Platone il FILEBO. Dialogo sulla ricerca del vero bene.

Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide mi dedico ora al Filebo.

Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.

COMMENTO AL FILEBO Il Filebo è un dialogo scritto da Platone nella fase finale della sua produzione, probabilmente subito dopo il secondo viaggio in Sicilia (366-365 a.C.). È l'ultimo scritto in cui il filosofo attribuisce al maestro il ruolo di protagonista: discutendo con Filebo e Protarco, Socrate ricerca il «vero Bene» in grado di garantire una vita felice, partendo dalla possibilità – in seguito negata – che esso coincida con il piacere.
Protarco viene chiamato a sostituire Filebo nella discussione, ricevendo in “eredità” la tesi secondo cui per tutti gli esseri viventi il bene consiste nel piacere; a essa Socrate ha però obbiettato che a qualsiasi voluttà è preferibile l'attività dell'intelligenza. Si tratta di un argomento a cui si accenna anche in Repubblica, ma che non era stato approfondito nel corso del dialogo. Per risolvere la controversia, i due devono partire da una definizione del piacere, il quale si manifesta in molti modi differenti. Il filosofo richiama così il proprio interlocutore a un uso più attento dei termini del discorso, poiché i piaceri non sono tutti uguali, solo alcuni sono buoni, ma la maggior parte malvagi. La stessa cosa d'altra parte, come Socrate non tarda a osservare, vale anche per la scienza e l'intelligenza. Quella che si pone è quindi anzitutto una questione di metodo, che parte dall'analisi del rapporto uno-molti non tra le cose sensibile (come l'uomo o il bue) ma tra realtà estranee a nascita e corruzione come il bello o il buono:

«Per prima cosa si deve accettare il principio secondo il quale alcune di queste unità esistano veramente. In seguito si deve esaminare come queste unità, ammettendo che per ciascuna si tratti di un'unica entità sempre uguale a sé stessa e che non accolga in sé né nascita né corruzione, possa tuttavia mantenersi saldamente come una unità. Dopo di ciò si deve considerarla sia divisa nelle cose che sono generate e infinite, divenendo molteplice, sia nella sua interezza e separata da sé stessa, cosa che fra tutte sembrerebbe la più impossibile, ovvero che sia una e identica nell'uno e nei molti contemporaneamente.» (Filebo; trad. di E. Pegone)

Anche gli antichi, continua Socrate, sapevano che le cose hanno in sé il seme della finitezza e dell'infinitezza. Il rapporto uno-molti è infatti connaturato al logos, che per l'uomo è l'unico mezzo di accesso alla conoscenza. È dunque necessario osservare le cose e ricondurle tutte a un'idea, risalendo fino a scoprire che questa non solo è unità, ma ha anche una struttura numerica, la quale collega l'unità originaria all'infinitezza. Per poter dirsi esperti bisogna conoscere l'unità, ma per farlo è necessario partire dal numero dei molti. Esempi di ciò sono l'alfabeto e la musica: accennando al mito di Theuth, Socrate afferma che anche il dio ricorse a questo metodo, rendendosi conto che nell'infinitezza della voce è riconoscibile un certo numero di vocali, e che non è possibile conoscere una lettera senza conoscere le altre, creando così le regole della grammatica che le uniscono tutte.
Ascoltato il discorso relativo a unità e molteplicità, Filebo e Protarco richiamano l'attenzione sul tema di partenza, il piacere. Prima però Socrate dice di volersi concentrare su alcuni aspetti, primo tra tutti il fatto che il Bene è autosufficiente, cioè viene ricercato per sé stesso. Piacere e intelligenza devono essere esaminati separatamente: se dipendessero l'uno dall'altra, non sarebbero autosufficienti e quindi non sarebbero il Bene.
Tuttavia Protarco è costretto ad ammettere che non sono auspicabili né una vita di solo piacere né una di sola sapienza: nel primo caso si avrebbe il piacere ma non la coscienza di esso, mentre per il secondo si prospetta un'esistenza priva di emozioni. Per gli uomini è dunque necessario un misto di piacere e conoscenza. Diversa è invece la condizione degli dèi, che possono dedicarsi esclusivamente alla scienza: questo è il motivo per cui Socrate dice a Protarco che lo stile di vita misto appena descritto si colloca al secondo posto nella scala dei desiderabili.
Resta però da chiedersi che rapporto vi sia tra piacere e conoscenza. Per rispondere, Socrate distingue la realtà in quattro generi:
1. finito
2. infinito
3. misto tra finito e infinito
4. causa della mescolanza
Nel genere dell'infinito, che corrisponde alla molteplicità, rientrano tutte le cose che ammettono un più o un meno (come il caldo o il freddo), che sono quindi senza limite. Al finito, invece, vengono ricondotte tutte le altre cose che sono determinate in modo preciso, come le forme geometriche. Al terzo genere, risultato della mescolanza dei precedenti due, appartengono le cose che sono proporzionate, generate ponendo una misura all'infinito attraverso il limite. Resta così da trovare il quarto genere, e Socrate lo individua nella causa della mescolanza, ovvero ciò che agisce modellando tutte le cose, mischiando finito e infinito. Sono i quattro generi, in ultima analisi, che consentono di pensare in modo non contraddittorio l'esistere delle cose.
Piacere e dolore si collocano nel secondo genere: essi infatti ammettono gradazioni, e pertanto rientrano nel novero dell'illimitato. Non così è invece per la scienza, la quale richiede la proporzione e l'armonia garantita dal quarto genere: nell'uomo esso corrisponde all'anima, nel cosmo all'intelletto ordinatore.
Si passa così ad analizzare i vari tipi di piacere e dolore. Socrate inizia con quelli legati al corpo, distinguendoli da quelli dell'anima che si rivelano essere attese di dolori o piaceri futuri: i dolori sono il risultato della corruzione degli elementi naturali, mentre i piaceri consistono nella loro aggregazione. Vi è poi la condizione felice in cui vivono le divinità, che non conosce dolori e piaceri. Socrate passa quindi a concentrare la propria attenzione sui piaceri misti, nati dalla diversa combinazione di piaceri dell'anima e del corpo tra di loro, soffermandosi sul concetto di sensazione, intesa quale comune disposizione e movimento comune di anima e corpo. Questa si differenzia dal ricordo, il quale nasce nel momento in cui la memoria richiama in sé stessa una sensazione che aveva appreso e che ha perduto. Fatte queste premesse, Socrate e i suoi interlocutori possono ora dedicarsi all'analisi dei piaceri e alla nascita del desiderio, il quale ha origine nell'anima, non nel corpo: per esempio, una cosa è la sete, che deriva da una mancanza, altra è il desiderio di bere, che invece nasce nell'anima allo scopo di colmare il vuoto. Questo parallelismo permette a Socrate di dimostrare che i piaceri possono essere cattivi: non sempre i piaceri e i dolori sono veri ma, così come le opinioni, possono anche essere falsi, poiché infatti capitano casi di persone che pensano di provare piacere senza che ciò avvenga realmente. Socrate si sofferma quindi sull'origine delle opinioni nell'anima:

«Mi sembra che la memoria, combinandosi insieme alle sensazioni, e quelle disposizioni dell'anima, che si verificano in questa situazione, talvolta scrivano quasi delle parole nella nostra anima: e quando viene scritto il vero, accade che in noi vi siano delle opinioni vere e veri discorsi, ma se questo scrivano che è dentro di noi scrive il falso, deriveranno cose opposte alla realtà.» (Filebo; trad. di E. Pegone)

Il filosofo continua affermando che, in conseguenza di quanto detto, i malvagi hanno opinioni sbagliate e quindi godono di piaceri fallaci, mentre ai giusti accade il contrario. Vi è però anche il caso di piaceri che non nascono dal dolore per una mancanza, ma dalla conoscenza: si tratta dei piaceri puri, che si provano con l'apprendimento e la contemplazione disinteressata. Solo questi possono essere perseguiti, mentre gli altri piaceri, a cui è mischiato del dolore, non possono coincidere con il Bene perché partecipano del suo contrario, il male. Inoltre, avendo concordato con Protarco sulla superiorità dell'essere rispetto al generarsi, e avendo stabilito che il piacere è un generarsi, esso non potrà coincidere con il Bene. Diverso è però il caso di quelli puri, che sono sottoposti a ordine e misura.
Dopo essersi occupato dei piaceri, Socrate inizia l'analisi della scienza. Come per i piaceri, anche tra le scienze è possibile fare una distinzione, separando anzitutto le arti pure (quelle più precise, come l'arte di costruire case) dalle impure (quelle meno precise, come la musica, l'auletica, ma anche la medicina, l'agricoltura e l'arte della guerra), le quali procedono per congettura ed esperienza di chi le pratica. Tuttavia, tra tutte queste il primato spetta alla dialettica, la più alta forma di conoscenza, «in grado di investigare la chiarezza, la precisione, e il massimo grado di verità».
Resta ora da indagare il Bene, che nasce dalla fusione degli elementi sin qui descritti. Questa mescolanza evita la dissennatezza e la malvagità, e nasce dalla proporzione, che è una caratteristica del Bene insieme a bellezza e verità. Socrate può così elencare a Protarco una scala di valori in cui il primo posto è occupato dalla misura e da ciò che sia a essa simile ed è eterno; segue quindi ciò che da essa deriva, e che è dotato di proporzione e bellezza; terza è la causa della mescolanza, ovvero l'intelligenza; quarte sono le scienze pure e le corrette opinioni dell'anima; quinti vengono infine i piaceri puri. A Socrate non resta che concludere il dialogo ricapitolando quanto detto e salutare i propri interlocutori. Il Filebo è, tra i dialoghi di Platone, uno di queli che personalmente preferisco.

TESTO DEL FILEBO

SOCRATE: Considera, Protarco,(1) quale discorso stai per ricevere adesso da Filebo e con quale nostro discorso dovrai contendere, qualora le parole dette non rispecchiassero il tuo pensiero. Vuoi che li riassumiamo per sommi capi tutti e due? PROTARCO: Sì, certamente. SOCRATE: Dunque Filebo afferma che per tutti i viventi il bene consiste nel godimento, nel piacere, nella voluttà, e in tutto ciò che rientra in questo genere di cose. La ragione della nostra controversia consiste allora nel fatto che non queste realtà, ma che l'attività dell'intelligenza, della mente, e della memoria, e altre cose affini, come l'opinione giusta e i veritieri ragionamenti, siano migliori e preferibili al piacere per tutti quanti hanno la possibilità di prenderne parte: ed è proprio questa possibilità che rappresenta per tutti quelli che stanno vivendo o vivranno il vantaggio senz'altro più significativo. Non è dunque in questi termini che noi discutiamo, Filebo, uno da una parte e l'altro dall'altra? FILEBO: Certamente, Socrate. SOCRATE: E tu, Protarco, accetti questo discorso che ti è stato appena consegnato? PROTARCO: Non posso farne a meno: infatti il nostro bel Filebo vi ha rinunciato. SOCRATE: Ma non si deve ad ogni costo arrivare alla verità riguardo a tali questioni? PROTARCO: Sì, è necessario. SOCRATE: Coraggio, mettiamoci inoltre d'accordo su questo punto. PROTARCO: Quale punto? SOCRATE: Sul fatto che adesso ognuno di noi due cercherà di mettere in luce un certo stato e una certa disposizione dell'anima che sia in grado di rendere felice la vita a tutti gli uomini. Non è così ? PROTARCO: Sì, è così. SOCRATE: E voi non sostenete che questa disposizione risieda nel godere, mentre noi nell'attività dell'intelligenza? PROTARCO: Sì, le cose stanno così. SOCRATE: E che dire se un'altra, migliore di queste, si manifestasse? E se risultasse più affine al piacere, non dovremmo entrambi ritenerci vinti da un tipo di vita che è stabilmente organizzata in base a quel criterio? E la vita del piacere non supererebbe quella dell'intelligenza? PROTARCO: Sì. SOCRATE: Se invece fosse affine all'intelligenza, l'intelligenza vincerebbe il piacere, e questo sarebbe vinto? Siete d'accordo, o no? PROTARCO: Mi sembra di sì. SOCRATE: E tu, Filebo, che dici? FILEBO: Per quanto mi riguarda sono e sarò sempre dell'avviso che il piacere vince sempre in ogni caso: e sarai tu stesso, Protarco, a riconoscerlo. PROTARCO: Ora che hai rimesso nelle nostre mani la discussione, Filebo, non sei più padrone di consentire o meno con Socrate. FILEBO: Quello che dici è vero. Ma mi voglio discolpare e ora invoco come testimone la dea stessa. PROTARCO: E noi possiamo essere tuoi testimoni di ciò, ossia che stavano proprio in questi termini i concetti che stai esprimendo. Ma sulle questioni che verranno dopo queste, Socrate, che Filebo sia d'accordo o no, noi tenteremo di portarle ad una conclusione. SOCRATE: Sì, bisogna provare partendo proprio da quella divinità che costui afferma che venga chiamata Afrodite,(2) mentre il suo nome più appropriato sarebbe Piacere. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Il timore che nutro nei confronti dei nomi degli dèi, Protarco, non è umanamente intuibile, ma va al di là di ogni comprensibile paura. E ora la nomino con quell'appellativo che le è caro, ovvero con il nome di Afrodite: quanto al piacere, so che esso si manifesta sotto svariate forme, e, come dicevo, da esso noi dobbiamo muoverci per riflettere e considerare sulla sua natura. Si tratta infatti di un'unica realtà, se si ascolta semplicemente il nome, ma in realtà assume svariate forme e in un certo senso differenti le une dalle altre. Fa' attenzione: diciamo solitamente che gode l'uomo intemperante, ma che gode anche chi è temperante, proprio grazie al suo essere temperante. Ed ancora: gode lo sciocco sazio delle sue sciocche opinioni e delle sue sciocche speranze, ma gode anche chi è intelligente, proprio grazie all'esercizio della sua intelligenza. E allora chi dicesse che gli uni e gli altri di questi piaceri sono fra loro simili, non farebbe a buon diritto la figura di uno che non ha compreso nulla? PROTARCO: Essi infatti derivano da opposte circostanze, Socrate, ma non sono in se stessi opposti fra loro. Come il piacere non potrebbe essere fra tutte le cose più simile al piacere, cioè identico a se stesso? SOCRATE: E il colore, mio caro, al colore: secondo questo criterio il colore sarà indifferentemente un tutt'uno, eppure tutti sappiamo quale differenza passi tra nero e bianco e quanto siano al massimo grado opposti. E così una figura rispetto alla figura: secondo la specie si classifica come un tutt'uno, ma per quanto riguarda il rapporto tra le sue parti, alcune risultano opposte al massimo grado le une alle altre, altre contengono innumerevoli differenze, e via così. Sicché non credere a questo discorso per cui tutto ciò che è opposto al massimo grado può essere ricondotto all'unità. Temo che troveremo alcuni piaceri opposti ad altri. PROTARCO: Può darsi. Ma come potrà questa asserzione indebolire il mio discorso? SOCRATE: Il fatto è che tu chiami queste realtà che sono eterogenee con diverso nome da come si dovrebbero chiamare, potremmo dire: ad esempio dici che sono buone tutte le cose piacevoli. Ora nessun discorso mette in dubbio che siano piacevoli le cose piacevoli: benché di queste la maggior parte siano malvagie e alcune poche buone, come diciamo, tuttavia tu le chiami tutte quante buone, e soltanto se ti si costringesse con il ragionamento ammetteresti che sono dissimili. Cos'è questa identica proprietà che si trova ugualmente nelle cose malvagie e in quelle buone e che ti consente di affermare che tutti i piaceri sono un bene? PROTARCO: Come dici, Socrate? Credi che si potrà essere d'accordo con te, una volta stabilito che il piacere è il bene, e tollerare che tu dica che alcuni piaceri sono buoni e altri malvagi? SOCRATE: Almeno ammetterai che alcuni sono dissimili e addirittura opposti fra loro. PROTARCO: Ma non in quanto piaceri. SOCRATE: Siamo di nuovo condotti allo stesso discorso, Protarco: non diremo che c'è differenza tra piacere e piacere, ma che sono tutti simili, e gli esempi che abbiamo appena formulato non ci condizionano affatto, ci lasceremo persuadere e parleremo come le persone più sciocche fra tutte e nello stesso tempo le più sprovvedute nel fare discorsi. PROTARCO: Come parli? SOCRATE: Dico che, imitandoti e difendendo le tue posizioni, qualora abbia il coraggio di affermare che ciò che è più dissimile è fra tutte le cose ciò che è più simile a quel che è più dissimile, riuscirò ad affermare gli identici concetti che sostieni tu, e noi sembreremo più sprovveduti del lecito, e il nostro ragionamento andrà a incagliarsi. Ricominciamolo di nuovo, e può darsi che tornando al punto di partenza potremmo forse trovare un accordo. PROTARCO: E come? Dillo. SOCRATE: Supponi che io al contrario venga interrogato da te, Protarco. PROTARCO: Su che cosa? SOCRATE: Sull'intelligenza, e sulla scienza, e sul pensiero, e su tutto quanto in principio considerai e chiamai con il nome di beni. Se venissi interrogato sul perché essi sono un bene, non subiranno questo stesso destino che subì il tuo discorso? PROTARCO: Come? SOCRATE: Tutte le scienze insieme sembreranno essere molte, ma alcune di esse sono dissimili l'una dall'altra: quando ve ne fossero anche di opposte, sarei degno di discorrere adesso, se, proprio per timore di ciò, affermassi che non esiste alcuna scienza dissimile ad un'altra? E dopo il nostro discorso non finirebbe per andare in rovina, come un mito, mentre noi cerchiamo di scamparla con un bel silenzio? PROTARCO: Ma tutto ciò non deve accadere, tranne di essere salvati. Mi fa piacere ciò che vi è di uguale nel tuo e nel mio discorso: vi siano pure molti e dissimili piaceri, molte e differenti scienze. SOCRATE: Non nascondiamoci la differenza che passa tra la mia e la tua concezione del bene, anzi, troviamo il coraggio di metterla in pubblico: chissà che messe in qualche modo alla prova non siano in grado di indicarci se si deve affermare che il piacere è il bene, o l'intelligenza, oppure un'altra cosa ancora. Ora non ci importa di gareggiare su la questione che ho posto per vedere se vincerà la mia o la tua tesi, ma dobbiamo noi due allearci alla più pura verità. PROTARCO: Sì, dobbiamo. SOCRATE: Rendiamo questo discorso ancora più saldo mediante alcune asserzioni di fondo. PROTARCO: Quale discorso? SOCRATE: Quello che procura a tutti gli uomini dei fastidi, ad alcuni per loro esplicita volontà e ad altri, qualche volta, loro malgrado. PROTARCO: Parla più chiaramente. SOCRATE: Parlo del discorso in cui proprio adesso ci siamo imbattuti e che è per sua natura singolare. Affermare che la molteplicità è unità e che l'unità è molteplicità è davvero singolare, ed è facile entrare in disaccordo con chi stabilisce una o l'altra. PROTARCO: Dici come se si affermasse che io, Protarco, che per natura sono uno, sono anche molti, e che a loro volta questi molti io sono opposti fra loro, volendo considerare il grande e il piccolo, il pesante e il leggero, e molte altre proprietà ancora. SOCRATE: Tu, Protarco, hai indicato quanto è noto tra le stravaganze di questo ragionamento intorno all'uno e ai molti, e siamo tutti d'accordo, mi sembra, che non ci si deve occupare di simili ragionamenti, e che si tratta di giochi da ragazzi, esercizi vani, e che costituiscono, quando si decida di assumerli, un grave ostacolo al ragionamento. E neppure questo atteggiamento bisogna prendere in esame, qualora, determinando con il ragionamento le membra e nel contempo le parti di ciascuno, e accordandosi sul fatto che tutto ciò corrisponde a quell'unità, ci si rimproveri di aver rasentato il ridicolo, dal momento che si affermano delle mostruosità sostenendo che l'unità coincide con la molteplicità e con l'infinito, e la molteplicità con l'unità. PROTARCO: E tu, Socrate, quali altre affermazioni fai sulle quali non ci sia ancora un accordo e che riguardino questo stesso discorso? SOCRATE: Mi riferisco al caso, figliolo, in cui si ponga l'unità non tra le cose che nascono e muoiono, come abbiamo detto prima. A questo proposito, quando si parli di una unità concepita in modo simile, come abbiamo detto adesso, si è d'accordo che non ci sia bisogno di confutare. Ma qualora si cerchi di considerare come uno un uomo, uno un bue, e uno il bello, e uno il buono, allora intorno a queste unità, e ad altre simili, il difficile tentativo di suddividere diventa una controversia. PROTARCO: E come? SOCRATE: Per prima cosa si deve accettare il principio secondo il quale alcune di queste