunque, Polemarco, accadrà che molti, i quali hanno sbagliato nel giudicare gli altri, troveranno giusto danneggiare gli amici, dato che li ritengono malvagi, e giovare ai nemici, dato che li ritengono buoni; e così diremo l'esatto contrario di ciò che abbiamo attribuito a Simonide". "Accade proprio questo", disse. "Ma prendiamo un'altra strada, perché è probabile che non abbiamo definito correttamente l'amico e il nemico". "Qual era la nostra definizione, Polemarco?" "L'amico è colui che sembra onesto". "E ora", domandai, "come la cambieremo?" "L'amico", rispose, "è colui che non solo sembra onesto, ma lo è davvero; colui che sembra tale senza esserlo dà l'impressione di essere amico, ma non lo è. La stessa definizione valga anche per il nemico". "Secondo questo ragionamento, a quanto pare, amico sarà l'uomo buono, nemico l'uomo malvagio". "Sì". "Dunque ci inviti a integrare il concetto di giustizia che abbiamo stabilito prima, quando dicevamo che è giusto fare del bene all'amico e del male al nemico; ora vuoi completarlo in questo modo, dicendo che è giusto fare del bene all'amico che è effettivamente buono e danneggiare il nemico che è effettivamente malvagio?" "Precisamente", disse. "Questa mi sembra una buona definizione". "Ma è forse proprio dell'uomo giusto danneggiare un qualsiasi altro uomo?", domandai. "Senza dubbio!", rispose. "Si deve arrecare danno ai malvagi e ai nemici". "Ma i cavalli, se sono maltrattati, diventano migliori o peggiori?" "Peggiori". "In relazione al pregio dei cani o dei cavalli?" "A quello dei cavalli". "Quindi anche i cani, se sono maltrattati, diventano peggiori in relazione al pregio dei cani, non a quello dei cavalli?" "Per forza". "E degli uomini, amico mio, non diremo che se sono maltrattati diventano peggiori in relazione alla virtù umana?" "Senz'altro". "Ma la giustizia non è una virtù umana?" "Anche questo è innegabile". "Allora, caro amico, è giocoforza che gli uomini maltrattati diventino più ingiusti". "Pare di sì". "È forse possibile che i musicisti rendano gli uomini insensibili alla musica proprio con la musica?" "Impossibile". "E che gli esperti di equitazione rendano incapaci di cavalcare con l'ippica?" "Non può essere". "E che i giusti rendano ingiusti gli uomini con la giustizia? O in generale che i buoni rendano malvagi gli uomini con la virtù?" "Ma è impossibile!". "Non credo infatti che il raffreddare sia opera del calore, ma del contrario". "Sì". "Né che l'inumidire sia opera della secchezza, ma del contrario". "Certo". "E neppure che l'arrecare danno sia opera dell'uomo buono, ma di quello d'indole opposta". "Così pare". "Ma l'uomo giusto è buono?" "Senza dubbio". "Non è quindi opera del giusto arrecare danno, Polemarco, né all'amico né ad altri, ma dell'uomo d'indole opposta, cioè dell'ingiusto". "Mi sembra che tu dica in tutto e per tutto la verità, Socrate", concordò. "Se dunque uno afferma che la giustizia consiste nel restituire a ciascuno il dovuto, e questo per lui significa che l'uomo giusto deve il danno ai nemici e il vantaggio agli amici, chi ha detto questo non era un saggio, poiché non ha parlato secondo verità. In nessuna circostanza ci è apparso giusto danneggiare qualcuno". "Sono d'accordo", disse. "Pertanto", continuai, "combattiamo uniti, io e te, contro chi sostiene che questa affermazione è stata fatta da Simonide o Biante o Pittaco o qualcun altro degli uomini sapienti e beati". [14] "Io sono pronto a condividere con te la lotta", disse. "Ma sai", feci io, "chi è, a mio parere, l'autore del detto secondo cui è giusto giovare agli amici e danneggiare i nemici?" "Chi è?", chiese. "Credo sia Periandro o Perdicca o Serse o Ismenia il tebano [15] o qualche altro uomo ricco e convinto di essere molto potente". "Quello che dici è verissimo", approvò. "Bene", dissi. "Dal momento che la giustizia e il giusto non risulta siano questo, in quale altro modo si potrebbero definire?" Trasimaco, mentre noi parlavamo, aveva tentato più volte di intervenire nel discorso, ma poi ne era stato impedito dai suoi vicini di posto, i quali volevano ascoltare il dibattito sino alla fine; quando però, dopo le mie ultime parole, facemmo una pausa, non si contenne più, ma si raggomitolò su se stesso come una belva e si lanciò contro di noi come per sbranarci. Io e Polemarco restammo attoniti dalla paura; e lui, urlando in mezzo a tutti, disse: "Cosa andate cianciando da un po' di tempo, Socrate? Cosa sono queste concessioni e questi complimenti ridicoli che vi fate a vicenda? Se vuoi veramente sapere che cos'è il giusto, non limitarti a interrogare e non farti bello confutando quando ti si risponde, perché sai bene che è facile interrogare e rispondere, ma rispondi tu stesso e dicci che cosa intendi per giusto. Evita di dire che è il dovere, o l'utile, o il vantaggioso, o il giovevole, ma esprimi con chiarezza e precisione il tuo pensiero, poiché io non permetterò che tu mi venga a contare simili sciocchezze". All'udire queste parole io rimasi sbigottito e alzando lo sguardo su di lui provavo paura; e credo che avrei perduto la voce se non avessi visto lui prima che egli vedesse me [16]. Ma nel momento in cui cominciava a dare in smanie per il nostro discorso io lo guardai per primo, così da essere in grado di rispondergli, e gli dissi tremando: "Trasimaco, non prendertela con noi! Se io e costui sbagliamo nella nostra indagine, sappi che lo facciamo senza volerlo. Sicuramente tu pensi che, se andassimo in cerca di oro, non ci scambieremmo volentieri dei complimenti durante la ricerca, col rischio di comprometterne il risultato; a maggior ragione, dato che cerchiamo la giustizia, una cosa più preziosa di grandi quantità d'oro, non devi crederci tanto dissennati da farci delle concessioni l'uno con l'altro e da non impegnarci a fondo per portarla alla luce. Sta' sicuro di questo, amico. Ma forse non ne siamo capaci; perciò sarebbe molto più logico che voi, che ne siete capaci, provaste compassione per noi, piuttosto che indignarvi". A queste parole lui sghignazzò sardonicamente e disse: "Per Eracle, questa è la famosa e abituale ironia di Socrate! Lo sapevo, io, e l'avevo detto a costoro che ti saresti rifiutato di rispondere e avresti fatto dell'ironia su tutto piuttosto che rispondere, se uno ti avesse interrogato!". "Sei proprio un sapiente, Trasimaco!", replicai. "Se tu chiedessi a uno quali fattori danno come prodotto dodici, premettendo alla tua domanda queste parole: "Evita, buon uomo, di dirmi che dodici è due volte sei o tre volte quattro o sei volte due o quattro volte tre, perché non accetterò simili ciance da parte tua!", sapevi bene, credo, che nessuno risponderebbe a una domanda formulata in questi termini. Ma se uno ti chiedesse: "Cosa stai dicendo, Trasimaco? Non devo dare nessuna delle risposte che hai enunciato prima, neppure se una di queste, mirabile uomo, è vera, ma devo dire qualcosa di diverso dal vero? O com'è che poni la questione?", che cosa risponderesti a queste domande?" "Eh già!", disse. Come se questo problema fosse simile all'altro!. "Nulla lo vieta", ribattei. "Tuttavia, se anche