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Tucidide e il suo capolavoro La Guerra del Peloponneso.

"un formidabile strumento di interpretazione della storia, di comprensione delle sue modalità, delle sue tendenze e dei suoi valori colti nel momenti in cui assurgono alla consapevolezza e si pongono in un urto dialettico". (Di Luciano Canfora).


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti, pensatori e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

GRECI E LATINI

Alceo - Anacreonte - Anassagora - Anassimandro - Anassimene - Archiloco - Aristofane - Aristotele - Callimaco - Catullo - Cicerone - Democrito - Diogene - Empledoche - Epicuro - Eraclito - Erodoto- Eschilo - Esiodo - Euclide - Euripide - Lucrezio - Ovidio - Pindaro - Pitagora - Platone - Plutarco - Saffo - Seneca - Socrate - Solone - Talete - Tucidide - Virgilio - Zenone -

 

Tucidide, figlio di Oloro, del demo di Alimunte (Alimunte, 460 a.C. circa – Atene, dopo il 404 a.C., ma, secondo altri, dopo il 399 a.C.), è stato uno storico e militare ateniese, uno dei principali esponenti della letteratura greca grazie al suo capolavoro storiografico, La Guerra del Peloponneso, che insieme all'opera erodotea Storie costituisce una delle fonti principali a cui gli storici moderni hanno attinto per ricostruire alcuni eventi della storia dell'antica Grecia.

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Busto di Tucidide
Questo accurato resoconto sulla grande guerra tra Atene e Sparta (431 - 404 a.C.) è considerato - in termini di modernità - uno dei maggiori modelli narrativi dell'antichità, sicuramente uno dei primi esempi di analisi degli eventi storici secondo il metro della natura umana, con l'esclusione quindi dell'intervento di ogni divinità.
Tucidide nacque nel demo attico di Alimunte presso Atene, si pensa intorno al 460 a.C., dalla nobile famiglia dei Filaidi: il padre era Oloro, del demo di Alimunte, imparentato con Cimone, figlio di Milziade. La madre si suppone fosse una certa Egesipile, sebbene non sia chiaro da quali fonti gli studiosi dell'epoca operanti ad Alessandria ricavarono tale notizia. Fervente sostenitore dello statista Pericle, egli ricoprì la carica di stratega della flotta di Atene nella guerra contro Sparta sul mare Egeo settentrionale.
Accusato di tradimento per aver fallito la spedizione di soccorso alla battaglia di Anfipoli, Tucidide fu cacciato da Atene (o scelse volontariamente di andarsene), vivendo in esilio in Tracia, dove si crede abbia trascorso 20 anni. Secondo altri rimase in Atene, ma restando escluso dalla vita politica.
Secondo Luciano Canfora, Tucidide non sarebbe stato scacciato, anzi era presente ad Atene nel 411, forse partecipe del tentativo di colpo di Stato oligarchico, e avrebbe assistito al processo contro il suo principale artefice, Antifonte. Quindi, egli avrebbe lasciato Atene e, ritiratosi in Tracia, avrebbe frequentato la corte del re macedone Archelao I a Pella insieme ad altri fuoriusciti come Euripide.
Nei lunghi anni di esilio (oppure di permanenza in incognito ad Atene) Tucidide riordinò i suoi scritti raccogliendoli nella sua articolata e sofferta opera: un insieme di otto libri che compongono la Guerra del Peloponneso, profondo e analitico resoconto cronologico del conflitto che oppose fra il 431 a.C. e il 404 a.C. Sparta ed Atene, le due massime potenze greche, entrambe in competizione per il predominio sulle poleis dell'antica Grecia.

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Busto di Tucidide

Secondo Tucidide lo storico ha il compito di fornire, a chi partecipa e guida la vita politica della comunità, gli strumenti per interpretare il presente e prevedere gli sviluppi futuri dei rapporti tra le poleis. Tale previsione è resa possibile, egli ritiene, dal fatto che esiste, nella storia umana, una costante fondamentale, che è la natura ( "physis"): data l'esistenza di questa costante, è possibile delineare l'esistenza di leggi che regolano deterministicamente il comportamento degli uomini aggregati socialmente prendendo spunto dalla concezione ippocratica della medicina.
La principale caratteristica della natura umana è il desiderio inesauribile di accrescimento, che non può essere né limitato né contrastato se non da una forza uguale e contraria. L'accrescimento ("áuxesis"), ossia la tendenza ad aumentare la propria potenza, è il tratto caratteristico e indissolubile della società umana organizzata politicamente: di conseguenza, quando, all'interno di un territorio circoscritto geograficamente, si vengono formando due centri di potere - nel caso greco le due poleis di Sparta e Atene - è certo che queste due entità tenderanno ad accrescere la propria forza, ad espandersi, a sottomettere le poleis più deboli, finché le reciproche sfere di influenza entreranno inevitabilmente in conflitto. Non sono possibili altri esiti, se non la guerra di annientamento: trattati di pace, accordi di convivenza, alleanze potranno avere luogo, ma solo per tempi e modi limitati, perché il desiderio di accrescimento non può che comportare il desiderio di annientare il rivale.
L'analisi di Tucidide spiega la guerra del Peloponneso e questo è lo strumento di indagine che Tucidide fornisce agli storici e ai cittadini della polis: in ogni tempo e in ogni luogo, la politica si esplicherà attraverso rapporti di forza e la guerra sarà il naturale esito del confronto tra due centri di potere collocati all'interno di uno stesso territorio.