unità esistano veramente. In seguito si deve esaminare come queste unità, ammettendo che per ciascuna si tratta di un'unica entità sempre uguale a se stessa e che non accoglie in sé né nascita né corruzione, possa tuttavia mantenersi saldamente come una unità. Dopo di ciò si deve considerarla sia divisa nelle cose che sono generate e infinite, divenendo molteplice, sia nella sua interezza e separata da se stessa, cosa che fra tutte sembrerebbe la più impossibile, ovvero che sia una e identica nell'uno e nei molti contemporaneamente. Questa mancanza di accordo intorno a tale specie di unità e di molteplicità e non intorno a quell'altra, o Protarco, è causa di ogni difficoltà, mentre se ci si intendesse bene, tutto sarebbe più agevole. PROTARCO: Dunque, bisogna che noi, Socrate, adesso ci occupiamo innanzitutto di questo punto? SOCRATE: Direi di fare così. PROTARCO: Supponi allora che tutti quanti noi conveniamo con te riguardo a questo ragionamento: quanto a Filebo, la cosa più prudente sarebbe che tu non lo agiti mentre se ne sta tranquillo, interrogandolo in questa circostanza. SOCRATE: E sia. Da dove dunque comincerà questa battaglia lunga e varia sulle cose che ci dividono? Da questo punto? PROTARCO: Da quale punto? SOCRATE: Diciamo che l'identità tra unità e molteplicità, riconosciuta dai nostri discorsi, ritorna ovunque, in ciascuna delle affermazioni che da sempre vengono pronunciate, sia anticamente, sia ora. E questo non ha mai cessato, né comincia ora, ma, per quel che mi sembra, si tratta di una proprietà dei nostri stessi discorsi, immortale e imperitura: e ogni volta che il giovane per la prima volta lo gusta, rallegrandosi come se avesse scoperto un tesoro di saggezza, è inebriato dal piacere e si diverte a muovere ogni discorso ora volgendolo da una parte e impastandolo in un'unità, ora tornando di nuovo indietro e dividendolo in parti, trascinando soprattutto se stesso nella difficoltà, in primo luogo, e in secondo luogo portandosi sempre dietro chi è con lui, più giovane o più vecchio o coetaneo che sia, senza risparmiare né il padre, né la madre, né alcun altro di quelli che gli prestano ascolto, e poco ci manca che non risparmi nessun essere vivente non solo fra gli uomini, dato che non risparmierebbe neppure un barbaro, se solo potesse trovare da qualche parte un interprete. PROTARCO: Socrate, non vedi quanti siamo, e che siamo tutti giovani, e non temi che con l'aiuto anche di Filebo noi ti assaliamo, se tu eventualmente ci insulti? Pure comprendiamo ciò che dici, e se esiste un modo e un mezzo che consenta a questa nostra confusione di lasciare pacificamente il discorso, e di trovare una strada migliore di questa, tu questo fine devi perseguirlo, e noi ti terremo dietro, per quanto ci è possibile: non è infatti un'impresa da poco il discorso che stiamo facendo, Socrate. SOCRATE: No davvero, o figli, come dice di chiamarvi Filebo. In realtà non esiste strada più bella di quella che io da sempre amo, e che spesso sfuggendomi, mi ha lasciato solo e senza risorse. PROTARCO: E qual è questa strada? Non hai che da dirlo. SOCRATE: Mostrarla non è molto difficile, ma è seguirla che diviene assai difficile. Tutto quanto è stato scoperto che riguardava l'arte, emerse sempre grazie a questa strada. Presta attenzione alla strada di cui parlo. PROTARCO: Avanti, dillo. SOCRATE: Un dono degli dèi agli uomini, così mi è apparso, da un punto indefinito del cielo divino venne scagliato, grazie anche a un certo Prometeo,(3) insieme ad un fuoco luminosissimo. E gli antichi, che erano migliori di noi e abitavano più vicino agli dèi, tramandarono questa tradizione, per cui le cose che sempre si dice che siano e che sono costituite dall'uno e dalla molteplicità contengono in sé il seme della finitezza e dell'infinitezza. Dunque dobbiamo, essendo le cose ordinate sempre in questo modo, cercare ogni volta di stabilire un'unica idea riguardo a ogni cosa - e infatti troveremo che essa vi è insita - e quando la si ottenga, dobbiamo considerare la seconda dopo la prima, se in qualche modo ve ne sono due, altrimenti tre o un altro numero, e parimenti ricondurre di nuovo ciascuna di quelle all'unità, finché ci si renda conto che l'unità originaria non è solo unità, molteplicità e infinitezza, ma che ha anche una struttura: e non dobbiamo attribuire l'idea di infinitezza alla moltitudine prima di aver osservato tutta la sua struttura numerica che sta in mezzo tra l'infinitezza e l'unità. Allora si può finalmente permettere che ciascuna delle unità si divida all'infinito. E dunque gli dèi, come dicevo, ci affidarono il compito di esaminare, apprendere, e insegnare l'uno all'altro. Ma gli uomini saggi del nostro tempo unificano e moltiplicano così come viene - molto più rapidamente o più lentamente del necessario -, e dopo l'unità si dirigono direttamente verso l'infinitezza, ed evitano tutto ciò che sta in mezzo, e per queste ragioni si distingue nei discorsi che facciamo tra noi quello di stampo dialettico da quello di stampo eristico. PROTARCO: Alcuni concetti credo di averli appresi, o Socrate, ma per quanto riguarda altri ho ancora bisogno di ascoltare più chiaramente le cose che dici. SOCRATE: Quello che dico si manifesta con evidenza nelle lettere dell'alfabeto, e lo puoi comprendere in quelle nozioni che hai appreso quand'eri bambino. PROTARCO: E come? SOCRATE: La voce che mi esce dalla bocca è una, ed è anche infinita e per così dire molteplice, la voce di tutti e quella di ognuno. PROTARCO: E che significa? SOCRATE: Ci sono due motivi per i quali non siamo per nulla sapienti, vale a dire perché non conosciamo la sua infinitezza e neppure la sua unità: ma per quanto riguarda la sua intensità e qualità, questo lo conosciàmo bene perché consente a ciascuno di noi di poter scrivere le lettere dell'alfabeto. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: E lo stesso discorso riguarda anche chi compone musica. PROTARCO: E come? SOCRATE: Anche per quel che riguarda quell'arte la voce è una sola. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Stabiliamo allora due toni, uno grave e l'altro acuto; mentre il terzo è un tono medio. Va bene? PROTARCO: è così. SOCRATE: Ma non puoi ancora ritenerti un esperto di musica solo perché sei in possesso di queste nozioni, e, d'altra parte, se non le conoscessi saresti assolutamente un inetto in questo campo. PROTARCO: Non c'è dubbio. SOCRATE: Ma, o amico, dopo che avrai appreso quanti sono, secondo il numero, e quali sono gli intervalli della voce riguardanti il tono più acuto e quello più grave, e i confini di questi intervalli, e quanti accordi risultano da essi - gli antichi, dopo averli studiati li consegnarono a noi, che veniamo dopo di loro, e li chiamarono "armonie", e osservarono che anche nei movimenti del corpo umano vi sono altri fenomeni di questo genere che, misurati per mezzo dei numeri, affermano di dover chiamare "ritmi" e "metri" e allo stesso tempo comprendere che in questo modo si deve condurre l'analisi intorno all'uno e ai molti - qualora, dicevo, tu abbia appreso questi concetti in questa maniera, allora diventi sapiente, e quando attraverso questo tipo di analisi conquisterai un'altra delle qualsivoglia unità, allora sarai diventato consapevole di quel che stai ricercando: ma l'infinità di ciascuna cosa e la molteplicità di infinito che vi è all'interno di ciascuna di esse ti rende ogni volta incapace di pensare, e non ti consente di essere illustre e stimato, quando tu non sia mai stato in grado di scorgere in nessuna cosa nessun numero. PROTARCO: Filebo, mi sembra che Socrate abbia appena detto delle parole bellissime. FILEBO: Sì, anch'io ho la stessa impressione. Ma perché mai il discorso appena fatto si rivolgeva a noi e cosa intendeva dire? SOCRATE: Proprio questo Filebo ha chiesto direttamente a noi, Protarco. PROTARCO: Certamente. E dunque rispondigli. SOCRATE: Lo farò dopo aver spiegato ancora un poco queste cose. Come quando si comprenda un'unità qualsiasi, dicevamo, non si deve rivolgere direttamente lo sguardo alla natura dell'infinito, ma ad un intervallo numerico, così anche al contrario, qualora si sia costretti ad afferrare per prima cosa l'infinito, non si deve guardare direttamente all'unità ma esaminare il numero - in quanto ciascuno contiene una certa molteplicità - e terminare l'analisi giungendo all'uno dai molti. Ritorniamo di nuovo a quello che si diceva prima riguardo alle lettere dell'alfabeto. PROTARCO: E come? SOCRATE: Dopo che un dio o un uomo divino capì che la voce è infinita - in Egitto questi fu un certo Teuth,(4) racconta la tradizione, il quale per primo capì che le vocali, nell'infinitezza della voce, non sono una ma più e che ci sono altri elementi che non appartengono alla voce ma al suono, e che anche queste si possono quantificare numericamente, allora separò una terza classe di lettere che noi ora chiamiamo consonanti mute -, dopo di ciò separò le consonanti mute dalle consonanti sino a giungere all'unità, e allo stesso modo fece con le vocali e quelle di suono intermedio, finché, conosciuto il loro numero, diede a ciascuna e a tutte il nome di "lettera": osservando che nessuno di noi neppure una lettera di per sé potrebbe apprendere senza conoscere tutte le altre, e ragionando su questo legame che permette a ciascuna di essere una, ma che le unisce tutte insieme, unì ad esse i meccanismi della grammatica dando loro questo nome. FILEBO: Ancor più chiaramente di quegli altri concetti ho compreso questi nelle loro reciproche relazioni, Protarco. Ora rimane però una piccola questione in sospeso nel discorso, la stessa di prima. SOCRATE: Vuoi sapere che cosa c'entrino queste cose con il discorso che stiamo portando avanti? FILEBO: Certo, questo è quello che cerchiamo di scoprire già da un po' di tempo, io e Protarco SOCRATE: O forse, pur trovandovi già su quel punto, voi, come dici, continuate già da tempo a cercarlo. FILEBO: E come? SOCRATE: Non riguardava il nostro discorso fin dall'inizio l'intelligenza e il piacere, per stabilire quale dei due fosse da preferirsi? FILEBO: E come no? SOCRATE: E noi affermiamo che sia l'una che l'altro sono una unità. FILEBO: Certamente. SOCRATE: E proprio questo ci domanda il discorso che abbiamo fatto prima, vale a dire come è possibile che in ciascuno di essi vi sia l'unità e la molteplicità, e come non sia direttamente infinito, ma come ciascuno sia dotato di un intervallo numerico prima di diventare infinito? PROTARCO: Non è domanda di poco conto, Filebo. Non so come abbia fatto Socrate a menarci tutt'attorno per poi collocarci su di essa. Vedi chi di noi due può rispondere alla domanda ora posta. Forse è ridicolo il fatto che io, che sono completamente subentrato al tuo posto nel discorso per il fatto che non ero in grado di rispondere alle domande poste adesso, di rimando ti ordini di rispondere: ma sarebbe ancora più ridicolo, credo, il fatto che nessuno di noi due fosse in grado di rispondere. Vedi un po' che potremo fare. Mi sembra che adesso Socrate ci interroghi sulle forme del piacere, se ve ne sono oppure no, e quante e quali. E così, secondo gli stessi criteri, riguardo all'intelligenza. SOCRATE: Quello che dici è verissimo, figlio di Callia. Se non sapessimo fare questo a proposito dell'unità, del simile, e dell'identico, e dell'opposto, secondo quanto ci ha indicato il discorso precedente, nessuno di noi sarebbe affatto degno di essere stimato. PROTARCO: Mi sembra che le cose stiano all'incirca così, Socrate. Ma se per un saggio è opportuno conoscere tutte le cose, mi sembra d'altro canto che la seconda via da percorrere consista nel non nascondersi a se stessi. Cosa significa quello che ho appena detto? Te lo spiegherò. Tu, Socrate, hai lasciato in consegna a noi tutti questa intima conversazione e te stesso sulla scelta dei beni umani più convenienti. Avendo Filebo affermato che essi consistono nel piacere e nella dolcezza e nella gioia e in altre tali cose di questo genere, tu hai risposto a queste asserzioni che non sono questi, ma quelli che spesso e volentieri ricordiamo a noi stessi, e facendo una cosa giusta, affinché, posti innanzi alla memoria, siano messi gli uni e gli altri alla prova. Tu dici, mi sembra, che il bene che sarebbe meglio ritenere superiore al piacere è il pensiero, la scienza, la facoltà di giudizio, l'arte, e tutto quanto è connaturato a queste cose, e che sono queste che si devono procurare. non le altre. Avendo esposto nel corso della disputa queste due opposte posizioni, scherzando ti minacciammo che non ti avremmo fatto andare a casa, prima che si fosse adeguatamente definito un termine per questi discorsi, e tu, consentendo, hai fatto dono di te stesso per quest'impresa, e noi, come i bambini, diciamo che non si può sottrarre quel che è stato donato per una giusta causa. Lascia dunque perder l'atteggiamento che hai nei nostri confronti circa le cose appena dette. SOCRATE: Di quale atteggiamento parli? PROTARCO: Metterci in difficoltà e farci domande cui non saremmo in grado di darti una risposta esauriente sul momento. Non crediamo che questa difficoltà che riguarda noi tutti sia per noi la fine delle questioni che ora stiamo trattando, ma quel che noi non siamo in grado di fare, lo devi fare tu: lo hai promesso. Decidi tu stesso riguardo a queste cose se tu debba definire la specie del piacere e della scienza oppure lasciare perdere tutto, se tu in altra maniera sei in grado e se vuoi mostrare diversamente i termini della controversia nella quale siamo impegnati. SOCRATE: Nulla di terribile debbo ancora aspettarmi, dopo che hai detto queste parole. L'aver detto: «se vuoi» annulla in ogni caso la paura. Inoltre mi pare che uno degli dèi abbia consegnato a noi un ricordo. PROTARCO: Come e di che cosa si tratta? SOCRATE: Avendo un tempo ascoltato alcuni discorsi - in sogno o da sveglio - ora mi tornano alla mente a proposito del piacere e dell'intelligenza, secondo cui nessuno dei due corrisponde, al bene, ma che vi è una terza cosa ancora, diversa da questi, e migliore di entrambi. Bene: se questo si mostrerà ora a noi nella sua evidenza, il piacere smetterà di vincere: e il bene di conseguenza non si identificherebbe più con esso. Va bene? PROTARCO: Sono d'accordo. SOCRATE: Secondo me, non saremo più obbligati a procedere alla suddivisione delle specie del piacere. Andando innanzi, questo sarà ancora più chiaro. PROTARCO: Dopo aver parlato così bene, spiegaci anche. SOCRATE: Prima ci accorderemo su alcune piccole cose. PROTARCO: E quali? SOCRATE: Il destino assegnato al bene dev'essere compiuto oppure no? PROTARCO: Tra tutte le cose dev'essere il più compiuto, Socrate. SOCRATE: E perché? Il bene è autosufficiente? PROTARCO: E come no? Proprio in questa particolarità esso si distingue fra tutte le cose che sono. SOCRATE: Questo, io penso, intorno al bene si deve assolutamente dire: che tutto ciò che è conoscibile lo desidera e lo brama ardentemente, volendo prenderlo e procacciarselo per sé, senza preoccuparsi delle altre cose, fatta eccezione per quelle che portano al compimento di un bene. PROTARCO: Non si può obiettare a queste asserzioni. SOCRATE: Esaminiamo e valutiamo la vita del piacere e quella dell'intelligenza, tenendole separate. PROTARCO: Come dici? SOCRATE: Non vi sia l'intelligenza nella vita del piacere, né piacere nella vita dell'intelligenza. Bisogna che uno non abbia più bisogno dell'altro, se uno dei due è un bene: e se uno dei due mostrasse di aver bisogno dell'altro, questo non si potrebbe più considerare ciò che per noi è realmente un bene. PROTARCO: E come potrebbe? SOCRATE: Proviamo a dimostrare queste cose su di te? PROTARCO: Sì, va bene. SOCRATE: Rispondi. PROTARCO: Dimmi. SOCRATE: Accetteresti tu, Protarco, di vivere tutta la vita godendo dei più grandi piaceri? PROTARCO: E perché no? SOCRATE: E riterresti di aver ancora bisogno di qualcosa, se fossi nel pieno del loro possesso? PROTARCO: Nient'affatto. SOCRATE: Pensaci bene. Dell'intelligenza e del pensiero e del ragionare, tutte cose necessarie e di quant'altre cose sono ad esse connaturate, tu non avresti bisogno? PROTARCO: E perché mai? Con la possibilità di godere avrei già tutto. SOCRATE: E se vivessi sempre così, potresti sempre godere per tutta la vita dei più grandi piaceri? PROTARCO: E perché no? SOCRATE: Ma se tu non avessi pensiero, e memoria, e scienza, e vera opinione, non saresti innanzitutto costretto a ignorare proprio questo, se godi oppure no, essendo appunto privo di intelligenza? PROTARCO: Necessariamente. SOCRATE: E, analogamente, non essendo fornito di memoria, è inevitabile che non potresti ricordare di aver mai goduto, e non ti rimane neppure il più piccolo ricordo der piacere giunto in questo momento: e ancora, non essendo fornito di vera opinione, non puoi immaginare di godere mentre stai godendo, e se sei privo della facoltà di calcolo non ti sarà possibile calcolare per quanto tempo ancora potrai godere. Sarai allora costretto a vivere non la vita che è propria di un uomo, ma quella di un mollusco o di quegli animali marini che vivono nelle conchiglie. è così, oppure possiamo pensare ad altre cose opposte a queste? PROTARCO: E come? SOCRATE: Una vita così è per noi preferibile? PROTARCO: Questo discorso mi ha momentaneamente gettato in una completa afasia. SOCRATE: Non arrendiamoci ancora, ma analizziamo com'è la vita quando prendiamo parte dell'intelligenza. PROTARCO: Di quale vita parli? SOCRATE: Poniamo il caso che uno di noi accettasse l'idea di vivere provvisto completamente dell'intelligenza e del pensiero, della scienza e della memoria nel suo insieme, senza prender parte, né molto, né poco al piacere, e neppure al dolore d'altra parte, rimanendo così del tutto indifferente a siffatte passioni. PROTARCO: Né l'una né l'altra vita fra queste che mi hai prospettato sceglierei, e neanche a un altro la questione apparrebbe in modo diverso, io credo. SOCRATE: E cosa pensi di una vita che unisca insieme l'una e l'altra, Protarco, e risulti dalla comune mescolanza di ambedue? PROTARCO: Mescolata, vuoi dire, di piacere, di pensiero e di intelligenza? SOCRATE: Proprio di questi elementi intendevo dire. PROTARCO: Ognuno sceglierà per primo questo tipo di vita piuttosto che uno che contenga qualsivoglia delle altre due. Proprio così, e non uno sì, e uno no. SOCRATE: Comprendiamo ora qual è il seguito per noi della discussione che è ora in corso? PROTARCO: Ma certamente. Sarebbe a dire che si presentano tre tipi di vita, e due di questi non sono assolutamente convenienti, né preferibili da parte di nessun uomo o essere vivente. SOCRATE: E per questi non è già forse chiaro che né l'uno né l'altro contiene in sé il principio del bene? Sarebbero infatti - l'uno e l'altro - autosufficienti, perfetti, e preferibili da parte di tutti gli esseri vegetali e animali, per i quali sarebbe possibile vivere per sempre la vita in questo modo: e se qualcuno di noi scegliesse diversamente, sceglierebbe contro natura, intendo dire contro la natura di ciò che sarebbe davvero da preferirsi, involontariamente, a causa dell'ignoranza, o per una necessità non certo felice. PROTARCO: Quello che dici mi pare verosimile. SOCRATE: Allora mi sembra che si sia sufficientemente trattato che non si deve identificare la dea di Filebo con il bene. FILEBO: E neppure la tua mente corrisponde al bene, ma sarà soggetto alle medesime accuse. SOCRATE: La mia mente può darsi, ma non la mente vera e insieme divina, credo: per essa le cose stanno in modo diverso. Non entrerei in discussione per l'assegnazione del premio della vittoria alla vita che ha come fondamento comune la mente, mentre vorrei discutere sul fatto che noi dobbiamo vedere e considerare, riguardo al secondo posto, che cosa dovremo fare. Può darsi che di questa vita comune noi individuiamo uno la ragione nella mente, e l'altro nel piacere, e così il bene non coinciderebbe con nessuno di questi due, può darsi invece che la causa del bene risieda nell'uno e nell'altro. E su questo punto sarei disposto ancor più a scontrarmi con Filebo per il fatto che, all'interno di questa vita che contiene tali mescolanze, qualsiasi cosa essa assuma rendendola così preferibile e nel contempo buona, non sarebbe più affine e più simile al piacere ma alla mente, e secondo questo discorso non si potrebbe verosimilmente affermare che al piacere tocca il primo posto e neppure il secondo: si colloca ben oltre il terzo posto, se devo adesso affidarmi alla mia mente. PROTARCO: Ma, Socrate, adesso mi sembra che il piacere sia per te precipitato, come se fosse stato colpito dagli attuali ragionamenti. Dopo aver combattuto per la vittoria, giace sconfitto. Quanto alla mente, mi sembra, bisogna dire che prudentemente non contese il possesso per il primo posto: altrimenti le sarebbe toccata la stessa sorte. Privato del secondo posto, il piacere sarebbe del tutto disonorato dinanzi ai suoi amanti, dal momento che quelli non lo considerebbero più ugualmente affascinante. SOCRATE: E allora? Non sarebbe meglio lasciarlo perdere ormai, e non farlo soffrire, caricandolo di un'ulteriore e più sottile prova, e confutandolo? PROTARCO: Non stai dicendo nulla, Socrate. SOCRATE: Ho forse detto un concetto impossibile a dirsi, vale a dire che il piacere soffra? PROTARCO: Non soltanto questo, ma anche non sai che nessuno di noi ti lascerà andare, prima che tu abbia compiutamente svolto tali questioni con il ragionamento. 