non sono simili, ma tali appaiono all'interrogato, credi che sarà meno propenso a rispondere come gli pare, che noi glielo vietiamo o no?" "Allora farai così anche tu", chiese: "darai una delle risposte che ho vietato?" "Non me ne meraviglierei", risposi, "se dopo un'attenta indagine mi sembrasse opportuno". "E se io ti indicassi un'altra risposta sulla giustizia oltre a tutte queste, e per giunta migliore? Quale pena ritieni che meriteresti?" [17] "Cos'altro", risposi, "se non quello che conviene subisca chi non sa, cioè imparare da chi sa? Io ritengo giusto subire questa pena". "Sei dolce", disse, "ma oltre ad imparare devi anche pagare del denaro". "D'accordo", replicai, "quando ne avrò". "Denaro ce n'è", disse Glaucone. "Parla dunque per denaro, Trasimaco: noi tutti daremo un contributo a favore di Socrate". [18] "Benissimo!", esclamò. "Così Socrate farà come suo solito: non risponderà personalmente, ma si attaccherà alle riposte altrui per confutarle". "Carissimo", obiettai, "come potrebbe rispondere uno che non sa e dice di non sapere, tanto più se, quand'anche avesse qualche opinione, gli è stato impedito da un uomo non da poco di esprimere il proprio parere sull'argomento? è più logico invece che parli tu, dato che affermi di sapere e di poter parlare. Perciò non fare altrimenti, ma usami la cortesia dì rispondere e non negare la tua dottrina a Glaucone e agli altri". Dopo che ebbi detto questo Glaucone e gli altri lo pregarono di non tirarsi indietro. Era chiaro che Trasimaco moriva dalla voglia di parlare per fare bella figura, perché riteneva di avere un'ottima risposta; però faceva finta di insistere perché fossi io a rispondere. Alla fine accondiscese, e poi disse: "Ecco la sapienza di Socrate: rifiutarsi di insegnare e andare in giro a imparare dagli altri, senza avere un minimo di riconoscenza per questo!". "Sei nel vero quando dici che io imparo dagli altri, Trasimaco", replicai, "ma hai torto quando affermi che non pago il debito di riconoscenza: io ripago come posso. Posso solo lodare, poiché non ho denaro. E come lo faccio di tutto cuore, se mi sembra che uno parli bene, lo saprai molto presto, non appena mi risponderai; perché credo che tu parlerai bene". "Ascolta", disse. "Io affermo che il giusto non è altro che l'interesse del più forte. Perché non mi lodi? Certo non vorrai!". "Lascia prima che intenda il senso delle tue parole", risposi, "perché non lo capisco ancora. Tu affermi che il giusto è l'interesse del più forte. Ma perché mai dici questo, Trasimaco? Di sicuro non vuoi dire una cosa del genere: che se Polidamante, il lottatore di pancrazio, [19] è più forte di noi e al suo corpo giova la carne di bue, questo cibo è vantaggioso e giusto anche per noi, che siamo inferiori a lui". "Sei disgustoso, Socrate!", esclamò. "Interpreti il discorso in modo da stravolgerlo completamente!". "Nient'affatto, esimio!", replicai. "Esprimi tu più chiaramente cosa intendi dire!" "Allora non sai", disse, "che alcune città sono governate da tiranni, altre hanno un regime democratico, altre ancora un regime aristocratico?" "Come no?" "E in ogni città non comanda la forza che è al governo?" "Naturalmente". "E ogni governo stabilisce le leggi in base al proprio utile: la democrazia istituisce leggi democratiche, la tirannide leggi tiranniche, e così gli altri governi; e una volta che le hanno stabilite proclamano ai sudditi che il proprio utile è giusto e puniscono chi lo trasgredisce come persona che viola le leggi e commette ingiustizia. Questo, carissimo, è ciò che io chiamo il giusto, lo stesso per tutte le città: l'interesse del potere costituito. Esso ha dalla sua la forza, tanto che, se si fa un ragionamento corretto, il giusto si identifica ovunque con l'interesse del più forte". "Ora ho capito il senso della tua affermazione", dissi, "e cercherò di capire se è vera o no. Dunque anche tu, Trasimaco, hai risposto che il giusto è l'interesse; eppure mi avevi proibito di rispondere così. C'è però un'aggiunta: "del più forte"". "Un'aggiunta da poco, forse!", disse. "Non è ancora chiaro neanche se sia importante; è però chiaro che bisogna esaminare se dici il vero. Anch'io infatti riconosco che il giusto è qualcosa di utile, ma tu, con la tua aggiunta, dici che lo è per il più forte; e io non ne sono sicuro. Perciò bisogna esaminare questo punto". "Esamina pure!", esclamò. "Lo farò", dissi. "Rispondimi, dunque: non affermi anche che è giusto obbedire ai governanti?" "Certamente!". "Ma in ogni città i governanti sono infallibili e possono anche sbagliare?" "Sicuramente possono anche sbagliare", rispose. "Perciò, quando si mettono a istituire le leggi, alcuni le istituiscono correttamente, altri no?" "Credo di sì". "E legiferare bene significa stabilire ciò che per loro è utile, legiferare male stabilire ciò che per loro è svantaggioso? O com'è che poni la questione?" "Così". "Ma i sudditi devono fare ciò che essi stabiliscono, e questo è il giusto?" "Come no?" "Dunque, secondo il tuo ragionamento, è giusto fare non solo l'interesse del più forte, ma anche il suo contrario, ossia ciò che gli è svantaggioso". "Che cosa vuoi dire?", domandò. "Quello che dici tu, mi sembra; comunque esaminiamo meglio la questione. Non si è convenuto che i governanti, quando impongono ai sudditi di fare determinate cose, a volte non colgono nel segno riguardo a ciò che è meglio per loro, ma d'altra parte è giusto che i sudditi facciano ciò che ordinano i governanti? Non si è convenuto questo?" "Credo di sì", rispose. "Considera allora", proseguii, "che per tua ammissione è giusto fare anche ciò che è svantaggioso ai governanti e ai più forti, quando essi danno senza volerlo ordini contrari al proprio utile; ma d'altro canto tu sostieni che è giusto eseguire ciò che essi ordinano. Allora, sapientissimo Trasimaco, non ne consegue inevitabilmente che sia giusto fare il contrario di ciò che tu dici? Infatti al più debole si impone senz'altro di fare ciò che è svantaggioso al più forte". "Sì, per Zeus", disse Polemarco, "questo è chiarissimo, Socrate!". "Se lo confermi con la tua testimonianza", intervenne Clitofonte. "Che bisogno c'è di testimoni?", disse. "Lo stesso Trasimaco ammette che a volte i governanti danno ordini contrari al proprio utile, e comunque è giusto che i sudditi li eseguano". "Perché Trasimaco ha definito il giusto come l'eseguire gli ordini impartiti dai governanti, Polemarco". "E ha definito il giusto anche come l'interesse del più forte, Clitofonte. E una volta che ha posto questi due princìpi ha convenuto che talvolta i più forti impartiscono ai più deboli e ai sudditi ordini contrari ai propri interessi. Se si concede questo, ne consegue che l'interesse del più forte non potrà essere giusto più di ciò che gli è svantaggioso". "Lui però", disse Clitofonte, "ha affermato che l'interesse del più forte è ciò che il più forte ritiene utile per sé: questo deve fare il più debole, e questa è la definizione che è stata data di giusto". "Ma non si è espresso in questi termini!", ribatté Polemarco. "Non fa differenza, Polemarco", intervenni io. "Se ora Trasimaco