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Esiodo, il padre della mitologia greca

«Eh, mio caro ragazzo, in vino veritas!» (Fr. 366 Lobel-Page, tr. it. di F.M. Pontani[1])

GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti, pensatori e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

GRECI E LATINI

Alceo - Anassagora - Anassimandro - Anassimene - Aristofane - Aristotele - Cicerone - Democrito - Diogene - Empledoche - Epicuro - Eraclito - Eschilo - Esiodo - Euclide - Euripide - Lucrezio - Ovidio - Pindaro - Pitagora - Platone - Seneca - Socrate - Solone - Talete - Zenone -

Esiodo (in greco antico Hesíodos; Ascra, metà VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.) è stato un poeta greco antico. Esiodo ha lasciato, all'interno dei suoi poemi, alcune notevoli tracce autobiografiche che aiutano a ricostruire le sue origini.

esiodo 1

Esiodo in un mosaico romano del III secolo d.C., Rheinisches Landesmuseum Trier


Per quanto riguarda la data di nascita, fin dall'antichità non si sa con precisione se porlo come precedente, contemporaneo o successivo a Omero: Erodoto risolse il problema considerandoli contemporanei: «suppongo che Esiodo e Omero fiorirono non più di quattrocento anni prima di me». Tuttavia, secondo quanto Esiodo stesso racconta, prese parte alle feste in onore del principe Anfidamante nell'isola di Eubea, dove partecipò a un agone in cui ottenne la vittoria e un tripode in premio. È, quindi, riconosciuta dai critici moderni la collocazione di Esiodo intorno al principio del VII secolo a.C..

esiodo 2

Esiodo e una Musa, di Gustave Moreau (1891)


Il padre si era trasferito, forse per difficoltà economiche, dalla nativa Cuma Eolica alla Grecia continentale per sfuggire alla povertà; Esiodo nacque proprio ad Ascra, città della Beozia situata nei pressi del monte Elicona:

«vicino all'Elicona in un miserevole borgo, Ascra, mala d'inverno, afosa in estate e buona in nessun momento.»

Ad Ascra Esiodo fu contadino e pastore; infatti, soprattutto nel suo poema Opere e giorni, nobilita il lavoro manuale e dà consigli riguardanti l'agricoltura. Sull'Elicona il poeta ricevette, secondo il proemio del suo poema Teogonia, l’investitura da poeta dalle Muse. Esiodo racconta poi, come detto, di aver compiuto un solo viaggio nella sua vita per dirigersi a Calcide per assistere ai giochi funebri in onore dell'eroe Anfidamante; nonostante ciò il poeta si rivela comunque a conoscenza della vita sul mare e, all'interno de Le opere e i giorni, dà consigli a suo fratello Perse sull'evitarla. Alla morte del padre, il patrimonio venne diviso proprio tra lui e il fratello Perse, il quale, dopo avere dilapidato tutta la sua parte, corrompendo i giudici riuscì ad impossessarsi della parte di Esiodo.
Plutarco ci informa della sua morte violenta:

«Sembra che Esiodo condividesse ospitalità con un uomo di Mileto quando erano a Locri. Quando l'altro, che stava segretamente seducendo la figlia del loro ospite, fu scoperto, avendo il sospetto che Esiodo lo sapesse fin dall'inizio cospirò per nascondere l'offesa - anche se quello non era responsabile di nulla, incontrò erroneamente rabbia e calunnia immeritate. Infatti, ifratelli della ragazza lo uccisero dopo avergli teso un'imboscata vicino al Nemeion a Locri e uccisero anche il suo servitore, di nome Troilo.
Dopo che i corpi furono gettati nel fiume Dafno, Troilo fu trasportato su una roccia bagnata dalle onde, posizionata un po' fuori nel mare. E fino ad oggi il masso si chiama Troilo. Un gruppo di delfini prese subito il corpo di Esiodo e lo trasportò prima a Rhion e Molykria. (…) Quando il corpo fu scoperto, rimasero stupiti dal rinvenimento e corsero giù e, quando riconobbero il cadavere, poiché era ancora piuttosto fresco, considerarono tutto ciò che era secondario alle indagini sull'omicidio, tutto a causa della fama di Esiodo.
Riuscirono rapidamente a scoprire gli assassini. Li spinsero vivi in mare e distrussero le loro case. Esiodo fu, quindi, sepolto vicino a Nemea. Molti forestieri non sanno dove sia la tomba, che è nascosta perché, come sostengono, venne cercato dal popolo di Orcomeno che voleva trasferire i resti nelle loro vicinanze secondo un oracolo.» (Moralia, 162d-e; traduzione di A. D'Andria.)

Opere

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Supplizio di Prometeo, Salvator Rosa, (1646-1648), olio su tela. Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini


Teogonia

Scritto in esametri dattilici, si tratta di un poema di tipo catalogico, in cui Esiodo tenta di dare ordine all'inestricabile sistema di racconti e dei personaggi divini della mitologia greca, partendo da un preciso punto "storico" di origine del cosmo, proseguendo fino alla vittoria dei dodici Olimpi contro i Titani nella Titanomachia.
Il poema cosmogonico inizia con un inno alle Muse che si avviano all'Olimpo, in cui Esiodo fa un breve excursus della sua iniziazione come poeta, voluta per desiderio divino sul Monte Elicona; parte dunque il racconto delle origini, con il catalogo della progenie di Gea, incorniciata dal catalogo dei discendenti del Caos primigenio; si prosegue con la discendenza marina e dei mostri e si arriva alla prole dei Titani, tra cui spicca Ecate, alla quale il poeta rivolge un inno.
Ultimi figli dei Titani sono i discendenti di Crono e Rea, di cui vengono narrate le vicende, con l'ascesa di Zeus al trono e i fatti di Prometeo.
L'ultimo blocco narrativo descrive la titanomachia, ossia la lotta sanguinosa tra Dei e Titani per il governo dell'Olimpo, con la vittoria finale degli Dei, di cui vengono ricordati, in uno schema catalogico, l'eroogonia dei figli nati dalle unioni tra dee e uomini mortali. Comunque,

«gli ultimi due versi invocano le Muse perché cantino le donne illustri, dovrebbero cioè servir di transizione al Catalogo delle donne. ( […] ) Nessun critico può far arrivare la Teogonia autentica oltre il verso 963; e forse ha ragione il Jacoby di farla terminare col verso 929: l'epilogo esiodeo si è certo perduto».

Le opere e i giorni
Le opere e i giorni sono la seconda opera esiodea. Si tratta di un testo più moderno, in quanto più vicino alle esperienze autobiografiche dell'autore.
L'opera inizia con un proemio in forma di inno di invocazione a Zeus, chiamato dio onnipotente che può imporre la Giustizia. Dopo il proemio, si trova il mito delle due Contese. Esiodo identifica infatti una contesa negativa, il flagello che provoca le guerre, e una positiva, sotterrata da Zeus nel profondo della Terra per spingere gli uomini al lavoro giusto.
Esiodo espone, come già nella Teogonia, ma qui in forma ampliata, il mito di Prometeo e Pandora.
Da qui Esiodo traccia, in una concezione alquanto pessimistica e tipica del pensiero greco, la storia delle cinque età dell'uomo, dalle origini - quando egli era felice, senza bisogno di lavorare - per poi andare sempre più avanti in declino: in effetti, il periodo felice per eccellenza era l'Età dell'Oro, seguita poi dall'Età dell'Argento, quella degli eroi, poi l'Età del Bronzo e, infine, l'Età del Ferro, contemporanea a Esiodo. Seguendo le forme di virtù e civiltà del passato eroico dei Greci, Esiodo confida in un possibile ritorno di calma spirituale all'Età dell'Oro, dato che Zeus ha dotato gli uomini del concetto di "giustizia".
Segue una lunga riflessione sulla giustizia, dopo la quale si apre il blocco delle "Opere", ossia del calendario agricolo, con una digressione sulla navigazione e consigli pratici, che preparano l'ultima parte del poema.
Nel blocco dei "Giorni", Esiodo descrive i vari cicli delle stagioni e dei relativi lavori di campagna, fornendo la descrizione del buon cittadino lavoratore, piccolo imprenditore agricolo che sa coltivare e amare la sua terra, e amministrare anche l'ordine nella famiglia.
Ne Le Opere e i giorni vi è, inoltre, il primo vero esempio di favola di tutta la letteratura occidentale, ossia la favola dell'usignolo e lo sparviero, che presenta la legge del più forte. Vi sono anche "squarci narrativi", come la descrizione di paesaggi naturali.
Il catalogo delle donne
L'opera era nota anche come Eoie o Eee; divisa in 5 libri, si concentrava, come la Teogonia, sulle genealogie, insistendo sulle figure femminili che popolarono l'universo degli Dei, con cui spesso e volentieri si era unito Zeus, generando semidei e uomini mortali dotati di speciali virtù e abilità.
In alternanza con questo tema, Esiodo ripercorre in maniera più approfondita le Cinque Età: Zeus volle terminare la gloriosa Età dell'Oro con un grande diluvio, e iniziò il periodo argenteo degli eroi, dei quali sono ricordati i capostipiti Doro, Eolo e Xuto.
Nel secondo libro era raccontata la vicenda di Io rapita da Zeus, da cui ebbe Epafo, dalla cui stirpe nascerà Danao, punita per questo da Era, che la trasformò in vacca; dal ratto di Europa, sorella di Danao, furono generati Radamanto, Sarpedonte e Minosse. Di quest'ultimo fu la discendenza di Pelasgo, di cui si parlava nel terzo libro.
Negli ultimi libri si parlava delle genealogie degli Atlantidi, di Atreo, padre di Agamennone, e di Alcmena, madre di Eracle, per poi concludersi con la figura di Elena, il cui rapimento innescò la guerra di Troia.

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L'età dell'oro è un dipinto a olio su intonaco del pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, realizzato tra il 1842 e il 1847 circa e conservato nel castello di Dampierre.


