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Epicuro, una delle menti più fine dell'antichità

«Ogni amicizia è desiderabile di per sé anche se ha avuto il suo inizio dall'utilità.» (Epicuro).

GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti, pensatori e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

GRECI E LATINI

Anassagora - Anassimandro - Anassimene - Aristofane - Aristotele - Cicerone - Democrito - Diogene - Empledoche - Epicuro - Eraclito - Eschilo - Euclide - Euripide - Lucrezio - Ovidio - Pitagora - Platone - Seneca - Socrate - Solone - Talete - Zenone -

Epicuro ( Samo, 10 febbraio 341 a.C. – Atene, 270 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Fu discepolo dello scettico democriteo Nausifane e fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana, l'epicureismo, che si diffuse dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C., quando, avversato dai Padri della Chiesa subì un rapido declino, per essere poi rivalutato secoli dopo dalle correnti naturalistiche dell'Umanesimo, del Rinascimento e dal razionalismo laico illuminista.

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Busto di Epicuro (Pergamonmuseum, Berlino)

Nato nel 341 a.C., del terzo anno della 109ª Olimpiade, sotto l'arcontato di Sosigene (342-341) sull'isola di Samo. Figlio di Neocle, un maestro di scuola, e di Cherestrata, un'indovina, fu chiamato Epicuro (che significa pressappoco "soccorritore") in onore di Apollo (questo era uno degli epiteti del dio). Frequentò la scuola di Panfilo, seguace del pensiero platonico, e successivamente quella del democriteo Nausifane a Teo, località sulle coste dell'Asia Minore.
All'età di 32 anni, dopo avere elaborato una sua dottrina, fondò la sua scuola, prima a Mitilene e a Lampsaco, e infine nel 306 a.C. ad Atene, dove aveva già vissuto per il servizio militare, il cosiddetto periodo di "efebato", richiesto anche agli abitanti di Samo. L'isola era infatti stata parte integrante della vecchia lega delio-attica, e inoltre il padre era originario proprio di Atene, essendo uno dei coloni mandati nel 352 a.C., il che faceva di Epicuro un cittadino ateniese a tutti gli effetti. Pochi anni dopo gli ateniesi di Samo saranno tutti cacciati a opera dei vecchi abitanti, che avevano perso la loro isola dopo una guerra contro Atene Epicuro, i fratelli e il fedele schiavo dovettero viaggiare per avere un luogo dove risiedere in pace, al riparo dalle persecuzioni che i platonici avrebbero fomentato.
Acquistò quindi una casa ad Atene, per ottanta mine, dove istituì la scuola. La casa era dotata di un giardino ( da cui il nome di "filosofia del giardino" dato all'epicureismo, "filosofi del giardino" i seguaci) dove i discepoli, tra i quali anche donne, come la famosa etera Leonzia, e persino schiavi, seguivano le lezioni del maestro e ne studiavano gli scritti, vivendo, come lui stesso, in maniera semplice e frugale, trattati come compagni e in maniera democratica, qualunque fosse la condizione sociale. Fu uno dei primi filosofi a teorizzare un egualitarismo sostanziale fra gli esseri umani. Anche i suoi tre fratelli si dedicarono con lui alla filosofia. Sebbene fosse assertore della non partecipazione alla vita sociale e politica, sostenne il governo macedone.
La filosofia della scuola del "giardino" era in polemica con le dottrine socratico-platoniche e con l'aristotelismo, ma anche con le scuole minori come i cinici, i megarici, i cirenaici e con lo stoicismo, l'altra grande scuola ellenistica, che stava iniziando a diffondersi proprio in quel periodo. Secondo Diogene Laerzio, lo stoico Diotimo mise in circolazione false lettere per diffamarlo, così come lo diffamarono anche Plutarco e molti altri esponenti delle scuole rivali.

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Epicuro, copia romana di un originale greco (conservata al Museo Nazionale Romano).


Epicuro morì ad Atene di calcoli renali e per le relative complicanze (probabilmente per grave infezione delle vie urinarie), all'età di settantadue anni circa, nel secondo anno della 127ª Olimpiade, sotto l'arcontato di Pitarato (271-270), quindi probabilmente tra febbraio e dicembre del 270 a.C.. Epicuro scrisse una lettera, della quale rimane un frammento, ad Ermarco poco prima della morte:

«Epicuro a Ermarco, salute. Volge per me il supremo giorno. Così acuti sono i dolori alla vescica e alle viscere, che più oltre non può procedere il dolore. Pure a essi s'adegua la gioia dell'animo mio, nel ricordare le nostre dottrine e le verità da noi scoperte. Ora tu, come si conviene a chi si mostrò sempre buono verso me e verso la filosofia, abbi cura dei figli di Metrodoro. (...)