la pensa così, accettiamo questa sua definizione. Ma tu dimmi, Trasimaco: era questo ciò che intendevi per giusto, ovvero ciò che sembra utile al più forte, che lo sia davvero o no? Dobbiamo dire che questa è la tua posizione?" "Nient'affatto!", rispose. "Credi forse che io chiami più forte chi sbaglia proprio quando sbaglia?" "Per la verità", dissi, "credevo che tu dicessi questo, quando hai ammesso che i governanti non sono infallibili, ma possono sbagliare in qualcosa". "Nei discorsi, Socrate, sei proprio un sicofante!", [20] replicò. "Ad esempio, tu chiami medico chi sbaglia a proposito degli ammalati per il fatto stesso che sbaglia? O computista chi sbaglia a fare i calcoli proprio nel momento in cui sbaglia, in virtù di questo errore? Mi sembrano piuttosto modi di dire le frasi del tipo il medico ha sbagliato, il computista ha sbagliato, lo scrivano ha sbagliato, ma secondo me ciascuno di loro, per quanto risponde alla definizione che diamo di lui, non sbaglia mai; perciò, a rigore di termini, dato che anche tu fai il meticoloso, nessun artigiano sbaglia. Chi sbaglia lo fa quando viene meno la sua scienza, e in ciò non è un artigiano; di conseguenza nessun artigiano o sapiente o governante sbaglia quando è tale, sebbene chiunque possa dire che il medico o il governante ha sbagliato. In tal senso, quindi, interpreta ora la mia risposta. L'espressione più esatta è però la seguente: chi governa, per quanto è governante, non sbaglia e stabilisce senza sbagliare ciò che è meglio per sé, e al suddito tocca eseguirlo. Perciò, come dicevo dall'inizio, considero giusto agire nell'interesse del più forte". "Va bene, Trasimaco", dissi. "Ti pare che io faccia il sicofante?" "Ma certo!", rispose. "Credi dunque che io ti abbia posto la domanda così per usare di proposito dei giri di parole?" "Ne sono sicuro!", rispose. "E non ti servirà a nulla, poiché non potrai sfuggirmi nei tuoi raggiri, e neppure sopraffarmi nella discussione senza che io me ne accorga". "Ma non ci proverei neanche, beato!", dissi io. "Tuttavia, per evitare che una cosa del genere si ripeta, definisci se stai parlando del governante e del più forte in maniera generica o nel senso stretto del termine, come hai fatto ora, precisando quale dei due è il più forte nel cui interesse sarà giusto che il più debole agisca". "Sto parlando del governante nel senso più stretto del termine", rispose. "Contrasta pure questa mia affermazione con giri di parole e calunnie, se ne sei capace, io non mi tiro indietro; ma non ci riuscirai". "Credi che io", replicai, "sia così pazzo da tentare di tosare un leone e calunniare Trasimaco?" "Ma se hai cercato di farlo proprio ora", disse, "senza riuscire neanche in questo!". "Basta con simili discorsi!", troncai. "Piuttosto dimmi: il medico nel senso stretto del termine, di cui parlavi poco fa, è un affarista o uno che cura gli ammalati? Parla solo di chi è davvero medico". "Uno che cura gli ammalati", rispose. "E il timoniere? Chi è veramente timoniere è un capo di marinai o un marinaio?" "Un capo di marinai". "Non bisogna tener conto, credo, del fatto che egli si trova a bordo della nave, e chiamarlo per questo marinaio; infatti non si chiama timoniere perché naviga, ma per la sua arte e la sua autorità sui marinai". "È vero", disse. "Ciascuno di loro non ha un proprio interesse?" "Certamente". "E anche la loro arte", aggiunsi, "non ha per sua natura lo scopo di cercare e procurare a ciascuno il proprio utile?" "Sì, ha questo scopo", rispose. "E ogni arte ha forse un interesse diverso da quello di essere il più possibile perfetta?" "Che cosa significa questa domanda?" "Ad esempio", dissi, "se mi chiedessi se al corpo basta essere corpo o ha bisogno di qualcos'altro, risponderei: "Ne ha bisogno senz'altro! L'arte medica è stata inventata proprio per questo, perché il corpo è debole e non gli basta essere così com'è. Pertanto quest'arte è stata istituita per procurargli ciò che gli serve". Mi sembra che avrei ragione a parlare così; o no?" "Sì, avresti ragione", rispose. "Allora la medicina in sé vale poco, oppure anche altre arti hanno bisogno talvolta di una qualità, come gli occhi hanno bisogno della vista e le orecchie dell'udito, e perciò necessitano, oltre che di questi organi, di un'arte che ricerchi e procuri ciò che serve al loro funzionamento? C'è dunque un difetto nell'arte stessa, e ciascuna arte ha bisogno di un'altra arte che ricerchi ciò che le serve, e questa ne richiede a sua volta un'altra dello stesso genere, e così all'infinito? O l'arte ricercherà da sé ciò che le serve? Oppure non ha bisogno né di se stessa né di un'altra per ricercare ciò che è utile a sanare il proprio difetto, poiché non ci sono difetti o errori in nessuna arte; e a un'arte spetta di ricercare l'utile solo per ciò che la concerne come arte, ma ciascuna arte in sé, se è autentica, non conosce danno o contaminazione finché resta qual è nella sua perfetta integrità? Esamina il problema col rigore di cui parlavi: le cose stanno così o diversamente?" "Pare che stiano così", rispose. "Pertanto", continuai, "la medicina ricerca ciò che è utile non alla medicina, ma al corpo". "Sì", disse. "E l'ippica ricerca ciò che è utile non all'ippica, ma ai cavalli; e nessun'altra arte ricerca l'utile proprio, giacché non ne ha bisogno, bensì l'utile di ciò che la concerne come arte". "Pare di sì", ammise. "Eppure, Trasimaco, le arti comandano e signoreggiano su ciò di cui sono arti". Convenne anche su questo punto, con molta riluttanza. "Dunque nessuna scienza ricerca e impone l'interesse del più forte, bensì quello di chi è più debole e soggetto ad essa". Alla fine ammise anche questo, benché cercasse di far resistenza. Quando fu d'accordo io ripresi: "Non è forse vero che nessun medico, per quanto è medico, ricerca e impone ciò che è utile al medico, bensì ciò che è utile all'ammalato? Abbiamo convenuto che il medico in senso stretto governa i corpi, ma non è un affarista. O non l'abbiamo convenuto?" Lo ammise. "Quindi anche il timoniere in senso stretto è capo dei marinai, non un marinaio?" "Siamo d'accordo". "Perciò un simile timoniere e capo non ricercherà e non imporrà l'interesse del timoniere, ma quello del marinaio e di chi gli è soggetto". Lo ammise con riluttanza. "Di conseguenza, Trasimaco", dissi, "nessun altro uomo in nessun posto di comando, in quanto capo, ricerca e impone il proprio interesse, bensì l'interesse di colui che gli è sottoposto e per il quale esercita la propria funzione, e tutte le sue parole e le sue azioni mirano all'utilità e alla convenienza di quello". Quando arrivammo a questo punto della discussione e appariva evidente a tutti che la definizione di giustizia si era convertita nel suo contrario, Trasimaco, anziché rispondere, domandò: "Dimmi, Socrate: tu hai una balia?" "Cosa?", dissi io. "Non sarebbe meglio rispondere piuttosto che fare simili domande?" "Il fatto è", disse, "che ti lascia con il moccio al naso [21] e non te lo soffia quando ne hai bisogno; e per merito suo tu non sai neanche riconoscere le pecore dal pastore". "E perché mai?", chiesi. "Perché