Opere minori
Poiché Esiodo fu ritenuto "inventore" di un nuovo genere, la poesia didascalica, nel tempo gli fu attribuita una notevole quantità di opere spurie, come osservava Pausania il Periegeta nel II secolo:

«C'è un'altra tradizione, molto diversa dalla prima, secondo cui Esiodo scrisse un gran numero di poemi; quello sulle donne, quello chiamato le Grandi Eoie, la Teogonia, il poema sul veggente Melampo, quello sulla discesa nell'Ade di Teseo e Piritoo, i Precetti di Chirone, che professano essere per l'istruzione di Achille, e altri poesie oltre alle Opere e i giorni. Gli stessi Beoti affermano che Esiodo imparò il mestiere degli acarnaniani e che esiste ancora un poema chiamato Mantica, che io stesso ho letto, e interpretazioni dei portenti.» (trad. A. D'Andria)


Lo Scudo di Eracle è un poemetto di 480 versi, che già Aristofane di Bisanzio non attribuiva a Esiodo. In esso, si imita la descrizione omerica dello scudo di Achille, togliendo i primi 54 versi dalla parte riguardante Alcmena nel Catalogo delle donne come introduzione al racconto dell'incontro di Eracle con Cicno e alla descrizione dello scudo di Eracle.
I precetti di Chirone
Il poema, perduto, presentava gli insegnamenti di Chirone, il saggio centauro, mentre istruiva il giovane Achille, ponendosi sulla scia delle Opere nella tradizione dei precetti in versi.
L'Astronomia
Perduta tranne 8 frammenti (di cui solo tre testuali), l'opera andava sotto i titoli di Astronomia o Astrologia: Ateneo, che conserva i tre frammenti testuali del poema, lo chiama Astronomia, mentre Plutarco e Plinio il Vecchio danno Astrologia. Il poema è ricordato come illustre predecessore e iniziatore del genere anche dal latino Marco Manilio.
Egimio
Non si sa quasi nulla della trama o struttura generale del poema, a parte il fatto che fosse in almeno due libri: Stefano di Bisanzio e gli scolii ad Apollonio Rodio, infatti, conservano frammenti che assegnano al "secondo libro dell'Egimio". Uno dei frammenti citati dal libro II racconta la raccapricciante storia secondo cui Teti gettò numerosi suoi figli in un calderone di acqua bollente per vedere se fossero mortali, prima che suo marito Peleo intervenisse, salvando Achille. Altri frammenti isolati riguardano le Graie, Nauplio, Frisso e una parola greca rara che indica un "luogo fresco e ombreggiato" (psykterion).
Melampodia
In almeno 3 libri, ne restano 8 frammenti per un totale di circa 20 versi.
Catabasi di Piritoo
Le nozze di Ceice
I frammenti che sopravvivono implicano che il tema del poema non era semplicemente il matrimonio di Ceice, ma l'arrivo e il coinvolgimento di Eracle nei festeggiamenti. Per questo motivo Merkelbach e West suppongono che il poema debba essere considerato come appartenente a quel gruppo di poemi ed epilli che si occupavano delle gesta di Eracle, come lo Scudo.
L'identità del Ceice di cui si narrava il matrimonio è stata oggetto di controversia. Merkelbach e West inizialmente lo identificarono con lo sposo sfortunato di Alcione, ma, data l'apparente attenzione del poema su Eracle, è più probabile che questo Ceice fosse in realtà il re di Trachis e nipote di Anfitrione.
I Dattili Idei
Perduto e attribuito a Esiodo da Suda. L'attribuzione è dubbia, ma due citazioni di "Esiodo" in altri autori antichi riguardano la scoperta dei metalli e sono state provvisoriamente assegnate a questa poesia dai moderni editori. Dettagli di questo tipo presumibilmente erano al centro del poema, poiché i Dattili del titolo erano figure mitologiche a cui era stata attribuita l'invenzione della metallurgia, come attesta, ad esempio, Clemente Alessandrino proprio citando Esiodo.
Le Grandi Opere
Solo due brevi citazioni dirette possono essere attribuite all'opera con certezza, ma era probabilmente simile alle Opere e i giorni, con "Megala" ("grande"), del titolo che implica che fosse più lungo del poema a noi pervenuto.
Ornitomanzia
Questo poema (perduto), sulla divinazione attraverso gli uccelli, è preannunciato al termine delle Opere e i giorni, con una chiusa rapsodica che ricorda l'aggancio del Catalogo alla Teogonia e che dev'essere di un autore successivo ad Esiodo. Del resto, la connessione del poeta all'arte mantica era indiscussa nell'antichità e aveva prodotto opere come la Melampodia. Insieme alle Opere e ai Precetti di Chirone, la Ornitomanzia costituiva, di fatto, un piccolo corpus didascalico.

esiodo 5

Età del ferro di Piertro da Cortona



Il mondo poetico e concettuale di Esiodo
Carmina
La poesia di Esiodo si colloca nell'VIII secolo a.C.; egli risulta il primo autore greco a tentare di mettere per iscritto l'antica mitologia teologica e a farlo con la consapevolezza di essere un poeta vate. Fino ad allora nessuno aveva provato ad introdurre un concetto teologico e teogonico (Teogonia), affiancandolo ad un complemento etico (Le Opere e i Giorni), il che pone in risalto l'evidente complementarità delle due opere principali di Esiodo. Inoltre, è stato giustamente definito da alcuni il poeta degli umili: egli, infatti, compone un'opera, Le Opere e i Giorni, che suona come una critica contro l'inerte oziosità dell'aristocrazia, per la prima volta dando spazio ai ceti inferiori nella poesia epica greca.
In modo similmente originale, Esiodo configura l'attività poetica. Mentre l'epica tradizionale era oggettiva e impersonale, senza un autore dichiarato, Esiodo porta l'epica verso un orizzonte a noi più vicino e comprensibile: egli si dichiara, infatti, poeta e rende la poesia soggettiva e personale, conferendole un'individualità storica. Inoltre, se l'epica tradizionale aveva una funzione edonistico-pedagogica, in Esiodo la poesia acquista un timbro schiettamente didascalico: Esiodo si fa maestro di sapienza, poeta vate, sicché la poesia diviene magistero sapienziale, ponendo le basi di una radice ineliminabile nella cultura occidentale.
Esiodo è un poeta epico, e quindi la sua lingua è quella dell'epos, condizionata già dall'uso dell'esametro, anche se è riscontrabile qualche eccezione, con forme che rimandano ai dialettalismi locali, più presenti nelle Opere: ovviamente, data la posizione eolica della Beozia (dove le opere esiodee sono composte), sono più presenti gli eolismi rispetto all'epos omerico. Da parte di quei critici che vogliono Esiodo come un rappresentante di una tradizione poetica "indipendente", poi, sono stati considerati con maggiore attenzione quegli aspetti linguistici estranei totalmente ad Omero, come alcuni infiniti brevi e accusativi plurali brevi della prima declinazione.
Lo stile formulare invece, è variegato: molte, difatti, le formule prettamente omeriche o costruite su di esse. Omero, inoltre, non poteva essere presente come modello (a differenza di quello che avvenne nell'epica più tarda), bensì come rappresentante di un genere letterario ancora vivo e attivo, e la cultura a cui apparteneva Esiodo, quella beotica, era diversa da quella che aveva prodotto l'epos. Lo stile epico tradizionale ha, infatti, una tonalità uniforme, senza frastagliature, mentre lo stile di Esiodo è oscillante fra una tonalità ieratica e una popolareggiante, presentandosi come fortemente scorciato e lapidario. La grandezza di Esiodo è testimoniata dal fatto che egli è parimenti abile nel delineare scene di genere, magari tracciate con una sorta di gusto oleografico, quanto nel condensare affreschi tipicamente epici.
Esiodo sostanzialmente, dunque, transcodifica il linguaggio omerico, manipolandolo in rapporto alle sue necessità contingenti, oppure, innovando decisamente, segue la strada della neoformazione, inventando un nuovo lessico e nuove immagini.



TEOGONIA.

Dall’Eliconie Muse il canto muova,
     Dive dell’olezzante, erto Elicona,
     Che coi leggiadri piè menano danze
     Alle muscose fonti e all’ara intorno
     Di Giove onnipossente. E del Termesso,
     Dell’Ippocrene e del divino Olmeo
     Bagnate all’onda il delicato corpo,
     Nel sonno le vid’io comporsi a coro
     Vezzoso e caro all’Elicona in cima
     Instancabili e snelle. Indi movendo
     Nell’aër denso della notte avvolte,
     E schiuso il dolce labbro, ergere un canto

All’Egioco Signore, e alla sovrana
     Giuno d’Argo che calza aurei coturni,
     Dell’Egioco alla figlia occhi-cilestra
     Pallade, e a Febo, ed alla faretrata
     Dïana, ed a Nettun che accerchia e scuote
     I lidi della terra, e alla pudica
     Temi, ed a Venere occhi-vaga, e ad Ebe
     Insigne d’aurei serti, e alla vezzosa
     Dïona, ed all’Aurora, e al magno Sole,
     E alla lucente Luna, ed a Latona,
     Ed a Giapeto, e allo scaltrito Crono,
     Ed alla Terra, e all’Oceàno immenso,
     Ed alla nera Notte, ed a quant’altre
     Sacre sonvi di Dei schiatte immortali.
     E fûr desse che allora il dolce canto
     A Esïodo insegnâr, mentr’ei la greggia
     Pasceva al piè del florido Elicona.
     E così pria mi favellâr le dive
     Olimpie Muse dell’Egioco figlie
     «Pastor selvaggi, tutti obbrobrio e ventre,1
     Molte simili al ver mentite cose

     Cantar sappiamo, e a nostra posta il vero.»
     Del gran Giove così disser le figlie
     Dive del canto, e cogliere mi diero
     Di lauro verdeggiante un ramo insigne
     Per scettro,2 e m’inspirâr divina voce,
     Perchè il passato e l’avvenir cantassi.
     E vollero dei numi alla immortale
     Prole inneggiassi, e d’ogni canto ad esse
     Sacro fosse il principio e il fine ognora...
     Ma chè a profani arcane cose io svelo?3
     Cominci adunque dalle Muse il canto,
     O Esïodo, da lor, che al padre Giove
     Fan lieta la gran mente entro l’Olimpo
     Colle armoniche note, i dì che furo
     Cantando, e i dì che sono e che saranno.
     E l’onda d’armonia libera sgorga
     Loro dal labbro, e la magion del padre
     Giove tonante esulta alle diffuse
     Dolci melodi, e del nevoso Olimpo
     La balza echeggia e la magion dei numi.
     Colla voce immortal cantano pria