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La peste di Atene in un dipinto di Michiel Sweerts

Riconoscendo la centralità della guerra nella storia umana, Tucidide riconosce anche l'importanza delle basi materiali grazie alle quali gli uomini si fanno la guerra, vale a dire il denaro. Senza denaro non si fa la guerra. Tucidide lo afferma esplicitamente all'inizio della sua opera nei discorsi pronunciati da Archidamo a Sparta e da Pericle ad Atene, i quali considerano le riserve finanziarie l'elemento essenziale per sostenere una guerra di grandi dimensioni. Senza di esse non è possibile armare un esercito, pagare i soldati, costruire una flotta, sostenere un assedio. In Tucidide la storia è diretta dagli uomini e dalle risorse materiali, non dagli dei o da considerazioni di ordine diverso.

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Pericle

Opere e discorsi
La Guerra del Peloponneso

I libri che compongono il racconto di Tucidide - redatti in maniera non sequenziale - sono tramandati, come del resto quelli di Erodoto, sotto il nome seriore di Storie o, semplicemente, Guerra del Peloponneso. L'opera distingue e tratta tre fasi del conflitto:
1) lo scontro tra i due colossi Atene e Sparta dal 431 a.C. al 421 a.C. (anno della pace stipulata dall'uomo politico e generale ateniese Nicia);
2) la sventurata spedizione ateniese in Sicilia iniziata nel 415 a.C. e conclusa nel 413 a.C. con la distruzione della flotta nel porto di Siracusa da parte delle truppe del comandante spartano Gilippo;
3) la prosecuzione del conflitto fino al 411 a.C.
Nelle intenzioni di Tucidide la narrazione sarebbe dovuta proseguire fino al 404 a.C., cioè fino alla fine della guerra del Peloponneso. Nell'indagine condotta da Canfora si presume che una parte finale del resoconto di Tucidide, quello relativo agli anni 410 - 404, sia da identificare nel I e II libro delle Elleniche di Senofonte.
I Libro: si apre con una sezione denominata "Archeologia" che sintetizza la storia della Grecia a partire dai primi abitanti fino all'età di Tucidide. Segue una premessa metodologica utile per comprendere l'opera, in quanto l'autore chiarisce il fine che si è proposto e il metodo di indagine utilizzato. Si passa poi agli antefatti che portarono all'ostilità tra Atene e Sparta.
II Libro: descrive i primi tre anni di guerra peloponnesiaca (431-429 a.C.). Qui si narra di Pericle e, di notevole importanza è l'orazione funebre tenuta dal medesimo, per commemorare i caduti del primo anno di guerra.
III Libro: copre il periodo dal 428 al 426 a.C., durante il quale gli spartani invasero per la terza volta l'Attica e rasero al suolo Platea, dopo aver massacrato la popolazione locale. Importanti sono anche i fatti di Corcira che spinsero Tucidide a riflettere sul sovvertimento di tutti i valori umani a causa della guerra.
IV Libro: protagonista di esso è il triennio 425-423 a.C., l'Attica viene invasa nuovamente dagli spartani, la guerra in Sicilia viene momentaneamente conclusa, e gli Ateniesi ottengono alcuni successi.
V Libro: esso si spinge fino al 416 a.C. La tregua tra Sparta e Atene durò meno di sette anni, provocata da violazioni da parte di entrambe. Fatto peculiare di questo libro, è che esso dà l'impressione di essere stato solamente abbozzato.
VI-VII Libro: sono dedicati alla narrazione dell'impresa in Sicilia con una breve introduzione sulla storia dell'isola.
VIII Libro: l'ultimo libro narra degli avvenimenti compresi tra il 413-411 a.C. La narrazione si sofferma inoltre sul colpo di Stato dei Quattrocento che rovesciò la democrazia Ateniese e impose l'oligarchia.