pensi che i pastori o i bovari ricerchino il bene delle pecore o dei buoi, e li ingrassino e li curino con uno scopo diverso dal bene proprio e dei loro padroni; allo stesso modo credi che i governanti delle città, quelli che detengono realmente il potere, abbiano verso i sudditi un atteggiamento diverso da quello che si può avere con le pecore, e ricerchino giorno e notte qualcos'altro che il modo di trarne un vantaggio personale. E hai fatto tanti progressi nei concetti di giusto e dì giustizia, di ingiusto e di ingiustizia, da ignorare che la giustizia e il giusto sono in realtà un bene altrui, cioè l'interesse di chi è più forte e comanda, e un male proprio di chi obbedisce e serve, mentre l'ingiustizia comanda su chi è veramente ingenuo e giusto, e i sudditi fanno l'interesse del più forte e lo rendono felice mettendosi al suo servizio, ma non procurano il benché minimo vantaggio a se stessi. Devi considerare, sciocco di un Socrate, che in ogni circostanza un uomo giusto ottiene meno di uno ingiusto. Innanzi tutto, nei contratti privati, quando due persone del genere si mettono in società, allo scioglimento del rapporto non troverai mai che il giusto possieda di più dell'ingiusto: possederà di meno; poi, nei rapporti con lo Stato, quando ci sono tributi da pagare, a parità di mezzi l'uomo giusto paga di più, l'altro di meno, quando invece c'è da prendere l'uno non ricava nulla, l'altro ricava molto. E nel caso ricoprano entrambi una carica, il giusto, anche se non gli capita nessun altro guaio, subisce un danno negli interessi personali perché li ha trascurati e non ricava vantaggio dalla cosa pubblica per il fatto che è giusto, e oltre a ciò diviene inviso a familiari e conoscenti, se non è disposto a favorirli contro giustizia. All'ingiusto invece capita l'esatto contrario: mi riferisco, come dicevo poco fa, a chi sa imporsi sugli altri. Lo capirai nel modo più facile se giungerai all'ingiustizia più perfetta, che rende felicissimo chi la commette, e infelicissimi quanti la subiscono e non vorrebbero comportarsi ingiustamente. E la tirannide, che non si appropria dei beni altrui, sacri e profani, privati e pubblici, poco a poco, con l'inganno e la violenza, ma prende tutto in una volta. Se uno viene sorpreso a commettere ingiustizia in un singolo ambito, viene punito e riceve il massimo biasimo: non a caso coloro che si macchiano di queste colpe una alla volta sono chiamati sacrileghi, schiavisti, scassinatori, rapinatori, ladri. Ma quando uno ha ridotto in schiavitù i propri concittadini, oltre a essersi appropriato delle loro ricchezze, invece di questi nomi infamanti guadagna la reputazione di uomo felice e beato, non solo da parte dei concittadini, ma anche di chiunque altro venga a sapere che ha commesso l'ingiustizia più completa; infatti coloro che biasimano l'ingiustizia la biasimano per il timore non di farla, ma di subirla. Così, Socrate, l'ingiustizia, quando si realizza in misura adeguata, è una cosa più forte, più libera, più potente della giustizia, e come ho detto dall'inizio il giusto è l'interesse del più forte, l'ingiusto giova e conviene a se stesso". A questo punto Trasimaco aveva in mente di andarsene, dopo averci rovesciato giù dalle orecchie, come un bagnino, un bel diluvio di parole; ma i presenti non glielo permisero, anzi lo costrinsero a rimanere e a rendere conto delle sue affermazioni. Io stesso lo pregai con insistenza e dissi: "Divino Trasimaco, tu hai in mente di andartene dopo averci scagliato addosso un simile discorso, senza averci sufficientemente chiarito o aver appreso tu stesso se le cose stanno così o diversamente? O credi che sia cosa da poco accingersi a definire la condotta di un'intera vita, alla quale ciascuno di noi deve attenersi per poter vivere con il massimo profitto?" "E io la penso forse altrimenti?", ribatté Trasimaco. "Tu dai questa impressione", risposi, "oppure non ti curi affatto di noi e non ti importa se vivremo meglio o peggio ignorando ciò che tu dici di sapere. Piuttosto, carissimo, vedi di chiarire le idee anche a noi: non mancherai di trarre un guadagno dal favore che ci farai, poiché siamo tanti. Quanto a me, voglio dirti la mia: non sono affatto convinto che l'ingiustizia sia più vantaggiosa della giustizia, neppure se le si permette e non le si impedisce di fare quello che vuole. Ammettiamo pure, mio caro, che uno sia ingiusto e possa commettere ingiustizia celandola o ricorrendo apertamente alla violenza; tuttavia non mi convince che tale condizione sia più vantaggiosa della giustizia. Forse c'è qualcun altro tra noi che la pensa così, non solo io; perciò, grand'uomo, cerca dì persuaderci bene che non è corretta la nostra risoluzione di tenere la giustizia in maggior conto dell'ingiustizia". "E come potrò persuaderti?", disse. "Se non sei stato persuaso da ciò che ho detto poco fa, cos'altro potrei fare? Devo forse infilarti il discorso nell'anima con la forza?" "No, per Zeus, non farlo!", risposi. "Prima di tutto rimani fermo a quello che hai detto, oppure, se cambi opinione, cambiala manifestamente e non ingannarci. Ora però, Trasimaco, per ritornare al discorso di prima, tu vedi che, se all'inizio hai definito il vero medico, in seguito non hai più ritenuto opportuno attenerti rigorosamente alla definizione del vero pastore, ma pensi che egli, in quanto pastore, pascoli le greggi avendo di mira non ciò che è meglio per le pecore, ma un banchetto, come un convitato che sta per mettersi a tavola, oppure la loro vendita, come un affarista e non come un pastore. Ma alla pastorizia non importa altro se non di procurare il meglio agli esseri cui è preposta, poiché per quanto si riferisce a se stessa, finché non le manca nulla per essere pastorizia, ha certamente provveduto in modo sufficiente alla sua piena realizzazione; analogamente credevo che ora fosse per noi necessario ammettere che ogni autorità, pubblica o privata che sia, in quanto autorità ricerca solamente il meglio per chi è soggetto al suo potere e alla sua cura. Tu pensi che i governanti delle città, quelli che lo sono veramente, governino volentieri?" "Per Zeus", rispose, "non lo penso: ne sono sicuro!" "Ma come, Trasimaco?", dissi. "Non ti accorgi che nessuno vuole ricoprire spontaneamente le altre cariche, ma chiedono un compenso perché pensano che dall'esercizio della carica non verrà un vantaggio a loro, bensì ai sudditi? Dimmi ancora una cosa: non affermiamo continuamente che ogni arte è diversa dalle altre per il fatto che ha una diversa funzione? E non rispondermi con dei paradossi, grand'uomo, in modo che possiamo arrivare a una conclusione". "Sì, la diciamo diversa per questo motivo", rispose. "Quindi ciascuna arte ci procura anche un vantaggio suo proprio e non comune, ad esempio l'arte medica ci procura la salute, quella del timoniere la salvezza nella navigazione, e lo stesso vale per le altre?" "Certamente". "E l'arte del mercenario non procura un compenso? Questa infatti è la sua funzione: oppure identifichi la medicina con l'arte del timoniere? O ancora, sempre che tu voglia dare definizioni precise, come