     L’augusta prole degli Dei, la prima
     Del vasto Cielo e della Terra, e quanti
     Nacquer di loro donator di beni
     Poscia dei numi e dei mortali il padre,
     E con lui dan principio e fine al canto,
     Com’ei fra i numi di possanza è il primo.
     Cantano indi molcendo a Giove il core
     L’umana ed aspra gigantéa progenie
     Le Olimpie Muse dell’Egioco figlie;
     Esse che ai mali oblio, posa alle cure,
     In Pieria partorì la Dea dell’alma
     Eleutera Mnemosine, commista
     Col sommo Nume. Nove notti asceso
     Il sacro letto, ed agli Dei furtivo,
     Con lei si giacque il sapïente Giove,
     Or quando l’anno si compia col giro
     Delle stagioni e delle lune, e il giorno
     Era maturo, partorì la Diva
     Nove figliuole pari d’alma, intente
     Al canto, e piene il sen d’alacri spirti,
     Poco lontano dall’aëria vetta

     Del nevicoso Olimpo, ove han leggiadro
     Ostello e vaghe danze (e ove con esse
     Nei dì lor sacri stan le Grazie e Amore
     E cantano, dischiuso il dolce labbro,
     Le leggi delle cose e degli Eterni
     Lodan l’indole santa). Indi gioiose
     Di lor voce soave e immortal canto,
     Mossero in ver l’Olimpo, e i lor concenti
     L’ombrosa terra ripeteva, e dolce
     Sotto i lor piedi un murmure si fea,
     Mentre ne gíano al genitor; e lui
     Signor del tuono e dei fiammanti strali,
     Lui sovrano, già vinto il padre Crono,
     E lui sagace partitore ai Divi
     D’uffici e onor cantavano le Muse
     Abitatrici dell’Olimpo. E nove
     Son queste figlie del gran Giove: Clio,
     Eüterpe, Melpomene, Talia,
     Tersicore, Polinnia, Erato, Urania,
     E Calliopéa che l’altre in pregio avanza;
     Ch’ella dei saggi re sull’orme incede,

Cui sono pie le figlie alme di Giove,
     E san nato di re dei numi alunno,
     Stillano sulla lingua alma rugiada,
     Onde dolci dal labbro escono i detti.
     In lui ciascuno il guardo affigge, quando
     Giudice imparzïal risolve i piati.
     Autorevole ei parla, e di repente
     Ardenti gare saggiamente aqueta
     Chè il senno è dato ai re, perch’ei nel foro
     Con facil, blando favellare i torti
     Riparin degli offesi. Essi quai numi
     Inchina il popol verecondo, quando
     Per la cittade incedono, e sublimi
     Spiccano intra la folla. Or questo è il sacro
     Dono largito dalle Muse all’uomo
     Chè dalle Muse e dall’arciero Apollo
     Cantori e Citaredi ebbe la terra,
     Come da Giove i regi. — Oh fortunato
     Cui son le Muse amiche! Il canto sgorga
     Soave dal suo labbro. Ove rammarco
     Per acerba sventura il cor ne opprima,

     Ed un cantore delle Muse alunno
     Canti le glorie dei mortali antichi,
     E i sempiterni abitator d’Olimpo,
     Posar sue doglie sente l’infelice
     E scorda i mali: perocchè repente
     Il duol gli ammorza delle Muse il dono.
     Figlie di Giove, vi saluto: un dolce
     Cantico m’inspirate. Or voi mi dite
     Dei Divi eterni la progenie santa,
     Cui generò la Terra e lo stellato
     Cielo, e la Notte intenebrata, e quelli
     Che il salso mar nutrì: ditene come
     Principio ebber gli Dei, la Terra, i fiumi,
     Il vasto mar coi ribollenti flutti,
     Le stelle rilucenti e il soprastante
     Immenso cielo, e com’ebbero inizio
     Gli Dei di beni largitori, e come
     Si divisâr dell’universo i regni
     E i varii ministeri, e come in prima
     Nel sinüoso Olimpo ebbero seggio.
     Muse d’Olimpo abitatrici, queste

     Cose mi dite dal principio, dite
     Qual dei numi fu primo. – Il Chaos fu primo
     Poi l’ampia Terra, solida, perenne
     Sede di quanti eterni Dei soggiorno
     Hanno le nevicose olimpie balze,
     E il tenebroso Tartaro nel cupo
     Fondo del vasto suolo. Indi Cupido
     Il più bel nume, solvitor dei corpi,
     Che degli Eterni e dei mortali al pari
     Senno ed alti consigli in petto ancide.
     Dal Chaosse l’Erèbo e l’atra Notte
     Nacquero, e dalla Notte in dolce amore
     Coll’Erebo commista il Giorno e l’Etra.
     La Terra in pria produsse a se simile
     Il luminoso Ciel che intorno intorno
     Le fêsse velo, e solido e perenne
     Ai venturosi Divi albergo fosse.
     E gli ardui monti partorì, di numi
     E di Ninfe montane ameni seggi.
     Il Pelago infecondo anche produsse,
     E il Mar dai gurgiti estüanti, e senza

     La dolce opra d’amor. Ma poi giaciuta
     Nel talamo d’Urano il vorticoso
     Oceàn partorì, Giapeto, Ceo,
     Iperïone, Crio, Temide, Rea,
     Tea, Mnemosine, e Feba il crine adorna
     D’aurea ghirlanda, e la venusta Teti;
     E dopo queste lo scaltrito Crono,
     Il più fiero dei figli, ch’abborria
     Del padre suo la genital possanza.
      Indi i Ciclopi di superbo core,
     Bronte, Sterope ed Arge alme traforti,
     Donatori del tuono e fabricanti
     Gli strali a Giove: in tutto a Dei simili,
     Tranne che un occhio solo aveano in fronte.
     Mortali li nutrîr germe di numi,
     E dall’occhio che in fronte avean rotondo
     Ciclopi si nomaro; e le lor moli4
     Di lor forza e baldanza eran l’imago.
     Tre figli pur superbi e senza nome5
     La Terra e Urano generâr; proterva
     Stirpe, e fûr Cotto, Brïarëo e Gia.

     Di su gli omeri ognuno, orrida vista!
     Cento braccia scotea, cinquanta teste
     Spuntavan fuor dagli omeri ad ognuno
     Su membra noderose immensa, invitta
     Lor forza in corpo immane, i più tremendi
     Di quanti a Uran ne partorì la Terra.
     Onde sino dal primo ebbeli in odio
     Il padre, e a mano a man che ognun nascea
     Ei li cacciava della terra in fondo,
     Loro togliendo il riveder la luce,
     E di tale opra ria prendea diletto.
     Ma forte doglia ne sentì la Terra,
     E a truce frodolenta arte appigliossi.
     Del crëato da lei lucido ferro
     Fe’ tosto una gran falce, e ai figli suoi
     Ardita favellò col cruccio in core
     «Miei figli, e figli d’un perverso padre,
     Se volete ubbidirmi, a noi fia dato
     Del padre vostro vendicar gli oltraggi
     Ch’egli fu primo a farsi iniquo.» — Disse;
     E tutti strinse un gel, nè feano motto.

     Ma baldo il grande frodolento Crono
     Si trasse innanzi, ed all’augusta madre
     In tal modo parlò: «Madre, io ti giuro
     Di compir ciò ch’imponi: alcun riguardo
     Per l’esecrato genitor non nutro
     Ch’egli fu primo a farsi iniquo.» — Ei disse,
     E la gran Terra ne gioendo in core
     In agguato lo mise, e in man gli pose
     La falce aspra dentata, e dell’ordito
     Inganno lo fe’ dotto. – Il grande Urano
     Vien guidando la Notte, e desïoso
     Di voluttà si corca, e sulla Terra
     Ampiamente procombe. Il figlio allora
     Esce della latèbra, e colla manca
     Gli afferra, e colla destra, alzato il diro
     Lungo ferro dentato, i genitali
     Ratto gli spicca, e li sbalestra lunge
     Di retro alle sue spalle. Eppure inani
     Non volâr quelli dalla man: chè quante
     Gocce sanguigne ne stillâr, la Terra
     Le accolse in grembo, e col girar degli anni

     Nacquer l’Erinni e i grandi aspri Giganti,
     Fulgidi d’armi, e di lung aste armati,
     E quelle Ninfe, che per l’ampio mondo
     Melie furon nomate.6 — E poichè Crono
     Dal suol lanciava nei sonanti flutti
     Quel membro, che col ferro avea mietuto,
     Volto lunga stagion dall’onde, apparse
     Sovra il divino mar candida spuma,
     Che in sen nutriva una fanciulla. E in prima
     Della sacra Citera i flutti corse,
     Quinci drizzossi ver l’ondosa Cipro,
     Ove bella n’emerse augusta Diva,
     Cui sotto i molli piè l’erba crescea.
     Dalla spuma nudrice indi Afrodite
     Fu detta e Afrigna Dea fra Eterni e umani,
     E da Citera cui drizzò suo corso,
     Inghirlandata Citerea, Ciprigna
     Dall’ondisona Cipro ov’ella nacque,
     E Filomede dal paterno seme.
     Amore e il bel Cupido a lei compagni
     Si fêr com’ella nacque e andò fra i Divi.