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Alcibiade

Il metodo
Tucidide indicò con chiarezza i suoi criteri metodologici (Hist. I, 20, 23), in due principi generali, fili conduttori di tutta l'opera.
- Una concezione ciclica della storia, dalla quale deriva la necessità di conoscere il passato per poter comprendere il presente e, nei limiti dell'umano, prevedere il futuro; la storia quindi è (Ktêma es aiei, possesso perenne), ha cioè dei principi universali che sono validi per ogni epoca.
- L'intento di comporre un'opera storiografica assolutamente libera da esigenze estetiche delle akroaseis, ma basata sul vaglio critico delle fonti, lontana dunque da quella di Erodoto incentrata ancora sul mito e sul trascendente; la storiografia tucididea infatti circoscrive il suo campo d'azione ad eventi recenti, ricorrendo all'autopsía "attestazione personale", processo che implica l'inserimento di eventi vissuti in prima persona dall'autore: caratteristico in questi frangenti è l'uso del verbo greco óida "so per aver visto".
In piena fedeltà a questi principi, lo storico si propone di indagare in primo luogo i fatti, ta prachthenta, descrivendo con questo termine due categorie:
- Le azioni vere e proprie innescanti l'evento.
- I discorsi dei protagonisti che ne costituiscono la premessa o la conseguenza, attraverso cui Tucidide analizza psicologicamente l'autore, cercando di scoprire le cause che lo muovevano. Le azioni, dunque, sono, all'occhio dello storico, frutto di decisioni umane, preparate, difese o giustificate. Le azioni sono causate da tre motivi della physis umana:
- La paura, l'istinto di autoconservazione dell'uomo che lo spinge a compiere azioni terribili pur di salvare la propria vita.
- Il desiderio di onore e prestigio.
- L'utilità.
In nome del primo, l'uomo è portato a difendersi, per i restanti ad attaccare, con un unico risultato; la guerra.Tucidide si distacca così dal resto della logografia greca, gettando le basi per la storiografia moderna.
Tucidide ritiene che la storiografia, rifiutando qualsiasi interpretazione filosofica e religiosa, possa giungere a delle conclusioni generali attraverso uno studio dettagliato dei fatti particolari. Egli vuole raggiungere la verità senza aggiunte e deformazioni, senza elementi mitici e dilettevoli. Mentre la storiografia di Erodoto trovava la sua base nel trascendente, nella volontà o nel capriccio degli dei, per Tucidide i fatti hanno la loro spiegazione in se stessi. Egli ha scoperto la politica come sfera autonoma dell'attività umana. Il movente ultimo che sta alla base della storia è la brama di potere dei singoli stati e, nella narrazione dei fatti, Tucidide mostra di essere un acuto osservatore della psicologia collettiva. Egli porta sulla scena le individualità come attori della storia e le caratterizzazioni dei personaggi sono quindi indirette (rari sono i casi in cui dà un giudizio diretto sui personaggi).

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Agorà di Atene

- I discorsi
I discorsi sono la testimonianza che Tucidide, nonostante il carattere scientifico della sua opera, subì una certa influenza da parte della cultura orale-aurale tipica dell'epoca. Ai discorsi egli attribuisce tale importanza da ritenere che i lettori dovessero essere informati circa i criteri su cui si è basato per la loro stesura.
Essi vengono espressi in forma diretta e si mostrano uno strumento necessario per la ricerca del vero, in quanto il loro scopo è quello di rendere il più probabile verosimile possibile, quanto fu effettivamente detto in determinate circostanze. Risultano così lontani dai discorsi di impronta sofistica. Evitano allo storico di intervenire personalmente nella narrazione, contribuendo così a conferire un'impressione di distacco e imparzialità, in quanto sono gli stessi personaggi a spiegare i motivi, i retroscena, le cause e le finalità degli avvenimenti.
A proposito dell'attendibilità storica discutibile dei dialoghi riportati, sappiamo con certezza - ed è lui stesso a specificarlo - che Tucidide si è limitato a immaginare ciò che avrebbe potuto dire ciascuna parte nella singola questione:

“Quanto ai discorsi… era impossibile a me ricordare esattamente quello che io stesso udii, e impossibile era agli altri che da altre parti me li riferivano: ma, come mi sembrava che ciascuno avrebbe dovuto dire nelle varie occasioni, così ho detto, attenendomi il più possibile alla sostanza dei discorsi veramente pronunciati”.

L'esposizione di essi, rappresenta quindi altro livello di ricerca del vero, tuttavia essi sono caratterizzati da una costante tensione interna e dalla ricerca del pathos.
In tal senso Tucidide fallisce il suo obiettivo di tenersi lontano dagli influssi dell'epica, in quanto l'argomento delle Storie ha una natura epica per il ruolo svolto dai casi "dolorosi".
La tipologia dei discorsi è dimostrativa e agonale. I discorsi dimostrativi descrivono eventi o situazioni che si prestano a considerazioni di tipo ideologico e politico; i discorsi agonali enunciano tesi per poi confutarle con argomentazioni opposte. Tucidide inseriva i discorsi (lògoi) specialmente per analizzare contestualmente le vari correnti di pensiero che si dibattevano, che "dialogavano" (dià + lògos) nei momenti cruciali della storia. A quanto viene riportato da Luciano Canfora, i discorsi nelle opere tucididee sono

"un formidabile strumento di interpretazione della storia, di comprensione delle sue modalità, delle sue tendenze e dei suoi valori colti nel momenti in cui assurgono alla consapevolezza e si pongono in un urto dialettico".

Un esempio di questi discorsi è quello tenuto da Pericle per commemorare i caduti del primo anno di guerra. Tucidide ne trae spunto per intessere l'elogio della potenza e della vita culturale di Atene, "maestra dell'Ellade". O ancora, abbiamo, ad esempio, il dialogo tra Nicia ed Alcibiade a proposito della spedizione contro la Sicilia.
Il dominio della Tyche (fortuna) all'interno delle Storie.
Nonostante l'assoluta centralità dell'uomo nelle Storie, l'agire umano incontra un ostacolo nell'intervento della Tyche, la Fortuna, intesa come variabile drammaticamente connessa al corso degli eventi terreni.
Perciò la fallibilità umana è uno degli elementi della natura mortale,

"Per natura degli uomini, sia come privati cittadini sia come organismo politico, sono indotti a errare e non esiste legge che glielo possa impedire".