ti sei proposto, se uno che fa il timoniere acquista la salute perché gli giova navigare per mare, per questo tu chiami la sua arte medicina?" "No di certo!", rispose. "E non chiami così neanche l'arte del mercenario, credo, nel caso che uno goda di buona salute grazie ad essa". "Sicuramente no". "E allora dobbiamo definire mercenaria la medicina, se uno riceve un compenso per guarire gli ammalati?" Disse di no. "E non abbiamo convenuto che ciascuna arte ha un'utilità sua propria?" "È così", rispose. "Se dunque tutti gli artigiani ricavano un utile comune, è chiaro che lo ricavano da qualcosa di identico ed esterno alla loro arte, di cui si servono in comune". "A quanto pare", disse. "Possiamo almeno dire che con il loro compenso gli artigiani ricavano un utile dal fatto di associare alla propria arte quella del mercenario". Lo ammise con riluttanza. "Pertanto l'utile, di ricevere un compenso non viene a ciascuno dalla propria arte, ma, a voler essere precisi, l'arte medica procura la salute e quella mercenaria un compenso, l'arte edilizia costruisce una casa e quella mercenaria che le è connessa produce un compenso; lo stesso discorso vale per tutte le altre arti: ciascuna compie l'opera che le è propria nell'interesse di ciò cui è preposta. Ma se ad essa non si aggiunge un compenso, può forse l'artigiano ricavare un utile dalla propria arte?" "Pare di no", rispose. "Ma non è utile anche quando lavora gratuitamente?" "Credo proprio di sì". "Allora, Trasimaco, è ormai evidente che nessuna arte o autorità procura il proprio utile, ma, come abbiamo detto da tempo, procura e impone l'utile del suddito, mirando all'interesse del più debole, non a quello del più forte. Per questo, caro Trasimaco, poco fa sostenevo che nessuno è disposto a ricoprire volontariamente una carica e a occuparsi dei mali altrui per raddrizzarli, ma chiede un compenso, perché chi intende esercitare bene la propria arte non fa e non impone mai il suo meglio, quando lo impone secondo la sua arte, ma il meglio del suddito. Ecco perché, a quanto sembra, chi è disposto a governare deve ricevere una ricompensa: del denaro, un onore, oppure una punizione se non governa". "Cosa vuoi dire con questo, Socrate?", chiese Glaucone. "Conosco le due ricompense, ma non ho capito qual è la punizione di cui parli come se fosse da annoverare tra le ricompense". "Allora non conosci la ricompensa dei migliori", dissi, "quella per cui governano gli uomini più valenti, quando sono disposti a farlo. O non sai che l'avidità di onori e di ricchezze è ritenuta un disonore, e lo è effettivamente?" "Sì, lo so", rispose. "Appunto per questo", ripresi, "gli uomini onesti non sono disposti a governare per denaro o per gli onori. Infatti non vogliono essere chiamati mercenari esigendo apertamente un compenso per la loro carica, o ladri ricavandolo da questa carica di nascosto; lo stesso vale per gli onori, poiché non sono ambiziosi. Pertanto con loro, se accettano di governare, bisogna ricorrere alla costrizione e alla pena; da qui forse deriva il fatto che si ritiene disonorevole occupare una carica spontaneamente, senza attendere la costrizione. Ma la pena più grave, nel caso non si voglia governare di persona, sta nell'essere governati da chi è moralmente inferiore; questo è il timore che a mio parere spinge gli uomini onesti a governare, quando lo fanno. In tal caso assumono il potere non come se fosse qualcosa di buono in cui possono deliziarsi di piacere, ma come se andassero verso qualcosa di necessario, poiché non possono affidarlo a persone migliori o uguali a loro. Forse, se esistesse una città di uomini buoni, si farebbe a gara per non governare come adesso per governare, e allora sarebbe evidente che il vero uomo di governo non è fatto per mirare al proprio utile, ma a quello del suddito; di conseguenza ogni persona fornita di discernimento preferirebbe ricevere vantaggi da un altro piuttosto che giovare al prossimo e avere per questo delle noie. Io comunque non sono assolutamente d'accordo con Trasimaco sul fatto che il giusto sia l'interesse del più forte. Ma questo punto lo riesamineremo in un altro momento: mi sembra molto più importante quello che dice ora Trasimaco, quando sostiene che la vita dell'ingiusto è migliore di quella del giusto. Tu, Glaucone, quale tesi scegli? Quale delle due ti sembra più vera?" "Secondo me, la vita del giusto è più vantaggiosa". "Hai sentito", feci io, "quanti sono i vantaggi della vita dell'ingiusto che Trasimaco ha enumerato?" "Ho sentito", rispose, "ma non sono convinto". "Vuoi che proviamo a convincere lui che non dice il vero, se riusciamo a trovare il modo?" "Certo che lo voglio!", disse lui. "Se dunque", proseguii, "opponendo discorso a discorso, diremo quanti vantaggi comporta l'essere giusti e ribatteremo alle sue repliche, bisognerà contare e misurare quanti vantaggi ciascuna delle due parti adduce alla propria tesi, e alla fine avremo bisogno di giudici che dirimano la questione; se invece condurremo la nostra indagine mettendoci d'accordo tra noi come prima, noi stessi saremo a un tempo giudici e avvocati". "Precisamente", disse. "Quale metodo preferisci?", domandai. "Quest'ultimo", rispose. "Su, Trasimaco", incominciai, "torna da capo e rispondici. Sostieni che la perfetta ingiustizia è più vantaggiosa della perfetta giustizia?" "Sostengo proprio questo", rispose, "per le ragioni che ho esposto". "Ma allora quali definizioni dai di esse? Chiami l'una virtù, l'altra vizio?" "Come no?" "Dunque chiami virtù la giustizia, vizio l'ingiustizia?" "Naturalmente, carissimo", rispose, "dal momento che affermo anche che l'ingiustizia è utile, la giustizia no!". "E allora cosa vuoi dire?" "Il contrario", rispose. "Forse che la giustizia è un vizio?" "No, che è una nobilissima ingenuità". "Quindi tu chiami l'ingiustizia cattiveria?" "No, la chiamo accortezza". "E gli ingiusti, Trasimaco, ti sembrano forse assennati e buoni?" "Sì", rispose, "almeno quelli che sono capaci di un'ingiustizia perfetta e possono sottomettere città e popoli; ma forse tu pensi che io stia parlando dei tagliaborse! Senza dubbio anche simili azioni producono un vantaggio, se non vengono scoperte; non è però di questo che vale la pena di parlare, bensì dell'argomento che ho introdotto poco fa". "Capisco ciò che vuoi dire, ma mi ha stupito il fatto che tu tenga l'ingiustizia in conto di virtù e sapienza, e l'ingiustizia nella considerazione opposta". "Ma io sostengo proprio questo!". "Questa tesi, amico, ora è più solida e non è più facile avere da obiettare", dissi. "Se tu sostenessi che l'ingiustizia giova, ma ammettessi come altri che è un vizio o qualcosa di turpe, avremmo qualcosa da dire, rifacendoci alle opinioni consuete; ora invece dirai chiaramente che essa è bella e forte e le aggiungerai tutti gli altri beni che noi abbiamo attribuito alla giustizia, dato che hai avuto il coraggio di tenerla in conto di virtù e di sapienza". "Sei un indovino veridico!", esclamò. "Tuttavia", proseguii, "non dobbiamo rinunciare a proseguire la nostra indagine, finché non sarò certo che dici ciò che veramente