     Tale onor s’ebbe tosto, e le fu dato
     Esser la Diva fra i mortali e i numi
     D’ingenue, fide parolette e risi,
     Di piaceri, di frodi e di soavi
     Teneri amori. — Il grande Urano i figli
     Nomò Titani, e corrucciato disse,
     Ch’empio misfatto aveano in lui commesso,
     Onde ben cara sconterian la pena.
     La diva nera Notte indi produsse
     Con nessuno giaciuta il triste Fato,
     E la Chere crudel, la Morte e il Sonno,
     E la torma dei Sogni, e Momo, e il mesto
     Infortunio, e l’Esperidi, custodi
     Oltre il sacro Oceàn degli aurei pomi,
     E del giardin che n’è fecondo. E i Fati
     Cloto, Lachesi ed Atropo, datrici
     Di beni e mali all’uom fin dalla culla,
     Ella produsse, e le spietate Cheri,7
     Che van sull’orme ai rei, mortali o numi,
     Nè calman la tremenda ira, se prima
     Scontar non fanno al reo, chiunque si sia,

     Grave la pena. L’atra Notte ancora
     Nemesi partorì flagel dell’uomo
     E l’Error dopo questa e la Libido,
     La sfinita Vecchiezza, e la Contesa
     D’infellonito cor. — La ria Contesa
     Generò la Fatica dolorante,
     L’Oblio, la Fame, le piangenti Doglie,
     Le Guerre, gli Omicidii, le Battaglie,
     Le umane Stragi, le Tenzoni, il Falso,
     Gli ambigui Detti, l’oltraggiosa Offesa,
     Simili di costume, e il Giuro, atroce
     Punitore dell’uom ch’empio l’offende.
     Il Ponto generò primo dei figli
     Nereo schietto e verace, il Vecchio detto,
     Chè veritiero e pio cole giustizia,
     E ad equi e pii consigli ha l’alma intenta.
     Indi giaciuto colla Terra, il grande
     Generò Taümante e il prode Forco,
     Ceto vaga le guance ed Euribia
     D’adamantino cor. — Di Nereo e Dori
     Il crin leggiadra e figlia dell’estremo

     Fiume Oceáno, nacquero di poi
     Nello sterile mar le Dee vezzose
     Proto, Eucrante, Anfitrite, Eudora, Sao,
     Teti, Galena, Toe, Cimotoe, Spio,
     Glauca, l’amabil Alia, la venusta
     Melita, Pasitéa, Erato, Agave,
     Euclimene, Dinamica, ed Eunica
     Rosea le braccia, Attéa, Neséa, Ferusa,
     Doto, Protomedéa, Proto, Panopa,
     Dori, la vaga Galatea, la cara
     Ippotóe, ed Ipponóe rosea le braccia,
     Cimodoce, che insiem con Anfitrite
     Bella le piante e con Cimatolega
     Sovra il cerulo mar calma d’un cenno
     I flutti e il fischio dei divini Venti;
     Cimo, Alimede dal leggiadro serto,
     Pïona e Glaucónoma vezzosa
     Nel riso, Laomedéa, Pontoporea,
     Evagora, Lïagora, Polínoma,
     Autonoe, Lusianatta, e la diletta
     Di spirti e forme verginali Evarna;

     La dia Menippa, Samata formosa,
     Neso, Eupompa, Pronóe, Temisto, e infine
     Nemerta, che comun col padre ha il senno.
     Dell’innocente Néreo ecco la prole
     Di bell’opere edotta. — Indi Tomante
     Del profondo Oceán la figlia Elettra
     Sposa menossi, e n’ebbe Iri veloce,
     Le Arpie crinite, Ocipete ed Aëllo,
     Che coi celeri vanni al par dei venti,
     Al pari degli augei volano ratte,
     E s’ergono alle nubi. A Forco poi
     Partorì Ceto dalle belle guance
     Le Gree, fin dalla nascita canute,
     Onde Gree le nomâr gli eterni numi,8
     E quanti ha umani abitator la terra
     Pefredo che leggiadro, Enio che croceo
     Ha il peplo, e le Gorgôn ch’hanno l’ostello
     Nell’ultimo confin dell’occidente
     Oltre il sacro Oceáno, e ov’han dimora
     L’Esperidi canore, Eurialo, Steno,
     E Medusa che doglie aspre sofferse:9

     Mortale questa ed immortali quelle,
     E scevre di vecchiezza. — Il re dell’ombre
     Mischiossi con Medusa in molle prato,
     Sopra fiorite zolle; e quando Perseo
     Spiccolle il capo, il gran Crisaoro nacque
     E il Pegaso caval; Pegaso detto,
     Poichè nasceva d’Oceáno ai fonti,
     E l’altro Crisäòr, poichè nel pugno
     Stringeva un aureo brando. A vol levossi
     Il Pegaso caval, l’altrice terra
     Abbandonando, e fra gli Eterni andonne.
     Appo il sagace Giove egli soggiorna
     Ministro portator di tuoni e lampi.
     Con Calliróe dell’inclito Oceáno
     Figlia si giacque Crisäóro, e n’ebbe
     Gerïone tricipite, cui spense
     Presso il furato armento Ercole invitto
     Nell’ondosa Eritia, quel dì, che il guado
     Varcato del gran fiume, e spenti all’ombra
     Delle mandrie i pastori Euritio ed Orto,
     Nella sacra Tirinto ei si menava

     Oltre Oceáno il lati-fronte armento.
     E un altro generò mostro tremendo,
     Nè ad uom, nè a dio simíle entro una cava
     Rupe, la diva, violenta Echinna,
     Metà fanciulla, vaga gli occhi e il volto,
     Metà lubrico serpe orrido e immane,
     Frodolenta, crudivora nel grembo
     Dell’alma terra. Perocchè profondo
     Antro l’è stanza a piè d’un monte opaco
     Lungi dai numi e dai mortali: a lei
     Quel degno albergo segregaro i Divi;
     Ove immortal fanciulla, e vigorosa
     D’eterna gioventù, vive la triste
     Entro i recessi d’Arimo secura.
     È fama, che Tifon con lei giacesse,
     Quel diro, tracotato e senza legge
     Con lei fanciulla dalle vaghe luci,
     Che s’incinse, e di vita a fiera prole.
     E prima ad Orto, can di Gerïone,
     Indi al nefario, dispietato e fello
     Cerbero can dell’Orco alto-latrante

     Dalle cinquanta gole,10 aspro, gagliardo;
     Indi la nequitosa Idra Lernea,
     Cui nutricò la bianchi-braccia Giuno
     Invida troppo dell’Erculea possa
     Ma lei pure di Giove il figlio invitto,
     Il fiero Anfitrïonio Ercole spense
     Col prode Iola, e per consiglio espresso
     Di Pallade pugnace. — E la Chimera,
     Mostro spirante irresistibil vampa,
     Indi produsse, orrendo, aspro e veloce.
     Avea tre capi: l’un di lïon truce,
     Di capra l’altro, di serpente il terzo,
     D’orrido drago: al sommo era lïone,
     Drago all’estremo, capra al mezzo, e fuoco
     Divampato anelava: e a lei dier morte
     Pegaso e il pro’ Bellerofonte. E quindi
     Con Orto Echinna giacque, ed il funesto
     Partorì Fice esizïale a Tebe,
     E il lïone Nemeo, che Giuno augusta
     Moglie di Giove nutricò, e mandollo,
     Peste ai mortali, di Nemea sul campo.

     Quivi a mille ei sbranava umani corpi,
     Di Treto e d’Apesanto arbitro crudo;
     Ma spense pur costui l’Erculea forza.
     Indi Ceto d’amor con Forco unita
     L’orrido drago partorì da sezzo,
     Che all’estremo confin vegghia le poma
     D’oro di sotto a latebre profonde
     E di Ceto e di Forco ecco la prole.
     Ebbe Océan da Teti i gonfi fiumi,
     Nilo, Eridàn dai cupi gorghi, Alfeo,
     Strimon, Meandro, Fasi, e Reso, e il chiaro
     Istro, e Acheloo dalle bell’onde, e Nesso
     Aliammone, Ettàporo, Granico,
     Il divin Simöenta, Esepo, Rodio,
     Caïco di bel corso, Ermo, Penéo,
     Il gran Sangario, Even, Partenio, Ardesco,
     Ladone e il dio Scamandro. E il sacro stuolo
     Delle Dee generò, che sulla terra
     Con Febo e i fiumi dei mortali han cura
     Giove a questo sortille. E sono Admeta,
     Pito, Doride, Jante, Elettra, e Prinno,

     Urania, diva al viso, Ippo, Callíroe,
     Rodea, Climene, Zeusso, Idia, Pasítoe,
     Galassaura gentil, Plessaura, Clizia,
     Melobosi, Dïona e Toe, la vaga
     Polidora e Cercide, alma vezzosa;
     Pluto dall’ampie luci, Janira e Sante,
     La leggiadra Petréa, Perside, Acaste,
     Menesto, Europa, Eurìnoma, Telesto
     Dal croceo peplo, Meti, Asia, la cara
     Calipso, Eudora, Tiche, Ocíroe, Anfiro,
     Crenide, e Stige in dignità primiera,
     Di Teti e d’Ocean queste le prime
     Son delle figlie: ei n’ebbero molto altre
     Chè ben tremila son le snelle i piedi
     Oceanine Ninfe; e in terra sparse
     E nei gorghi profondi egual per tutto
     Queste Dive leggiadre hanno la sede,
     Altrettanti son pur fiumi sonanti,
     Figli dell’alma Teti e d’Oceáno.
     Dirne di tutti i nomi arduo al mortale,
     Ma ben li sa chi presso loro alberga.

Tea con Iperïone amor congiunse,
     E il gran Sole ne nacque e la lucente
     Luna ed Aurora, ch’i terrestri tutti,
     E i Divi eterni abitator dell’ampio
     Cielo irradian di luce. Euribia diva
     Con Crio mista in amore il grande Astreo
     E Pallante produsse, e Perse in ogni
     Scienza primiero. Con Astreo l’Aurora,
     Diva con Dio, mista in amore ai baldi
     Venti fu madre, a Zefiro, ad Argeste,
     A Noto, e a Borea che le vie divora.
     E dopo questi, Erigenia produsse
     Fosforo e l’altre rilucenti stelle,
     Che incoronano il cielo. — Indi da Stige,
     D’Oceáno figliuola, ebbe Pallante
     Zelo, e Vittoria tripudiante in pace,
     E Forza e Gagliardia, nobili nati!
     Scevro ei non han da Giove ostel, nè seggio,
     Nè calle, ma di lui seguono l’orme,
     Del Dio tonante ognor stannosi al fianco.
     Di che Stige, l’illustre Oceanina

     Fu consigliera a Giove, il dì che tutti
     Il folgorante Dio raccolse i numi
     Nell’alt’Olimpo, e disse a niun dei Divi,
     Che seco pugnerian contro i Titani,
     Torrebbe i doni, e ognun terria gli onori
     Che già godea fra i numi, e renderebbe,
     Qual n’era dritto, e doni e onori a quanti
     Crono spogli ne avea. La diva Stige
     Trasse all’Olimpo incontanente, e i figli
     Per consiglio del padre addusse seco.
     Giove onorolla, e la colmò di doni.
     Le concesse il gran Giuro esser dei numi,
     Concesse ai figli aver con lui comune
     Ognor la stanza; e la parola attenne
     Di quanto a tutti i Divi avea promesso;
     Ch’egli solo è il potente, egli il sovrano,
     Il desïato talamo di Ceo
     Feba salì; Diva con Dio commista
     Latona partorì cerula il peplo,
     A mortali ed a numi accetta e cara,
     Cara dal nascer suo, gioia d’Olimpo.