5OCRATE Oh, Protarco, che lungo discorso rimane! Non è certamente facile farlo ora! E infatti mi sembra che necessitiamo di altri mezzi perché la mente si diriga verso il secondo posto, quasi avessimo altre armi diverse dai discorsi che si sono fatti prima. Può darsi che alcuni siano identici. O no? PROTARCO: E come no? SOCRATE: Cerchiamo di stare in guardia nel gettare le basi di questo discorso. PROTARCO: E quale base? SOCRATE: Tutte le cose che ora sono nel tutto dividiamole in due parti, o, se vuoi, in tre. PROTARCO: Puoi spiegare in che modo? SOCRATE: Prendiamo alcuni concetti dei discorsi che ora facevamo. PROTARCO: E quali? SOCRATE: Dicevamo che il dio ha indicato l'infinito delle cose, ma anche il confine. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Stabiliamo che questi due siano due generi, e che vi sia un terzo genere - un'unità anch'essa - che nasce dalla commistione di questi due. Mi sembra però di essere alquanto ridicolo dividendo e contando secondo i generi. PROTARCO: Che dici, o carissimo? SOCRATE: Mi sembra che ci vorrà ancora un quarto genere. PROTARCO: E di quale parli? SOCRATE: Guarda alla causa della commistione di questi gli uni verso gli altri, e aggiungi questo quarto genere a quei tre. PROTARCO: E non avrai bisogno di un quinto che possa operare una separazione? SOCRATE: Può darsi, ma non credo per ora: se ce ne sarà bisogno, avrai la bontà di lasciarmi perseguire anche il quinto. PROTARCO: E come? SOCRATE: Innanzitutto avendo determinato tre generi dei quattro, facciamo un esperimento con due di questi, dopo che abbiamo osservato che l'uno e l'altro si dividono e si lacerano in molte parti, per riportarli successivamente entrambi all'unità, e ragioniamo sul fatto che ciascuno di essi sono unità e molteplicità. PROTARCO: Se parlassi in modo ancora più chiaro intorno a queste cose, potrei seguirti. SOCRATE: Dico che i due generi che sottopongo all'esame sono gli stessi di un attimo fa, poiché l'uno contiene l'infinito, l'altro il finito. Tenterò allora di spiegare come l'infinito corrisponde alla molteplicità. Quanto al finito, ci attenda un momento. PROTARCO: Sì, ci aspetta. SOCRATE: Presta attenzione. è difficile e controverso il problema su cui chiedo la tua attenzione, tuttavia rifletti. Pensa innanzitutto se potessi mai concepire un confine per il "più caldo" e per il "più freddo", oppure se il "più" e il "meno" che sono insite nella loro genesi, finché vi saranno insite, impediranno che vi sia una fine: se vi fosse una fine, anche questi due sono finiti. PROTARCO: Quello che dici è verissimo. SOCRATE: Nel "più caldo" e nel "più freddo" vi è sempre il "più" e il "meno", noi affermiamo. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Sempre dunque il ragionamento ci indica che questi due non hanno una fine, ma essendo tutti e due senza un limite sono del tutto infiniti. PROTARCO: Sono assolutamente d'accordo, Socrate. SOCRATE: Allora, caro Protarco, hai capito bene e mi hai ricordato che anche questo "assolutamente" che hai appena fatto risuonare e l'"un poco" hanno la stessa validità del "più" e del "meno". Dove quei due si inseriscono, non lasciano che ciascuna cosa venga quantificata, ma introducendo di continuo l'"assolutamente" e l'"un poco" o il contrario in ogni questione rendono il concetto di "maggiore" e di "minore", e però non ci permettono di quantificare. In base a quanto ora detto, se non annullano la quantità, ma lasciano che essa e il grado di misurabilità si inseriscano nelle postazioni dei "più" e dei "meno", dell'"assolutamente" e dell'"un poco", questi scorrono via dal posto in cui erano. Non avrebbero più ragione di esistere né il concetto di "più caldo", né quello di "più freddo", se assumessero connotazione quantitativa: infatti il "più caldo" procede di continuo innanzi e non si ferma, e parimenti il "più freddo", mentre la quantità sta ferma e non avanza. Dunque, in base a questo ragionamento, il "più caldo", insieme al suo opposto, sarebbero l'infinito. PROTARCO: Mi sembra così, Socrate. Come dicevi, si tratta di concetti difficili da seguire. Ma se colui che interroga e colui che è interrogato li dicono ancora una volta e poi ancora una volta, potremmo far vedere di essere sufficientemente in sintonia. SOCRATE: Dici bene, e allora cerchiamo di fare così. Adesso rifletti se questo potremo indicarlo come indice della natura dell'infinito, per non dilungarci trattando ogni aspetto. PROTARCO: Quale indice? SOCRATE: Tutto quello che ci sembrerà diventi "più" e "meno", e che accoglie il "fortemente" e il "dolcemente", il "troppo" e tutte le altre cose simili, tutto questo va posto nella classe dell'infinito come in quella dell'unità, secondo il discorso di prima, per cui tutto ciò che era lacerato e diviso bisognava radunarlo, conferendogli, per quanto possibile, un'unica natura, se ricordi. PROTARCO: Ricordo. SOCRATE: Dunque ciò che non accoglie queste cose, vale a dire tutto quello che accoglie il contrario di esse, per prima cosa "l'uguale" e "l'uguaglianza", e dopo di questo "l'uguale" e il "doppio", e tutto quello che è numero in relazione al numero e misura in relazione alla misura, se considerassimo tutto questo all'interno del finito, ci sembrerà di agire bene? PROTARCO: Benissimo, Socrate. SOCRATE: E sia. Quale forma diciamo che abbia questo terzo genere mescolato con gli altri due? PROTARCO: Lo dirai tu a me, come credo. SOCRATE: No, sarà un dio, se mai un dio porge orecchio alle mie preghiere. PROTARCO: Prega e pensaci. SOCRATE: Ci penso: e mi sembra che adesso uno di essi ci sia diventato amico. PROTARCO: Come puoi affermarlo e quale prova ne adduci? SOCRATE: Te lo spiegherò chiaramente: e tu seguimi con il ragionamento. PROTARCO: Dimmi pure. SOCRATE: Abbiamo appena parlato di ciò che è più caldo e di ciò che è più freddo. Giusto? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Aggiungi a quelli ciò che è "più secco" e il "più umido", e il "maggiore" e il "minore", e ciò che è "più veloce" e "più lento", e "più grande" e "più piccolo" e quanto abbiamo prima raccolto in unità nella natura che accoglie in sé il "più" e il "meno. PROTARCO: Alludi alla natura dell'infinito? SOCRATE: Certo. Dopo di ciò in essa mischiavi la stirpe del finito. PROTARCO: E quale? SOCRATE: Alludo a quel genere del finito che ora non abbiamo riunito, dovendo invece farlo così come avevamo fatto con la natura dell'infinito raccogliendola in uno. Ma forse anche ora si farà la stessa cosa, se, radunando quei due, anch'essa diventerà evidente. PROTARCO: Di quale parli e cosa intendi dire? SOCRATE: Si tratta del genere di ciò che è "uguale" e di ciò che è "doppio" e di quanto fa smettere che le cose siano opposte fra di loro e avverse, rendendole misurabili e concordi, introducendo in esse il numero. PROTARCO: Capisco. Mi sembra che tu sostieni che, mescolando questi elementi di cui abbiamo parlato, derivi l'origine di nuove realtà per ciascuna di queste mescolanze. SOCRATE: Mi pare che hai inteso perfettamente. PROTARCO: Dimmi allora. SOCRATE: Forse nelle malattie la corretta unione di questi elementi dà origine alla stirpe della salute? PROTARCO: Ma certamente. SOCRATE: E in ciò che è acuto e in ciò che è grave, in ciò che è veloce e in ciò che è lento - che sono tutti infiniti - non vi sono forse questi stessi elementi? E non portano a compimento l'infinito rendendo nel contempo pienamente compiuta la musica? PROTARCO: Benissimo. SOCRATE: Trovandosi questa mescolanza anche nel freddo dell'inverno e nel caldo dell'estate, sottrae ciò che è eccessivo e infinito, e realizza ciò che è moderato e proporzionato. PROTARCO: E allora? SOCRATE: Allora le stagioni e quanti sono i beni in nostro possesso non scaturiscono da queste cause, vale a dire dalla mescolanza dell'infinito e di ciò che è finito? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E tralascio innumerevoli altre cose, quali la bellezza e la forza che si trovano con la salute e altre varie e splendide qualità che si trovano nell'anima. Questa era la dea,(5) caro Filebo, che vedendo violenza e malvagità insite in tutte le cose e osservando che in esse non vi era limite al piacere e all'abbondanza, stabilì una legge e un ordinamento che contenessero un limite: e tu affermi che fece solo danni, mentre al contrario io sostengo che essa è stata motivo di salvezza. E a te, Protarco, cosa sembra? PROTARCO: Queste affermazioni mi sembrano assennate, Socrate. SOCRATE: Dunque ho parlato di tutti questi tre generi, se hai capito. PROTARCO: Sì, credo di aver capito. Mi sembra che tu affermi che uno è l'infinito, ma uno è anche il secondo, ovvero il finito, nelle cose che sono. Quanto al terzo, non ho perfettamente capito che cosa volevi dire. SOCRATE: La quantità di ciò che trae origine dal terzo genere, o carissimo, ti sconvolge. Eppure molte erano le stirpi che offriva l'infinito, tuttavia una volta contrassegnate con il genere del più e del suo contrario apparvero come un unità. PROTARCO: Vero. SOCRATE: E non ci procurava fastidi né il fatto che l'infinito avesse molti aspetti né che fosse uno per natura. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Non avremmo affatto potuto. Ma tu devi affermare che ho definito questo terzo genere - considerando l'unità come un tutto che deriva da questi elementi - come ciò che dà origine alla sostanza e che è costituito dalle misure che realizzano il finito. PROTARCO: Ho capito. SOCRATE: Ma oltre a questi tre generi, dicevamo allora che bisognava prenderne in considerazione un quarto: si tratta di una ricerca comune. Considera se ti sembra che sia necessario che tutte le cose che sono generate siano generate per una causa. PROTARCO: Sì, mi sembra: come potrebbe generarsi separata da questa? SOCRATE: Dunque la natura di "ciò che agisce" non differisce per nulla dalla causa se non per il nome, e "ciò che agisce" e "ciò che è causa" si potrebbero definire giustamente definire una unità? PROTARCO: Giustamente. SOCRATE: Scopriremo che "ciò che subisce" e "ciò che è generato" non differiscono affatto, se non nella definizione, come abbiamo appena detto. Oppure no? PROTARCO: è così. SOCRATE: E dunque il "ciò che agisce" è, secondo natura, la guida, mentre "ciò che subisce" segue ed è generato dopo di quello? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Altra e non identica cosa è la causa in relazione a ciò che è asservito alla causa del divenire. PROTARCO: E allora? SOCRATE: Forse tutti e tre i generi non ci hanno presentato le cose generate e tutte quelle che da esse derivano? PROTARCO: Certo. SOCRATE: Non diciamo che è proprio questo quarto genere che modella tutte queste cose, vale a dire la causa, essendo stato sufficientemente chiarito che esso è altro rispetto a quelle? PROTARCO: Sì, è altra cosa. SOCRATE: Sarebbe corretto, ora che abbiamo distinto i quattro generi, contarli uno dopo l'altro, per ricordare ciascuno nella sua unità. PROTARCO: E allora? SOCRATE: Dico che il primo è il genere dell'infinito, il secondo del finito, poi dalla loro mescolanza nasce il terzo, che è l'essere generato: ma se dico che la causa di questa mescolanza e della genesi dell'essere è il quarto genere non sbaglio in qualcosa? PROTARCO: E come? SOCRATE: Avanti, allora! Dopo questi problemi quale discorso affrontiamo e con quali intenzioni giungiamo sin qui? Non erano forse queste? Ricercavamo se il secondo posto si dovesse assegnare al piacere o all'intelligenza. Non era così ? PROTARCO: Sì, è così. SOCRATE: E forse ora, operate queste separazioni, non potremmo onorevolmente portare a termine la contesa sul primo e sul secondo, questioni su cui prima abbiamo avuto una controversia? PROTARCO: Forse. SOCRATE: Avanti! Abbiamo stabilito che la vita mista di piacere e di intelligenza vinceva. Era così ? PROTARCO: Sì. SOCRATE: Allora vediamo qual è questa vita e a quale genere appartiene. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Diremo che è parte del terzo genere, credo: infatti non risulta dalla mescolanza di due elementi, ma da tutti gli elementi infiniti legati dal finito, sicché questo tipo di vita che riporta la vittoria potremmo a ragione considerarlo parte del terzo genere. PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: Ebbene: e che dici della tua vita, Filebo, che è piacevole ed è priva di questa mescolanza? In quali generi tra quelli enunciati potremmo correttamente considerarla? Ma rispondimi a quest'altra domanda prima di rivelarlo. PROTARCO: Dimmi. SOCRATE: Piacere e dolore contengono in sé una limitazione oppure sono fra quelle cose che accolgono il "più" e il "meno"? FILEBO: Certo, sono tra le cose che accolgono il" più", Socrate: poiché il piacere non sarebbe completamente un bene, se non fosse generato infinito, sia riguardo l'estensione, sia riguardo il "più". SOCRATE: E neppure il dolore corrisponderebbe totalmente al male, Filebo: sicché noi due dobbiamo considerare se ci sia qualcosa di diverso dalla natura dell'infinito che procuri ai piaceri una parte di bene. E questi due appartengano pure per te al genere delle cose infinite: quanto invece all'intelligenza, alla scienza, al pensiero, in quale dei generi che abbiamo detto prima, cari Protarco e Filebo, possiamo ora situarli senza compiere empietà? Non mi sembra infatti di poco conto il rischio che corriamo rispondendo correttamente o no alla domanda ora posta. FILEBO: Tu onori il tuo dio, Socrate. SOCRATE: E tu, amico, la tua divinita. In ogni caso noi dobbiamo rispondere alla domanda che è stata posta. PROTARCO: Socrate ha ragione, Filebo, e gli si deve ubbidire. FILEBO: Ma prima non hai scelto di parlare in vece mia, Protarco? PROTARCO: Certo. Ma ora mi trovo in difficoltà e ho bisogno, o Socrate, che proprio tu diventi il nostro portavoce, perché noi, non commettendo mancanze nei confronti del tuo atleta, non pronunciamo qualche parola stonata. SOCRATE: Bisogna obbedire, Protarco: e infatti non ordini nulla di difficile. Ma in effetti forse ti ho turbato con questo gioco da fanciulli del rendere onore alla divinità, come dice Filebo, benché ti volessi domandare a quale genere appartenesse la mente e la scienza? PROTARCO: Senz'altro, Socrate. SOCRATE: è facile: tutti i sapienti, e loro sì che venerano effettivamente se stessi, affermano concordemente che la mente è per noi il re del cielo e della terra. E forse hanno ragione. Se vuoi, faremo un'analisi più approfondita proprio su questo stesso genere. PROTARCO: Parla come credi, senza calcolare la lunghezza del discorso e senza farti degli scrupoli per noi, Socrate, dal momento che non ci darai fastidio. SOCRATE: Dici bene. Cominceremo formulando di nuovo la domanda in questo modo. PROTARCO: Come? SOCRATE: Dobbiamo forse dire, Protarco, che la potenza dell'irrazionale guidi senza alcun progetto o direzione tutte le cose - e ciò che si definisce il tutto - oppure, al contrario, come dicevano quelli prima di noi, che vi è una mente e un'intelligenza meravigliosa che è ordinata e che fa da guida? PROTARCO: Niente di queste cose, carissimo Socrate: anzi, quello che stai dicendo ora non mi sembra neppure permesso dalla legge divina. Affermare però che la mente ordina tutte le cose è degno dello spettacolo del cosmo, e del sole, e della luna e degli astri e di tutte le loro orbite, e io non potrei parlare diversamente su di essi, né avere diversa opinione. SOCRATE: Allora vuoi che anche noi accordandoci con i nostri antenati conveniamo che le cose stanno proprio così, e non solo riteniamo di dover sostenere senza rischi affermazioni di altri, ma anche corriamo tutti insieme il pericolo e ci esponiamo alla critica, quando arrivi uno straordinario personaggio a dirci che le cose non stanno così ma sono ingovernabili? PROTARCO: E perché non dovrei volere? SOCRATE: Avanti, presta attenzione al discorso che si fa ora incontro a noi e che riguarda queste cose. PROTARCO: Parla. SOCRATE: Per quanto riguarda gli elementi che compongono la natura di tutti i corpi degli esseri viventi, noi possiamo riconoscere il fuoco e l'acqua, l'aria e la terra (6) - secondo quell'esclamazione che dicono che sia pronunciata da chi viene colto in una tempesta - i quali vengono a trovarsi all'interno della struttura. PROTARCO: Certo. Siamo effettivamente in balì a di una tempesta per le difficoltà che vi sono nei discorsi che stiamo facendo. SOCRATE: Coraggio, per ciascuno di questi elementi che sono in noi presta attenzione a questo fatto. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Al fatto che ciascuno di essi si trova in noi in minima quantità, ed è quasi nullo, e non si presenta mai in nessun caso da solo, e il suo valore non corrisponde adeguatamente alla sua natura. Cogliendo quello che dico in un solo elemento fai per tutti gli altri le medesime considerazioni. Prendiamo l'esempio del fuoco che è in noi, ma che è anche nel tutto. PROTARCO: Ebbene? SOCRATE: In noi è presente in quantità minima, ed è senza vigore e insignificante, mentre preso nel tutto è meraviglioso in tutta l'estensione, la bellezza e la forza che gli sono proprie. PROTARCO: Ciò che dici è vero. SOCRATE: E allora? Il fuoco che è in tutte le cose si nutre e si genera e si accresce ad opera di questo fuoco, vale a dire dal fuoco che è dentro di noi, oppure al contrario il mio e il tuo e quello degli altri esseri viventi ottiene tutte queste cose da quello? PROTARCO: Quanto domandi non è degno di risposta. SOCRATE: Giusto. Tu dirai, credo, le stesse cose a proposito della terra che si trova negli esseri viventi, quella di qui e quella che è nel tutto, e di tutti gli altri elementi sui quali ti interrogai poco fa. Rispondi così ? PROTARCO: E chi mai sembrerebbe sano di mente se desse una risposta diversa? SOCRATE: Nessuno, certo. Ma seguimi su quel che viene dopo. Osservando che tutti quegli elementi di cui si è appena detto sono mescolati in un'unità, non li chiamammo con il nome di corpo? PROTARCO: E dunque? SOCRATE: Capisci che si tratta della stessa cosa anche a proposito di quello che chiamiamo cosmo: infatti sarebbe in egual modo un corpo, risultante dall'unione di questi elementi. PROTARCO: Quello che dici è giustissimo. SOCRATE: Il nostro corpo sì nutre interamente da quel corpo, oppure dal nostro quello si nutre, e riceve e possiede quanto si è detto adesso di quegli elementi? PROTARCO: Anche quest'altra domanda non è degna di risposta. SOCRATE: E che? E questa è degna? Cosa dici? PROTARCO: Dimmi quale. SOCRATE: Npn diremo che il nostro corpo possiede l'anima? PROTARCO: è chiaro che lo diremo. SOCRATE: Da dove, caro Protarco, l'avrebbe ricevuta, se il corpo del tutto non fosse animato e non avesse caratteristiche identiche a questo e addirittura del tutto più belle? PROTARCO: è chiaro, da nessuna altra parte, Socrate. SOCRATE: Non crediamo, Protarco, che di quei quattro generi - il finito e l'infinito e la loro mescolanza, e il genere della causa che è quarto e si trova in tutte le cose - proprio quest'ultimo che procura l'anima e origina l'esercizio del corpo e la scienza medica per il corpo malato e in altri casi ristora e cura, sia definito come la sapienza totale e dalle svariate forme, mentre di questi stessi elementi che sono in tutto il cielo, in parti enormi, e ancora nella loro bellezza e allo stato puro, per questi non abbia escogitato la natura di ciò che è più bello e più onorevole. PROTARCO: Ma un ragionamento di questo tipo non avrebbe alcun valore. SOCRATE: Se allora questo discorso non si può fare, seguendo quell'altro discorso che spesso abbiamo fatto, potremmo dire meglio che esiste nel tutto un immenso infinito, e una sufficiente quantità di finito, e una causa che li sovrintende non di poco valore, che dispone e ordina gli anni, le stagioni e i mesi, e che sarebbe giusto definirla con il nome di "mente" e di "sapienza". PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: Ma la sapienza e la mente senza l'anima mai potrebbero esistere. PROTARCO: No, certo. SOCRATE: Tu dirai che all'interno della natura di Zeus vi sono un'anima e una mente regali, in virtù del potere della causa, e altri elementi positivi negli altri dèi, e lo dici nella maniera che è più gradita a ciascuno. PROTARCO: Certo. SOCRATE: Non penserai che noi abbiamo pronunciato invano questo discorso, Protarco, ma è una conferma di quelli che già anticamente rivelavano come la mente guidi sempre il tutto. PROTARCO: Certo. SOCRATE: E ha fornito alla mia ricerca una risposta, e cioè che la mente appartiene a quel genere detto della causa del tutto. Hai già ora la risposta. PROTARCO: La posseggo, e mi basta. Eppure mi hai risposto in modo enigmatico. SOCRATE: Talvolta il gioco, Protarco, rappresenta una pausa nella fatica della riflessione. PROTARCO: Dici bene. SOCRATE: Ora, amico, a qual genere appartenga e quale sia la sua forza, lo abbiamo dimostrato in modo abbastanza preciso. PROTARCO: Certo. SOCRATE: E analogamente ci è chiaro ormai il genere del piacere. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Riguardo alla mente e al piacere dobbiamo anche ricordare che la prima è affine alla causa e appartiene in definitiva al suo genere, mentre il piacere è infinito e appartiene a un genere che non ha e non avrà in sé e da sé pnncipio, né mezzo né fine. PROTARCO: E come non ricordarlo? SOCRATE: Occorre vedere, dopo di ciò, dove si trova ciascuno dei due, e in quale condizione e animo si generano, qualora si generino. Innanzi tutto il piacere: come abbiamo esaminato per primo il genere cui appartiene, così condurremo per prima questa indagine. E però non potremo mai esaminarlo adeguatamente, se la nostra analisi sarà separata da quella sul dolore. PROTARCO: Se dobbiamo prendere questa strada, prendiamola. SOCRATE: Abbiamo, tu e io, la stessa opinione sulla loro origine? PROTARCO: Quale opinione? SOCRATE: Mi sembra che dolore e piacere appartengano per natura al genere misto. PROTARCO: Ricordaci, caro Socrate, che cosa mai vuoi intendere per quel "misto" di cui si è parlato. SOCRATE: Lo farò per quanto mi sarà possibile, carissimo. PROTARCO: Dici bene. SOCRATE: Per "misto" alludevamo al terzo genere fra i quattro detti. PROTARCO: Intendi dire ciò che dicevi che stava dopo l'infinito e il finito, in cui avevi posto la salute e l'armonia? SOCRATE: Dici benissimo. Presta attenzione quanto più puoi. PROTARCO: Dimmi pure. SOCRATE: Voglio dire che, spezzandosi l'armonia che si trova in noi, esseri viventi, avviene da quel momento la dissoluzione della nostra natura e contemporaneamente la nascita della sofferenza. PROTARCO: Quello che dici mi sembra verosimile. SOCRATE: Quando invece questa armonia torna di nuovo a riunirsi e rientra nella sua natura si deve dire che ha origine il piacere, se proprio dobbiamo fornire una breve e veloce spiegazione intorno a questioni di grandissima importanza. PROTARCO: Credo che sia giusto quello che tu dici, Socrate: ma proviamo a spiegare queste cose in modo ancora più chiaro. SOCRATE: Non è dunque più facile riflettere su quegli esempi noti a tutti e di evidenza scontata? PROTARCO: E quali esempi? SOCRATE: La fame: non è dissoluzione e dolore? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Ma il mangiare, poiché mi riporta di nuovo alla sazietà, è piacere? PROTARCO: Sì. SOCRATE: Anche la sete è corruzione e dolore, ma è piacere la possibilità che il liquido ha di ristabilire nuovamente l'umidità là dove c'era aridità. E quella separazione e dissoluzione contro natura, ovvero la sensazione di caldo soffocante, è dolore, mentre il ritorno secondo natura a una temperatura più fresca è piacere. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E il congelamento contro natura dell'umidità animale è dolore: mentre la strada che secondo natura porta a quella medesima condizione di prima e alla separazione di ciò che era congelato è piacere. In una parola, considera se ti pare logico il ragionamento per cui il genere che nasce animato secondo natura dall'infinito e dal finito, come dicevo anche prima, qualora questo si corrompa, questa corruzione sia dolore, mentre se ritorna alla sua essenza primitiva, tale ritorno sia considerato piacere. PROTARCO: Sia pure così. Mi sembra che questo discorso abbia una sua logica. SOCRATE: Dobbiamo supporre allora che vi sia un unico genere del dolore e anche del piacere in queste due diverse disposizioni? PROTARCO: Supponiamolo. SOCRATE: Tieni presente che all'anima appartengono, in relazione all'attesa di questi due fenomeni, sia la dolce ed intrepida speranza prima delle cose piacevoli, sia la paura e il dolore prima di eventi dolorosi. PROTARCO: Questa è un'altra forma di piacere e di dolore e consiste nella separazione dell'anima dal corpo durante l'attesa di qualche evento. SOCRATE: Hai inteso nel modo giusto. E in queste specie del dolore e del piacere che, secondo la mia opinione, nascono entrambe pure e a quanto pare non mescolate, risulterà evidente che il genere che riguarda il piacere o può desiderarsi nella sua interezza, oppure dobbiamo applicare tale considerazione a qualche altra delle specie citate, mentre per il piacere e il dolore, come per il caldo e il freddo e tutte le sensazioni di questo tipo, ora sono desiderabili, ora no, non essendo dei beni, anche se talvolta alcuni di essi lo diventano quando accolgono la natura dei beni. PROTARCO: Quello che dici è verissimo, ovvero che quel che stiamo ora perseguendo deve prendere questa direzione. SOCRATE: Prima di tutto facciamo insieme questa considerazione: se è vero ciò che si diceva, cioè che la sofferenza consiste nella corruzione degli elementi naturali e il piacere consiste invece nel loro riaggregarsi, riflettiamo allora sulla circostanza in cui non avvenga né corruzione né aggregazione, cioè sulla condizione in cui si troverà ciascuno degli esseri mortali quando le cose stiano in questi termini. Rispondi facendo molta attenzione: non sarà dunque assolutamente inevitabile che ogni essere vivente, nell'ultima fase descritta, non soffra né goda, né molto né poco? PROTARCO: Sì, è inevitabile. SOCRATE: E questa non è forse una nostra terza disposizione, oltre a quello di chi prova godimento e a quello di chi prova sofferenza? PROTARCO: E allora? SOCRATE: Avanti, e cerca di ricordartelo: non è cosa di poco conto, volendo dare una valutazione del piacere, ricordarsi se questa terza disposizione è in noi oppure no. Se vuoi, diciamo qualcosa su di essa. PROTARCO: Di' tu che cosa vuoi dire. SOCRATE: Per chi preferisce la vita dell'intelligenza, tu credi che nulla impedirebbe di vivere in questo modo. PROTARCO: Stai parlando dì quella condizione per cui non si prova piacere né dolore? SOCRATE: A suo tempo si disse, quando si misero a confronto i tipi di vita, che assolutamente non doveva godere né molto né poco chi aveva scelto la via del pensiero e dell'intelligenza. PROTARCO: Sì, abbiamo detto effettivamente così. SOCRATE: Le cose allora stanno così per chi fa quella scelta: e non c'è nulla di insensato, visto che tra tutte le vite è la più divina. PROTARCO: Ma non risponde al vero pensare che gli dèi provino sia il godimento sia il suo contrario. SOCRATE: Certo, non risponde al vero. è sconveniente che vi sia in essi l'una o l'altra di queste condizioni. Ma questo punto sarà ancora preso in esame in seguito, qualora mostri un nesso con il nostro discorso, e lo accosteremo alla mente come pretesto per il secondo posto, se non siamo in grado di farlo per il primo. PROTARCO: Quello che dici è verissimo. SOCRATE: E per quel che riguarda quest'altro genere dei piaceri, quello che dicevamo che appartiene all'anima, trae completamente origine dalla memoria. PROTARCO: E come? SOCRATE: Bisogna innanzitutto capire che cos'è mai la memoria, per quel che mi sembra, e può essere che prima ancora della memoria dobbiamo sapere che cos'è la percezione se in qualche modo si vorranno chiarire le cose su cui stiamo discutendo. PROTARCO: Come dici? SOCRATE: Tra i vari patimenti che riguardano ogni volta il corpo, tieni presente che alcuni si estinguono nel corpo prima di arrivare all'anima, lasciandola così indifferente, altri, attraversando sia il corpo sia l'anima, introducono nell'uno e nell'altra come una scossa particolare per ognuno di essi e comune ad entrambi. PROTARCO: Teniamolo a mente. SOCRATE: Parliamo correttamente se affermiamo che quei patimenti che non attraversano entrambi si celano alla nostra anima, mentre non si celano quelli che li attraversano? PROTARCO: E come no? SOCRATE: Ma non pensare assolutamente che io sostenga che questo celarsi è il luogo dove si origina l'oblio: poiché l'oblio è l'uscita di memoria, e la memoria, in quello che ho detto adesso, non è stata ancora generata. E parlare della perdita di ciò che non è e non è ancora stato generato è sbagliato. Sei d'accordo? PROTARCO: E allora? SOCRATE: Allora cambia solo i nomi. PROTARCO: E come? SOCRATE: Invece di "celarsi all'anima", qualora essa risulti indifferente alle scosse del corpo, chiama "insensibilità" quel fenomeno che adesso hai chiamato dimenticanza. PROTARCO: Ho capito. SOCRATE: Quando l'anima e il corpo si vengono a trovare in una comune disposizione e in un movimento comune essi si muovono, questo movimento potrai definirlo senza paura di sbagliare con il nome di "sensazione". PROTARCO: Quello che dici è verissimo. SOCRATE: Non abbiamo ormai appreso quello che intendiamo definire "sensazione"? PROTARCO: E allora? SOCRATE: Dicendo che la memoria è la salvezza della sensazione, secondo la mia opinione diremmo bene. PROTARCO: Giusto. SOCRATE: Ma non diciamo che il ricordo differisce dalla memoria? PROTARCO: Forse. SOCRATE: E non lo diciamo a questo proposito? PROTARCO: Quale? SOCRATE: Quando l'anima afferra quanto può essa stessa in se stessa, senza il corpo, quello che provava una volta insieme al corpo, diciamo che allora essa ha un ricordo. O no? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E qualora essa, dopo aver perduto la memoria sia di una sensazione sia di qualcosa che aveva appreso, successivamente la richiami di nuovo in se stessa, anche tutto ciò lo chiamiamo con il nome di ricordo. PROTARCO: Quello che dici è giusto. SOCRATE: E questo è il motivo per cui si è detto ciò. PROTARCO: E quale? SOCRATE: Perché noi comprendessimo ancora meglio e il più chiaramente possibile il piacere dell'anima separato dal corpo e nello stesso tempo il desiderio: attraverso le cose dette, mi sembra che questi due concetti possano essere messi in luce. PROTARCO: Diciamo allora, Socrate, quello che viene dopo. SOCRATE: Bisognerebbe fare una ricerca dicendo molto sulla genesi del piacere e su tutte le forme che esso assume. Prima ancora ci sembra però che bisogna capire che cosa è mai e dov'è che si genera il desiderio. PROTARCO: Cominciamo la nostra analisi: non perderemo nulla. SOCRATE: Questo perderemo, Protarco: scoprendo quel che ora andiamo cercando perderemo la difficoltà che riguarda queste stesse questioni. PROTARCO: Hai detto bene. Cerchiamo di passare a quel che viene dopo queste cose. SOCRATE: Non dicevamo forse che fame e sete e molte altre condizioni simili sono dei desideri? PROTARCO: Assolutamente sì. SOCRATE: E a quale identità rivolgiamo la nostra attenzione per chiamare con un solo nome queste cose così differenti fra loro? PROTARCO: Per Zeus, non è facile a dirsi, Socrate, eppure si deve. SOCRATE: Riprendiamo di là, da quegli stessi punti. PROTARCO: Da dove? SOCRATE: Ogni volta che diciamo: «Ho sete» diciamo qualcosa? PROTARCq E come no? SOCRATE: E come se dicessi: «C'è un vuoto»? PROTARCO: Sì, e allora? SOCRATE: E dunque la sete non è desiderio? PROTARCO: Sì, di bevanda. SOCRATE: Di bevanda o della soddisfazione di un bisogno che la bevanda procura? PROTARCO: Della soddisfazione che procura la bevanda, credo. SOCRATE: Allora chi di noi è vuoto ha verosimilmente un desiderio che si muove nell'opposta direzione rispetto a ciò che sta provando: vale a dire che chi è vuoto vuole riempirsi. PROTARCO: Chiarissimo. SOCRATE: E allora? E allora chi in un primo tempo è vuoto, sia con la sensazione, sia con la memoria potrebbe stabilire da qualche parte un contatto con la soddisfazione di qualcosa, di cui mai né nel tempo presente né prima fece esperienza? PROTARCO: E come potrebbe? SOCRATE: D'altra parte se uno desidera qualcosa, di quella cosa ha desiderio, noi solitamente diciamo. PROTARCO: E come no? SOCRATE: E non si ha desiderio di ciò che si sta provando: aver sete è una sensazione di vuoto e il suo desiderio è quello di riempirlo. PROTARCO: Certo. SOCRATE: Un qualcosa che appartiene a quelli che hanno sete avrebbe allora contatto con i desiderio di riempimento. PROTARCO: è inevitabile. SOCRATE: Ed è impossibile che questo qualcosa sia un corpo perché in un certo senso è vuoto. PROTARCO: Certo. SOCRATE: Resta l'anima che potrebbe avere un contatto con il desiderio di riempimento, ed è chiaro che è possibile tramite la memoria: con quale altro mezzo potrebbe stabilire un contatto? PROTARCO: Praticamente con nient'altro. SOCRATE: Comprendiamo allora la conclusione che possiamo tirare da questi discorsi? PROTARCO: Quale? SOCRATE: Questo discorso non ci dice che il desiderio sia proprio del corpo. PROTARCO: Perché? SOCRATE: Perché mostra che i tentativi di ogni essere vivente vanno sempre in direzione opposta alle condizioni in cui si trovano. PROTARCO: Certo. SOCRATE: E l'impeto che si muove in direzione opposta rispetto alle passioni sarebbe in grado di dimostrare che la memoria è all'opposto delle passioni. PROTARCO: Certo. SOCRATE: Dimostrando che la memoria sospinge verso la cosa desiderata il discorso ha rivelato che ogni impulso e desiderio e principio direttivo di ogni essere vivente è proprio dell'anima. PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: Dunque è ragionevole convincersi che il nostro corpo non avverta affatto sete, fame e altre simili esigenze. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: E a questo proposito facciamo anche queste considerazioni: mi sembra che il discorso voglia chiarirci un certo aspetto della vita proprio su questo punto. PROTARCO: Su quale punto e di quale vita stai parlando? SOCRATE: Dell'essere pieno e dell'essere vuoto e di tutto ciò che riguarda la salvezza e la distruzione degli esseri viventi, e se - trovandoci in una di queste due disposizioni - ora proviamo dolore, ora godiamo, secondo i mutamenti di condizione. PROTARCO: è così. SOCRATE: E che succede quando ci si trovi in mezzo a queste? PROTARCO: Come in mezzo? SOCRATE: Quando un tale soffre per una condizione, si ricorda dei piaceri che, se fossero presenti, farebbero cessare la sofferenza, benché a questo punto non sia ancora soddisfatto. E allora? Diciamo o non diciamo che questi si trova a metà strada fra due opposte condizioni? PROTARCO: Diciamolo. SOCRATE: Sarà in grado di soffrire o godere totalmente? PROTARCO: Sì, per Zeus, ma soffrendo di due specie di dolori: una sofferenza fisica, per quanto riguarda il corpo, e un desiderio dell'attesa per quanto riguarda l'anima. SOCRATE: Cosa dici, Protarco, quando parli di due specie di dolori? Forse avviene che uno di noi, quando è vuoto, ora si trova nella evidente speranza di essere soddisfatto, ora al contrario non nutre più speranze? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E a te non pare che chi ha speranza di essere soddisfatto gode per il fatto dì ricordare questa soddisfazione, ma nel contempo, poiché è vuoto, soffre trovandosi in questa situazione? PROTARCO: è inevitabile. SOCRATE: Allora l'uomo e gli altri esseri viventi provano piacere e dolore contemporaneamente. PROTARCO: Può arsi. SOCRATE: E che dire quando, essendo vuoto, uno dispera di ottenere una qualche soddisfazione? Non si verifica allora quella doppia condizione del dolore, che tu hai appena finito di individuare e che hai appunto ritenuto doppia? PROTARCO: Verissimo, Socrate. SOCRATE: Ci serviremo dell'osservazione di queste due opposte condizioni per questo scopo. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Diremo che questi piaceri e questi dolori sono veri o falsi, oppure che alcuni sono veri e altri no? PROTARCO: E come sarebbero, Socrate, i falsi piaceri e i falsi dolori? SOCRATE: E come, Protarco, potrebbero essere vere o false, le paure, o le attese, oppure le opinioni? PROTARCO: Potrei convenire con te sulle opinioni, ma non sulle altre cose. SOCRATE: Come dici? Rischiamo di risvegliare un discorso non di poco conto. PROTARCO: Quello che dici è vero. SOCRATE: Ma se questo discorso aiuta a chiarire i punti già trattati, o figlio di quel grande uomo, conviene prenderlo in esame. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E allora si devono salutare gli altri punti prolissi del ragionamento e tutto ciò che vada oltre quello che ci interessa. PROTARCO: Perfetto. SOCRATE: Dimmi: c'è un fatto che mi stupisce di continuo e che riguarda queste stesse difficoltà che ora ci siamo messi davanti. Come dici? Non sono alcuni falsi e altri veri, i piaceri? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E né in veglia né in sogno, come dici, né in momento di follia, né nella demenza, non vi è alcuna persona cui sembrerebbe di godere, senza in realtà godere affatto, o cui sembrerebbe di soffrire, senza soffrire veramente. PROTARCO: Noi tutti abbiamo capito, Socrate, che le cose stanno proprio così. SOCRATE: Allora è giusto? Oppure dobbiamo cercare di capire se queste parole sono giuste oppure no? PROTARCO: Direi che dobbiamo cercare di capire. SOCRATE: Specifichiamo ancora più chiaramente quelle parole che abbiamo appena detto sul piacere e sull'opinione. Consiste in qualche cosa per noi il possedere opinioni? PROTARCO: Sì. SOCRATE: E anche il provare piacere? PROTARCO: Sì. SOCRATE: E anche l'oggetto della nostra opinione consiste in qualche cosa? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E ciò per cui prova piacere l'oggetto del piacere? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Allora ciò che congettura opinioni, le congetturi giustamente o no, non annulla la possibilità stessa di congetturarle. PROTARCO: E come no? SOCRATE: E così ciò che prova piacere, sia giusto o no tale piacere, è chiaro che non annullerà mai la possibilità di provare piacere. PROTARCO: Sì, le cose stanno così. SOCRATE: Dobbiamo cercare di capire perché siamo soliti considerare l'opinione ingannevole e veritiera, mentre il piacere sempre vero, quando in realtà l'attività del congetturare opinioni e il provare piacere sono toccati da una sorte simile. PROTARCO: Sì, dobbiamo capire. SOCRATE: Tu dici che dobbiamo capire perché ciò che è falso e ciò che è vero s'insinua nell'opinione e non solo nasce un'opinione in virtù di queste ragioni, ma una ben determinata fra le due? PROTARCO: Sì. SOCRATE: Dobbiamo inoltre convenire anche su questo punto, se per noi è possibile attribuire del tutto la qualità alle cose, mentre soltanto il piacere e il dolore non sono entrambi definibili secondo questo criterio? PROTARCO: è chiaro. SOCRATE: E questo non è affatto difficile da vedere, ovvero dar loro una definizione qualitativa. Prima abbiamo detto che i dolori e i piaceri sono grandi e piccoli, e che proprio così sono caratterizzati gli uni e gli altri. PROTARCO: Sì, è così. SOCRATE: Se si aggiunge la malvagità a una di tali cose, Protarco, diremo che l'opinione è malvagia e malvagio è anche il piacere? PROTARCO: Certamente, Socrate. SOCRATE: E che succede se si aggiunge la rettitudine o il suo opposto a una di esse? Non diremo che è giusta quell'opinione, qualora contenga in sé la rettitudine, e così anche il piacere? PROTARCO: Necessariamente. SOCRATE: Se l'oggetto dell'opinione fosse sbagliato, non dobbiamo accordarci sul fatto che l'opinione quando sbaglia non è giusta, né esercita correttamente la sua facoltà dell'opinare? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E allora? Se osserviamo che un dolore o un piacere sbagliano in ciò per cui sono dolore e piacere, attribuiremo ad essi la definizione di "giusto", o "utile", o qualcun'altra ancora fra queste definizioni positive? PROTARCO: Non è possibile, se è vero che il piacere potrà sbagliare. SOCRATE: E spesso il piacere sembra accompagnarsi in noi non con una giusta opinione, ma con una menzognera. PROTARCO: E come no? Per quel che riguarda l'opinione, Socrate, in questo caso noi diciamo che è falsa, mentre per quel che riguarda il piacere, nessuno si sognerebbe di considerarlo falso. SOCRATE: Ma tu, Protarco, difendi con ardore il discorso che stiamo facendo sul piacere. PROTARCO: Nient'affatto, dico soltanto quel che sento dire. SOCRATE: Non vi è alcuna differenza per noi, o amico, tra il piacere che è accompagnato dall'opinione retta e dalla scienza, e il piacere accompagnato dalla falsità e dall'ignoranza che spesso si insinua in ciascuno di noi? PROTARCO: Certamente la differenza non è di poco conto. SOCRATE: Andiamo a vedere la loro differenza. PROTARCO: Conducimi dove ti sembra meglio. SOCRATE: Ti conduco in questa direzione. PROTARCO: Quale direzione? SOCRATE: L'opinione, diciamo, è per noi falsa e anche vera? PROTARCO: Lo è. SOCRATE: E il piacere e il dolore seguono spesso queste opinioni vere e false di cui abbiamo parlato. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Ma la nostra opinione e il tentativo di averne una non deriva ogni volta dalla memoria e dalla percezione? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Crediamo allora che questo sia l'atteggiamento da assumere intorno a queste cose? PROTARCO: E quale? SOCRATE: Non diresti che a chi veda da lontano una cosa che non vede con chiarezza spesso capiti di voler dare un giudizio su quello che vede? PROTARCO: Lo direi. SOCRATE: E dopo questo fatto non ci si interrogherà così ? PROTARCO: Come? SOCRATE: «Che cos'è mai questa cosa che compare immobile davanti alla roccia e sotto un albero?». Ti sembra che un tale potrà parlare così a se stesso vedendo cose di tal genere apparire ai suoi occhi? PROTARCO: E allora? SOCRATE: E allora dopo di ciò quel tale, quasi dandosi una risposta, direbbe questo, che si tratta di un uomo. Dice bene? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E andando fuori dal seminato forse aggiungerebbe che quello che ha visto è una statua, opera di pastori. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E se accanto a lui ci sia qualcuno, ripeterà ad alta voce al vicino quelle stesse cose che ha detto a se stesso: e il discorso diventerà così quel che allora chiamavamo "opinione"? PROTARCO: E allora? SOCRATE: Se invece fosse solo, pensando tra sé questa cosa, camminerebbe per molto tempo portandosela con sé. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E allora su questo punto la pensi come me? PROTARCO: Quale punto? SOCRATE: Talvolta mi sembra che la nostra anima assomigli a un libro. PROTARCO: E come? SOCRATE: Mi sembra che la memoria, combinandosi insieme alle sensazioni, e quelle disposizioni dell'anima, che si verificano in questa situazione, talvolta scrivano quasi delle parole nella nostra anima: e quando viene scritto il vero, accade che in noi vi siano opinioni vere e veri discorsi, ma se questo scrivano che è dentro di noi scrive il falso, deriveranno cose opposte alla verità. PROTARCO: Certo, mi pare sia così, e accetto le tue parole. SOCRATE: Devi però ammettere che anche un altro artefice si trova in quel caso nelle nostre anime. PROTARCO: E chi è? SOCRATE: Un pittore, che dopo lo scriba ritrae nell'anima una rappresentazione di quelle cose che sono state dette. PROTARCO: Come e in quale momento diciamo che vi sia questo artefice? SOCRATE: Quando, conducendo lontano dalla vista o da qualche altra sensazione l'oggetto delle opinioni e dei discorsi di un tempo, uno vede dentro di sé le immagini di ciò che è stato pensato o detto. Non avviene forse così dentro di noi? PROTARCO: Ma certamente. SOCRATE: E allora le rappresentazioni delle opinioni e dei discorsi veritieri sono veritiere, e false le rappresentazioni dei discorsi e delle false opinioni? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Se le cose che abbiamo detto sono giuste, facciamo ancora a questo proposito una considerazione. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Voglio dire se è necessario che noi facciamo tali esperienze limitatamente al presente e al passato, e non nel futuro. PROTARCO: è sempre uguale in ogni tempo. SOCRATE: Non si è detto prima che i piaceri e i dolori che provengono dall'anima stessa vengono prima dei piaceri e dei dolori determinati dal corpo, sicché ci accade di provare in anticipo la gioia e il dolore per il tempo che verrà? PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Forse le rappresentazioni scritte e quelle disegnate che poco fa supponevamo che fossero dentro di noi sono valide per il tempo passato e quello presente e non per quello futuro? PROTARCO: Assolutamente sì. SOCRATE: Dici «assolutamente sì » perché tutte queste cose sono speranze rivolte al futuro, e noi, in fondo, per tutta la vita siamo carichi di speranza? PROTARCO: Proprio così. SOCRATE: Avanti, oltre alle cose già dette, rispondi anche a questa domanda. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Un uomo giusto, e pio, e assolutamente buono non è forse gradito agli dèi? PROTARCO: E allora? SOCRATE: Come allora? E uno ingiusto e assolutamente malvagio non è all'opposto dell'altro? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E ogni uomo non è carico di molte speranze, come abbiamo detto poco fa? PROTARCO: E come no? SOCRATE: Vi sono discorsi in ciascuno di noi che chiamiamo con il nome di speranze? PROTARCO: Sì. SOCRATE: E anche le immagini che ci si rappresenta: sovente si crede di avere abbondanti ricchezze, e oltre a queste molti piaceri. E così uno si vede raffigurato mentre gode intensamente di tutto questo. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Diciamo allora che di queste raffigurazioni ai buoni si presentano quelle veritiere in virtù della loro amicizia con gli dèi, mentre ai malvagi tutto l'opposto, oppure no? PROTARCO: Possiamo assolutamente dirlo. SOCRATE: Allora la raffigurazione dei piaceri è nondimeno presente anche nei malvagi, ma si tratta di piaceri fallaci. PROTARCO: E allora? SOCRATE: Fra gli uomini i malvagi godono di una gran quantità di piaceri fallaci, mentre i buoni di quelli veritieri. PROTARCO: Quanto dici è necessariamente vero. SOCRATE: A quanto ora diciamo, nell'anima umana vi sono piaceri fallaci che imitano in modo ridicolo quelli veri, e così i dolori. PROTARCO: Sì, vi sono. SOCRATE: L'attività del congetturare opinioni, per chi congettura opinioni, è sempre un'attività reale, ma talvolta non riguarda né le cose che sono, né quelle che sono state, né quelle che saranno. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E questo è ciò che determina, io credo, l'opinione fallace e il fallace congetturare. O no? PROTARCO: Sì. SOCRATE: E che allora? Non si deve per forza stabilire una corrispondenza fra i dolori e i piaceri e quelle opinioni? PROTARCO: E come? SOCRATE: Dicendo cioè che chi generalmente gode - non importa quanto e come - può provare sempre effettivo godimento anche se talvolta non per le cose che sono né per quelle che sono state, e anzi, più spesso ancora, gode per cose che non saranno mai. PROTARCO: Sì, Socrate, è necessario stabilire così. SOCRATE: Lo stesso discorso non va forse fatto per il timore e il coraggio e tutti gli altri stati d'animo di questo genere, e cioè che anche tutti questi talvolta sono fallaci? PROTARCO: Ma certamente. SOCRATE: E allora? Possiamo dire che una cosa sono le opinioni malvagie e giuste, un'altra quelle fallaci? PROTARCO: Sì, sono altra cosa. SOCRATE: E, credo, anche per quanto riguarda i piaceri, riteniamo che non vi sia altra maniera possibile di considerarli malvagi, se non attraverso il loro essere fallaci. PROTARCO: Ma tu hai detto tutto l'opposto, Socrate. Infatti non si dovrebbero affatto considerare malvagi i dolori e i piaceri secondo il criterio della falsità, ma piuttosto quando essi si incontrano con un'altra grande e ben estesa forma di malvagità. SOCRATE: Dei piaceri malvagi e di come la malvagità li renda tali, diremo tra poco, se ci parrà opportuno. Di quei piaceri, invece, che in altra maniera sono considerati fallaci, bisogna dire che sono molti, e spesso si trovano e nascono dentro di noi. Forse ci serviremo proprio di questo fatto per giudicarli. PROTARCO: E come no? Ammesso che ve ne siano di fallaci. SOCRATE: Ma certo che ci sono, Protarco, almeno secondo me. In ogni caso, fino a quando questo dato di fatto si trova in noi, è impossibile che sia inconfutabile. PROTARCO: Bene. SOCRATE: Facciamoci attorno a questo discorso, come degli atleti. PROTARCO: Andiamo. SOCRATE: Stiamo dicendo quel che dicevamo poco fa, se ce lo ricordiamo: e cioè che qualora i desideri di cui s'è parlato sono in noi, allora il corpo, per le condizioni in cui viene a trovarsi, si divide e si separa dall'anima. PROTARCO: Sì, lo ricordiamo, lo si disse prima. SOCRATE: E non era l'anima che desiderava condizioni opposte a quelle del corpo, mentre il corpo procurava la sofferenza o, attraverso una determinata disposizione, un certo piacere? PROTARCO: Era certamente così. SOCRATE: Pensa a quel che avviene in questi casi. PROTARCO: Dillo tu. SOCRATE: Accade allora, qualora si verifichi ciò, che dolori e piaceri stiano vicino, e le loro relative percezioni, benché opposte, stiano una vicino all'altra, cosa che si è appena dimostrata. PROTARCO: Sì, si è appena dimostrato. SOCRATE: E prima non si è detto e stabilito di convenire anche su questo? PROTARCO: Che cosa? SOCRATE: Che questi due, ovvero il dolore e il piacere, accolgono il "più" e il "meno", e che appartengono entrambi all'infinito. PROTARCO: Sì, si è detto. E allora? SOCRATE: Qual è il criterio per giudicare rettamente queste cose? PROTARCO: Dove e come? SOCRATE: Se decidendo di giudicare queste cose si voglia distinguere ogni volta quale fra queste è in relazione all'altra maggiore e quale minore, quale è di più e quale è più intensa, ovvero il dolore in relazione al piacere, e il dolore in relazione al dolore, e il piacere in relazione al piacere. PROTARCO: Sì, è proprio così, questo è proprio il nostro intendimento nel giudicare. SOCRATE: E allora? Se nella vista, il vedere da lontano o da vicino una grandezza altera la verità e fa in modo che si congetturino opinioni fallaci, non accade lo stesso nei dolori e nei piaceri? PROTARCO: Certamente, Socrate. SOCRATE: L'affermazione che abbiamo fatto adesso va nel senso opposto di quella fatta un momento fa. PROTARCO: A quale alludi? SOCRATE: Allora le opinioni false e quelle vere riempivano i dolori e i piaceri delle disposizioni che esse portavano con sé. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Adesso, mutando i piaceri e i dolori ogni volta per il fatto che li si osserva da lontano e da vicino, e messi contemporaneamente uno in relazione all'altro, i piaceri sembrano più grandi e più intensi accanto al dolore, e i dolori, accanto ai piaceri, sembrano trovarsi nella situazione opposta. PROTARCO: è necessario che le cose stiano in questi termini per le ragioni che hai detto. SOCRATE: Quanto più entrambi appaiono più grandi o più piccoli di quelli che sono, separando da ciascuno dei due ciò che appare ma che non è, non dirai che l'elemento che appare sia veridico, né oserai mai affermare che la parte di piacere e dolore che si basa su questa apparenza sia giusta e vera. PROTARCO: No, certamente. SOCRATE: Dopo queste cose vedremo se in questa direzione ci imbattiamo in piaceri e dolori ancora più falsi di questi che si manifestano e sono negli animali. PROTARCO: A quali alludi? E come può essere? SOCRATE: Si è detto spesso che, poiché la natura di ogni cosa si corrompe, accade che i dolori e le sofferenze, e i lamenti e tutto ciò che ha simili denominazioni, si verificano sia tramite aggregazione, sia tramite scomposizione, sia attraverso il pieno, sia attraverso il vuoto, sia per accrescimento, sia per deperimento. PROTARCO: Sì, si è detto più volte. SOCRATE: Quando avviene una ricomposizione nella propria natura, ammettiamo che il piacere consiste in questa ricomposizione. PROTARCO: Giusto. SOCRATE: Che cosa succede se nel nostro corpo non avviene nulla di questo? PROTARCO: E questo potrebbe mai accadere, Socrate? SOCRATE: Quello che tu domandi, Protarco, non c'entra nulla con il discorso. PROTARCO: E perché? SOCRATE: Perché non mi impedisci di riproporti la mia domanda. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Se non accadesse quel che ho illustrato, Protarco, ti dirò: «Che cosa mai necessariamente ce ne deriverebbe?». PROTARCO: Se il corpo non è messo in agitazione in nessuna delle due direzioni, volevi dire? SOCRATE: Esattamente. PROTARCO: è chiaro questo fatto, Socrate, che in questo caso particolare né il piacere, né il dolore avrebbero mai origine. SOCRATE: Dici benissimo. Ma, credo, vuoi dire questo, che sempre una di queste condizioni si verifica di necessità in noi, come dicono i saggi: tutto scorre dall'alto al basso e viceversa. PROTARCO: Così dicono, e non mi sembra che facciano un'affermazione sconsiderata. SOCRATE: E come potrebbero, visto che sconsiderati non sono? Ma voglio sottrarmi a questo discorso che ci assalta. Penso di fuggire in questa direzione, e tu fuggi con me. PROTARCO: Dimmi per dove. SOCRATE: Diciamo a costoro: le cose stiano dunque così. E tu invece rispondi se tutte le cose che provano gli esseri animati, queste le senta chi le subisce, e a noi non sfugga né la crescita, né alcuna altra cosa di quelle che proviamo. O è tutto il contrario? PROTARCO: è tutto il contrario. Tutte queste cose ci sfuggono. SOCRATE: Dunque quello che abbiamo detto poco fa non è stato detto bene, e cioè che i mutamenti dall'alto al basso e viceversa producono i dolori e i piaceri. PROTARCO: E allora? SOCRATE: Detta così, l'affermazione risulterà migliore e inattaccabile. PROTARCO: E come? SOCRATE: Dire che i grandi mutamenti ci procurano dolori e piaceri, mentre quelli contenuti e di poco valore non portano assolutamente in nessuna di queste due direzioni. PROTARCO: E questo modo di dire è più giusto dell'altro, Socrate. SOCRATE: Se le cose stanno così, ritornerebbe di nuovo quel tipo di vita di cui si è parlato un momento fa. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Quella che dicevamo che fosse priva di dolori e di gioie. PROTARCO: Quello che dici è verissimo. SOCRATE: Da ciò deriva che poniamo tre tipi di vita per noi, uno dolce, l'altro luttuoso, e un altro ancora che non è nessuno dei due. Oppure come diresti a questo proposito? PROTARCO: Non direi diversamente che in questo modo, e cioè che tre sono i tipi di vita. SOCRATE: E il non provare dolore sarà identico al provare piacere? PROTARCO: E come no? SOCRATE: Quando senti dire che la migliore fra tutte le cose consiste nel trascorrere senza dolore tutta la vita, che cosa mai credi che quel tale voglia dire? PROTARCO: Mi sembra che con il termine "dolce" voglia definire il non provare dolore. SOCRATE: Di tre cose che noi abbiamo, quelle che vuoi, supponi, per usare i nomi più belli, che la prima sia oro, la seconda argento, la terza nessuna di queste due. PROTARCO: Supponiamo. SOCRATE: La cosa che non è nessuna di questi, potrebbe essere l'una e l'altra, ovvero oro e argento? PROTARCO: E come? SOCRATE: Non potendo correttamente affermare che la vita di mezzo è dolce o luttuosa nello stesso tempo, se lo si pensasse, sarebbe un'opinione sbagliata, né lo si direbbe a ragione, se lo si dicesse, secondo un corretto ragionamento. PROTARCO: E come infatti? SOCRATE: Ma, amico, sappiamo che ci sono persone che dicono e pensano in questo modo. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Crederanno di godere allorquando non soffrono? PROTARCO: Di certo lo dicono. SOCRATE: Dunque pensano di godere in quel momento: infatti non lo direbbero. PROTARCO: Può darsi. SOCRATE: E avranno opinioni fallaci sul godimento, se per l'appunto la natura del non provare dolore è ben separata da quella del godere? PROTARCO: Sì, sono separati. SOCRATE: Dobbiamo forse convincerci che tre sono i tipi di vita di cui s'è detto poco fa, oppure solo due, ovvero il dolore che è un male per gli uomini e la liberazione dai dolori, e definire col nome di "piacevole" quest'ultima cosa che di per sé è un bene? PROTARCO: Perché ci dobbiamo porre questa domanda, Socrate? Non capisco. SOCRATE: Allora in realtà non riconosci i nemici del nostro Filebo, Protarco? PROTARCO: Di chi stai parlando? SOCRATE: Parlo di coloro che abilmente parlano delle cose della natura e dicono che i piaceri non esistono affatto.(7) PROTARCO: E allora? SOCRATE: Dicono che tutti quelli che gli amici di Filebo chiamano "piaceri" sono una fuga dal dolore. PROTARCO: E tu ci consigli di prestare fede a costoro o no, Socrate? SOCRATE: No, ma di loro ci si deve servire come di indovini che non praticano l'arte divinatoria in maniera perfetta, ma con senso di fastidio; e poiché essi hanno una nobiltà naturale, odiano la potenza del piacere, ritenendo che esso non sia affatto sano, sicché considerano quella capacità di sedurre che porta con sé una sorta di incantesimo, e non un piacere. Potresti servirti di costoro per quanto riguarda queste loro concezioni sul piacere ed esaminare gli altri loro sprezzanti giudizi: dopo di ciò verrai a conoscenza di quelli che a me sembrano essere veri piaceri, perché, dopo averla considerata dal punto di vista dell'uno e dell'altro discorso, possiamo giudicare la potenza di esso. PROTARCO: Dici bene. SOCRATE: Inseguiamo costoro come fossero alleati, sulle tracce della loro scontentezza. Credo che, prendendo spunto da chissà quali lontane premesse, si pongano una domanda di questo tipo: se volessimo osservare la natura di qualsiasi genere, come per esempio la natura di ciò che è duro, capiremmo di più rivolgendo la nostra attenzione a ciò che durissimo al massimo grado oppure a ciò che è al minimo grado nella scala della durezza? Bisogna che tu risponda, Protarco, a questi uomini insofferenti e a me. PROTARCO: Certamente, e io dico loro che dobbiamo guardare al primo grado della scala di grandezza. SOCRATE: Se per quanto riguarda il genere del piacere volessimo vedere qual è mai la sua natura, dovremmo allora rivolgere la nostra attenzione non ai piaceri che occupano il grado più basso nella scala dell'intensità, ma a quelli che diciamo occupare il punto più alto, ovvero il grado di intensità maggiore. PROTARCO: Tutti sarebbero d'accordo con te adesso. SOCRATE: Ma quei piaceri che, come diciamo spesso, sono alla nostra portata e fra tutti i più grandi non sono appunto gli stessi che riguardano il corpo? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E sono e diventano più intensi in coloro che soffrono per le malattie o in coloro che stanno bene? Facciamo attenzione a non inciamparci dando una risposta avventata. Forse potremmo rispondere: in coloro che stanno bene. PROTARCO: Mi sembra verosimile. SOCRATE: E allora? Non sono forse superiori proprio quei piaceri che sono preceduti dai desideri più intensi? PROTARCO: Questo è vero. SOCRATE: Ma quelli che hanno la febbre e soffrono di analoghe affezioni non hanno più sete e più freddo, provando con più intensità tutto ciò che il nostro fisico è solito provare? E, avendo più necessità di un sano, non provano piaceri più intensi quando vengono soddisfatti? O diremo che questa asserzione non è vera? PROTARCO: Certamente quel che è stato detto sembra vero. SOCRATE: E allora? Non risulteremmo nel giusto se affermassimo che uno, volendo osservare i piaceri piu intensi, deve rivolgersi non verso le persone sane, ma verso chi è malato? Cerca di capire che non ti interrogo con l'intenzione di sapere se i malati gravi provino più piacere dei sani, ma mi interessa scoprire qual è l'intensità del piacere, e dove ogni volta si verifica il massimo grado di tale intensità. Diciamo che bisogna capire qual è la sua natura, e quale dicono che sia quelli che affermano che il piacere non esiste affatto. PROTARCO: Ma io seguo abbastanza il tuo discorso. SOCRATE: Forse, Protarco, potrai dimostrarlo. Ma rispondi: nell'intemperanza puoi osservare piaceri più intensi - non dico più numerosi, ma superiori per forza ed intensità - che nella vita dove regna la moderazione? Rispondimi facendo attenzione. PROTARCO: Ho capito quel che vuoi dire, e vedo che vi è molta differenza. Per quanto riguarda le persone moderate, esse sono fedeli alla massima che ogni volta esorta: «Nulla di troppo».