pensi. Mi sembra infatti che tu, Trasimaco, ora non stia affatto scherzando, ma stia esprimendo veramente la tua opinione". "Che differenza fa per te", disse, "se la penso così oppure no? Perché non provi piuttosto a confutare il mio ragionamento?" "Nessuna differenza", feci io. "Ma cerca di rispondere a quest'altra domanda: ti sembra che l'uomo giusto vorrebbe avere la meglio sul giusto?" "Assolutamente no!", rispose. "Non sarebbe semplice e ingenuo, com'è in realtà". "E vorrebbe prevalere su un'azione giusta?" "No, su un'azione giusta no", rispose. "E pensi che vorrebbe prevalere sull'ingiusto e riterrebbe giusto farlo, oppure no?" "Lo riterrebbe giusto", disse lui, "e lo vorrebbe, ma non ne sarebbe capace". "Non ti sto chiedendo questo", ribattei, "bensì se il giusto abbia la pretesa e la volontà di prevalere non sul giusto, ma sull'ingiusto". "Le cose stanno così", disse. "E l'uomo ingiusto? Pretende di avere la meglio sul giusto e sull'azione giusta?" "Come no", rispose, "visto che pretende di avere la meglio su tutti?" "Quindi l'uomo ingiusto prevarrà anche sull'ingiusto e sull'azione ingiusta e lotterà per primeggiare su tutti?" "È così". "Dobbiamo dunque concludere", ripresi, "che il giusto non prevale sul suo simile, ma su chi gli è dissimile, l'ingiusto prevale tanto sul simile quanto sul dissimile?" "Ottima definizione!", disse. "E l'ingiusto", domandai, "è assennato e buono, il giusto invece non è né l'una né l'altra cosa?" "Anche questo va bene", rispose. "Allora", feci io, "l'ingiusto assomiglia all'uomo assennato e buono, il giusto no?" "Perché non dovrebbe assomigliare a persone di tal genere", disse, "se è come loro, a differenza di quell'altro?" "Sta bene. Quindi ciascuno dei due è come coloro cui somiglia?" "C'è forse qualche dubbio?", ribatté. "D'accordo, Trasimaco. Tu distingui chi è musicista da chi non lo è?" "Certo". "Quale dei due giudichi saggio, e quale insipiente?" "Il musicista senza dubbio saggio, l'altro insipiente". "Quindi l'uno, in quanto saggio, è buono, l'altro, in quanto insipiente, è cattivo?" "Sì". "E nel caso del medico? Non è la stessa cosa?" "È così". "Allora, grand'uomo, ti sembra che un musicista, quando accorda la lira, voglia superare un altro musicista e pretenda di avere la meglio su di lui nel tendere e nell'allentare le corde?" "Non mi pare". "E su chi invece non è musicista?" "È inevitabile", disse. "E il medico? Vorrebbe prevalere su un altro medico o sul suo operato nel prescrivere cibi e bevande?" "Sicuramente no". "E su chi invece non è medico?" "Sì". "Vedi un po' dunque se, in ogni genere di competenza e di incompetenza, ti sembra che un esperto qualsiasi vorrebbe prevalere negli atti e nelle parole su un altro esperto, anziché essere come il suo simile nello stesso campo d'azione". "Forse", disse, "è giocoforza che sia così". "E l'inesperto? Non vorrebbe prevalere ugualmente sull'esperto e sull'inesperto?" "Forse". "Ma l'esperto è sapiente?" "Sì". "E il sapiente è buono?" "Sì". "Quindi chi è buono e sapiente non vorrà prevalere sul suo simile, ma su chi gli è dissimile, anzi contrario". "Pare di sì", disse. "E chi è malvagio e ignorante vorrà prevalere tanto sul suo simile quanto sul suo contrario". "Così pare". "Dunque, Trasimaco", chiesi, "secondo noi l'ingiusto prevale tanto sul suo simile quanto sul suo dissimile? Non hai detto questo?" "Certo", rispose. "Invece il giusto non prevale sul suo simile, ma sul suo dissimile?" "Sì". "Allora", continuai, "il giusto è simile al sapiente e al buono, l'ingiusto al malvagio e all'ignorante". "Può darsi". "Ma noi abbiamo convenuto che ciascuno dei due ha gli stessi caratteri di colui al quale somiglia". "Sì, l'abbiamo convenuto". "Ecco che il giusto si è rivelato buono e sapiente, l'ingiusto ignorante e malvagio". Trasimaco ammise tutto ciò, non con la facilità con cui ora lo racconto, ma trascinato a forza e con riluttanza, grondante di sudore perché era estate; quella fu la prima volta che vidi Trasimaco arrossire. A ogni modo, dopo aver convenuto che la giustizia è virtù e sapienza, l'ingiustizia malvagità e ignoranza, io proseguii: "Bene, su questo punto restiamo d'accordo così. Ma abbiamo anche affermato che l'ingiustizia è forte. Te ne ricordi, vero, Trasimaco?" "Me ne ricordo", rispose, "ma non mi piace neppure ciò che dici ora, e ho qualcosa da obiettare. Se però parlassi, mi accuseresti di fare un'arringa, lo so bene! Perciò lasciami dire tutto quello che voglio, oppure, se vuoi pormi delle domande, chiedi pure: io risponderò "va bene" e farò cenno di sì o di no, come alle vecchie che raccontano favole". "Ma non rispondere il contrario di ciò che pensi", dissi. "Cercherò di accontentarti", replicò, "dal momento che non mi lasci parlare. Cos'altro vuoi?" "Nulla, per Zeus!", esclamai. "Ma se hai davvero intenzione di fare così, fallo pure, e io ti interrogherò". "E allora interrogami!". "Bene, per procedere con ordine nella nostra ricerca, ti ripeto la domanda posta poco fa, ovvero quale rapporto intercorre tra la giustizia e l'ingiustizia. A un certo punto è stato detto che l'ingiustizia è più forte della giustizia; ora però", continuai, "se è vero che la giustizia è sapienza e virtù, credo che risulterà senz'altro più forte anche dell'ingiustizia, dato che l'ingiustizia è ignoranza (e nessuno potrà più disconoscerlo). Ma io, Trasimaco, non desidero condurre l'indagine in maniera tanto semplice, e preferisco quest'altro punto di vista: secondo te è ingiusto che una città cerchi di asservire e abbia già asservito ingiustamente altre città, e ne tenga molte sottomesse al suo dominio?" "Come no?", rispose. "La città migliore e perfettamente ingiusta terrà proprio questo comportamento!". "Capisco che la tua tesi era questa", dissi. "Ma voglio fare questa considerazione in proposito: la città che è divenuta padrona di un'altra città avrà questo potere senza la giustizia, o è necessario che lo abbia con la giustizia?" "Se le cose stanno come tu hai detto poc'anzi", rispose, "ovvero la giustizia è sapienza, dovrà averlo con la giustizia; se le cose stanno come ho detto io, con l'ingiustizia". "Sono molto contento, Trasimaco", dissi, "che non ti limiti a fare cenno di sì o di no, ma risponda, e per giunta molto bene!". "È per usarti una cortesia", replicò. "E fai bene. Anzi, usami anche questa cortesia e dimmi: credi che una città, o un esercito, o dei briganti, o dei ladri, o un qualsiasi altro gruppo che si associa per un'impresa ingiusta, potrebbero concludere qualcosa se commettessero ingiustizie reciproche?" "Certo che no", rispose. "E se non le commettessero? Non otterrebbero di più?" "Sicuramente sì". "Infatti, Trasimaco, l'ingiustizia provoca discordie, odi, contese reciproche, la giustizia concordia e amicizia. O no?" "E va bene", rispose, "così almeno non litigherò con te". "Fai bene, mio ottimo amico. E dimmi un po': se questa è l'opera dell'ingiustizia, suscitare odio dovunque si trovi, quando sorge sia tra uomini liberi sia tra schiavi non farà nascere in loro odi reciproci e discordie, rendendoli incapaci di un'azione comune e congiunta?" "Certamente". "E