     E partorì la rinomata Asteria,
     Che in sua bella magion Perse menossi,
     E sua sposa la feo. – Costei s’incinse,
     E ad Ecate di vita, oltre ogni nume
     D’onor dotata dal Saturnio Giove.
     L’alto incarco le diede aver le sorti
     Della terra e del pelago infecondo.
     Pur dal fulgido Urano ebbesi onori,
     E in sommo pregio è dagli Dei tenuta.
     Chè ove qualche mortal vittime opime
     Offra secondo il rito e mercè chiegga,
     Pur or Ecate invoca; e se benigna
     I preghi accoglie, al supplicante in copia
     Impetra beni e onor: chè ben lo puote
     Perchè di quanti onori ebbero i figli
     Della Terra e d’Urano arbitra è fatta.
     Nulla il Cronide le contese o tolse
     Di quanto fra i primieri avea goduto
     Titani divi, ma conserva intera
     La prisca podestà. Nè, perchè sia
     Unica figlia, men potenza e onore

     In mare, in terra e in ciel sortì la Diva;
     Anzi maggior: chè Giove assai la pregia.
     Cui vuol ella cortese aïta e giova,
     E cui vuol ella fa spiccar su tutti
     Nei popolar congressi. E quando al truce
     Cozzo dell’armi volano i guerrieri,
     La Diva accorre, ed ai protetti suoi
     Dà vittoria e trïonfo. Ella s’asside
     Dei giudicanti incliti regi al fianco.
     Quando si lotta nell’agone, vola
     Púr là la buona Diva, e porge aïta,
     E il vincitore facile riporta
     Di sua forza e valor nobile palma,
     E di sua gloria i genitor fa chiari.
     V’ha cavalieri pur, cui pia protegge;
     E chi dei glauchi perfidi marosi
     Imprende il corso, invoca Ecate ancora,
     E il rimuggente Enosigeo. Concede
     Facil la santa Diva opima preda,
     E facile la toglie a suo talento.
     Con Mercurio benigna ella pur veglia11

     Nei pascoli gli armenti; e i branchi erranti
     Di bovi, capre e di lanuti agnelli
     Di piccoli fa grandi, ove le piaccia,
     E piccoli di grandi: ond’ella tutti
     Infra gli eterni in se gli onori aduna,
     Benchè nata a sua madre unica figlia.
     Lei pur di Giove ai parvoli custode,
     Che dell’aurora alla diffusa lampa
     Schiudon le luci: quest’incarco ell’ebbe
     Fin dal principio; e tali fur gli onori.
     Ebbe Crono da Rea prosapia illustre
     Vesta, Cerere e Giuno auri-calzata,
     Il forte Dite, che sotterra ha il trono
     E cor spietato serra; il fragoroso
     Nume che scuote i lidi, e Giove il saggio,
     Al cui tuono vacilla il vasto mondo.
     Ma il magno Crono, com’uscian del sacro
     Grembo materno i figli, un dopo l’altro
     Se l’ingoiava: perocchè volea,
     Nessun altro degl’incliti Uranidi
     Il regal seggio sugli Eterni avesse

     Poi che la Terra e lo stellato Urano
     Detto gli avean, per lui pur sì possente
     Fermo aver il Destin, che da un suo figlio,
     Dall’armi del gran Giove ei fora domo.
     Ond’egli non invan stava in vedetta,
     E insidïoso s’ingollava i figli
     Con dolore indicibile di Rea.
     Or quando di sgravarsi era in procinto
     Di Giove, padre di mortali e numi,
     Ai cari genitori, allo stellato
     Urano ed alla Terra ella richiese
     Supplichevole il modo, onde potesse
     Occulta partorirlo, e trar vendetta
     Dell’empio padre che struggeasi i nati.
     Quelli udiro la figlia, e la fêr paga.
     Conto il fato di Crono essi le fenno,
     E del possente nascituro, e in Litto
     La mandaro, di Creta opimo suolo,
     Quand’ella il magno Giove, ultima prole,
     Dovea dare alla vita; e la gran Terra
     Nell’ampia Creta accolselo e nutrillo,12

     Ratta ed avvolta dalla notte bruna
     In Litto andonne, e dentro aspra spelonca,
     Nelle latèbre dell’Egea montagna,
     Cupa e selvosa, il suo figliuolo ascose.
     Mandò poscia un gran sasso in fasce avvolto
     All’Uranide, primo re dei numi,
     Che in atto fero il prese e l’ingozzò.
     Nè sentì ch’era sasso, e che il suo figlio
     Lungi e sicuro gli apprestava guerra,
     Che forte in armi gli torria lo scettro,
     E il re saria dei numi. E tosto al prence
     Crebbero il senno e le robuste membra.
     E col volger dei tempi, il cauto, il magno
     Crono fu stretto dal sagace inganno
     Della Terra, e dall’arti e armi del figlio
     A metter fuori l’ingoiata prole.
     E pria quel sasso che ingollato avea
     Mandò fuor della strozza, e Giove il fisse
     Sull’ampio suol nella divina Pito,
     Del Parnasso alle falde, affinchè fosse
     Monumento ai mortali e maraviglia13

     E dall’aspre ritorte, onde lo stolto
     Padre avvinti li avea, sciolse gli zii,
     Che grati del favor gli diero il tuono,
     La folgore rovente ed il baleno,
     Che la gran Terra ancor celava in grembo,
     Ond ha l’imperio sui mortali e i numi
     Giapeto menò sposa e in letto accolse
     Climene piè-leggiadra Oceanina,
     E n’ebbe Atlante invitto, il glorïoso
     Menezio, l’ingegnoso, acre Prometeo
     E lo stolto Epimeteo, origin prima
     All’industre mortal d’ogni sciagura
     Ch’ei primo accolse dalle man di Giove
     Una plasmata vergine. Il protervo
     Menezio colse d’uno stral rovente
     L’Ampio-veggente, e lo travolse all’Orco
     Per sua baldanza temeraria ed empia.
     Costrinse Atlante a folcere col capo
     E colle braccia infaticate il cielo
     Nel lembo estremo della terra, in faccia
     Alle canore Esperidi: siffatto

     Gli sortì minister Giove sagace.
     E di ferree ritorte ad un dirupo
     Legò Prometeo, il multiforme ingegno,
     E un’aquila mandò dai larghi vanni,
     Che il fegato immortal gli divorasse;
     Il qual di tanto ognor crescea la notte,
     Quanto l’immane augel struggeane il giorno.
     Ma d’Alcmena piè-vaga il forte figlio
     Ercol la spense, e tolse al rio martoro
     Il buon Giapezio, e rinfrancogli il core;
     Non lo vietando il sommo Olimpio Nume,
     Che d’Ercole Teban volea cresciuta
     La gloria, onde alle genti era già conto.
     Tanto in pregio ei teneva il chiaro figlio,
     Che per lui pose giù l’odio e lo sdegno,
     Che in sen gli accese il dì, ch’osò di senno
     Contendere con lui, sommo Cronide.
     Chè il dì che sorse tra mortali e Divi
     Gara in Mecone,14 con audace mente
     D’ingannarlo avvisò col porgli avanti
     Due parti, a scelta, d’un gran bue diviso.

     Quindi ascose nel vello adipi e carni,
     Su vi ponendo gl’intestini a vista;
     Quindi l’ossa spolpate, accortamente
     Disposte e ascose dalla bianca sugna.
     Ma degli Eterni e dei mortali il padre
     Allor così gli favellò: – «Giapezio,
     Di tutti i prenci il più famoso, o caro,
     Deh come parzïal festi le parti!»
     Sogghignando così favellò Giove
     D’infallibil consiglio. E a lui l’astuto
     Prometeo, dolce sorridendo e intento
     A compiere l’inganno: «O degli Eterni,
     Rispose, il primo e glorïoso nume,
     Scegli qual più fa pago il tuo desio.»
     E ben fingendo il disse. Ma la frode
     Vide di Giove l’infallibilmente,
     E in suo segreto meditò gli affanni,
     Ch’esso ai mortali manderebbe in pena.
     Strappò con ambe man la bianca sugna,
     E, vedute del bue l’ossa spolpate
     Con inganno disposte, arse di sdegno,

     E l’ira il core gli colmò. D’allora
     Ardon gli umani sui fumanti altari
     Le bianc’ossa agli Dei. Ma corrucciato
     Sì gli parlò l’adunator dei nembi
     «Giapezio, mastro d’ogni astuzia, il vezzo
     D’ordire inganni tu giammai non smetti!»
     Sì l’infallibil nume irato disse,
     E da quell’ora in cor serbando eterna
     La rimembranza dell’inganno, ai grami
     Terrestri abitator negò del fuoco
     La perenne virtù. Ma lo deluse
     Di Giapeto il buon figlio, a lui furando
     Dai cieli in cava lente i rai perenni.
     N’ebbe punto il Tonante il cor profondo,
     E infiammato di sdegno allorchè vide
     Rapito il fuoco dall’eterea vôlta
     E agli uomini renduto, apprestò tosto
     Per punirli del dono un rio malanno.
     Per suo comando l’inclito Vulcano
     Formò d’argilla un corpo, aspetto e volto
     A vereconda vergine simíle,

     L’animò poscia l’occhi-glauca Palla,
     E l’adornò di bianca vesta un velo
     Di fine lavorio dal capo ai piedi
     Le stese, e quella ne tenea le fimbrie,
     Maraviglia a veder! colle sue mani.15
     Di rugiadosi fior leggiadro serto
     Le compose sul capo, e il crin le cinse
     D’aurea corona, che il divino Storpio
     Di sue mani, gradendo al sommo Giove,
     Industremente lavorò. Vi sculse
     Molt’ingegnosi fregi, opra stupenda!
     Molte fra quante i continenti e i mari
     Nutrono belve vi scolpì la grazia
     Nè spirava da lungi, e detto avresti,
     Mirabil cosa! ch’avean spirto e voce.
     Fatto un malanno tal, bello in sembiante,
     Del bene avuto in pena,16 egli l’addusse
     Ridente delle grazie, onde vestilla
     Del Dio dei nembi l’occhi-glauca figlia,
     Ov’eran Divi e umani. E alto stupore
     Divi e umani colpì, come quel mostro