La Tyche perciò veglia affinché l'uomo non creda di poter dominare il futuro. Anche la storia fornisce una casistica di eventi tanto ampi da creare la certezza che esistono alcuni punti fermi definibili come leggi, nonostante il futuro non si possa prevedere.
Lo stile di Tucidide
Tucidide non è un autore di facile lettura: il carattere speculativo della sua opera trova infatti espressione in una prosa densa e irregolare, con periodi complessi. Le caratteristiche peculiari del suo stile sono un ampio uso di variatio e di antitesi. Tucidide inoltre - contrariamente a Erodoto, che si era preoccupato di esprimersi in modo semplice - indulge all'andamento narrativo.
Altro punto rilevante del suo stile lo troviamo nella contrapposizione tra il "clinico" distacco nei confronti della realtà narrata in taluni passi, e invece un'intima partecipazione emotiva ai fatti descritti in altri. Esempi significativi di ciò sono la descrizione della peste di Atene, nella quale lo storico adotta il primo stile, e il tragico episodio della spedizione ateniese in Sicilia, in cui invece mostra, seppure con la consueta compostezza, tutto il suo rammarico per la drammatica sorte dei soldati compatrioti.
Il suo stile risultava complesso anche per gli antichi commentatori, come Dionigi di Alicarnasso, il quale non condivideva la fama dello storico.

Pur risultando eccessivo parlare di una dipendenza del pensiero di Tucidide da quello dei sofisti, con questi egli ebbe in comune l'intento paideutico indirizzato alla formazione dell'uomo politico: infatti a chi governa sono necessari dei piani d'azione razionali e fondati sulla conoscenza della realtà perciò a questi risulteranno preziose le indicazioni provenienti dalle riflessioni circa i principi ricavabili dal racconto di Tucidide.
Il più importante principio è la relatività della nozione di "giusto", affermata dagli Ateniesi ai Meli che chiedono loro di essere ascoltati sul tema della giustizia:

"sappiamo, noi e voi, che nelle discussioni fra gli uomini ciò che è giusto funge da metro di giudizio solo se tra le parti vi è un uguale stato di necessità, altrimenti i più potenti vanno avanti per quanto possano e i più deboli cedono di altrettanto".

Tale realismo assoluto e cinico sembra quasi anticipare il pensiero machiavellico ed è scaturito dalla guerra del Peloponneso: come racconterà l'autore, si tratta di una guerra combattuta senza esclusione di colpi.
Il pensiero politico di Tucidide
Dato il criterio di imparzialità che lo scrittore si pone, potrebbe risultare difficile ricostruirne il pensiero politico, che può, tuttavia, essere compreso da un brano in particolare: le demagogie di Pericle. Tucidide infatti esprime, anche se discretamente, un apprezzamento dell'opera dello statista ateniese: difatti, di quest'ultimo apprezzava le scelte politiche e l'organizzazione dello stato, facendo così trasparire il proprio pensiero, moderato e conservatore allo stesso tempo. Una sorta di conciliazione tra democrazia e autorità dello stato.
Pericle è il «primo cittadino di Atene» descritto da Tucidide, come colui che riabilita la figura di Temistocle e la proiezione marittima data alla città che lo aveva ostracizzato e accusato di tradimento.
Tucidide elogia Pericle sostenendo che la sua scelta di non cercare lo scontro campale con gli Spartani e limitarsi a saccheggiare le coste nemiche sfruttando la propria superiorità navale costituiva una saggia decisione che alla lunga avrebbe sfiancato il nemico ed assicurato la vittoria finale di Atene. Secondo lo storico, tuttavia, gli Ateniesi non seguirono scrupolosamente le indicazioni di Pericle e dopo la sua morte si lanciarono in imprese troppo ambiziose, prima fra tutte la spedizione in Sicilia, la quale si concluse in un disastro e privò Atene delle sue migliori risorse umane e materiali accelerandone la sconfitta militare. Si tratta di una secca condanna della politica seguita dai democratici radicali dopo la morte di Pericle. Tra i personaggi più invisi a Tucidide vi erano i demagoghi Cleone ed Iperbolo, fortemente stigmatizzati nell'opera dello storico.
Tucidide si rivela essere un democratico moderato quando definisce la costituzione dei Cinquemila del 411 a.C. come la migliore forma di governo mai avuta da Atene. Si trattava di una giusta commisurazione di democrazia e oligarchia (metria xynkrasis), che tuttavia ebbe vita breve, poiché nel 410 a.C. fu restaurata la democrazia radicale.
Per Tucidide, inoltre, l'uomo politico deve conoscere le istanze razionali ed emotive che coesistono nell'essere umano, e deve saperle conciliare anche con l'elemento della "casualità".
La "trappola di Tucidide"
La trappola di Tucidide è un'espressione usata per descrivere la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente. La trappola, quindi, consiste nel cedere alla paura di perdere il primato e considerare ineluttabile lo scontro. A coniare l'espressione è stato nel 2012 il politologo di Harvard Graham Tillett Allison Jr. nel suo libro Destined for war.