se nasce tra due persone? Non entreranno in dissidio, non si odieranno e non saranno nemiche tra loro e dei giusti?" "Lo saranno", rispose. "E se l'ingiustizia, mirabile uomo, si manifesterà in un solo individuo, perderà forse il suo potere o lo manterrà in uguale misura?" "Ammettiamo che lo conservi in uguale misura", rispose. "Non risulta quindi evidente che l'ingiustizia ha un potere tale per cui, dovunque sorga, che si tratti di una città, di un popolo, di un esercito o di qualsiasi altra comunità, innanzitutto rende impossibile un'azione congiunta a causa della discordia e del dissenso, poi rende tale comunità nemica di se stessa e di chiunque sia contrario ad essa e giusto? Non è così?" "Certo". "E anche se si manifesta in un solo individuo provocherà, penso, gli stessi effetti che per natura produce: anzitutto lo renderà incapace di agire per il dissidio interno e la mancanza di concordia con se stesso, poi lo renderà nemico di sé e dei giusti, vero?" "Sì". "Ma anche gli dèi, caro amico, sono giusti?" "Ammettiamolo", rispose. "Pertanto, Trasimaco, l'ingiusto sarà nemico degli dèi, il giusto sarà loro amico". "Saziati pure del tuo discorso senza timore!", disse. "Io non ti contrasterò, per evitare di essere inviso ai presenti". "Su, allora", replicai, "imbandiscimi anche ciò che resta del banchetto, rispondendo come fai adesso. è ormai assodato che i giusti si rivelano più sapienti, migliori, più capaci di agire, e gli ingiusti non sono in grado di agire congiuntamente, ma non siamo affatto nel vero quando diciamo che alcuni di loro, benché ingiusti, unirono validamente i loro sforzi in un'azione comune; non si sarebbero risparmiati tra loro, se fossero stati del tutto ingiusti, ma c'era evidentemente in loro una forma di giustizia che li tratteneva dal commettere ingiustizie reciproche, almeno quando arrecavano danno ai loro nemici, e permise loro di fare ciò che fecero. Costoro si accinsero a compiere azioni ingiuste, ma erano ingiusti solo a metà, poiché coloro che sono pienamente malvagi e perfettamente ingiusti sono anche incapaci di agire. Per questo capisco che le cose stanno così, e non come tu hai stabilito in un primo momento; ma bisogna anche esaminare, come ci eravamo proposti di fare in un secondo tempo, se i giusti vivono meglio degli ingiusti e sono più felici. Da ciò che si è detto, mi sembra che appaiano tali già adesso; tuttavia la questione va esaminata ancora più attentamente. Infatti il discorso non verte su un argomento qualsiasi, ma su come si deve vivere". "Allora esamina", disse. "Lo sto facendo", ribattei. "Ma tu dimmi: ti sembra che esista una funzione propria del cavallo?" "Sì". "E questa funzione del cavallo e di qualsiasi altro essere, la si potrebbe definire ciò che si può realizzare solo con quello o nella maniera migliore con quello?" "Non capisco", disse. "Allora mettiamola così: puoi vedere altrimenti che con gli occhi?" "Certo che no!". "Ancora: puoi sentire altrimenti che con le orecchie?" "Nient'affatto". "Quindi diciamo a ragione che queste sono le loro funzioni?" "Senza dubbio". "Ancora: puoi tagliare un tralcio di vite con un coltello, un temperino e con molti altri arnesi?" "Come no?" "Ma con nessun arnese, credo, puoi eseguire il lavoro così bene come con una falce, che è stata costruita a questo scopo". "Vero". "Stabiliremo quindi che questa è la sua funzione?" "Sì, lo stabiliremo". "Ora credo che tu possa capire meglio la mia domanda di poco fa, quando ti chiedevo se la funzione di ciascuna cosa è ciò che essa sola può fare, o che essa fa meglio di ogni altra". "Capisco", disse, "e mi sembra che questa sia la funzione di ciascuna cosa". "Bene", ripresi. "E non ti sembra che ciascuna cosa a cui è assegnata una funzione abbia anche una virtù? Ritorniamo agli esempi di prima: diciamo che esiste una funzione propria degli occhi?" "Esiste". "Quindi esiste anche una virtù degli occhi?" "Anche una virtù". "Ancora: esiste una funzione propria delle orecchie?" "Sì". "Quindi anche una virtù?" "Anche una virtù". "E riguardo a tutte le altre cose? Non è così?" "È così". "Allora fa' attenzione: gli occhi potrebbero assolvere bene la loro funzione senza la virtù loro propria, ma con un difetto in luogo della virtù?" "E come potrebbero?", rispose. "Forse stai parlando della cecità in luogo della vista". "Quale che sia la loro virtù", dissi. "Non è ancora questo l'oggetto delle mie domande, bensì se gli organi assolveranno bene la loro funzione grazie alla virtù loro propria, e male per il difetto". "Quello che dici è vero", ammise. "Quindi anche le orecchie, private della virtù loro propria, assolveranno male la loro funzione?" "Certamente". "Stabiliamo dunque la stessa regola anche per tutte le altre cose?" "Credo di sì". "Su, considera ancora questo punto. Esiste una funzione propria dell'anima che non si potrebbe compiere con nessun altro essere? Ad esempio dirigere, comandare, decidere, e tutte le altre azioni come queste, potremmo giustamente assegnarle, come sua caratteristica peculiare, a qualcosa di diverso dall'anima?" "No, a nessun'altra cosa". "E per quanto riguarda il vivere? Non diremo che è una funzione propria dell'anima?" "Senz'altro", rispose. "Quindi diciamo che esiste anche una virtù dell'anima?" "Sì, lo diciamo". "Ma l'anima, Trasimaco, potrà mai svolgere bene le sue funzioni se è priva della virtù sua propria, o è impossibile?" "È impossibile". "Perciò è inevitabile che un'anima cattiva comandi e diriga male, e un'anima buona svolga bene tutti questi compiti". "È inevitabile". "Non abbiamo forse convenuto che la giustizia è la virtù dell'anima, l'ingiustizia il suo vizio?" "Sì, l'abbiamo convenuto". "Quindi l'anima giusta e l'uomo giusto vivranno bene, l'uomo ingiusto vivrà male". "Pare di sì", rispose, "secondo il tuo ragionamento". "Comunque chi vive bene è sereno e felice, chi non vive bene tutto il contrario". "Come no?" "Quindi il giusto è felice, l'ingiusto è infelice". "Ammettiamolo", disse. "Ma essere infelici non giova, essere felici sì". "Come no?" "Quindi, beato Trasimaco, l'ingiustizia non è mai più vantaggiosa della giustizia". "E questo", disse, "sia il tuo banchetto delle Bendidie, Socrate!". "Grazie a te, Trasimaco", replicai, "perché sei divenuto affabile e hai smesso di essere scortese. Tuttavia non ho banchettato bene, ma per causa mia, non tua; come i ghiottoni afferrano e assaggiano quello che viene via via portato in tavola prima di aver gustato a sufficienza la portata precedente, così mi sembra che anch'io, prima di aver trovato l'oggetto primario della nostra indagine, ovvero che cos'è il giusto, abbia abbandonato quel problema e mi sia lanciato a indagare se esso sia vizio e ignoranza oppure sapienza e virtù. Poi, essendo il discorso caduto sul fatto che l'ingiustizia è più vantaggiosa della giustizia, non mi sono trattenuto dal passare da quell'argomento a questo, cosicché ora mi trovo a non aver ricavato alcuna conoscenza dalla discussione; perché quando non so che cos'è il giusto, tanto meno saprò se è o non è una virtù, e se chi la possiede è o non è felice".