     Insidïoso e all’uom fatale apparve.
     Chè d’esso nacque la feminea prole,
     D’esso l’esizïal genia donnesca,
     Tormento all’uom che le soggiorna al fianco,
     Impazïente di penuria e amica
     Del lusso. Come fuchi in arnie chiuse,
     Compagni sol per consumare, il frutto
     Si divoran dell’api; e mentre queste
     Dal sorgere dell’alba al sol cadente
     Faticano a costrurre i crocei favi,
     Poltrono quelli nel sicuro tetto,
     E dell’altrui fatiche empionsi il ventre;
     Tal le donne malefiche compagne
     Diede all’uom per punirlo il Dio tonante.
     E male aggiunse a mal: se l’uomo fugge
     Imene, e della donna il reo talento
     Sposar ricusa, giunto alla cadente
     Senile età non ha chi lo conforti.
     Infra dovizie ei viva pur; ma quando
     Muore, sangue non suo ne sperde i beni.
     Pur chi amica ha la sorte, e donna egregia

     Menossi sposa e di ben fatto core,
     Con questo bene il male suo compensa.
     Ma l’uom che diede in triste moglie, in petto
     Martoro annida tal, che senza tregua,
     Senza rimedio gli consuma il core.17
     Deludere e sfuggir l’occhio di Giove
     Così si tenta invan; nè anche il Giapezio,
     Il sagace Prometeo, al fiero sdegno
     Si sottrasse di lui; benchè si accorto,
     Ei gemè tuttavolta in duri ceppi.
     Come l’odio ad Urano il core accese
     Contro di Brïareo, di Cotto e Gia,
     Ei li strinse di lacci, e intimorito
     Di loro immane forza e immani membra,
     Ei li cacciò dell’ampia terra in fondo.
     Dolenti abitator degl’imi abissi,
     Della gran terra nell’estremo lembo,
     Giacean gravati di mortale angoscia;
     Quando Giove cogli altri eterni numi,
     Che la chiomata Rea produsse a Crono,
     Consigliante la Terra, al sol li trasse

     Ch’essa l’arcano per disteso aprigli,
     Come a lui di vittoria e alto rinomo
     Fora l’unirsi con costor. Chè in guerra
     Lunga, affannosa cimentâr le sorti
     In dure mischie petto a petto i divi
     Titani, e tutta la Saturnia prole,
     Dall’Otri eccelsa i nobili Titani,
     Dall’Olimpo gli Dei dator di beni,
     Figli di Crono e Rea leggiadra il crine.
     Già senza tregua in travagliosa lotta
     Dieci anni e più duravano feroci,
     E dell’aspra contesa ancor lontana
     Era la fine, e la vittoria incerta.
     Ma dacchè s’apprestò quant’era acconcio
     Agli allëati, e il nettare e l’ambrosia,
     Dapi solo da numi, a lor si porse,
     Crebbe in lor petto il generoso core,18
     Dell’ambrosia vivanda e del soave
     Nettare invigoriti, il sommo padre
     D’uomini e Divi lor favella e dice
     «Della Terra e d’Urano illustri figli,

     Udite ciò che in petto il cor mi detta.
     Già molto a lungo dispiegati a fronte
     I divini Titani, e quanti siamo
     Seme di Crono, la vittoria e il seggio
     Ci abbiam conteso. Or voi mostrate il nerbo
     Di vostre immani insuperate braccia
     Ai Titan petto a petto in truce mischia,
     Memori dell’amore, ond’io pietoso
     Infransi i vostri dolorosi ceppi,
     E dai profondi abissi al sol vi trassi.»
     Ei così dice, e il generoso Cotto
     Così risponde: «Ignote cose, o Nume
     Tu non favelli: conoscemmo a prova,
     Che te nessun di cor, di mente adegua,
     Te d’aspri danni vindice agli Eterni.
     Franti per tua possanza i duri ceppi,
     Noi già dannati a disperato strazio
     Dai cupi abissi risorgemmo, o prence,
     Germe di Crono. La tua causa or noi
     Con proposito saldo e fido core
     In aspra guerra sosterremo, a fronte

     Lottando baldi coi Titani.» — Ei disse,
     E alle parole sue plausero i Divi
     Donatori di beni, e guerra, guerra
     Il cor fremeva più che mai: quel giorno
     Guerra, guerra gridâr femine e maschi,
     Gli Dei Titani e la Croneide stirpe,
     E quei che Giove ridonò alla luce
     Dalle cupe tenèbre, aspri, gagliardi
     Di forza sfolgorata. Ognun del pari
     Cento braccia sugli omeri scotea;
     Dagli omeri a ciascun sorgean cinquanta
     Teste su membra nerborute. A guerra
     Essi i Titani provocâr brandendo
     Coi pugni poderosi enormi rupi.
     I Titani all’incontro al gran cimento
     Infiammavan le schiere, e gli uni e gli altri
     Feano prove di possa e di baldanza.
     L’immenso ponto mormorò, la terra
     Rimbombò cupamente, il vasto cielo
     Intronato geme, sotto crollarsi
     D’Olimpo i gioghi degli Eterni all’urto.

     Giunse nel negro Tartaro il tremendo
     Squasso, e dell’orme il fragoroso tuono,
     Dell’avventarsi e dei gagliardi colpi;
     Tal dei lanciati teli il fischio e il rombo.
     Il gridar d’ambe parti il cielo attinse
     Ch’alto gridando ei combattean. Non tenne
     Più Giove il suo furor: le ire raduna
     Intorno al core, e il suo poter dispiega.
     Dall’Olimpo e dal ciel continuo ei vola
     Distesamente folgorando. Ratti
     Dalla destra regale insiem col tuono
     E col baleno volano gli strali,
     Divina fiamma travolvendo, a mille.
     E l’alma terra intorno arsa ne geme,
     E l’ampia selva stridere già senti
     Dal fuoco avvolta, e il suolo, e le correnti
     Ribollon d’Oceáno e il vasto ponto.
     Infiammato vapore intorno cinge
     I terrestri Titani, e sconfinata
     Vampa sino al divino Etere s’erge.
     Il coruscar di fulmini e di lampi

     Abbarbagliava dei Titani il guardo,
     Benchè sì forti. Il sacro incendio avvolse
     Il Chäos, che credè veder cogli occhi,
     E colle proprie orecchie udir lo stroscio,
     Qual se dinanzi a lui travolti e misti
     Rüinasser la terra e l’ampio cielo;
     Tal diè la terra rumoroso crollo,
     Tal fu del ciel su lei l’alta ruina,
     Tale il fragore dei pugnanti numi.
     E in una i venti travolvean rombando
     E la battuta polve e il tuono e il lampo,
     E gl’infiammati folgori e gli strali
     Del sommo Giove, e sospingeano in mezzo
     Alle falangi avverse i gridi e gli urli.
     Della terribil pugna alto s’ergea
     L’indicibil trambusto: ei di fortezza
     Ben davan prova: alfin piegò la lotta.
     Finor salde ambe parti avean pugnato
     In acre mischia; ma tenzon tremenda
     Rinfocò Brïareo con Cotto e Gia
     Di pugne insazïato. Ei di trecento

     Balze avventaro sui Titani un membo
     Coll’aspre mani, e li accecâr coi dardi;
     E vinti li cacciâr sotto la vasta
     Terra, e li avvinser di ferrati nodi
     Benchè sì forti, e tanto in giù, di quanto
     Dista dal cielo il suol chè spazio eguale
     La terra e il negro Tartaro divide.
     Chè un ferreo masso nove giorni e nove
     Notti precipitar dovria dal cielo
     Per giungner nel dì decimo alla terra;
     E al decimo del par quel ferreo masso
     Dal suol darebbe nel tartareo fondo.19
     Claustro di bronzo il tartaro ricinge,
     Ed al suo collo in triplicato cerchio
     La notte incombe, e in cima i fondamenti
     V’hanno la terra e il pelago infecondo.
     Laggiù l’adunator dei nembi chiuse
     I divini Titani in cupo buio;
     Soggiorno di squallor, dell’ampia terra
     Recesso estremo. D’ogni scampo è morta
     Per lor la speme: chè Nettun vi estrusse

     Bronzea porta,e muraglia intorno intorno,20
     E vi veglian custodi e Cotto e Gia
     E il forte Brïareo fedeli a Giove.
     Il tenebroso tartaro e l’opaca
     Terra, il mare infecondo e il ciel lucente
     Per ordine hanno quivi i fonti e i lidi.
     Squallida chiostra, ai numi stessi orrenda.
     Vorago immane! a chi ne penetrasse
     La soglia, un anno inter saria pur poco
     A battere sul fondo: chè travolto
     Nelle spire dei turbini n’andrebbe;
     Portento pauroso anche agli Dei!
     Là pur dell’atra Notte è il diro tetto
     Sepolto entro caligine profonda.
     Di contro a questo di Giapeto il figlio
     Indefesso suffolce il vasto cielo
     Col capo e colle braccia immoto e ritto,
     Dove la Notte e il Dì giunti di fronte
     Si dan la muta valicando a un tempo
     Il grande bronzeo limitare; e mentre
     Quell’entra, questo n’esce; entrambi mai

     Quella magion non serra. Allorchè l’uno
     Uscito della soglia intorno gira
     La terra, l’altra nell’ostello attende,
     Finchè alla volta sua quello ritorni.
     L’uno ai mortali la dïurna lampa,
     L’altra ad essi per mano adduce il Sonno,
     Germano della Morte: orrida Notte
     Di dense ombre ravvolta. — Ivi han pur sede
     La Morte e il Sonno, della Notte oscura
     Prole diva e possente. Il sole, o ascenda
     L’erta del cielo o giù dal ciel si cali,
     Col raggiante occhio suo non mai li scorge.
     L’un per le terre e il vasto pian dei flutti
     Va queto queto, e molce i petti umani;
     Ma l’altra in seno ha cuor di ferro, un’alma
     Fella, spietata: l’uom che afferra uccide;
     Dai sempiterni numi anco abborrita.
     Là di contro son pur del nume inferno
     Le alte magioni, del temuto Dite,
     E della cruda Proserpína. E un fero,
     Implacato mastino e frodolento

     Ne difende la soglia: ei colla coda
     E colle orecchie a penetrarle invita,
     Ma niega indi l’uscirne, e insidïoso
     Sbrana chi colga delle porte uscendo
     Della cruda Prosérpina e di Dite.
     Là soggiorna la Dea, tremenda ai numi,
     La fiera Stige, la più nobil figlia
     D’Oceán riflüente. Inclita stanza
     Scevra dai numi ell’abita, coverta
     D’alte pietre, e che tutta intorno intorno
     Sovr’argentee colonne al ciel si estolle.
     Di Tomante la figlia, Iri veloce,
     Di rado messaggera a lei si reca
     Pel vasto pian dei flutti. Allorchè sorga
     Lite o tenzon fra i numi, o quando alcuno
     Olimpio cittadino il falso giuri,
     Di mandar Iri allora ha Giove in uso
     Per recar da sì lunge in aureo nappo,
     Arra del grande giuramento ai Divi,
     Quell’onda rinomata, che dall’alto
     D’aërio masso gelida trabocca.