Morì di calcoli renali dopo quattordici giorni di malattia, come scrive Ermarco nelle lettere. Ermippo riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d'un fiato. Dopo aver raccomandato agli amici di non dimenticare il suo pensiero, spirò. Noi abbiamo scritto per lui questo epigramma:

«"Siate felici e memori del mio pensiero", furono le ultime parole di Epicuro agli amici. Entrato nel calore della tinozza, con uno stesso sorso bevve vino puro e il freddo della morte. Tale fu la sua vita e tale la sua fine.»» (Diogene Laerzio)

Opere

Dei numerosi testi di Epicuro ci è stato tramandato pochissimo: Diogene Laerzio, al quale dobbiamo un elenco delle opere del filosofo, riferisce che molte delle opere epicuree erano trattati di alto livello scientifico, volti ad affrontare in modo sistematico lo studio della natura come Degli Atomi e del vuoto e in particolare il Della Natura (il titolo sarà poi ripreso da Lucrezio per il suo poema) in 37 libri dei quali sono stati ritrovati frammenti nella villa dei papiri di Ercolano, dove visse il filosofo epicureo Filodemo di Gadara, la cui biblioteca fu riportata alla luce negli scavi del 1750. Grazie a una parte dei frammenti ritrovati si è potuto ricostruire una discreta porzione dell'opera, da più libri; perduto anche "Sul Criterio o Canone" che probabilmente era un testo di logica.

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Statua antica di Epicuro.


Epistolario
Quanto ci resta sono tre lettere di carattere divulgativo, come dice lo stesso Epicuro, il che rende difficile la ricostruzione precisa della sua dottrina. Quasi tutto quello che abbiamo lo dobbiamo proprio a Diogene Laerzio, che nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi include tre epistole dottrinali complete, inviate ad amici e discepoli (Erodoto, Meneceo e Pitocle): la Lettera a Erodoto, in cui esprime il suo pensiero sulla fisica; la Lettera a Meneceo, che tratta di etica; la Lettera a Pitocle, sulla conoscenza.
Lo stesso Diogene Laerzio riferisce di altre lettere, riportandone frammenti dopo la sua biografia: una, ad esempio, indirizzata a Leonzio, un'altra alla madre Cherestrata, dove si tratta dei sogni; a Polieno di Lampsaco, come attesta Lucio Anneo Seneca, e sono note ancora, da altre fonti, lettere a Ermarco, all'allieva Temista, a Idomeneo di Lampsaco, a Colote. Frammenti di alcune lettere sono stati parzialmente ritrovati nelle iscrizioni fatte riprodurre da Diogene di Enoanda, epicureo del II o III secolo d.C., su una parete del portico della sua città natale, per oltre, fino al 1987, 209 frammenti, in particolare della Fisica e dell'Etica.

Altre opere
Di altre opere citate dalle fonti abbiamo frammenti più o meno estesi Su scelte e cose da evitare (2 frammenti nell'edizione classica di Usener); Dichiarazioni (un frammento); Antidoro, in 2 libri (un frammento); Sulla regalità (2 frammenti); Sui tipi di vita, in 4 libri (9 frammenti); Contro Democrito (2 frammenti); Problemi (4 frammenti); Sui doni e la gratitudine (un frammento); Sul destino (un frammmento); Grande Epitome (3 frammenti); Piccola Epitome (un frammento); Temista (un frammento); Contro Teofrasto (almeno 2 libri, per 2 frammenti); Sugli dei (4 frammenti); Sul criterio, o il canone (due frammenti); Metrodoro, in 5 libri (1 frammento); Sulla Santità (3 frammenti); Teorie sulle passioni, contro Timocrate (un frammento); Sulla ricchezza (4 frammenti); Sulla retorica (12 frammenti); Dottrina degli elementi (12 libri, un frammento); Simposio (9 frammenti); Sul fine (6 frammenti); Timocrate, in 3 libri (2 frammenti).
Massime e testimonianze indirette
Diogene riporta sempre le Massime capitali, estratto divulgativo dalle opere maggiori (40 massime) e in altra tradizione manoscritta è giunto lo Gnomologio Vaticano epicureo, altra compilazione divulgativa. Certe massime di Epicuro sono ricordate anche da altri filosofi e scrittori, ad esempio nei Colloqui con sé stesso dell'imperatore romano Marco Aurelio che, pur essendo uno stoico, parla con molto rispetto e attenzione di lui.
Tuttavia la maggior parte delle informazioni sulla filosofia epicurea ci viene dalle fonti indirette, tra cui merita una menzione particolare Cicerone, che in gioventù era filosoficamente vicino all'epicureismo, e nel suo trattato De finibus bonorum et malorum fa esporre da un interlocutore (Torquato) una descrizione sistematica del pensiero di Epicuro e dei suoi discepoli, grazie alla quale viene alla luce uno spessore filosofico non evidente nei frammenti a noi pervenuti. Inoltre il poema De rerum natura di Lucrezio ci restituisce un'immagine fondamentale della filosofia epicurea, sebbene non si possa trascurare l'indubbia componente di originalità dell'autore, che è più pessimista rispetto ad Epicuro (oltre ad essere molto più critico nei confronti della religione, al limite dell'ateismo), così come interessanti sono i frammenti degli scritti di Filodemo ritrovati nella citata villa dei papiri a Ercolano. Descrizioni di concetti epicurei si trovano anche in alcune poesie di Quinto Orazio Flacco, poeta romano della corte di Augusto, ma di ispirazione epicurea.
In ogni caso, nel rifarsi alla tradizione indiretta bisogna ricordare che queste opere, per quanto attendibili, presentano una componente di parzialità dovuta al coinvolgimento sociale e politico degli autori, sia che l'intento fosse polemico (Cicerone o anche Plutarco) o celebrativo (Lucrezio), che deve essere tenuto in considerazione se si vuole cercare di comprendere il più possibile il pensiero originale di Epicuro.
Il pensiero

«Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi.» (Epicuro, Lettera sulla felicità (a Meneceo), 125, traduzione di Angelo Pellegrino, Stampa alternativa, Milano 1992.)

Canonica
Come prima cosa nella Lettera a Erodoto, Epicuro sottolinea come sia importante avere un modello di riferimento, una teoria, diremmo oggi, nella quale inquadrare i fenomeni studiati, e questo è possibile solo se si «riduce il complesso della dottrina in elementi e definizioni semplici». Egli chiama questo metodo di ricerca, preliminare alla ricerca stessa, "canonica", ovvero «scienza del canone» che indica i principi fondamentali del pensare e dell'agire canonica deriva infatti dalla parola "canone" (dal greco "canna", in latino canon -onis, termine che indicò originariamente la canna, e quindi il regolo usato dagli artigiani per eseguire misure). La canonica quindi vuole stabilire le regole del pensare. Le regole indicate dalla logica aristotelica sono, secondo Epicuro, delle semplici parole che di per sé non servono per chi vuole elaborare una teoria fisica, che dovrà invece ricorrere all'esperienza sensibile, tradotta in un modello che deve essere alla base di una scienza della natura.
Il concetto di modello è effettivamente ciò che ha reso potente la scienza moderna, modello come qualcosa che si usa per spiegare la realtà, ma che non è la realtà: cioè un fenomeno può essere spiegato da un modello, ma non è il modello, anzi, un fenomeno può anche essere spiegato con modelli diversi, la cosa importante è che i diversi modelli siano in accordo con i dati sperimentali. Dice Epicuro nella Lettera a Pitocle:

«non bisogna infatti ragionare sulla natura per enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazione di principi teorici, ma in base a ciò che l'esperienza sensibile richiede.»

Questa sarà poi la base teorica della scienza sperimentale.
Fisica
Epicuro riprende nella fisica la teoria atomistica – secondo la quale l'entità fondamentale della materia, l'atomo, esiste da sempre – di Democrito e Leucippo. Quest'ultimo, secondo le affermazioni di Epicuro riportate da Diogene Laerzio, non sarebbe mai esistito, ma viene clamorosamente smentito dai suoi stessi allievi in ambito campano. Nei Papiri Ercolanensi, infatti, si parla di Leucippo e gli si attribuisce la Grande cosmologia negandola a Democrito, che se ne sarebbe preso arbitrariamente la paternità.
La novità introdotta da Epicuro rispetto a Leucippo sta però nel fatto che egli non considera più la forma degli atomi ma il loro peso. Mentre per Leucippo il moto vorticoso degli atomi permetteva lo scontro e la formazione dei corpi, per Epicuro gli atomi, indeterminati di numero ma pur sempre finiti, eternamente si muovono per il loro stesso peso seguendo un percorso rettilineo per linee parallele in un vuoto a sua volta infinito.
Questa concezione del moto degli atomi avrebbe comportato l'impossibilità dell'incontro degli atomi e la loro aggregazione nei corpi. Epicuro allora introduce nella sua teoria il fenomeno della deviazione (in greco parenklisis, declinazione, inclinazione; in latino clinamen) casuale che interviene nella caduta in verticale degli atomi facendoli deviare dal loro percorso verticale determinandone così collisioni in base alle quali questi possano aggregarsi originando i corpi estesi.
Su questa sorta di pioggia degli atomi l'intervento della deviazione può interrompere il fenomeno naturale che si stava formando dando luogo ad un altro diverso effetto. Nella causalità meccanica e deterministica della natura Epicuro salva così l'elemento della casualità nella formazione degli eventi naturali.
Su sensazione e prolessi
Importante è anche la teoria della sensazione che il filosofo tratteggia. Gli stimoli sensoriali dei corpi sono il prodotto di "simulacri" (pellicole atomiche che si distaccano continuamente dai corpi conservandone la configurazione) che toccano gli organi di senso del soggetto percipiente, in particolare la vista. Scrive Epicuro:

«La visione che in tal modo otteniamo, sia della forma, sia delle sue affezioni, per un atto di apprensione della mente o dei sensi, è la forma stessa del corpo solido risultante dalla presenza compatta del simulacro o dai residui di esso.»

Nel processo conoscitivo l'uomo si avvale della prolessi, un'anticipazione delle future conoscenze originata dalle particolari esperienze sensibili fatte in passato e di cui conserviamo il ricordo che applichiamo ai dati empirici in atto.