Bibliografia

  • Luciano Canfora, Il mistero Tucidide, Milano, Adelphi, 1999.
  • Luciano Canfora, Tucidide. La menzogna, la colpa, l'esilio, Roma-Bari, Laterza, 2016.
  • Luciano Canfora, Tucidide. L'oligarca imperfetto, Edizioni Studio Tesi, 1991. 
  • George Cawkwell, Thucydides and the Peloponnesian War, Routledge, 1997.
  • Massimo Donadi, La trappola di Tucidide, Milano, Cairo, 2016.
  • Werner Jaeger, Tucidide pensatore politico, in Paideia. La formazione dell'uomo greco, traduzione di Luigi Emery e Alessandro Setti, Milano, Bompiani, 2011, p. 642-688.
  •  Donald Kagan, The Archidamian War, Cornell University Press, 1974.
  • Donald Kagan, La guerra del Peloponneso. La storia del più grande conflitto della Grecia classica, Collezione Le Scie, Milano, Mondadori, 2006.

    LA GUERRA DEL PELOPONNESO

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    L'antico Peloponneso

     

    Libro I

    Tucidide esordisce con un breve "prologo", in cui racconta la storia della Grecia dall'invasione dei Dori alle guerre persiane, dall'avvento della democrazia di Pericle, fino all'attuale inizio della guerra del Peloponneso, specificandone le cause. Il libro dunque inizia, e si concentra particolarmente sulla presa di Sesto nel 478 a.C., e l'inizio della guerra vera e propria nel 431 a.C.. La parte finale del libro, dopo la presentazione dei fatti precedenti alla guerra, riguarda le nuove modifiche di governo della Lega peloponnesiaca (Sparta), e della situazione di travaglio ad Atene, dove Pericle dichiara guerra a Sparta. Le ultime parti riguardano alcuni punti oscuri della storia greca, come la morte di Temistocle, generale dell'armata greca contro la Persia, e di Pausania, re spartano.

    Libro II

    Le prime operazioni di guerra, descritte nel libro, prevedono l'attacco a Platea da parte di Tebe, dacché la città è in accordo con gli ateniesi. Anche Sparta mobilita le forze alleate, ma Atene le respinge sulle coste del Peloponneso. I soldati ateniesi dunque si ritirano nella roccaforte, e Pericle celebra i caduti con un insolito discorso, elogiando e celebrando la superpotenza di Atene, dichiarando che la città è l'esempio stesso della perfezione sotto cui tutta la Grecia ed i suoi nemici devono sottostare. Il politico dunque esorta i combattenti ateniesi a sconfiggere Sparta, mentre prepara un nuovo attacco, ma improvvisamente scoppia un'epidemia di peste che decima la popolazione e le truppe della città, uccidendo Pericle stesso. Successivamente Atene decide di rimandare lo scontro con Sparta, andando a ricacciare i ribelli nella Tracia e nella Macedonia.

    Libro III

    Il territorio ateniese dell'Attica viene nel frattempo invaso dagli alleati "Peloponnesiaci", sebbene nell'alleata Mitilene scoppi una rivolta, sedata subito da Atene. Il politico anziano Cleone vorrebbe che Atene desse una punizione esemplare, radendo al suolo la città, scontrandosi con l'opposizione di Diodoto. Atene punisce ugualmente gli abitanti di Mitile, e Sparta risponde attaccando Platea. Atene allora decide di riunire i politici nell'isola di Corcira, sia della città che della nemica Sparta. Il dibattito acceso mette a nudo l'impossibilità di collaborazione dei democratici e degli oligarchici.

    Libri IV-V

    Sparta tenta un nuovo assalto nell'Attica, venendo fermato da Demostene a Pilo: infatti un contingente spartano viene catturato dagli ateniesi per ricevere informazioni, tuttavia presso Calcidica il capitano spartano Brasida sconfigge in un duro scontro gli ateniesi, costretti a ripiegare. Nel libro V, Tucidide narra la disfatta di Anfipoli, nella Calcidica, dove muoiono entrambi i generali delle due armate nemiche. L'anno è il 421 a.C., e così Atene e Sparta, stremate, decidono di stabilire una tregua: la pace di Nicia. Nel frattempo gli ambasciatori ateniesi si recano nell'isola di Melo, assai vicina strategicamente alle isole del Dodecaneso, sebbene sia stata fondata da Sparta. Il celebre dialogo tra i Meli e gli Ateniesi mostra, dal punto di vista di Tucidide, la spregiudicatezza e la spocchia di questi ultimi, che con la giustificazione di valori della democrazia, tentano di assoggettare tra i loro alleati gli abitanti dell'isola, impedendo a questi di opporsi o di discutere. In questo dialogo Tucidide evidenzia l'ipocrisia e l'ideale di imperialismo presente nella mentalità democratica ateniese. Questa sorta di dialogo tra gli ambasciatori Ateniesi e le due città era probabilmente un'opera a sé, scritta dallo stesso Tucidide ed inserita successivamente. Indizi di ciò sarebbero le nette differenze con il resto dell'opera e il cambio di registro da narrazione di eventi a dialogo vero e proprio. La vicenda di Melo è descritta in modo fazioso da Tucidide che vuole dipingere l'evento come exemplum del dispotismo ateniese sugli alleati. Ciò è indubbiamente vero ma l'autore si cura di omettere il particolare che fu Alcibiade stesso, l'erede politico di Pericle (che era visto in una luce positiva da Tucidide in quanto ideologicamente affini), a fare pressione affinché si applicasse la repressione totale nella piccola isola egea. Inoltre l'autore distorce la realtà dei fatti affermando che l'attacco all'isola fu ingiustificato mentre in realtà sappiamo da fonti successive quali Isocrate che il conflitto era iniziato durante la guerra del Peloponneso quando Melo si era staccata dall'alleanza ateniese violando come Scione e Mitilene le clausole dell'alleanza. Atene rispose con varie incursioni e Melo, verosimilmente, non potendo dichiarare guerra aperta alla lega, finì per avvicinarsi a Sparta inviandogli finanziamenti durante il periodo della pace di Nicia. La vicenda si concluse con l'intervento ateniese a Melo e la distruzione della suddetta che, come si evince dalla stessa opera di Tucidide, aveva opposto una tenace resistenza nella speranza di ricevere aiuto dagli spartani (anche questo è un indizio dei probabili rapporti stanziati tra Melo e Sparta in quegli anni).