     Di sotto all’ampio suol per fosco calle
     Dal fiume almo Oceáno ella deriva,
     Scevra dalle altre decima corrente;
     E mentre le altre nove in chiari gorghi
     Alla terra d’intorno e al vasto dorso
     Si volvono dei flutti e in mare han posa,21
     Questa spiccia da un sasso a un fio tremendo.
     Chè ove alcun degli Dei, donni dell’alto
     Nevoso Olimpo spergiurò libando
     Di quell’onda, pel volgere d’un grande
     Anno immemore sta; néttare e ambrosia
     Non lo pascono mai; senza respiro
     E senza voce sovra inerte letto
     Egli si giace in rio letargo immerso.
     E quando col grand’anno il sopor cessa,
     Pena di quella ancor più ria l’attende.
     Dalle congréghe degli eterni numi
     Escluso egli è, nè mai con lor s’asside
     Per nove anni a consiglio od a banchetto;
     Al decimo di nuovo al parlamento
     Dei cittadini dell’Olimpo è accolto.

     Tal sacramento fecero gli Dei
     Dell’Ogigia22 immortale onda di Stige,
     Che si devolve per selvagge vie.
     Il tenebroso tartaro e l’opaca
     Terra, il mare infecondo e il ciel lucente
     Per ordine hanno quivi i fonti e i lidi,
     Squallidi orrendi e dai medesmi numi
     Abominati. Là marmoree porte,
     Bronzea incrollabil soglia, e da sè sorta
     Di sopra eterni fondamenti. In faccia,
     Scevri da tutti i numi, hanno soggiorno
     I Titani, al di là del negro Chaos,
     E Cotto e Gïa, valoroso braccio
     Del Dio tonante, all’Oceáno in fondo.
     Ma il Dio che alto rimugge e scuote i lidi
     Gener si tolse Brïareo, la sua
     Figlia Cimopolea dandogli sposa.
     Poichè Giove dal ciel cacciò i Titani,
     La gran Terra col Tartaro commista
     Per Venere leggiadra in molle amplesso
     Ultimo figlio partorì Tifeo,23

     Che a dure imprese avea ben pronto il braccio,
     E infaticato il piè. D’orrido drago
     Cento teste sul collo egli agitava,
     E le lambia coll’atre lingue. Gli occhi
     Rotavan lampi sulle fronti, e il fuoco
     Che n’esalava ardea chi lo mirasse.
     Mettea dall’atre fauci arcani e varii
     Suoni ed accenti. Ed or qual Dio parlava,
     Or pari a fiero toro alto muggiva,
     Ed or ruggia qual rabido lëone;
     Ora, oh portento! somigliante a un bracco
     Ei guaiolava, ed or sì reböava,
     Che ne gemeano i monti. E audace impresa
     Compia, d’uomini e numi ei re si fea,
     Se il padre dei mortali e degli Eterni
     Nol prevenia. Con impeto tremendo
     Ei tuonò, ne gemè la terra intorno
     E il soprastante vasto cielo e il ponto,
     D’Oceàn le correnti e gl’imi abissi.
     Sotto l’orma immortal del nume irato
     Il grand’Olimpo traballò, e di sotto

     Tremò la terra. Il tuon di Giove e il lampo,
     E le roventi folgori, e le vampe
     Avventate dal mostro, e gli arsi fiati
     Dei venti in un incendio impigliâr tutto
     Il glauco ponto. Tutt’ardea la terra,
     Il cielo e il mar, fremean le piagge intorno
     E gli alti flutti, e feano alto trabalzo
     Dei due numi al pugnar. Tremò Plutone
     Dei morti imperador, più giù tremaro
     I tartarei Titan di Crono al fianco
     Dell’aspra lutta al fragoroso rugghio.
     Or poichè Giove adunò l’ire, il tuono
     Afferra e il lampo e il folgore infiammato,
     Ed irrüendo dall’Olimpo impiaga
     Il diro mostro, le fatali teste
     Tutte gli adugge, e dagli strali oppresso
     Scemo di membra il fa cader riverso,
     E n’ulula la Terra. Il mostro spira
     Fiamme dalle ferite, onde l’afflisse
     Il sommo Giove a un folto bosco accanto
     D’erta pendice. La terrestre mole

     Per la gran vampa si struggea combusta.
     Qual per arte di giovani gagliardi
     Entro fornace accomodata all’uopo
     Si discioglie lo stagno, o come il ferro,
     Ch’è pur sì duro, di Vulcano all’opra
     Domo dal fuoco solvitor si sface
     Nei divi antri profondi; al par la terra
     Struggeasi sotto gl’infocati ardori.
     Ei cacciò poi nel Tartaro profondo
     Il mostro sbaldanzito. – Or di Tifeo
     Nacquero i Venti dal madente soffio,
     Zefiro tranne e Argeste e Borea e Noto,
     Prole divina e dei mortali amici.
     Questi innocenti volano sull’onde,
     Ma sovra il torbo mar piombano quelli
     Destando rie procelle all’uom fatali.
     Talor soffiano avversi, e le carene
     Dispergono, sommergono, nè schermo
     Contro loro ha il tapin che in mar li affronti
     Ed anco per gli aperti ameni campi
     Guastano del mortal l’opre gradite

     Coprendole di polve e di ruina.
     Poichè posero fine alla tenzone
     Gli Dei beati, e vinsero i Titani
     Nella contesa degli onor, pregaro
     (E consigliera fu la Terra) il saggio
     Olimpio Giove ad impugnar lo scettro,
     Monarca degli Eterni; ed egli quindi
     Divisò lor gli onori. Il re dei numi
     Menossi allora prima moglie Meti,24
     Dotta assai di divine e umane cose
     Ma quando nella Dea dagli occhi azzurri
     Atena ella s’incinse, egli cacciolla
     Con frodi e blandi detti entro il suo petto,
     Consiglianti la Terra e il chiaro Urano,
     Perchè nessuno degli eterni Divi
     Il regal serto gli rapisse, avendo
     Già fermo il fato, che sagace prole
     Del grembo di sua moglie uscir dovesse.
     E Tritogene in prima occhi-cilestra
     Partorito ell’avria, di spirti e senno
     Eguale al genitor; indi un figliuolo

     Destinato sovran d’uomini e numi
     Di spirti tracotanti ond’egli tosto
     Ingoiossi costei, perchè a lui solo
     Fêsse conto la Diva il bene e il male.
     Sposossi poscia l’alma Temi, e n’ebbe
     Le Ore, la vaga Irene, Eunomia e Dice,
     Che dell’opre dell’uomo hanno la cura;
     E le Parche, cui diede un alt’onore
     Giove sagace; e son Lachesi, Cloto
     E Atropo, di venture or tristi or buone
     Datrici all’uomo. — Euronima vezzosa,
     D’almo sembiante e all’Oceán figliuola,
     Delle tre vaghe Grazie indi il fe’ padre,
     Eufrosine, Talia leggiadra e Aglea,
     Di sotto alle cui ciglia il guardo vibra
     Un amor che soggioga sì soavi
     Volgono le pupille. — Il letto ei poscia
     Dell’alma Cere ascese, e la fe’ madre
     Di Proserpina candida le braccia,
     Cui rapì Dite alla sua madre, in moglie
     Già datagli da Giove. — Arse egli poi

     Per Mnemosine bella,25 onde le nove
     Muse d’aurea corona il crine avvinte,
     Vaghe di feste e voluttà di canto.
     Indi Latona coll’Egioco nume
     Avvinta in dolce amor partorì Febo,
     E l’arciera Dïana, amabil prole
     Agli Dei dell’Olimpo. — Ultima moglie
     Tolse la vaga Giuno, che commista
     Col sovrano dei numi e dei mortali
     Ad Ebe, a Marte e ad Ilitia diè vita.
     Ma da sè dal suo cranio avea prodotto26
     L’occhi-azzurra Tritogene, potente
     Svegliatrice di bellici tumulti,
     Condottiera di schiere, augusta, invitta,
     Cui giovano di guerra i gridi e il cozzo.
     Di che Giuno crucciosa, alla sua volta
     Senza il laccio d’amor produsse il chiaro
     Vulcan, che tutti gli Uranidi avanza,
     Fabbro ingegnoso. — Di Nettun sonoro
     E d’Anfitrite nacque il grande, il forte
     Triton, che re del salso fondo, accanto

     Ai genitor regali in auree stanze
     Possente nume alberga. — E Citerea
     Produsse a Marte spezzator di scudi
     Fuga e Terror, che in compagnia del padre,
     Esizio di città, turbano in guerra
     Le dense schiere; ed Armonia, che sposa
     Il prode Cadmo si menò. — L’augusto
     Talamo asceso, l’Atlantide Maia
     Produsse a Giove il generoso Ermete,
     Nunzio dei numi; e Semele Cadmide,
     Mortale un immortal, Bacco giocondo,
     Ora immortali entrambi. Alcmena poi
     Mista in amor col densator dei nembi
     L’Erculea forza partorì. Vulcano,
     L’inclito Storpio, delle Grazie tolse
     La più giovane in moglie, Aglea leggiadra;
     E Bacco, d’oro redimito il crine,
     Arianna di Minòs la bionda figlia,
     Rorida sposa datagli da Giove,
     Immune di vecchiezza ed immortale,
     Della piè-vaga Alcmena il prode figlio