«Non potremmo ricercare ciò che è oggetto della nostra ricerca se prima non ne avessimo avuto conoscenza. [Grazie infatti alla prolessi] si pensa ai caratteri di ciò in base alle precedenti sensazioni.»

Epicuro avverte che la sensazione che ricaviamo con la prolessi di per sé è sempre vera (ad esempio un ramo che immerso nell'acqua appare spezzato) l'errore dipende dal giudizio successivo che noi le attribuiamo.

«Così non direi che la vista ci inganna quando da una grande distanza vede una torre piccola e rotonda, da vicino grande e quadrata, ma che è verace, sia quando l'oggetto appariva piccolo e di quella particolare forma, poiché veramente era tale essendosi consunti i contorni dei simulacri durante il movimento attraverso l'aria, sia quando invece grande e di forma diversa, poiché anche allora aveva tali caratteri; poiché l'oggetto non era lo stesso in ambedue i casi. Questo infatti è lasciato alla falsa opinione, pensare che la cosa che causava rappresentazioni fosse la stessa, sia vista da vicino che da lontano.»

Il linguaggio
Per quanto concerne il linguaggio, riallacciandosi alle teorie di Prodico di Ceo, dei sofisti e di Platone nel suo Cratilo, Epicuro ritiene che il linguaggio abbia aspetti naturali e insieme convenzionali.
Rimanendo nell'ambito del suo atomismo egli pensa che, come accade per i corpi che sono diversi a seconda degli atomi che li hanno formati, così dall'incontro di "atomi linguistici", che esistono per natura e che sono gli stessi per tutti gli uomini, nascano diversi linguaggi che si formano per convenzione.
In particolare egli ritiene che ogni sensazione si possa esprimere in un suono, in «soffio che batte». In base alle varie situazioni in cui gli uomini "soffiano" gli atomi linguistici, si verificano così diversi suoni che, convenzionalmente, formano nomi che sono diversi pur provenendo dalle stesse sensazioni. Non esistono quindi linguaggi inferiori come espressione di mancata civilizzazione, non ci sono lingue "barbare" ma queste sono tutte rappresentazioni della stessa razionalità che è alla base dei differenti modi convenzionali di esprimersi degli uomini.
La natura
Il pensiero scientifico di Epicuro presenta molti aspetti che ricordano il pensiero scientifico moderno, la cui nascita viene tradizionalmente fatta risalire a Galileo Galilei, ideatore del metodo sperimentale. Questo pensiero, come emerge anche nella versione organica tramandata da Lucrezio, anticipa con la sua versione dell'atomismo e dell'atomo indivisibile (da questo deriva il nome atomo dato alla particella della materia in fisica, anche se in realtà esso è divisibile in molte parti) perfino la moderna meccanica quantistica di 23 secoli dopo (e la fisica delle particelle, in cui il quanto è la rappresentazione di tutte le particelle indivisibili), verificata sperimentalmente; un esempio è l'esperimento di Rutherford del 1911, che provò che la materia era fatta per la maggior parte di vuoto, come sosteneva già l'epicureismo, inserendo questo concetto nella filosofia.
Etica
Nell'etica Epicuro riprende concettualmente l'edonismo dei Cirenaici, ma mentre per questi il piacere è dinamicamente inteso come continua ricerca del piacere, sempre goduto effimeramente, per Epicuro è statico, assicurato cioè dalla eliminazione del dolore, avvenuta una volta per tutte, procurando così la salute dell'anima non più costretta a un'affannosa ricerca del piacere. Un'anima che

«è una sostanza corporea composta di sottili particelle»

cioè di atomi molto mobili. Grazie a questa concezione egli libera l'uomo dalla paura della morte poiché, quando questa si verifica, il corpo, e con esso l'anima, ha già cessato di esistere e quindi cessa anche di provare sensazioni. Per questo motivo sarebbe stolto temere la morte come causa di sofferenza in quanto la morte è privazione di sensazioni.

epicuro 4

Etica della sobrietà


La teodicea
Inoltre egli affronta anche la questione degli dei che, secondo Epicuro, non si occupano dell'uomo in quanto vivono negli intermundia, cioè in spazi situati fra gli infiniti mondi reali, e del tutto separati da questi; essi perciò non hanno esperienza dell'uomo. Affronta quindi la questione del male rispetto agli dei e procede per gradi:
- Gli dei non vogliono il male, ma non possono evitarlo (gli dei risulterebbero buoni ma impotenti, non è possibile).
- Gli dei possono evitare il male, ma non vogliono (gli dei risulterebbero cattivi, non è possibile).
- Gli dei non possono e non vogliono evitare il male (gli dei sarebbero cattivi e impotenti, non è possibile).
- Gli dei possono e vogliono; ma poiché il male esiste allora gli dei esistono ma non si interessano dell'uomo. Questa è la conclusione che Epicuro considera vera: gli dèi sono indifferenti alle
vicende umane e si chiudono nella loro perfezione.
Tali considerazioni di tipo fisico, cosmologico e teologico spingono Epicuro a considerare la felicità come coincidente con l'assenza di paure e timori che condizionano l'esistenza in modo negativo. Ritiene inoltre che il male derivi dai desideri che, se non appagati, generano insoddisfazione e quindi dolore, che possono essere artificiali e naturali (necessari e non necessari). È inoltre doveroso aggiungere che il motivo per cui Epicuro afferma che gli dei si disinteressino dell'uomo è che essi, nella loro beatitudine e perfezione, non hanno bisogno di occuparsi degli uomini. Affermare che per gli dei sia necessario occuparsi di qualcosa, in questo caso degli uomini, significherebbe dare un limite al potere immenso degli dei, che, invece, non hanno bisogno di interessarsi della vita terrena.
Il «tetrafarmaco o quadruplice rimedio» Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, il mezzo, teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni passione irrequieta.

«Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura»

Propone quindi un "quadrifarmaco" capace di liberare l'uomo dalle sue quattro paure fondamentali:

Tetrafarmaco
Mali e relativa Terapia
1) Paura degli dei e della vita dopo la morte - Gli dei sono perfetti quindi, per non contaminare la loro natura divina, non si interessano delle faccende degli uomini mortali e non impartiscono loro premi o castighi.
2) Paura della morte - Quando noi ci siamo ella non c'è, quando lei c'è noi non ci siamo più
3) Mancanza del piacere - Esso è facilmente raggiungibile seguendo il calcolo epicureo dei bisogni da soddisfare, che saranno quelli fondamentali, e non quelli superflui
4) Dolore fisico - Se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare la gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale non è che assoluta insensibilità. Per quanto riguarda i mali dell'anima Epicuro afferma che essi sono prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali ci sono la filosofia e la saggezza.

Edonismo
Parte fondamentale dell'etica epicurea, comunque, è l'edonismo:

«Non si è mai troppo vecchi o troppo giovani per essere felici. Uomo o donna, ricco o povero, ognuno può essere felice.»

Epicuro ritiene che il sommo bene sia il piacere (edonè). È necessario comprendere a fondo questo termine; Epicuro distingue due fondamentali tipologie di piacere: piacere catastematico (statico) e piacere cinetico (dinamico). Per piacere cinetico si intende il piacere transeunte, che dura per un istante e lascia poi l'uomo più insoddisfatto di prima. Sono piaceri cinetici quelli legati al corpo, alla soddisfazione dei sensi. Lucrezio poi definirà questo piacere come "voluptas", cioè il piacere erotico e materiale ma non necessario al raggiungimento della felicità. Il piacere catastematico è invece durevole, e consta della capacità di sapersi accontentare della propria vita, di godersi ogni momento come se fosse l'ultimo, senza preoccupazioni per l'avvenire. La condotta, quindi, deve essere improntata verso una grande moderazione: meno si possiede, meno si teme di perdere.

«Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari, ma nati solo da vana opinione.»

Epicuro elabora una specie di catalogazione dei bisogni che se soddisfatti procurano eudemonia (letteralmente "star insieme a un buon demone", "serenità"):

- Bisogni naturali e necessari, come ad esempio bere acqua per dissetarsi: questi soddisfano interamente poiché essendo limitati possono essere completamente colmati.
- Bisogni naturali ma non necessari: come ad esempio per dissetarsi bere vino, certo non avrò più sete ma desidererò bere vini sempre più raffinati e quindi il bisogno rimarrà in parte insoddisfatto.
- Bisogni né naturali né necessari, come ad esempio il desiderio di gloria e di ricchezze: questi non sono naturali, non hanno limite e quindi non potranno mai essere soddisfatti.


Da qui nacque l'accusa dei padri della Chiesa cristiani che Epicuro suggerisse uno stile di vita rozzo e materiale, indegno dell'uomo; Dante, infatti, colloca i seguaci di Eoicuro all'inferno nella città di Dite tra gli eresiarchi. In realtà Epicuro non indica quali debbano essere i bisogni naturali e necessari da soddisfare, poiché è demandato alla ragione dell'uomo stabilire quali per lui siano i bisogni essenziali, naturali da soddisfare. Come è stato commentato, per Cesare, ad esempio, poteva essere ininfluente il bisogno di mangiare e bere, mentre era veramente naturale e necessario soddisfare il suo ineliminabile desiderio di gloria.
Epicuro paragona la vita a un banchetto (metafora poi ripresa dallo stoico Epitteto), dal quale si può essere scacciati all'improvviso. Il convitato saggio non si abbuffa, non attende le portate più raffinate, ma sa accontentarsi di quello che ha avuto ed è pronto ad andarsene appena sarà il momento, senza alcun rimorso. Il piacere catastematico è profondamente legato ai concetti di atarassia e aponia.

L'amicizia

«Ogni amicizia è desiderabile di per sé anche se ha avuto il suo inizio dall'utilità.»