    Libri VI-VII

    I libri VI-VII narrano la spedizione definitiva di Atene a Siracusa, e la sua successiva e definitiva sconfitta. I Meli vengono umiliati e sconfitti dalla flotta ateniese, che successivamente si sposta sulle coste di Siracusa, cercando di assediare la città. Il nuovo generale è l'integerrimo Alcibiade, personaggio scomodo nella società ateniese. Durante il viaggio, tuttavia, Alcibiade è costretto a tornare in patria per lo scandalo della mutilazione di busti di Hermes, di cui è accusato. Alcibiade fugge così a Sparta, dove si allea con il nemico di Atene. Il comando dell'armata ateniese viene affidato a Nicia e Lamaco, che però hanno la peggio in Sicilia. I soldati vengono sterminati, e i prigionieri rinchiusi nelle Latomie, dove solo alcuni riescono a salvarsi, recitando i versi delle Troiane di Euripide. La sconfitta degli ateniesi è dovuta non solo alla strenua ribellione dei siracusani, ma anche grazie alle informazioni che Alcibiade ha fornito agli spartani, giunti in tempo a Siracusa, sotto il comando di Gilippo, che hanno sbaragliato senza preavviso la flotta degli Attici. L'anno è il 413 a.C.

    Libro VIII

    L'ultimo libro parla delle fasi finali della Guerra del Peloponneso. La notizia della disastrosa spedizione a Siracusa genera sgomento ad Atene, perché due satrapi, Tissaferne e Farnabazo, hanno annunciato la minaccia di un nuovo attacco alla Grecia da parte della Persia. Nel 411 a.C., Atene è scossa da un colpo di stato oligarchico, mentre i suoi alleati si rivoltano contro la città, ormai sulla via del tramonto. Gli oligarchici instaurano il governo dei "Quattrocento", collegio formato inizialmente da 100 cittadini scelti per designare i 5000 Ateniesi aventi diritto alla cittadinanza, ma che, cooptati altri 300 membri, assunsero di fatto ogni potere, comprese l'attività legislativa e l'elezione dei magistrati. Il resoconto di Tucidide s'interrompe bruscamente con la battaglia di Cinossema (settembre del 411), e si presume che il materiale che doveva essere aggiunto per completare l'opera sia stato usato da Senofonte per l'incipit delle sue Elleniche.

    Il capitolo 26 del V libro

    Al capitolo 26 del quinto libro si nota una brusca ripresa del nome dell'autore, seguita poi da una prima persona singolare non spiegabile (il cosiddetto "secondo proemio"):

    "Ma anche questi avvenimenti sono stati descritti dal medesimo ateniese Tucidide, di seguito come ciascuno avvenne, per estati e inverni, fino a quando i Lacedemoni e gli alleati posero fine all'impero degli Ateniesi e occuparono le lunghe mura e il Pireo. [...] Giacché io mi sono sempre ricordato, dall'inizio della guerra fino alla fine, che da molti si diceva che essa sarebbe dovuta durare tre volte nove anni. Io sopravvissi a tutta la sua durata, giudicando i fatti come me lo consentiva la mia età e osservando, per conoscere ogni cosa con esattezza. E mi capitò di essere esiliato dalla mia terra [...]"

    molti commentatori antichi non si sono curati di questo forte stacco, utilizzando persino l'affermazione sui vent'anni di esilio dal 423 a.C. per stilare le biografie di Tucidide.

    Eppure l'eventualità dell'esilio porta non pochi problemi nella ricostruzione della vita dell'autore: Aristotele, ad esempio, attesta che Tucidide aveva assistito al processo contro Antifonte nel 411 a.C., ben prima della fine dei supposti vent'anni; bisogna però considerare che dopo il disastro in Sicilia fu concessa un'amnistia generale nel 413, e di questa avrebbe potuto beneficiare anche Tucidide. Per risolvere questo problema, il filologo classico Luciano Canfora ha ipotizzato che a scrivere in V,26 non sia Tucidide, ma il redattore delle sue opere che, dopo la morte dell'autore avrebbe pubblicato i suoi lavori. E secondo la versione riportataci da Diogene Laerzio nelle sue Vite dei filosofi (Si dice anche che [Senofonte] si impossessò segretamente dei libri di Tucidide, prima sconosciuti, e li pubblicò lui stesso. [...]), il redattore in questione sarebbe Senofonte, al quale sarebbe quindi da riferire la notizia dell'esilio; si spiegherebbe così anche l'interruzione nell'VIII libro e la mancanza del racconto degli ultimi anni della guerra, considerando dunque parte delle Elleniche di Senofonte (1-2, 3, 10) come materiale tucidideo, che in effetti mostra delle discrepanze rispetto al resto dell'opera.