     L’Erculea forza, superati i duri
     Scontri, sposossi nel nevoso Olimpo
     Ebe vezzosa, del gran Giove ancella,
     E di Giuno che calza aurei coturni.
     Vinti i perigli, fra gli Dei sì chiaro
     Felice vive gioventù perenne.
     E Perside, la bella Oceanina,
     All’indefesso Sol, lampa del mondo,
     Partorì Circe e il rege Eeta; e questi
     Sposò, volenti i Numi, Idia vezzosa,
     Figlia dell’Oceáno, inclito fiume;
     E con lei misto in dolce amore ei n’ebbe
     La piè-vaga Medea. — Salvete or voi,
     Cittadini d’Olimpo, a cui soggetti
     Si stanno i continenti e i salsi flutti.
     La schiera delle Dive or voi mi dite,
     O soavi nel canto Olimpie Muse,
     Dell’Egioco figliuole; or dite quante
     Saliro umano letto, ed immortali
     Mortali generâr simili a Divi,
     Cerere diva con Iasio eroe

     Congiunta in dolce amor generò Pluto27
     Nei molli prati dell’opima Creta
     Amico nume, che la terra e gli ampi
     Pelaghi scorre, e ricco e assai felice
     Fa il venturoso che s’imbatte in esso.
     Ed Armonia di Venere figliuola
     A Cadmo partorì Semele ed Ino,
     E la leggiadra Agave, ed Autonóe,
     Che il chiomato Aristeo sposa menossi,
     E Polidor nella turrita Tebe.
     Calliroe figlia d’Oceáno, unita
     Nel dolce laccio dell’idalia Diva
     Col forte Crisäór, produsse un figlio,
     Il più gagliardo fra i mortali tutti,
     Gerïon, cui la forza Erculea spense
     Nell’ondosa Eritía pel tolto armento.
     Ed Aurora a Titon Mennon produsse,
     Degli Etiopi sovrano, aspro nell’armi,
     E il rege Ematïon. D’illustre prole
     Cefalo indi fe’ padre, dell’ardito
     Fetonte, a un Dio simíl, che fresco fiore,

     Di bella gioventù caldo e di spirti
     La dea del riso Venere rapio,
     E nel tempio divin genio divino
     Dei suoi misteri sacerdote il pose.
     L’Esonide, volenti i Divi eterni,
     Rapì la figlia del regale Eeta,
     Di Giove alunno, superati gli aspri
     Cimenti, che il feroce e tracotato,
     Lo scelerato Pelia aveagl’imposto.
     Dopo lunghi dolor reduce a Iolco
     Si condusse su rapida carena
     La fanciulla occhi-vaga, ed impalmolla.
     E grave di Giason, duce di genti,
     Ella un figliuolo partorì, Medeo,
     Che il Filirio Chiron nudrì fra i monti
     Così di Giove s’adempía la mente.
     Delle figliuole di Neréo, canuto
     Nume del mare, Samata leggiadra
     Con Eaco, unita d’amoroso laccio,
     Partorì Foco, e la piè-nivea dea
     Teti, giaciuta con Peleo, lo strenuo
     Achille generò, cor di lëone.
.
La coronata Citerea commista
     Nelle ombrose e intricate erte dell’Ida
     In dolce amplesso coll’eroico Anchise,
     Fu genitrice a Enea — Circe, la figlia
     Del Sole Iperïonio, amore avvinse
     All’indomato Ulisse, ed Agrio n ebbe,
     Telegono e Latino inclito e prode.
     Questi nelle remote isole sacre28
     Sui nobili Tirreni hanno l’impero.
La dea Calipso con Ulisse unita
     In dolce nodo, a Nausitóe fu madre
     E a Nausinóe. — L’eterne Dee fûr queste
     Giaciute con mortali, e fatte madri
     D’uomini pari a Dei. — Delle mortali
     Lo stuol ditemi or voi, dolci nel canto,
     Olimpie Muse, dell’Egioco figlie.


Traduzione dal greco di Lorenzo Pozzuolo (1873)

Note

  1. A quest’espressione violenta diasi l’importanza stessa già data a quella, che chiarii nella nota 7 ai Lavori e Giorni. Espressioni somiglianti pone talvolta Omero in bocca ai suoi eroi. Il., V, 787.
  2. L’alloro fu sempre considerato qual simbolo dell’inspirazione poetica, qual distintivo e scettro dei poeti.Fu pur detto essere il loro cibo: onde l’espressione masticar l’alloro: Gioven., Sat., VII, 19; Marziale, Epigr., IV, lib. V.
  3. La versione letterale del testo sarebbe: Ma perchè tali cose per me si rivelano intorno a quercia o pietra? espressione proverbiale efficacissima per gli antichi, per noi senza nerbo e scolorita. Si riferisce alla credenza, che il nume consultato desse il responso dal tronco degli alberi, o dal seno delle rocce. Ricordisi il faggio dodoneo (vedi frammento XXIV al Catalogo delle donne); la quercia dodonea, Om., Od., XIV, 327; e la Pietra Parnassea, Aristof., Nub., 6oo. Veggasi pure Q. Curzio, Vita d’Alessandro, nella lettera di Alessandro ad Aristotile, e Orazio, Epist. I, lib. II, 27. Alcuni monumenti
  4. La parola Ciclope infatti suona avente in volto un cerchio, cioè un occhio.
  5. Cioè, non può esservi nome, che esprima adeguatamente la mostruosa loro natura.
  6. Parla di loro fra altri Apollonio Rodio, Argon. II, 7. Son le stesse che Melisse, le nutrici di Giove, e personificazione delle api, che Melisse appunto son dette in greco.
  7. Il testo ha Moiras e Kēras. Sono dunque distinti questi due ordini di esseri, tristi compagni dell’uomo. Quelle sono le Parche comunemente dette, datrici sì del bene che del male agli uomini. Queste invece rappresentano i vari generi di morte, e secondo Omero sono perciò infinite. Il., XII, 326 e seg. Esse non vestono quindi che caratteri odiosi, e l’ag giunto che loro talvolta danno i poeti è cagne al sembiante. Euripide, El., 1252.
  8. La parola nel testo è Graias, che infatti dice vecchie.
  9. Si veda nella Mitologia di Max Müller, pag. 307, la bella esposizione del mito di Perseo e Medusa.
  10. Farà maraviglia, che Esiodo dia a Cerbero 50 teste. Forse avvenne qui, come osserva il Göttling, uno spostamento di verso, e quell’aggiunto dovea darsi a Tifone. Ma potrebbe pure trovarsene ragione in
  11. Questo concetto ci porta ad epoca immemorabile, in cui la pirateria, il furto d’ogni fatta, era considerato un’onesta industria, e il solo fatto dell’occupazione dell’altrui implicava il diritto.
  12. Questo mito fu comparato con molto acume ad un somigliante del ciclo vedico dal De-Gubernatis: vedi Piccola Enciclop. Indiana alla parola Indra, p. 141.
  13. È il sasso Delfico, di cui, fra altri, fa menzione Pausania, X, 24.
  14. Mecone è la stessa città che Sicione. Questo mito, come ben nota il Göttling, ci porta al tempo, in cui il culto dei numi olimpici entrò nel Peloponneso.
  15. Pandora (traduco dal latino del Göttling) tenea colle
  16. Il testo qui ha un giuoco di parole, che nella nostra lingua riuscirebbe volgare e senza vigore.
  17. Vedi la Satira sopra le donne di Simonide, tradotta in bellissimi endecasillabi da Leopardi, e nella quale si fa il ritratto della cattiva moglie e della buona.
  18. Anche nel primo libro del Ramájana si parla del l’efficacia della divina bevanda prodotta negli Dei discesi dal cielo per prender parte all’impresa guerresca di Rama.
  19. Credo che Milton conoscesse questa parte della Teogonia d’Esiodo. Massime nel libro primo c’incon triamo in parecchie imagini somigliantissime a quelle del poeta Ascreo. Cito un passo, dove il poeta inglese dice che gli angeli ribelli furono cacciati in luogo

    Così lungi da Dio, così remoto
    Dal sidereo splendor, come tre volte
    Dal centro del creato il più lontano
    Polo si scosta...

  20. Questo concetto degli antichi sul sistema fluviale ci fa sorridere. Eppure se badiamo all’immenso intervallo, che separa noi da quei tempi, troviamo giusto l’elogio che Strabone (I, pag. 7) fa di Omero, chiamandolo il primo geografo. Da Omero ad Esiodo i progressi non sono grandi: Esiodo nomina altrove alcuni fiumi, come l’Eridano, l’Istro, che Omero non nomina, ma il sistema generale è lo stesso.
  21. Ogige è considerato qual principale rappresentante del diluvio parziale della Beozia, come Noè di quello di Palestina, come Manu di quello dell’India. La favolosa Ogigia era l’omfalo o l’umbilico del mare. Onde pare che Ogigia sia un aggiunto patronimico di Stige qual figlia dell’Oceano, padre e centro di tutto il sistema acqueo. Nei tragici specialmente ve diamo un tale aggiunto dato ad Atene e a Tebe, onde poi venne pure a significar antichissimo, quindi santo e venerando.
  22. Ogige è considerato qual principale rappresentante del diluvio parziale della Beozia, come Noè di quello di Palestina, come Manu di quello dell’India. La favolosa Ogigia era l’omfalo o l’umbilico del mare. Onde pare che Ogigia sia un aggiunto patronimico di Stige qual figlia dell’Oceano, padre e centro di tutto il sistema acqueo. Nei tragici specialmente ve diamo un tale aggiunto dato ad Atene e a Tebe, onde poi venne pure a significar antichissimo, quindi santo e venerando.
  23. Meti è il tipo della Saga, della chiaro-veggente, innanzi a cui il futuro squarcia il suo velo. Conoscitrice del bene e del male, ella ha la potenza di renderli ministri delle sue voglie. Epperò Giove se la inghiotte per far propria la virtù di lei. Effetto n’è la nascita di Pallade, la dea delle scienze e delle arti. La parola MetiMati in sanscrito, è, in origine, un astratto, e dice pensieromeditazioneinvestigazione: vedesi nel latino mente e nell’arcaico Mine-sva, poi Minerva.
  24. Mnemosine dice la virtù del pensare, del ricordare: è un astratto divenuto concreto per la personificazione, come Venere (lat. Venus) è la bellezza. La parola Muse all’incontro è un concreto, e suona le pensanti, le ricordanti.
  25. In uno degli inni vedici la Parola Eterna, il Verbo, dice: Io uscii dal cranio del mio padre.
  26. Pluto è il dio delle ricchezze da non confondersi quindi con Plutone.
  27. Sulle isole sacre, vedi Strabone, V, pag. 215; Om., Od., XII, 127 e segg. Sui Tirreni o Tirseni, vedi Dion. d’Alicarnasso, I, 29.

 

15 marzo 2024 - Eugenio Caruso

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