Importante è quindi l'amicizia, intesa come reciproca solidarietà tra coloro che cercano insieme la felicità.

«Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia.»

«L'amicizia trascorre per la terra annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l'un con l'altro.»


L'amicizia sostituisce in un certo modo i rapporti sociali, poiché Epicuro contesta l'identificazione dell'uomo con il cittadino anche se riconosce l'utilità per la società delle leggi, che vanno rispettate poiché calpestandole non si può avere la certezza dell'impunità e quindi rimarrebbe il timore di un castigo, che turberebbe la serenità per sempre. La politica è «un inutile affanno»; l'uomo dovrà invece essere contento del vivere appartato, secondo la concezione epicurea del "vivere nascostamente" ("vivi nascosto", in greco antico, lathe biosas). Il disimpegno degli epicurei, che teorizzano una vita serena e ritirata, congiunto a una interpretazione superficiale del concetto epicureo di "piacere", ha portato nei secoli ad una visione distorta dell'epicureismo, spesso associato all'edonismo egoistico o a quello dei cirenaici, con cui nulla ha a che fare. La filosofia epicurea si distingue al contrario per una notevole carica "illuministica" e morale: insegna a rifiutare ogni superstizione o pregiudizio in una serena accettazione dei propri limiti e delle proprie potenzialità.
L'etica epicurea quindi, come l'utilitarismo, è stata anche definita consequenzialista poiché identificherebbe il bene a seconda degli effetti dei propri comportamenti. Questa interpretazione è stata contestata poiché si fonderebbe su una singola frase della Lettera a Meneceo non ripresa negli altri testi epicurei.
Gli animali e il vegetarianismo
Inoltre, Epicuro critica l'antropocentrismo aristotelico, pur non rigettando il primato umano sugli animali, e sostiene che tutti gli esseri viventi sono dotati di sensibilità e ricercano il piacere come gli uomini, cercando di evitare il dolore dunque, a differenza dei platonici, il suo rispetto verso la vita animale si fonda su basi sensistiche e non prettamente religiose o filosofiche.
Epicuro non prescrisse il vegetarianismo; tuttavia, almeno secondo la testimonianza del platonico Porfirio di Tiro, egli era personalmente vegetariano e spinse i discepoli al rispetto per gli animali e a una dieta priva di carni. Nei frammenti a noi pervenuti delle sue opere, Epicuro raccomanda più volte di cibarsi frugalmente, preferibilmente di pane, formaggio e acqua, come faceva lui stesso.
Fortuna
Epicuro, ancora in vita, aveva invitato i suoi discepoli a festeggiare il suo compleanno e aveva stabilito nel suo testamento che si continuasse a celebrarlo il decimo giorno di Gamelione, e che il ventesimo giorno di ogni mese gli epicurei si riunissero tra di loro per ricordare lui e il suo intimo amico Metrodoro. Plinio il Vecchio scrive che questa ricorrenza, poi chiamata "festa delle Icadi", era ancora celebrata nel I secolo d.C.
Questa sacralità del personaggio si ritrova nelle espressioni di Tito Lucrezio Caro, che chiamava Epicuro «un Dio». Nel poema De rerum natura scrive quattro "inni ad Epicuro" (detti anche "elogi" o "trionfi di Epicuro").

«E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.» (Lucrezio, La natura delle cose)

Nel II secolo d.C. Luciano di Samosata, sofista simpatizzante dell'epicureismo, si riferiva al maestro come «divino sacerdote della verità» e «liberatore di coloro che ne seguono le dottrine».
Epicuro venne screditato dalle scuole rivali, in primis dai platonici, e poi dai cristiani, a causa del suo materialismo e della teoria del piacere. Nel Medioevo la parola "epicureo" era sinonimo di "ateo, irreligioso ed eretico": in tal senso è usata da Dante Alighieri, che condanna come epicurei Cavalcante dei Cavalcanti (padre del suo collega Guido Cavalcanti), l'imperatore Federico II e Farinata degli Uberti (il quale probabilmente era in realtà un simpatizzante del catarismo); tutti e tre personaggi per cui prova stima umana e politica, ma che condanna dal punto di vista ideologico, mentre il materialista semplice Democrito è invece collocato stranamente tra i giusti pagani del Limbo, anche se biasimato per la sua teoria del mondo creato con casualità.
Saranno il Rinascimento umanistico, tranne le correnti neoplatoniche, e l'abate Pierre Gassendi nel XVII secolo, a rivalutare il suo pensiero. In particolare Gassendi, nel Syntagma philosophiae Epicuri del 1649 ("Compendio della filosofia di Epicuro"), interpretava la filosofia epicurea in senso cristiano e se ne serviva per respingere l'astratta metafisica cartesiana. Proponendolo come maestro di vita e di morale, attingeva al suo pensiero nella polemica anti-scolastica e anti-platonica. Nelle discussioni circa la nuova visione scientifica dell'universo affermava che l'atomismo epicureo, ponendo il vuoto, fosse l'unica filosofia compatibile con la realtà scientifica che si andava allora delineando. Epicuro è stato considerato come uno dei precursori anche dall'utilitarismo.
L'epicureismo fu, poi, stimato anche da vari intellettuali illuministi, come il barone d'Holbach e Julien Offray de La Mettrie (autore del Sistema di Epicuro), e in epoca successiva da Ugo Foscolo, >Giacomo Leopardi, Percy Bysshe Shelley, Karl Marx, Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche.