    Temi e analisi

    Il ruolo dello storico per Tucidide

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    Agorà di Atene

    Tucidide è pienamente consapevole del ruolo della "storia" come analisi scientifica dei fatti di un determinato periodo. Infatti a differenza di Erodoto non scrive una storia monumentale di un popolo, ma taglia soltanto una parte della storia della Grecia, ovverosia quella contemporanea, da tramandare ai posteri con il massimo criterio scientifico. Tucidide dunque è il primo a usare lo stile della monografia, parlando specificamente dei fatti della guerra del Peloponneso. Il movente di Erodoto inoltre era quello di raccontare il meraviglioso e l'esotico, invece quello tucidideo è un possesso per l'eternità, ossia per quegli autori e lettori eruditi e specializzati che desiderano informarsi nella miglior forma possibile dei fatti narrati. Dunque altra differenza con Erodoto, la cui opera era per tutti. D'altro canto Tucidide era un aristocratico, e non poteva accettare che la sua opera avesse un destinatario tra la plebe, ma soltanto fra la classe degli eruditi e degli intellettuali.

    La politica ateniese

    Tucidide, benché alcuni critici abbiano sottolineato il suo risentimento nei confronti dell'esilio da Atene per formulare i suoi pensieri, traccia un quadro spietato della società ateniese, e soprattutto della nuova forma di governo della democrazia, tanto esaltata da  Pericle. Tucidide, benché polemico, appare nel suo stile il più imparziale possibile, esponendo soltanto con freddezza i fatti che hanno condotto all'implosione della democrazia. Pericle appare più come un tiranno che come un democratico, aristocratico eletto da una cerchia di politici piuttosto che dal popolo, che fa esiliare nemici politici come Cimone perché affiliati al partito spartano, per poi concedere loro "misteriosi favori"; oppure di aver portato nel suo salotto l'etera Aspasia, e di averci concepito due figli, benché la legge ateniese prevedesse che cittadini sarebbero stati soltanto i figli di due ateniesi, e non di straniere, come Aspasia. Tucidide descrive anche l'empietà dei processi ateniesi, così come verranno sbeffeggiati anche da Aristofane e Cratino, in cui i magistrati e i cittadini, quando desiderano liberarsi di un personaggio scomodo, puntano soprattutto sull'accusa di empietà. Plutarco, benché di parte per Pericle, scriverà che all'epoca ci furono processi contro Pericle per empietà nei suoi rapporti con Aspasia, e soprattutto per le sue relazioni politiche ambigue con Cimone, il quale sarebbe stato appoggiato dalla sorella Elpinice per poter rientrare ad Atene dall'esilio, e ancor di più delle relazioni da prostituta di Aspasia con altri uomini.

    I discorsi di Pericle e l'ambasciata di Melo

    I discorsi di Pericle, specialmente quello del Libro II (capp 34–46), sono il mezzo oratorio importante per il politico di esprimersi al popolo, e di "catturare" il consenso. Pericle adotta la dicotomia "oratore-popolo", ossia i mezzi subdoli che ha il politico, esperto della retorica, di stimolare l'eccitazione popolare, facendo leva sui sentimenti bassi dell'uditorio per spingerlo maggiormente al consenso. Pericle nel discorso in memoria dei caduti ateniesi a Corinto,  (alle prime fasi della guerra), trae spunto per osannare l'autorità di Atene che per diritto divino (senza però dare merito agli Olimpi ma divinizzando appunto Atene stessa), per superiorità in bellezza, potenza, cultura, politica e filosofia è tenuta a dover padroneggiare non solo su Sparta l'arcinemica, ma su tutta la Grecia, e in futuro sul mondo intero. Chiarissima dichiarazione di favore all'imperialismo ateniese, benché la politica esterna ateniese, durante il mandato di Pericle, specialmente in Egitto fu molto scadente.
    Autori posteri, come Thomas Hobbes, trassero spunto dall'ideale politico tirannico di Pericle per il personaggio del "Leviatano", ossia il monarca che sale al governo grazie proprio al consenso popolare, e successivamente la politica inglese della monarchia parlamentare. Dinanzi ai principi classici della democrazia, il governo pericleo si rivela una vera e propria demagogia popolare, dove prevale l'etica del potere del più forte contro i più deboli.