(8) Quanto invece alle persone che sono smodate e intemperanti, il violento piacere che li domina fino alla follia li scredita. SOCRATE: Bene. E se le cose stanno così, è chiaro che i grandi piaceri e anche i grandi dolori si sviluppano in un certo malessere dell'anima e del corpo, e non nella virtù. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Dopo averne prescelti alcuni, bisogna osservare i criteri in base ai quali definivamo questi piaceri come i più intensi. PROTARCO: Sì, è necessario. SOCRATE: Osserva quali sono i caratteri dei piaceri che derivano da questi mali. PROTARCO: Da quali? SOCRATE: Parlo dei piaceri propri di quelle indecenti malattie, odiati da coloro che noi prima chiamavamo persone insofferenti. PROTARCO: Quali piaceri? SOCRATE: Per esempio, il rimedio per chi è affetto dalla scabbia, rimedio che consiste nel grattarsi, e per altri mali di questo genere, i quali non necessitano di altre cure: ora, per gli dèi, questo male che si trova in noi come la chiamiamo? Piacere o dolore? PROTARCO: Mi sembra, Socrate, che si tratti di un male mescolato. SOCRATE: Non ho fatto questo discorso pensando a Filebo: ma senza condurre un esame di questi piaceri, Protarco, e di quelli che ad essi seguono, mai potremmo giudicare quel che stiamo investigando. PROTARCO: Dunque dobbiamo muoverci in direzione dei piaceri affini a questi. SOCRATE: Parli di quelli che partecipano della mescolanza? PROTARCO: Ma certamente. SOCRATE: Ci sono delle mescolanze che riguardano il corpo e che avvengono nel corpo, altre che riguardano l'anima e che avvengono nell'anima: noi scopriremo che i dolori che riguardano l'anima e il corpo sono mescolati ai piaceri, e li chiameremo tutti e due insieme ora piaceri, ora dolori. PROTARCO: E come? SOCRATE: Quando nella composizione o nella dissoluzione della propria natura un tale provi nello stesso tempo sintomi opposti, e ora provando i brividi di freddo arde dal caldo, ora bruciando per la febbre si sente gelare, e cerca di conservare una di queste condizioni, io credo, abbandonando l'altra, questa mescolanza che potremmo definire di "dolce" e "amaro", che si accompagna alla difficoltà di liberarcene, determina irritazione e infine una violenta tensione. PROTARCO: Quello che è stato appena detto è vero. SOCRATE: E di mescolanze di questo genere non risultano alcune dalla uguale composizione di dolori e di piaceri, mentre altre dalla composizione di diversi e più numerosi elementi? PROTARCO: E come no? SOCRATE: Devi dire che alcune di queste mescolanze sono rappresentate dal caso della scabbia di cui abbiamo detto adesso, e dal solletico, e si hanno quando i dolori superano i piaceri: se ciò che ribolle e ciò che produce infiammazione si trova all'interno, non è possibile arrivarci grattando e frizionando, perché si calma solo la parte in superficie, e allora, esponendo le parti interessate al caldo e al suo contrario, cambiando talvolta per il caldo eccessivo, ora si procurano immensi piaceri, ora al contrario, alle parti interne e non a quelle esterne procurano dolori misti a piaceri, in quella parte dove si rivolgono, separando violentemente ciò che era unito o unendo ciò che era separato, e ugualmente accostando i dolori ai piaceri. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Quando una quantità maggiore di piacere si mischia in tutte le mescolanze di questo tipo, la parte di dolore che viene mescolata non procura forse prurito e una lieve irritazione, mentre la maggiore quantità di piacere che vi è mescolata procura eccitamento e talvolta frenesia, e dandogli un colorito diverso, facendogli assumere diverse posizioni, alterando i ritmi del respiro, procura in esso una passione violenta e grida senza alcun freno? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E ciò fa dire, amico, al malato e ad altri che gli sembra di morire nel godere di questi piaceri: e li insegue continuamente senza sosta, tanto più quanto è smodato e intemperante, e li definisce straordinari, e considera assai fortunato chi trascorre tutta la vita in essi. PROTARCO: Hai spiegato, Socrate, tutto quel che accade, pare, alla maggior parte degli uomini. SOCRATE: Almeno, Protarco, per quanto riguarda i piaceri che si verificano nella comunanza delle disposizioni che prova il corpo e che risultano dalla mescolanza dì sensazioni esteriori e prodotte dal suo interno: per quanto riguarda invece le disposizioni opposte a quelle del corpo e che l'anima fa scontrare fra loro, ovvero dolore contrapposto a piacere e piacere contrapposto a dolore nel contempo, sino al punto che entrambi giungano a un'unica fusione, si è già detto prima, e cioè che il vuoto ha desiderio di essere riempito, e mentre si gode della speranza, si soffre per l'essere vuoto. Ciò che prima non abbiamo detto, e adesso diciamo è che, quando l'anima entra in contesa con il corpo, vi è in tutti questi casi, straordinariamente numerosi, una sola commistione di dolore e di piacere. PROTARCO: Può darsi che quello che tu dici sia giustissimo. SOCRATE: Resta ancora una sola mescolanza di dolore e dì piacere. PROTARCO: A quale alludi? SOCRATE: Dicevamo che spesso l'anima si mescola con se stessa. PROTARCO: Come possiamo dire una cosa di questo genere? SOCRATE: L'ira e la paura, la brama e il lamento, l'amore e la gelosia, l'invidia e quant'altro ancora, non sono questi alcuni dei dolori che tu poni fra quelli che discendono dall'anima stessa? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E non troveremo che sono colmi di piaceri straordinari? Oppure dobbiamo richiamare i versi che dicono (a proposito della collera e l'ira) «spinge pure l'uomo ricco di pensiero alla collera, ed è molto più dolce del miele stillante».(9) E non troveremo altresì che i piaceri sono mescolati ai dolori nei lutti e nell'ardente brama? PROTARCO: No, le vicende dell'anima non potrebbero che essere così, e non potrebbero avvenire diversamente. SOCRATE: E ricordi anche gli spettacoli tragici, quando si piange provando nello stesso tempo godimento? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E la disposizione della nostra anima alle commedie, non pensi rifletta anche questa mescolanza di dolore e di piacere? PROTARCO: Non capisco. SOCRATE: Certo: non è assolutamente facile, Protarco, comprendere la disposizione dell'anima che si verifica di volta in volta in questo caso. PROTARCO: In effetti non mi sembra facile. SOCRATE: Vediamo di capire il concetto con uno sforzo tanto maggiore quanto più l'argomento e oscuro, perché anche nel resto si riesca più facilmente a comprendere l'unione di dolore e piacere. PROTARCO: Puoi parlare. SOCRATE: Il nome "invidia" pronunciato poco fa lo considererai tra i dolori dell'anima o che cosa? PROTARCO: Proprio così. SOCRATE: Ma colui che è invidioso mostrerà di godere dei mali dei suoi vicini. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: L'ignoranza e quella condizione che definiamo stoltezza sono un male. PROTARCO: E allora? SOCRATE: E da queste cose eccoti sotto gli occhi quale sia la natura di ciò che è ridicolo. PROTARCO: Dimmi pure tu. SOCRATE: Il punto principale della questione consiste in una certa forma di malvagità che prende il nome da una condizione degli uomini: si tratta di una condizione che riguarda la malvagità nel suo complesso e che è opposta alle parole scritte a Delfi. (10) PROTARCO: Alludi al «conosci te stesso», Socrate? SOCRATE: Sì. è chiaro che l'opposto di quella massima sarebbe: «non conoscere minimamente te stesso». PROTARCO: E allora? SOCRATE: Protarco, prova a dividere questa massima in tre parti. PROTARCO: Come dici? Non penso di essere capace. SOCRATE: Dici che devo essere io a dividerla adesso? PROTARCO: Sì, lo dico e oltre a dirlo anche ti prego. SOCRATE: E non è forse inevitabile che ciascuno di quelli che ignorano se stessi viva questa condizione sotto tre aspetti diversi? PROTARCO: E come? SOCRATE: Il primo aspetto riguarda le ricchezze: credere di essere più ricchi di quanto non sia in effetti il loro patrimonio. PROTARCO: Sono molti, infatti, quelli che vivono in tale condizione. SOCRATE: E molti di più quelli che pensano di essere più grandi e più belli, quanto a prestanza fisica, di quanto non siano in realtà. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Ancora più numerosi, credo, sono quelli che falliscono per quanto riguarda il terzo aspetto, quello dell'anima, pensando di essere superiori per valore, quando in realtà non lo sono. PROTARCO: è assolutamente così. SOCRATE: Non è forse appoggiandosi del tutto, fra le virtù, alla sapienza che la maggior parte di persone si riempie di desideri di contese e di un falso apparire sapienti? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E se qualcuno dicesse che tale condizione in cui ci si viene a trovare è tutto sommato un male, direbbe bene. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Questo, Protarco, dobbiamo ancora dividere, se, osservando l'invidia da un punto di vista puerile, ci accingiamo a vedere una insolita mescolanza di piacere e dolore. «Come faremo a dividere?», tu dici. Quanto a tutti quelli che hanno sconsideratamente di se stessi questa opinione fallace, è inevitabile che anche a costoro come a tutti gli uomini si accompagnino loro ad alcuni forza e potere, ad altri, io credo, il contrario. PROTARCO: Sì, è inevitabile. SOCRATE: Allora dividi così : quelli deboli e incapaci di difendersi se sono ridicolizzati, dirai la verità se dici che sono ridicoli. Quelli invece in grado di difendersi e dotati di forza, dicendo che sono terribili e odiosi ne avrai fornito a te stesso una corretta definizione. L'ignoranza dei forti è infatti odiosa e turpe - ed è dannosa per chi si trova vicino, sia così com'è, sia sotto le varie forme in cui essa si manifesta - mentre quella dei deboli assume le caratteristiche e la natura del ridicolo. PROTARCO: Quello che dici è giustissimo. Ma in questo discorso non mi risulta ancora chiara la mescolanza di piacere e dolore. SOCRATE: Cerca di capire innanzitutto qual è il potere dell'invidia. PROTARCO: Parla pure. SOCRATE: Vi sono un dolore e un piacere ingiusti? PROTARCO: è inevitabile che accada. SOCRATE: E il godere delle sventure dei nemici non è ingiusto né invidioso. O no? PROTARCO: E allora? SOCRATE: Mentre non è forse ingiusto vedere le sventure degli amici e non soffrire, anzi, addirittura godere? PROTARCO: E come no? SOCRATE: E non s'è detto che l'ignoranza è un male per tutti? PROTARCO: Giustamente. SOCRATE: E a proposito della falsa sapienza e della falsa bellezza degli amici e di tutto quanto ora abbiamo trattato quando abbiamo detto di dividerli in tre specie, e a proposito di quanto siano ridicole nei deboli e detestabili nei forti, diciamo o no ciò che dicevamo poco fa, e cioè che, qualora uno degli amici si trovi in tale condizione e non faccia danno agli altri, sia ridicolo? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E non riteniamo che questa condizione, essendo ignoranza, sia un male? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Proviamo gioia o dolore quando ridiamo di quella? PROTARCO: è chiaro che proviamo gioia. SOCRATE: Non dicevamo che è l'invidia che procura piacere per i mali degli amici? PROTARCO: Inevitabilmente. SOCRATE: Il discorso indica che, ridendo dei casi ridicoli degli amici, e mescolando così piacere ad invidia, noi uniamo piacere a dolore: e già prima riconoscemmo che l'invidia è come un dolore dell'anima, mentre il ridere è una sorta di piacere, e che i due fatti avvengono contemporaneamente in quest'ultima circostanza. PROTARCO: Vero. SOCRATE: Ora il discorso ci indica che nei lutti e nelle tragedie e nelle commedie, e non solo nelle rappresentazioni teatrali, ma anche in tutta la tragedia e la commedia della vita, dolori e piaceri sono mescolati insieme, e così in molte altre cose. PROTARCO: è impossibile non convenire su questo, Socrate, quand'anche si volesse sostenere polemicamente il contrario. SOCRATE: Prima abbiamo proposto come oggetto del nostro studio l'ira e il desiderio, il lamento e la paura, l'amore e la gelosia, l'invidia e altre simili cose in cui dicevamo avremmo trovato mescolati gli elementi di cui spesso oggi abbiamo parlato. è così ? PROTARCO: Sì. SOCRATE: Abbiamo appreso che tutto quello che è stato esposto finora riguardava il lamento, l'invidia e l'ira. PROTARCO: E come non capirlo? SOCRATE: Ci restano ancora molte cose da trattare? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Per qual motivo soprattutto pensi che io ti abbia portato il caso della commedia a esempio della mescolanza? Forse non nella convinzione che è facile dimostrarti che questa fusione può verificarsi nelle paure, negli amori, e negli altri stati d'animo? Dunque, compreso ciò, mi permetti, senza che si vada ancora in questa direzione, di non dilungare troppo i ragionamenti, ma comprendi semplicemente questo, che il corpo senza l'anima e l'anima senza il corpo, e insieme l'uno con l'altro, sono colmi, nelle disposizioni in cui vengono a trovarsi, di piacere misto a dolore? Dimmi, ora: mi lasci andare o farai mezzanotte? Se dico ancora poche cose, mi lascerai andare libero. Di tutte queste questioni voglio farti un discorso domani, mentre per quel che mi resta oggi, voglio andare al giudizio che Filebo ha preparato. PROTARCO: Dici bene, Socrate: ed esponi pure come preferisci quel che rimane da esporre. SOCRATE: Secondo una successione naturale, dopo i piaceri che risultano da una necessaria mescolanza, potremmo procedere alla volta di quelli puri. PROTARCO: Quello che dici mi va benissimo. SOCRATE: Proverò a indicarveli, mutando così l'oggetto della ricerca. Non posso affatto prestare fede a quelli che dicono che tutti i piaceri sono una tregua dei dolori, ma, come dicevo, mi servo di loro come di testimoni per dimostrare che di alcuni piaceri vi è solo l'opinione ma che in realtà non esistono affatto, e che alcuni altri apparendo nello stesso tempo enormi e numerosi risultano impastati con i dolori e con le cessazioni delle sofferenze più intense che riguardano il male del corpo e quello dell'anima. PROTARCO: Quali altri piaceri, Socrate, si dovrebbero considerare veritieri per pensare correttamente? SOCRATE: Quelli che riguardano i colori che si dicono belli, e le figure, e la maggior parte dei piaceri che riguardano odori e suoni, e tutto ciò che, rendendoci insensibili al bisogno e indifferenti al dolore, ci offre una soddisfazione coinvolgente e piacevole. PROTARCO: Che cosa vuoi dire con queste parole, Socrate? SOCRATE: Siccome quello che dico non è di immediata chiarezza, cercherò di chiarirlo. Tenterò ora di parlare della bellezza delle figure non come molti la intenderebbero, quella di animali o di certe pitture che li raffigurano, ma parlo di qualcosa di retto - così vuole il discorso - e di circolare, e delle figure piane e solide che da essi derivano e che si realizzano con i compassi, e ancora quanto si ottiene con regoli e squadre, se intendi. Non dico che queste siano belle in relazione a qualcosa, come le altre cose, ma che sono generate belle in se stesse e hanno piaceri affini alla loro natura, per nulla simili a quelli derivanti dal frizionarsi. E anche i colori hanno questa caratteristica. Ci capiamo o no? PROTARCO: Sto tentando, Socrate: ma sforzati di parlare ancora più chiaro. SOCRATE: Voglio dire che i suoni, quelli dolci e limpidi, e che diffondono un'unica limpida melodia non sono belli in base a un criterio esterno, ma sono belli in sé e per sé, e ad essi si accompagnano piaceri della loro stessa natura. PROTARCO: Sì, è così. SOCRATE: Quanto agli odori, si tratta di un genere di piaceri meno divino di quelli. Ma poiché in essi non si mescolano necessariamente dolori, dove e in quale luogo siano essi per noi generati, io li pongo tutti in corrispondenza di quelli. Ma, se intendi, questi sono due generi di quelli che chiamiamo piaceri. PROTARCO: Intendo. SOCRATE: A questi aggiungiamo ancora i piaceri che riguardano l'apprendimento, se per caso ci sembra che questi non abbiano in sé la fastidiosa fame di sapere, né le sofferenze che scaturiscano all'inizio da questa fame di nozioni. PROTARCO: Sono d'accordo. SOCRATE: E allora? Non ti accorgi che in essi possono avere origine delle sofferenze nel caso in cui chi è stato soddisfatto dalla fame di sapere, subito dopo subisce una perdita di quel che ha appreso a causa dell'oblio? PROTARCO: E questo non accade per natura, ma in alcuni processi mentali riguardanti questa disposizione, nel caso in cui uno, privato del sapere, si addolori per il bisogno. SOCRATE: E, mio caro, ora stiamo esponendo soltanto le disposizioni della natura prese in se stesse e separate dai processi mentali. PROTARCO: Quello che dici è vero, perché l'oblio di quelle nozioni che apprendiamo avviene ogni volta in noi separato dal dolore. SOCRATE: Si può allora dire che questi piaceri che derivano dall'apprendimento non si mischiano con i dolori e non sono affatto di molti uomini, ma di pochissimi. PROTARCO: Come non dirlo? SOCRATE: Dopo aver convenientemente separato dai piaceri puri quelli che a ragione potremmo chiamare impuri, attribuiamo col ragionamento ai piaceri violenti un eccesso di misura, e, al contrario, agli altri, la giusta misura. E stabiliamo che i piaceri che hanno in sé "ciò che è grande" e "ciò che è violento" e "frequentemente" e "raramente" diventando tali appartengono al genere dell'infinito che conduce il "meno" e il "più" attraverso il corpo e l'anima, mentre quelli che non sono tali appartengono al genere dei piaceri che contengono la giusta misura. PROTARCO: Quello che dici è giustissimo, Socrate. SOCRATE: Inoltre, dopo di ciò, si deve ancora osservare un fatto. PROTARCO: Quale? SOCRATE: Che cos'è mai che dobbiamo dire si avvicini alla verità? Ciò che è puro e non mescolato, oppure ciò che è violento e ciò che è numeroso e ciò che è grande e ciò che è impetuoso? PROTARCO: Qual è il senso di questa domanda, Socrate? SOCRATE: Non vorrei rimproverarmi, Protarco, di tralasciar nulla che riguardi il piacere e la scienza, affinché, nel caso vi sia qualcosa di puro in ciascuno di essi e qualcosa di impuro, vagliando ciò che è puro nell'uno e nell'a1tra, si possa offrire un giudizio più agevole a me, a te, a tutti quanti. PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: Avanti, cominciamo a riflettere su tutti quelli che chiamiamo "generi puri". Scegliamone uno ed esaminiamolo. PROTARCO: Quale allora sceglieremo per primo? SOCRATE: Primo fra tutti esamineremo il genere del bianco, se vuoi. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: In che cosa consiste per noi la limpidezza del bianco? Nella grandezza o nella moltitudine dei bianchi, o nella sua assoluta impossibilità di essere mescolato, Ovvero nel fatto che in esso non è presente nessun'altra parte di nessun colore? PROTARCO: è chiaro che consiste in quello assolutamente puro. SOCRATE: Giusto. Allora non considereremo questo come il più vero, Protarco, e a un tempo il più bello fra tutti i bianchi, e non quello che si configura secondo il numero e la grandezza? PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: E se diremo che una piccola quantità di bianco puro è più bianca, e nello stesso tempo più bella e più vera di un grande quantità di bianco mescolato, diremo senz'altro bene. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E allora? Non avremmo bisogno di molti esempi come questi per il nostro discorso sul piacere, ma basta che noi da soli ci rendiamo conto che ogni più piccolo e più raro piacere, purificato dal dolore, sarà migliore, più vero, e più bello di uno più grande e più frequente. PROTARCO: Certamente, è sufficiente questo esempio. SOCRATE: E questo? Riguardo al piacere non abbiamo sentito che sempre si genera, ma che non esiste affatto la sua sostanza? Alcune persone raffinate, (11) cui noi dobbiamo essere grati, si sforzano di mostrarci questo ragionamento. PROTARCO: E in che cosa consiste? ISOCRATE: Te lo spiegherò, interrogandoti di volta in volta, caro Protarco. PROTARCO: Parla pure e interrogami. SOCRATE: Ci siano due entità, l'una in sé e per sé, e l'altra che mira ad altro. PROTARCO: Di che cosa si tratta e a quali due entità alludi? SOCRATE: Una è continuamente generata come la più veneranda, l'altra si trova al di sotto di quella. PROTARCO: Parla ancora più chiaramente. SOCRATE: Ci è già capitato di osservare giovanotti belli e buoni e nello stesso tempo anche i loro coraggiosi amanti. PROTARCO: Assolutamente sì. SOCRATE: Cerca altri due esempi simili a questi due, che siano conformi a tutto quanto noi diciamo che sia. PROTARCO: Te lo dirò ancora per la terza volta? Spiega più chiaramente, Socrate, che cosa vuoi dire. SOCRATE: Niente di complicato, Protarco: è il discorso che si prende gioco di noi, e afferma che fra le cose dotate di essere da un lato vi è ciò che è sempre in funzione di un qualcosa, dall'altro vi è ciò in funzione del quale ogni volta ciò che è generato in funzione di qualcosa sempre si genera.(12) PROTARCO: A stento comprendo, e solo perché mi è stato ripetuto più volte. SOCRATE: Può darsi, figliolo, che comprenderemo di più procedendo innanzi nel discorso. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Prendiamo due altri generi. PROTARCO: Quali? SOCRATE: L'uno è il generarsi di tutte le cose, l'altro il loro essere. PROTARCO: Ammetto questi due, l'essere e il generarsi. SOCRATE: Giustissimo. E allora quale di questi è in funzione dell'altro? Diciamo che il generarsi è in funzione dell'essere o l'essere in funzione del generarsi? PROTARCO: Ora mi chiedi se quello che ha il nome di "essere" è ciò che è in funzione del generarsi? SOCRATE: Mi sembra di si. PROTARCO: Per gli dèi, mi domandi proprio questo: «Dimmi, Protarco: tu affermeresti che la costruzione delle navi è in funzione delle navi, piuttosto che le navi essere in funzione della loro costruzione, e così per le altre cose»? SOCRATE: Proprio così voglio dire, Protarco. PROTARCO: Perché non puoi essere proprio tu a rispondere a te stesso, Socrate? SOCRATE: Non c'è nessun motivo in particolare: ma prendi anche tu parte al discorso. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Dico che in funzione del generarsi vengono disposti i mezzi, tutti gli strumenti e il materiale, e che ogni diverso generarsi si genera in funzione di ciascun diverso essere, e che il generarsi, nella sua totalità, è in funzione dell'essere nella sua totalità. PROTARCO: Chiarissimo. SOCRATE: Dunque il piacere, se è vero che è generazione, si potrebbe generare necessariamente a causa di un certo essere. PROTARCO: E allora? SOCRATE: Ciò in funzione del quale verrebbe sempre generato ciò che viene generato in funzione di qualcosa, (13) apparterrebbe al destino del bene: ciò che è generato in funzione di altro appartiene ad altro destino, carissimo. PROTARCO: è assolutamente necessario. SOCRATE: E se dunque è vero che il piacere è generazione, lo collocheremo correttamente se lo collocheremo in diversa posizione rispetto a quella del bene? PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: Come si diceva all'inizio del discorso, dobbiamo mostrare riconoscenza verso chi ci ha indicato il generarsi del piacere, negando nel modo più assoluto il suo essere: è chiaro che costui si prende gioco di quanti affermano che il piacere è bene. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E ogni volta riderà egli stesso anche di coloro che si sentono appagati nel loro generarsi. PROTARCO: Come e di quali persone parli? SOCRATE: Di quanti placando o la fame, o la sete o quant'altro il generarsi placa, godono a causa della generazione, quasi fosse essa stessa un piacere, e dicono che non accetterebbero di vivere senza la sete e senza la fame, e senza sopportare tutto il resto che si potrebbe dire che segua tali disposizioni. PROTARCO: Sì, mi sembra che costoro siano così. SOCRATE: Dunque non potremmo dire che il corrompersi è l'opposto del generarsi? PROTARCO: Necessariamente. SOCRATE: Chi scegliesse questa vita sceglierebbe la corruzione e la generazione, ma non quel terzo tipo di vita, quello in cui non si prova né godimento né dolore, ma nel quale gli sarebbe consentito di esercitare nel modo più puro la sua intelligenza. PROTARCO: A quanto pare, Socrate, se noi consideriamo il piacere un bene, ne deriva come conseguenza una grave assurdità. SOCRATE: Grave, dal momento che ci si deve esprimere così. PROTARCO: Così come? SOCRATE: Come non sarebbe assurdo pensare che nessun bene né bellezza esistano nei corpi e in molte altre entità se non nell'anima, e che lì soltanto vi sia il piacere, mentre il coraggio, la moderazione, il pensiero e tutti gli altri beni che l'anima ottiene non rappresenterebbero nulla di buono? E inoltre: non è assurdo essere costretti a dire che chi non gode, anzi, chi soffre, è malvagio proprio quando soffre, quand'anche fosse il migliore di tutti, e chi gode, quanto più gode, proprio quando gode, in questo si distingue per virtù? PROTARCO: è quanto di più assurdo ci possa essere, Socrate. SOCRATE: Non disponiamoci a un esame completo e approfondito del piacere dando a credere che a fatica ci asteniamo da un esame sulla mente e sulla scienza: con onestà invece passiamo tutto al setaccio, nel caso che da qualche parte vi fosse qualcosa di difettoso, perché, osservando la parte che di queste due sia per natura più pura, di questa loro parte e di quella più vera del piacere possiamo servirci per una comune valutazione. PROTARCO: Giusto. SOCRATE: Dunque, io credo, secondo noi, vi è un aspetto artigianale della scienza che riguarda l'apprendimento, e un altro che riguarda l'educazione e il nutrimento. O no? PROTARCO: è così. SOCRATE: Nelle arti manuali consideriamo prima di tutto se fra esse vi sono quelle che appartengono di più alla scienza e quelle che vi appartengono di meno, e se le prime vanno considerate come le più pure, mentre le seconde come le meno pure. PROTARCO: Sì, facciamolo. SOCRATE: Dobbiamo allora distinguere e separare in ciascuna di esse quelle arti che fanno da guida? PROTARCO: Quali sono e come si può fare? SOCRATE: Se per esempio uno separasse da tutte le arti, l'arte del contare, quella del misurare e quella del pesare, sarebbe insignificante, così per dire, quel che resterebbe di ciascuna. PROTARCO: Sì, sarebbe insignificante. SOCRATE: Dopo queste cose resterebbe il congetturare e l'esercizio dei sensi affinato attraverso l'esperienza e una certa pratica, e si farebbe uso delle potenzialità proprie dell'arte congetturale, potenzialità che molti chiamano con il nome di arte, quando siano rafforzate dall'esercizio e dalla fatica. PROTARCO: Quello che dici è necessariamente vero. SOCRATE: E piena di questi esempi è innanzitutto la musica, poiché armonizza gli accordi non tramite la misura, ma attraverso la congettura che deriva dalla pratica, e, all'interno di essa, tutta l'auletica, che cerca la misura di ciascuna nota determinata mediante il congetturare, sicché essa, per effetto di questa mescolanza, contiene molto che non è chiaro, e poco di sicuro. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: E troveremo che sono nella stessa situazione l'arte medica, quella che riguarda la coltivazione della terra, quella del pilota, e quella che presiede alla guerra. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Quanto all'arte del costruire, poiché fa uso di numerose misure e strumenti, ed è fornita di molta precisione, si presenta, io credo, come la più precisa della maggior parte delle scienze. PROTARCO: E in quali campi? SOCRATE: Nella costruzione delle navi e delle case e in molti altri campi ove si costruisca con il legno. Infatti fa uso del regolo, del compasso, del piombino, della cordicella, e di un certo attrezzo che raddrizza i pezzi dì legno. PROTARCO: E dici bene, Socrate. SOCRATE: Separiamo le arti di cui abbiamo parlato in due parti: ci sono quelle che seguono la musica e nelle loro opere hanno una minore precisione e quelle che seguono l'arte dell'edificare che hanno una maggior precisione. PROTARCO: Sia così. SOCRATE: Fra tutte queste le arti più precise sono quelle che un momento fa abbiamo nominato per prime. PROTARCO: Mi sembra che tu vuoi alludere all'arte del far calcoli e a quelle che ho pronunciato insieme ad essa. O come? SOCRATE: Certamente. Ma, Protarco, non si deve dire che queste a loro volta si dividono in due specie? O come? PROTARCO: Di quali parli? SOCRATE: Prima di tutto dell'arte di far calcoli: non si deve dire che v'è ne una che appartiene alla maggior parte delle persone, ed un'altra che appartiene ai filosofi? PROTARCO: E come si potrebbe considerare l'arte di far calcoli così divisa nell'una e nell'altra scienza? SOCRATE: Non si tratta di una distinzione di poco conto, Protarco. Di quelli che si occupano dei numeri alcuni calcolano unità disuguali, come due eserciti, e due buoi, e considerano due le cose più piccole o due le più grandi fra tutte: ma altri non sarebbero disposti a seguirli se non si stabilisse che nessuna unità, fra le innumerevoli che esistono, è diversa da un'altra. PROTARCO: E certamente tu dici bene: non è di poco conto la differenza che riguarda quelli che si occupano di numeri, sicché è ragionevole affermare che due sono le arti del far calcoli. SOCRATE: E allora? L'arte del computare e del misurare ora applicate all'arte del costruire e al commercio, ora applicate alla geometria che fa parte alla filosofia e all'arte di coloro che si occupano di calcoli puri, si possono ancora definire l'una e l'altra come una sola arte oppure come due arti diverse? PROTARCO: Se ho seguito bene quel che s'è detto prima, darei il mio voto per sostenere che l'una e l'altra di quelle due sono duplici. SOCRATE: Giusto. Allora capisci per quale ragione queste cose sono state messe da noi al centro del dibattito? PROTARCO: Forse, ma vorrei che tu mi chiarissi il senso dell'attuale domanda. SOCRATE: Mi sembra che questo discorso, non meno di quando lo abbiamo cominciato, quando cioè abbiamo cercato di presentare qui davanti ciò che era diametralmente opposto ai piaceri, cerchi di indagare un'altra forma di scienza più pura, come era successo per il piacere. PROTARCO: Sì, è senz'altro chiaro che proprio per questi motivi abbiamo intrapreso la discussione in corso. SOCRATE: E allora? Forse non si scoprì, nei discorsi di prima, che a seconda dei diversi ambiti vi erano diverse arti, una più chiara, e una più indistinta? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E, sempre in quelle circostanze, dopo che ebbe chiamato una certa arte con un unico nome e l'ebbe considerata come se fosse unica, forse il discorso non torna nuovamente a interrogarci, come se fossero due, sulla loro chiarezza e purezza, e se possiede più precisione quella che appartiene ai filosofi o quella che appartiene a coloro che non sono filosofi? PROTARCO: Mi sembra che interroghi proprio su questo punto. SOCRATE: Quale risposta gli daremo, Protarco? PROTARCO: Socrate, siamo giunti a una differenza di mirabile grandezza, procedendo nell'indagine sulla chiarezza delle scienze. SOCRATE: Dunque daremo una facile risposta? PROTARCO: E allora? Si dica che le scienze di cui si sta parlando sono molto differenti dalle altre arti, e che rispetto ad esse sono superiori, per l'esattezza e la verità nella misura e nel numero, quelle contrassegnate dall'irresistibile ardore dei filosofi. SOCRATE: Sia così come tu pensi, e allora, fidandoci di te, rispondiamo coraggiosamente a chi con abilità cerca di forzare i discorsi. PROTARCO: Quale risposta daremo? SOCRATE: Risponderemo che vi sono due specie di arti del calcolo e due che riguardano l'arte del misurare, e così per le altre numerose arti che ad esse si accompagnano, e che contengono questa duplicità, pur essendo accomunate da un nome unico. PROTARCO: Diamo questa risposta a costoro che tu chiami abili parlatori, e speriamo che tutto vada bene, Socrate. SOCRATE: Diciamo che queste scienze garantiscono una maggiore precisione? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Ma la potenza della dialettica non ci ricuserebbe, Protarco, se al suo posto preferissimo un'altra arte? PROTARCO: E come dobbiamo definire quest'arte? SOCRATE: è chiaro che ognuno riconoscerebbe l'arte di cui parliamo. Credo che chiunque, anche quelli a cui resta attaccato solo più un brandello di intelligenza, ritenga di gran lunga più vera questa forma di conoscenza che si occupa di ciò che è, di ciò che è realmente e di ciò che è sempre generato uguale a se stesso. E tu che dici? Come giudichi questa affermazione, Protarco? PROTARCO: Siccome, Socrate, ascoltavo di frequente Gorgia (14) affermare che l'arte del persuadere emerge di gran lunga su tutte le altre - tutte da questa sarebbero rese schiave di buon grado e senza costrizione, ed essa sarebbe di gran lunga la più nobile di ogni arte - non vorrei dare risposte contrarie a te né a quello. SOCRATE: Mi sembra che tu avessi intenzione di dire "le armi", ma che ti sei vergognato e hai lasciato perdere. PROTARCO: Sia come tu credi. SOCRATE: Sono io il responsabile di questa tua difficoltà di comprensione? PROTARCO: Quale? SOCRATE: Ma caro Protarco, io non cercavo quale fosse l'arte o la scienza che fra tutte si distinguono per importanza, nobiltà e utilità nei nostri confronti, ma quella in grado di investigare la chiarezza, la precisione, e il massimo grado di verità, quand'anche fosse di poco valore e di scarsa utilità. Proprio questo è ciò che ora cerchiamo di investigare. Allora fa' attenzione: da un lato non ti inimicherai Gorgia se permetti alla sua arte di primeggiare quando essa sia utile agli uomini. Dall'altro, per quanto riguarda quel metodo dì indagine dì cui ora parlavo - come quando a proposito del bianco affermavo che una quantità di bianco puro, anche se minima, superava una grande quantità di bianco non puro, proprio per il fatto di essere il bianco più vero -, dopo intense ricerche e discussioni, senza tenere conto di talune utilità e onori delle scienze, ma considerando se vi è una potenza della nostra anima che spinga ad amare il vero e a far tutto in funzione di quello, cerchiamo di dire, non prima di averla diligentemente investigata, se siamo in grado di affermare verosimilmente che essa possiede più di ogni altra la purezza di mente e di pensiero, o se dobbiamo ricercarne un'altra che le sia superiore. PROTARCO: Posso indagare, ma credo sia difficile pensare a qualche altra scienza o arte più di quest'ultima unita alla verità. SOCRATE: Forse quel che stai dicendo ora lo hai detto osservando che molte arti - e quanti in esse spendono le loro energie - si basano innanzitutto sulle opinioni e ricercano sistematicamente quanto ad esse attiene? Quand'anche uno ritenesse di far ricerche intorno alla natura delle cose, lo sai che passerebbe tutta la vita a investigare il mondo di qui, ovvero come si è generato, come subisce, e come agisce? Possiamo dire così, o no? PROTARCO: Sì, è così. SOCRATE: E quel tale allora non si assumerebbe la fatica di far ricerche intorno a ciò che è sempre, ma intorno a ciò che si genera, sarà generato, si è generato? PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Di tutte queste cose che non hanno mai contenuto nulla che le rendesse identiche a se stesse, né mai lo avranno, e neppure lo hanno nel momento presente, possiamo dire che vi sia qualcosa di chiaro secondo la più limpida verità? PROTARCO: E come potremmo? SOCRATE: E a proposito di quelle cose in cui non vi è in alcun modo nulla di sicuro, come potremmo ottenere qualcosa di sicuro, anche pur che sia? PROTARCO: Non si potrebbe affatto, io credo. SOCRATE: Non vi è né mente né scienza che sia in grado di possedere intorno a queste cose il massimo grado della verità. PROTARCO: Non è verosimile. SOCRATE: Dobbiamo salutare e lasciar perdere i discorsi su di te, me, Gorgia e Filebo, e con il discorso testimoniare questo. PROTARCO: Che cosa? SOCRATE: O vi sono in quelle cose la solidità, la verità, e quella proprietà che prima chiamavo "purezza" - parlo delle cose che sempre per se stesse allo stesso modo non sono mescolate - oppure sono in ciò che è più affine a quelle: quanto alle altre cose, si deve dire che passano in secondo grado. PROTARCO: Quello che dici è verissimo. SOCRATE: E quanto ai nomi il procedimento più ragionevole non è forse quello di attribuire alle cose più belle i nomi più belli? PROTARCO: Mi sembra verosimile. SOCRATE: Dunque i nomi come "mente" e "intelligenza" non si potrebbero stimare al massimo grado? PROTARCO: Sì. SOCRATE: E questi nomi, applicati correttamente, nelle riflessioni di ciò che realmente è, indicano le cose nella loro esattezza. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Quei nomi che io allora sottoposi al giudizio non sono altro che questi. PROTARCO: Come, Socrate? SOCRATE: Ebbene. Per quel che riguarda l'intelligenza e il piacere e la loro reciproca mescolanza, se qualcuno dicesse che esse stanno davanti a noi come ciò da cui o ciò in cui deve essere plasmato sta davanti agli artigiani, realizzerebbe con la parola una bella immagine. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E dopo di ciò non si deve provare a mescolare queste cose? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E non sarebbe corretto se noi prima dicessimo e ricordassimo questo? PROTARCO: Che cosa? SOCRATE: Quello che abbiamo ricordato prima: mi sembra che dica bene il proverbio secondo cui due e tre volte ciò che ha in sé qualcosa di buono si deve ripetere col discorso. PROTARCO: E che cosa? SOCRATE: Avanti, per Zeus: credo che possiamo ripetere in questo modo le cose che allora sono state dette. PROTARCO: E come? SOCRATE: Filebo dice che il piacere rappresenta il giusto fine per tutti gli esseri viventi, che tutti devono mirare a quello, che esso è un bene per tutti, e che è possibile attribuire correttamente due nomi, ovvero quello di "bene" e "piacevole" a una sola entità e a una sola natura. Socrate invece sostiene che questo non sia una sola entità, ma due come i nomi, e ciò che è "bene" e ciò che abbiano una natura differente fra loro, e che l'intelligenza partecipi maggiormente della parte assegnata al bene che non il piacere. Non sì diceva allora questo, Protarco? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: E su questo punto non si potrebbe convenire fra noi, sia allora sia adesso? PROTARCO: Su quale punto? SOCRATE: Sul fatto che la natura del bene differisca dalle altre in questo. PROTARCO: In che cosa? SOCRATE: Che se questo bene fosse sempre presente negli esseri viventi, in ogni sua parte e dappertutto, dì nient'altro avrebbero ancora bisogno gli esseri viventi, ma basterebbero perfettamente a se stessi. Non è così ? PROTARCO: Sì, è così. SOCRATE: Non abbiamo provato, nel corso del nostro ragionamento, a separare una cosa dall'altra per quanto riguarda la vita di ciascuno, facendo in modo che il piacere non fosse mescolato all'intelligenza, e parimenti l'intelligenza non fosse mescolata al piacere, neanche in una minima parte. PROTARCO: Sì, era così. SOCRATE: E ci è sembrato allora che uno dei due bastasse a qualcuno? PROTARCO: E come? SOCRATE: Se in qualche cosa talvolta siamo usciti dal seminato, ora chiunque voglia tornarci sopra, ripeta il discorso in modo più corretto, considerando memoria e intelligenza, scienza e opinione veritiera come appartenenti alla medesima specie, e cercando di vedere se qualcuno senza di esse accetterebbe di avere o di entrare in possesso di qualsiasi cosa, dal momento che neppure il piacere si accetterebbe dì avere - non ha importanza se il sommo piacere o il più intenso - poiché non si riuscirebbe ad immaginarsi realmente il suo godimento, né sarebbe assolutamente possibile conoscere quale mai sia stata la disposizione d'animo provata, né si avrebbe memoria di essa e neppure di qualsivoglia unità di tempo. E si dica ugualmente dell'intelligenza, cioè se qualcuno, privato di ogni piacere, anche del più piccolo, accetterebbe di avere intelligenza piuttosto che accompagnarsi a certi piaceri, o avere tutti i piaceri separati dall'intelligenza piuttosto che accompagnarsi ad una intelligenza. PROTARCO: Non è possibile, Socrate, e su questo punto non si devono neppure fare molte domande. SOCRATE: Nessuno di questi due, allora, potrebbe essere la cosa più perfetta, preferibile per tutti, il sommo bene? PROTARCO: E come potrebbe? SOCRATE: Si deve cercare di cogliere il bene con chiarezza o anche un suo esemplare, affinché, come dicevamo, noi abbiamo a chi dare il secondo posto. PROTARCO: Quello che dici è giustissimo. SOCRATE: Non abbiamo già intrapreso una strada verso il bene? PROTARCO: Quale? SOCRATE: Se ad esempio un tale, cercando un uomo, chiedesse prima di tutto corrette informazioni sulla sua abitazione, su dove abita, sarebbe assai avvantaggiato nella sua ricerca. PROTARCO: E come no? SOCRATE: E ora un discorso ci ha indicato, così come anche in principio, di non cercare il bene nella vita non mescolata, ma in quella mescolata. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Vi è maggior speranza che quel che cerchiamo si manifesterà in ciò che viene mescolato bene o in ciò che non lo è? PROTARCO: Sì, vi è molta più speranza nel primo caso. SOCRATE: E allora pregando gli dèi, Protarco, operiamo questa mescolanza, e o Dionisio, o Efesto, (15) o qualcuno degli dèi si assuma l'onore di questa fusione. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: A noi, quasi fossimo coppieri, stanno innanzi delle fonti - come fonte stillante di miele si potrebbe rappresentare quella del piacere, mentre quella dell'intelligenza può paragonarsi a una sobria fonte senza vino da cui scaturisce acqua incontaminata e salubre - e dobbiamo cercare di mescolarle il meglio possibile. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Prima aspetta: faremmo bene a mescolare il piacere nella sua interezza con tutta quanta l'intelligenza? PROTARCO: Forse. SOCRATE: Ma non sarebbe sicuro agire così. Mi sembra di poter esprimere un'opinione sul modo meno pericoloso di mescolare. PROTARCO: Dimmi quale. SOCRATE: Vi era un piacere più vero per noi di un altro e un'arte più esatta di un'altra? PROTARCO: E come no? SOCRATE: Vi è differenza fra scienza e scienza, poiché l'una è rivolta a ciò che nasce e muore, l'altra è rivolta a ciò che non nasce né muore, e che è identica a se stessa e sempre si presenta allo stesso modo. Poiché miravamo alla verità, giudicammo che quest'ultima fosse più vera di quell'altra. PROTARCO: Certo, è giusto dire così. SOCRATE: Se allora vedessimo, avendo prima mescolato le parti più vere di ciascuna delle due, se tale mescolanza basti a procurarci la realizzazione della vita più desiderabile, oppure si abbia bisogno di qualcos'altro che non sia simile a quelle, che cosa diresti? PROTARCO: Mi sembra che potremo fare così. SOCRATE: Supponiamo che ci sia un uomo che rifletta sulla giustizia e su ciò che essa è, e che conosca una definizione che tenga dietro al pensiero, e che allo stesso modo compia un'analisi intorno alle altre cose fornite di esistenza. PROTARCO: Supponiamolo. SOCRATE: Basterà a costui possedere la scienza quando, essendo in grado di ragionare sul cerchio e sulla sfera in quanto entità divine, ma non conoscendo affatto questa umana sfera e questi cerchi, farà così uso, nella costruzione delle case, di quegli altri modelli e di quei cerchi perfetti? PROTARCO: Stiamo parlando di una condizione ridicola in cui ci verremmo a trovare, Socrate, se avessimo soltanto a che fare con le scienze divine. SOCRATE: Come dici? Allora dobbiamo mettere in comune e mescolare quell'arte che non fornisce garanzie né purezza e si basa su falsi modelli e nel contempo su falsi cerchi? PROTARCO: è necessario, se uno di noi vorrà almeno trovare ogni volta la strada di casa. SOCRATE: E stesso discorso vale per la musica allora, che poco fa dicevamo che è piena di congetture e di imitazioni, e che manca di purezza? PROTARCO: Mi sembra inevitabile, se la nostra vita dovrà essere pur sempre considerata tale. SOCRATE: Vuoi che, come un portinaio spinto e incalzato dalla folla, cedendo all'impeto di essa e spalancando tutte le porte, permetta che tutte le scienze si scaglino dentro e la più impura si mescoli con quella pura? PROTARCO: Non capisco, Socrate, quale sarebbe il danno se un tale volesse ottenere tutte le altre scienze essendo già in possesso delle scienze prime. SOCRATE: Lascio che tutte quante scorrano verso quello che assai poeticamente Omero chiama il "recipiente della mescolanza"? (16) PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Sono lasciate libere: e di nuovo si deve tornare alla fonte del piacere. Non ci fu possibile prima mescolare le parti dei piaceri veri con le parti delle scienze vere, così come avevamo pensato, ma per l'amore verso tutta la scienza abbiamo lasciato che queste convergessero in massa verso uno stesso punto, e che questo accadesse prima che si unissero ai piaceri. PROTARCO: è verissimo quello che dici. SOCRATE: E ora che noi due si decida anche sui piaceri, se dobbiamo lasciare andar liberi anche tutti questi in massa o se anche di questi dobbiamo liberare per primi quelli che per noi sono veri. PROTARCO: Per sicurezza è molto meglio liberare per primi i piaceri veri. SOCRATE: Siano liberi. Che accade, dopo? Se ve ne sono di necessari, come nell'altro caso, non sono anche questi da mescolare? PROTARCO: E perché no? Certamente anche quelli necessari. SOCRATE: E se adesso ripetiamo per i piaceri le cose già dette per le arti - cioè che non era dannoso, ma anzi vantaggioso per la vita dell'uomo conoscerle tutte quante - dobbiamo mescolarli tutti, se è vero che il loro godimento costituisce nel corso dell'esistenza un vantaggiO e non è senz'altro un danno per noi tutti. PROTARCO: In quali termini dunque possiamo parlare di questi? E come dobbiamo comportarci? SOCRATE: Non devi domandarlo a noi, Protarco, ma ai piaceri e alle intelligenze stesse: così chiedendo su questo punto informazioni degli uni avremo notizie delle altre, e viceversa. PROTARCO: Su quale punto? SOCRATE: «Amici, sia che bisogna chiamarvi piaceri, sia che bisogna darvi un altro nome, accettereste di abitare con l'intelligenza presa nella sua interezza oppure separati da essa?». Penso che a queste domande risponderanno necessariamente così. PROTARCO: Come? SOCRATE: Come fu detto in precedenza: «Non è possibile né vantaggioso ammettere l'esistenza di un genere puro che sia unico e isolato: fra tutti i generi pensiamo che l'unico migliore e che possa convivere con noi al posto di qualsiasi altro sia quello del conoscere sia tutte le altre cose sia ciascuno di noi nella massima perfezione possibile». PROTARCO: «Ora avete detto bene», diremo. SOCRATE: Giustamente. E dopo questa domanda si deve tornare a interrogare di nuovo l'intelligenza e la mente: «Nel corso della fusione avete bisogno di qualcuno fra i piaceri?», potremmo domandare interrogando la mente e l'intelligenza. «E di quali piaceri?», essi forse direbbero. PROTARCO: Una replica verosimile. SOCRATE: Dopo queste domande il nostro discorso suona così : «Oltre a quei piaceri che sono veri», diremo, «avete bisogno di avere come vicini di casa anche i piaceri più grandi e quelli più intensi?» «E come faremmo, Socrate», risponderebbero forse, «dal momento che quei piaceri rappresentano per noi una innumerevole serie di ostacoli sconvolgendo le anime in cui noi abitiamo mediante la follia, e non ci lasciano avere origine, ma annientano completamente ciò che da noi è stato generato, determinandone mediante la negligenza l'oblio? Ma riguardo a quei piaceri che tu dici che sono veri e puri, ritienili pressoché nostri vicini di casa, e oltre a questi quelli che si accompagnano alla salute e alla moderazione, e tutti quelli che essendo compagni della virtù quasi come di un dio ad essa si accompagnano, a questi, allora, mescolaci. Per quanto riguarda invece quelli che sempre si accompagnano alla dissennatezza e alle altre malvagità sarebbe una grave assurdità che li mescolasse alla mente colui che, osservando la mescolanza e la fusione più bella e meno esposta a sconvolgimenti, volesse tentare di capire in essa quale mai sia il bene che sia generato nell'uomo e nel tutto, e quale mai sia il tratto distintivo che per esso si deve supporre». Non diremo che questa risposta della mente su essa stessa, sulla memoria, e sulla corretta opinione, è giusta e ragionevole? PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Ma anche questa cosa è necessaria, e altrimenti nulla mai potrebbe nascere. PROTARCO: Che cosa? SOCRATE: Ciò a cui non mescoleremo la verità non potrebbe mai generarsi né essere stato generato veramente. PROTARCO: E come potrebbe infatti? SOCRATE: Affatto. Ma se a questa fusione serve ancora qualcosa, ditelo tu e Filebo. Per quanto mi riguarda, mi sembra che l'attuale discorso sia stato realizzato quasi come un cosmo incorporeo preposto a guidare bene un corpo animato. PROTARCO: Puoi dire, Socrate, che anch'io ho la penso così. SOCRATE: E forse diremmo in modo corretto se in qualche modo affermassimo che adesso siamo già davanti alle porte della dimora del bene? PROTARCO: Mi sembra di sì. SOCRATE: Che cosa in questa fusione ci potrebbe sembrare più ragguardevole e nello stesso tempo responsabile della generazione di tale disposizione di vita a noi tutti gradita? Dopo aver osservato ciò, analizzeremo se questa cosa sia assolutamente più affine e più connaturata al piacere o alla mente. PROTARCO: Giusto. è assai conveniente per il nostro giudizio. SOCRATE: E non è difficile scorgere la causa per cui ogni mescolanza, quale essa sia, o è degna di grande stima o di nessuna affatto. PROTARCO: Come dici? SOCRATE: Nessuno degli uomini ignora questo fatto. PROTARCO: Quale fatto? SOCRATE: Che ogni fusione - quale che sia e comunque avvenga - se non possiede la natura di ciò che è misura e di ciò che è proporzione distrugge di necessità gli elementi che vi sono mescolati e se stessa prima di tutto: e non si tratta di fusione, ma di una congerie non veramente mescolata tale da diventare ogni volta una vera e propria sventura per coloro che la posseggono. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Ora la potenza del bene ci è sfuggita verso la natura del bello: misura e proporzione accade che corrispondano dovunque alla bellezza e alla virtù. PROTARCO: Certamente. 5OCRATE E la verità dicevamo che è loro mescolata nella fusione. PROTARCO: Certamente. SOCRATE: Se dunque non con un solo tratto distintivo, ma con tre possiamo cogliere il bene, ovvero con la bellezza, la proporzione e la verità, diciamo che tutto questo, come fosse un'unità, possiamo a buon diritto ascriverlo fra le cause di quel che avviene nella mescolanza, e per il fatto che questa causa corrisponde al bene, essa risulta tale. PROTARCO: Giustissimo. SOCRATE: Ormai, Protarco, chiunque di noi può giudicare sul piacere e sull'intelligenza, e dire quale dei due sia più connaturato all'ottimo bene e più degno di onori fra gli uomini e fra gli dèi. PROTARCO: è chiaro, tuttavia è meglio giungere alla fine del ragionamento. SOCRATE: Giudichiamo allora il piacere e l'intelligenza secondo ciascuno di quei tre tratti distintivi: dobbiamo vedere a quale dei due ciascuno di essi è secondo noi più affine. PROTARCO: Parli della bellezza, della verità, della proporzione? SOCRATE: Sì. Prima di tutto prendi la verità, Protarco: e presala, dopo aver rivolto lo sguardo a quelle tre, mente, verità, e piacere, rispondi a te stesso, prendendoti anche un po' di tempo, se il piacere o la mente sia più affine alla verità. PROTARCO: Perché c'è bisogno di tempo? Sono assai differenti, io credo. Fra tutte le cose il piacere è, come si dice, il ciarlatano per eccellenza, e nei piaceri che riguardano l'amore, che sembrano essere i più importanti, anche il giurare il falso ottiene indulgenza da parte degli dèi, quasi che i piaceri fossero come bambini e non possedessero neanche in minima quantità la facoltà di pensiero. La mente, in realtà, o è identica alla verità, o fra tutte è la cosa che più le assomiglia, la più veritiera. SOCRATE: Allo stesso modo dopo di ciò considera la proporzione, ovvero se il piacere ne possiede di più dell'intelligenza, oppure l'intelligenza più del piacere. PROTARCO: Anche questa ricerca che mi hai messo davanti è facile: credo che non si possa trovare fra le cose che sono dotate di esistenza nulla che è stato generato in modo più riluttante alla proporzione del piacere e del godimento, e nulla di più proporzionato della mente e della scienza. SOCRATE: Hai detto bene. Tuttavia dimmi anche a proposito del terzo tratto distintivo. Per noi la mente partecipa della bellezza in misura maggiore del genere del piacere, sicché la mente è pì u bella del piacere, oppure il contrario? PROTARCO: Ma mai nessuno, Socrate, né sveglio né in sogno, non vide né immaginò in alcun modo la bruttezza dell'intelligenza e della mente né in passato, né ora, né in futuro. SOCRATE: Giustamente. PROTARCO: Qualora noi vediamo che una persona qualunque gode dei piaceri, e dei più grandi, e vedendo o il loro aspetto ridicolo, o quello fra tutti più turpe che ad essi si accompagna, noi stessi ci vergognamo e oscurandoli li nascondiamo per quanto possiamo, lasciandoli tutti alla notte, quasi non dovessero vedere la luce del giorno. SOCRATE: Dirai in ogni luogo, Protarco, facendolo dire dai messi e spiegandolo ai presenti, che il piacere non è il possesso che si deve conseguire per primo e nemmeno per secondo, ma che il primo bene consiste nella misura, nella proporzione, nell'opportunità, e in tutto quanto bisogna ritenere che sia simile a questo e abbia assunto la natura dell'eterno. PROTARCO: Mi sembra sia così, secondo quanto detto ora. SOCRATE: Il secondo riguarda proporzione, bellezza, perfezione, sufficienza e tutto quanto appartiene a questo genere. PROTARCO: è verosimile. SOCRATE: E come terzo, secondo la mia congettura, se considererai la mente e l'intelligenza, non ti allontanerai molto dalla verità. PROTARCO: Può darsi. SOCRATE: E quarte non sono le cose che abbiamo stabilito appartenessero all'anima stessa, ovvero le scienze, le arti, le opinioni che vengono definite giuste, e che sono al quarto posto dopo quelle tre, se è vero che sono più affini al bene che al piacere? PROTARCO: Può darsi. SOCRATE: E come quinti non abbiamo considerato i piaceri che abbiamo definito non dolorosi, e che, essendo puri, attribuimmo all'anima stessa, seguendo gli uni le scienze, gli altri le sensazioni? PROTARCO: Forse. SOCRATE: «Alla sesta stirpe», dice Orfeo (17), «fate cessare l'ordine del canto». Può darsi che anche il nostro discorso sia cessato alla sesta sentenza. Dopo di ciò non ci rimane che assegnare una conclusione alle parole dette. PROTARCO: è necessario. SOCRATE: Coraggio, pregando Zeus Salvatore, riprendiamo per la terza volta lo stesso discorso. PROTARCO: E quale? SOCRATE: Filebo identificava per noi il bene con una forma di piacere completa e assoluta. PROTARCO: Per la terza volta, Socrate, mi sembra che tu dicevi poco fa: allora dobbiamo riprendere dal principio il discorso. SOCRATE: Sì, ma ascoltiamo quel che segue. Quanto a me, vedendo quel che ora ho passato in rassegna, e disapprovando non solo il discorso di Filebo, ma anche i discorsi che fanno spesso innumerevoli altre persone, affermavo che la mente è di gran lunga migliore del piacere e più vantaggiosa per la vita umana. PROTARCO: Sì, era così. SOCRATE: Sospettando che esistessero molti altri beni, dicevo che se fosse apparso qualcosa migliore di queste due, avremmo combattuto insieme a favore della mente contro il piacere per il secondo premio, e il piacere sarebbe rimasto privo anche di questo. PROTARCO: Così dicevi SOCRATE: Dopo di ciò, risultò in maniera adeguata che nessuna di queste due sarebbe stata la più autosufficiente fra tutte. PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Dunque nel corso di questa discussione sia la mente, sia il piacere non sono stati liberati dall'essere considerati l'uno e l'altro di quei due il bene, essendo stati entrambi privati dell'indipendenza assoluta e di quella facoltà propria di ciò che è autosufficiente e compiuto? PROTARCO: Verissimo. SOCRATE: Quando è apparso un terzo bene più potente di ciascuna di queste due, la mente e allora risultata infinitamente più simile e più affine per natura del piacere al carattere del vincitore. PROTARCO: E come no? SOCRATE: Così secondo la valutazione che ora il discorso ha espresso, la potenza del piacere andrebbe al quinto posto. PROTARCO: è verosimile. SOCRATE: Prima ancora osserviamo che tutti i buoi, i cavalli, e tutti quanti gli altri animali negherebbero quel che diciamo, poiché inseguono il godimento prestando loro fede, come gli aruspici agli uccelli, molti giudicano che i piaceri siano assai utili per il nostro vivere bene e ritengono che gli amori delle bestie rappresentino una testimonianza più convincente di quegli amori coltivati dai ragionamenti che ogni volta vengono rivelati nella musa della filosofia. PROTARCO: Noi tutti ormai affermiamo che quanto è stato detto da te è verissimo. SOCRATE: Allora mi lasciate andare? PROTARCO: Rimane ancora un'inezia, Socrate: non vorrai rinunciare prima di noi, anzi, ti ricorderò ciò che è stato tralasciato.

Traduzione di Patrizio Sanasi

NOTE
1) I nomi di Protarco e di Filebo sono sconosciuti, benché più avanti Socrate si rivolga a Protarco con l'appellativo «figlio di Callia». Quanto all'ambientazione del dialogo Platone non ci fornisce notizia alcuna, ma noi siamo verosimilmente indotti a credere che si svolga a casa di Filebo o di Protarco.
2) Afrodite è la dea greca dell'amore, della bellezza e della felicità, che Filebo associa all'idea del piacere.
3) Allusione a Prometeo, antico e popolare semidio spesso contrapposto a Zeus per la sua astuzia, venerato dagli artigiani dell'Attica per aver rubato il fuoco che Zeus aveva celato agli uomini (cfr. a questo proposito Esiodo, Theogonia, 562 e seguenti).
4) Teuth, dio egiziano inventore delle arti e della scrittura (quest'ultimo aspetto viene sviluppato nel Fedro).
5) All'Afrodite che per Filebo è soltanto sinonimo di piacere Socrate contrappone l'Afrodite che si unisce in nozze con Ares dando alla luce Armonia (cfr. ancora Esiodo. Theogonia 933-937 e 975).
6) «Terra!» era l'esclamazione dei naufraghi dispersi in mare, come dirà Socrate subito dopo. Ma acqua, aria, terra e fuoco erano per i presocratici del settimo e sesto secolo i princì pi di tutto l'essere. L'allusione a queste antiche dottrine filosofiche si intreccia così con l'esclamazione dei marinai colti in mare da una tempesta in un gioco di parole.
7) Si pensa che Platone si riferisca ad Antistene (455-360 a.C.), fondatore della scuola cinica, per il quale la maggior parte dei piaceri è ingannevole e non contribuisce alla felicità, o a Speusippo (407-339 a.C.), che successe a Platone medesimo alla guida dell'Accademia dal 347 al 339, per il quale il piacere non è né buono né cattivo in sé.
8) Vedi nota 10 9) Iliade Libro 18, versi 107-108. Sono le parole straziate che Achille rivolge alla madre Teti dopo aver appreso la morte dell'amico Patroclo.
10) Si allude ai due precetti morali che secondo la tradizione erano scolpiti nel tempio di Delfi: «Conosci te stesso» ed «Evita l'eccesso», precedentemente incontrato (nota 8).
11) Il termine sembra indicare ironicamente teorie inaccettabili ma raffinate, e dunque degne di essere prese in considerazione. Forse si tratta di Aristippo di Cirene, maestro di retorica e fondatore della scuola cirenaica vissuto nella prima metà del quarto secolo, il quale anticipò l'epicureismo sostenendo che il piacere dei sensi era il fine ultimo della vita.
12) Passo di difficile comprensione: si tratta della distinzione di generazione e di sostanza di cui Socrate sta esponendo le tesi in relazione al concetto di piacere.
13) Ovvero il piacere corrisponde alla generazione.
14) Gorgia di Lentini (483-370 a.C.), maestro di retorica, giunto per la prima volta ad Atene nel 427 in occasione di un'ambasceria, girava le città della Grecia insegnando, dietro compenso, l'arte del costruire discorsi. Le sue lezioni, come del resto quelle degli altri sofisti, avevano uno scopo eminentemente pratico.
15) Dionisio, figlio di Zeus e di Semele (cfr. ancora Esiodo, Theogonia, 940 e seguenti) è qui ricordato perché è associato al vino che non veniva bevuto puro, ma mescolato con miele ed acqua. Efesto, il dio zoppo del fuoco e delle fucine, venerato in Grecia come dio degli artigiani, viene invece associato alla fusione dei metalli.
16) Iliade Libro 4, verso 452.
17) Cantore mitico, figlio della musa Calliope e di Apollo, e sposo di Euridice. Il mito narra che egli fosse dotato di qualità artistiche così straordinarie al punto che il suo canto muoveva gli alberi e le pietre.

Eugenio Caruso 03-01-2020

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