Massime Capitali di Epicuro

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Epicuro. Dipinto di Agostini Scilla

  1. L'essere beato e immortale non ha affanni, ne ad altri ne arreca; è quindi immune da ira e da benevolenza, perché simili cose sono proprie di un essere debole.
  2. La morte non è niente per noi. Ciò che si dissolve non ha più sensibilità, e ciò che non ha sensibilità non è niente per noi.
  3. Il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore. Dove sia il piacere, e per tutto il tempo che vi sia, non vi è posto per dolore fisico, o dell'anima, o per l'uno e l'altro insieme.
  4. Non dura ininterrottamente il dolore della carne; il suo culmine dura anzi un tempo brevissimo; e ciò che di esso appena oltrepassa il piacere non si protrae molti giorni nella nostra carne. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore.
  5. Non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, né saggiamente e bene e giustamente senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente, manca anche la possibilità di una vita felice.
  6. Al fine di procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini, anche i beni del comando e del regno sono beni secondo natura in quanto con tali mezzi si sia capaci di procurarsela.
  7. Alcuni vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini. Ammesso che in tal modo la loro vita sia diventata veramente sicura, essi hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro vita non lo è divenuta, non hanno raggiunto quel bene secondo natura sotto il cui impulso hanno agito fin dall'inizio.
  8. Nessun piacere   è di per se stesso un male: però i mezzi per procurarsi certi piaceri arrecano molti più tormenti che piaceri.
  9. Se ogni piacere si intensificasse nel suo luogo e nella sua durata, e pervadesse tutto il nostro composto o le parti più importanti del nostro essere, allora i piaceri non differirebbero gli uni dagli altri.
  10. Se le cose che danno luogo ai piaceri propri dei dissoluti fossero anche tali da liberarci dai timori dell'animo circa i fenomeni celesti, la morte, il dolore, e ci insegnassero quale sia il limite dei desideri, non avremmo niente da rimproverare a quelli: essi sarebbero infatti ricolmi di ogni piacere e non avrebbero mai da soffrire fisicamente o da affliggersi, nel che consiste appunto il male.
  11. Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte, ch'essa possa essere qualcosa che ci tocchi da vicino, e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo bisogno della scienza della natura.
  12. Non sarebbe possibile dissolvere ogni timore intorno alle cose di maggior importanza se non si sapesse quale sia la natura dell'universo, ma si vivesse in sospettoso timore delle cose che ci raccontano i miti; non sarebbe possibile cogliere i piaceri nella loro purezza senza la scienza della natura.
  13. Non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finche si continuasse a nutrire timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale nell'infinito.
  14. Se la sicurezza nei riguardi degli altri uomini deriva fino a un certo punto da una ben fondata situazione di potenza e ricchezza, la sicurezza più pura proviene dalla vita serena e dall'appartarsi dalla folla.
  15. La ricchezza secondo natura ha confini ben precisi ed è facile a procacciarsi, quella secondo le vane opinioni cade in un processo all'infinito.
  16. Poca importanza ha la sorte per il saggio, perché le cose più grandi e importanti sono governate dalla ragione, e cosi continuano e continueranno ad essere per tutto il corso del tempo.
  17. Il giusto è privo in assoluto di turbamento, mentre l'ingiusto è ricolmo del turbamento più grande.
  18. Non cresce il piacere della carne, ma solo subisce variazione, una volta che sia rimossa tutta la sofferenza che viene dal bisogno. Il limite dei piaceri che la ragione ci prescrive è prodotto dal calcolo razionale di questi stessi e di tutte le affezioni dello stesso tipo, che procurano all'anima i più grandi timori.
  19. Un tempo illimitato contiene la stessa quantità di piacere che uno limitato, quando i confini dei piaceri si valutino con retto calcolo.
  20. La carne non ammette limiti nel piacere, e il tempo che serve a procurarle tale piacere è anch'esso senza limiti. Ma il pensiero che ha appreso a ragionare intorno al fine e al limite di ciò ch'è pertinente alla carne, e che ha soppresso il timore dell'eternità, ci rende possibile una vita perfetta, per cui non sentiamo più l'esigenza di un tempo infinito: esso non rifugge dal piacere ne, quando le circostanze ci portano al momento di uscire dalla vita, può dire di andarsene avendo tralasciato qualcosa di ciò che rende questa ottima.
  21. Chi conosce i limiti della vita, sa che è facile rimuovere il dolore che proviene dal bisogno e ottenere ciò che rende la vita perfetta; sì che non ha affatto bisogno di tendere a cose che comportino lotta.
  22. Bisogna ben valutare il fine che ci è dato, e far sì di riportare tutte le nostre opinioni a una certezza evidente; o tutto quanto sarà pieno di insicurezza di giudizio e di turbamento.