    L'assedio di Melo è uno dei validi esempi dell'aggressiva imperialista ateniese. Dopo l'accordo con Sparta, Atene inviò la propria strapotente flotta contro la piccola isola. Dopo un assedio durato molto più a lungo di quanto la stessa Atene si aspettasse, l'isola fu costretta alla resa, e Atene applicò una "punizione" spietata: tutti i maschi adulti furono uccisi e la restante popolazione fu ridotta in schiavitù; pare che anche Alcibiade spingesse per questa soluzione drastica. Lo storico Luciano Canfora, nel suo volume Il mondo di Atene, sembra sposare la tesi di Isocrate, senza però modificare la critica severa al comportamento di Atene.
    Tucidide riporta il discorso, così come quello di Pericle, per poter parlare "con la propria bocca", perché molti critici sostengono che i discorsi della Guerra del Peloponneso, benché rielaborati da discorsi veramente pronunciati, siano stati manipolati da Tucidide per esprimere la sua visione critica contro il governo ateniese. La guerra contro la piccola Melo è un altro esempio, dunque, della crudele propaganda ateniese, la quale per mezzo degli ambasciatori si fa ospitare in privato dai Meli. Già questo rappresenta il fatto che l'ambasciata era più una negoziazione privata, molto importante, e soprattutto perché i Meli temono che gli ateniese, con la loro capacità oratoria, possano sottomettere la volontà popolare, che appunto aveva deciso la neutralità.

    Gli Ateniesi impongono un ultimatum, ordinando a Melo di schierarsi a loro favore, prima di tutto per quantità numerica inferiore a dover sostenere una futura battaglia, secondo perché rifiutandosi di allearsi, avrebbero fornito un esempio alle altre poleis, specialmente alle isola della Lega delio-attica, che avrebbero potuto ribellarsi allo strapotere ateniese. I Meli, di fronte alla spietata statistica di Atene, decidono di usare la possibilità della speranza e dell'idealismo, ossia che saranno salvati dagli Dei, combattendo in battaglia, e se ciò non accadesse, di certo sarebbero ricordati come degli eroi in futuro, e modello per i futuri ribelli della nemica Atene.

    Sguardo sul presente tucidideo

    Tucidide, essendo aristocratico, fu educato dai sofisti ad usare il dialogo, e ciò lo si evince nei suoi discorsi oratori nell'opera, ma anche da osservazioni acute sulla natura umana. Lui a differenza dei sofisti, definirà, senza accuse, che l'indole umana è quella dell'antropocentrismo, ossia della fame insaziabile di dover governare sul mondo, anche per mezzo di metodi brutali come la guerra. Anche le cause della guerra tra Atene e Sparta, dopo aver elencato i motivi storici delle scaramucce delle colonie corinzie, Tucidide arriva ad affermare che era scritto che le due superpotenze della Grecia, appunto perché una di esse avesse potuto affermare definitivamente la propria superiorità, sarebbero venute a battaglia.

    Tucidide, eseguendo il modello della monografia, è pur sempre legato a dover fornire una breve descrizione della storia della Grecia in generale fino al presente, come di maniera tra gli storici. Pertanto nel Libro I traccia l'"archeologia", ossia un memorandum molto semplice e sbrigativo della storia dalle origini mitiche fino al V secolo a.C. Per Tucidide la "storia" è un percorso ciclico, come visto da Esiodo, in cui vi è un periodo d'oro felice, che poi passa all'età di bronzo, all'età del ferro e all'età degli uomini. Quest'ultima parte è l'età della crisi e della sopraffazione degli ideali dello spirito con la tattica e la fredda statistica della politica. Ma Tucidide intende per "crisi" non la fine di un popolo, ma il semplice cambiamento dei poli, ossia il momento di passaggio di uno stadio all'altro, che si verifica con il polemos (la guerra); da qui il tema della τύχη, ossia l'imponderabile, un movimento sovrannaturale e imperscrutabile che muove l'animo umano, anche quello dei più saggi e dei politici più ponderati a compiere azioni contrarie, necessarie, come appunto il regolamento di conti tra Atene e Sparta, che doveva avvenire proprio per motivi di principio verso i canoni di identità popolare che i due centri stessi rappresentavano, nelle loro opposte visioni della politica e della vita sociale. Ciò in realtà non è da intendere come un percorso di decadenza verso la fine totale, poiché lo storico non esclude il merito di Atene di aver saputo produrre nell'età classica cultura e bellezza grazie alla costruzione di nuove opere pubbliche, alla filosofia e al teatro.

    Lo stile di Tucidide

    Lo stile è molto complesso e ricco di termini tecnici, destinato ad un pubblico elevato. L'importanza sta nel trasmettere "pathos" nei momenti di battaglia, nonostante il rigore storiografico, di saper trasmettere le fonti trascrivendo soltanto i fatti e gli episodi più importanti e significativi per la materia trattata, senza fronzoli e ampollosità linguistiche. Infatti nelle frasi prevale l'ipotassi. Anche i discorsi, benché manifestanti la presenza dell'oratoria, seguono un andamento ritmico e freddo, tipico dello stile attico, senza deviazioni e aggiunta di parole futili. Lo stile Tucidide è presto diventato un modello per gli scrittori storici del futuro. Nei secoli successivi furono molti gli imitatori, tra i quali il più famoso è Polibio (II secolo a.C.). L'opera dello scrittore inoltre ebbe una rapida diffusione nel Rinascimento, con la traduzione di Lorenzo Valla.

     

    10 giugno 2024 - Eugenio Caruso

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