Note
1) Glaucone era il fratello minore di Platone, Adimanto, introdotto poco sotto, il maggiore.
2) Si tratta delle Bendidie, feste in onore di Bendis, divinità tracia corrispondente ad Artemide; si celebravano al Pireo, il porto di Atene, nel mese di giugno.
3) Polemarco, fratello dell'oratore Lisia, cadde vittima nel 404 a.C. della repressione dei Trenta Tiranni. Il padre Cefalo, meteco originario della Sicilia, si era arricchito grazie a una fabbrica di scudi al Pireo.
4) Nicia fu il capo del partito conservatore e pacifista dopo la morte di Pericle. Nel 421 a.C. stipulò con Sparta una pace che pose temporaneamente fine alla guerra del Peloponneso. Nel 415, come stratego, capeggiò suo malgrado la spedizione in Sicilia voluta da Alcibiade, che si concluse due anni dopo con la disfatta ateniese e la sua morte. Il figlio Nicerato fu tra le vittime dei Trenta Tiranni.
5) Eutidemo era un altro fratello di Lisia e non va confuso con l'omonimo sofista cui è intitolato un dialogo di Platone. Trasimaco di Calcedonia fu un sofista attivo nella seconda metà del quinto secolo. Carmantide, del demo di Peania, fu discepolo di Socrate. A Clitofonte, un sofista di minor rilievo, è dedicato un dialogo di Platone di dubbia autenticità.
6) Espressione ricorrente in Omero, che indica un'età molto avanzata.
7) Si tratta del proverbio il coetaneo si diletta del coetaneo; cfr. anche Platone, Phaedrus 240a.
8) Serifo è una piccola isola delle Cicladi. L'aneddoto è ricordato anche da Erodoto, libro 8, 125; Cicerone, Cato mator de senectute 3,8; Plutarco, Themistocles 18).
9) Pindaro, frammento 208 Bowra = 214 Snell-Maehler.
10) Questo argomento, appartenente al genere degli exempla ficta, è ripreso da Cicerone, De officiis, libro 3, 25.
11) Simonide di Ceo (556-466 a.C.) godette di grande fama ai suoi tempi e fu ospitato alle corti di molti tiranni della Grecia. Coltivò vari generi di poesia; celebri sono gli epitaffi per i caduti nelle guerre persiane e il carme in onore di Scopa, tiranno tessalo. Questa massima non figura nei frammenti di Simonide che ci sono pervenuti.
12) Si tratta di un gioco che aveva qualche analogia con la dama, essendo praticato con delle pedine su una tavola che fungeva da scacchiera.
13) Omero, Odyssea, libro 19, versi 394-396.
14) Biante di Priene (sesto secolo a.C.), è ricordato come un politico equilibrato e virtuoso. Pittaco di Mitilene (settimo-sesto secolo a.C.), partecipò alle lotte politiche della sua città dalla parte degli aristocratici e abbatté la tirannia di Melancro. Governò poi Mitilene come arbitro delle opposte fazioni e in questo incarico mostrò notevole imparzialità e rigore. Biante e Pittaco sono sempre citati tra i Sette Sapienti, come Talete e Solone; la ricorrenza di Simonide invece non è costante.
15) Periandro, della dinastia dei Cipselidi, fu tiranno di Corinto tra il settimo e il sesto secolo; viene talvolta annoverato tra i Sette Sapienti, ma Platone, nella sua critica alla tirannide, non può che darne una valutazione negativa. Perdicca secondo, re di Macedonia nella seconda metà del quinto secolo, consolidò il proprio stato e tenne durante la guerra del Peloponneso una condotta ambigua, alleandosi ora con Atene ora con Sparta. Serse, re di Persia, dopo il padre Dario guidò la seconda spedizione contro la Grecia: il conflitto culminò nella sconfitta navale di Salamina nel 480 a.C. da parte della flotta ateniese. Ismenia fu un politico tebano vissuto nel quarto secolo, che contro l'orientamento filospartano della propria città parteggiò per Atene, ma fu condannato a morte dopo che nel 382 a.C. gli Spartani occuparono Tebe.
16) Un'antica credenza popolare voleva che un uomo visto da un lupo perdesse la parola, a meno che non vedesse egli per primo l'animale. Il paragone con il lupo, animale che in Grecia era considerato infausto, accentua la connotazione negativa di Trasimaco.
17) Era questa la domanda procedurale che ad Atene si rivolgeva nei processi all'imputato giudicato colpevole; cfr. anche Platone, Apologia Socratis 36b. E quindi più che evidente l'allusione alla condanna a morte di Socrate.
18) Platone ironizza sui compensi che i sofisti si facevano pagare per i loro insegnamenti.
19) Polidamante o Pulidamante era un famoso campione di pancrazio, una disciplina che includeva insieme le tecniche della lotta e del pugilato: combatté vittoriosamente contro dei leoni e per una vittoria ad Olimpia ebbe l'onore di una statua scolpita da Lisippo.
20) Il sicofante letteralmente era chi 'denunciava il furto di fichi' sacri o l'esportazione illegale di fichi dall'Attica; il termine passò poi a indicare un delatore in generale.
21) Espressione proverbiale, a indicare ingenuità e stupidità.

AUDIO https://www.youtube.com/watch?v=C_UuA0q_QaQ

Eugenio Caruso 27-11-2019

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