  23. Se ti opporrai a tutte le sensazioni, non avrai più nemmeno criteri cui riferirti e perciò neanche modo di giudicare quelle che tu dici essere errate.
  24. Se rifiuterai una sensazione senza ben distinguere fra ciò ch'è dovuto a opinione, ciò che attende conferma, ciò ch'è presente con evidenza in base a sensazione o ad affezione o a un qualunque atto di intuizione rappresentativa della mente, finirai col confondere anche le altre sensazioni con opinione vana, e non riuscirai più ad usare alcun criterio di giudizio. E se nelle nozioni fondate sull'opinione tu farai valere ugualmente sia ciò che attende conferma sia ciò che non riceve conferma, non potrai sfuggire all'errore, perché non ti sarai liberato assolutamente dall'ambiguità nel giudizio circa la verità o falsità di una conoscenza.
  25. Se in ogni circostanza non rapporterai la tua azione al fine secondo natura, ma, nella scelta o nel rifiuto, ti indirizzerai ad altro fine, le tue azioni non saranno in coerenza con le tue parole.
  26. Tutti quei desideri che, se non esauditi, non arrecano vera sofferenza non sono necessari: il loro stimolo è tale da potersi annientare facilmente quando appaiano indirizzati a cose difficili a ottenersi, o siano tali da recare danno.
  27. Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia.
  28. La medesima persuasione che ci incoraggiò a credere che nessun male è eterno o lungamente duraturo ci fa anche ritenere che la sicurezza più grande che si attui nelle cose finite è quella dell'amicizia.
  29. Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari, ma nati solo da vana opinione.
  30. Fra i desideri naturali che, se non vengono soddisfatti, non danno luogo a vera sofferenza, ve ne sono di quelli in cui sussiste una forte tensione; e questi hanno origine da vana opinione: e ci è difficile dissiparli non per la loro propria natura, ma per le stolte credenze degli uomini.
  31. Il giusto fondato sulla natura è l'espressione dell'utilità che consiste nel non recare ne ricevere reciprocamente danno.
  32. Per tutti quegli esseri viventi che non ebbero la capacità di stringere patti reciproci circa il non recare ne ricevere danno, non esiste ne il giusto ne l'ingiusto; e altrettanto si deve dire per quei popoli che non poterono o non vollero stringere patti per non recare e non ricevere danno.
  33. La giustizia non esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto circa il non recare ne ricevere danno.
  34. L'ingiustizia non è di per sé un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo.
  35. Colui che fa qualcosa di nascosto contro i patti stipulati reciprocamente circa il non recare ne ricevere danno non può confidare di non essere scoperto, anche se per il presente ciò gli riesce infinite volte: non può mai sapere se riuscirà a non farsi scoprire fino alla sua morte.
  36. In senso generale il giusto è uguale per tutti, in quanto è un accordo di utilità reciproca nella vita sociale; ma a seconda della particolarità dei luoghi e delle condizioni risulta che non per tutti il giusto è lo stesso.
  37. Fra le cose che la legge prescrive come giuste, quella che è comprovata come utile dalle necessità dei rapporti sociali reciproci deve esser considerata come avente il requisito del giusto, sia essa la stessa per tutti o no; ma se si ponga una legge che non risulti coerente all'utilità nei rapporti reciproci, essa non possiede la natura del giusto. Se poi ciò che era utile secondo giustizia viene a decadere, pur avendo per un certo tempo corrisposto alla prenozione del giusto, ciò non vuol dire che non lo fosse durante quel tempo, se non ci si vuole turbare per vane chiacchiere ma guardare sostanzialmente ai fatti.
  38. Quando, senza che siano sopravvenute nuove circostanze, le cose sancite dalla legge come giuste si rivelano nella pratica non corrispondenti alla prenozione del giusto, vuol dire che in realtà non erano giuste. Ma quando, essendo sopravvenute nuove circostanze, quelle cose che erano prescritte come giuste non sono più utili, allora bisogna dire che esse sono state giuste fino a che sono state utili per la vita in comune dei cittadini, e che in seguito, quando non sono state più utili, non sono state più nemmeno giuste.
  39. Si è disposto nella maniera migliore contro il turbamento che proviene dall'esterno colui che si è reso affini le cose possibili e non del tutto estranee le impossibili. Quanto a quelle cose riguardo a cui non ha avuto nemmeno tale potere, se ne è astenuto del tutto, fondandosi su tutto ciò che è utile a tale scopo.
  40. Tutti coloro che hanno avuto la possibilità di godere della massima sicurezza nei riguardi di coloro che li circondavano, vivono in comunità gli uni con gli altri nel modo più piacevole e nella più sicura fiducia; e, pur nutrendo fra loro i più stretti legami, non piangono la dipartita di quelli di loro che muoiono prematuramente, come se questi fossero da compiangere.

 

4 marzo 2024 - Eugenio Caruso

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