Qin Shi Huang, il primo imperatore cinese


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Qin Shi Huang

qin shi

Probabilmente nacque nel 260 a.C. nella città di Handan, la capitale dello Zhao oggi posta nella zona più meridionale della provincia dello Hebei, nella Repubblica Popolare Cinese. Gli anni in cui vide la luce furono quelli tormentati del periodo dei cosiddetti “Stati combattenti”, in cui dal 453 al 221 a.C. i reami di Han, Wei, Zhao, Qi, Qin, Yan e Chu combattevano incessantemente tra di loro per il predominio nell'area.
Per favorire i propri figli illegittimi, la madre di Yìng Zhéng non avrebbe esitato a cospirare contro il primogenito fino a giungere al complotto che nel 238 a.C. Yíng Zhèng, raggiunta ormai la maggiore età, avrebbe sventato giustiziando i congiurati ed esiliando 4000 nobili coinvolti con le loro famiglie.
Le vicende familiari dell'imperatore sarebbero quindi avvenute in un clima del tutto estraneo a quelle virtù e a quella pietà tanto care ai seguaci di Confucio i quali, fin dalla morte del loro maestro avvenuta sul limitare del III secolo a.C., esercitavoano un'influenza notevole all'interno delle corti cinesi. Di converso, essi risulteranno tra i più perseguitati dalla politica di Yíng Zhèng.
Del resto, il regno di Yìng Zhén era ritenuto poco più che barbaro, in virtù di una posizione geografica che per quanto vantaggiosa dal punto di vista strategico, ben fornita di difese naturali, appariva periferica rispetto agli Stati Centrali.
A sostenere il giovane sovrano e a determinarne l'avversione confuciana, contribuirono i saldi principi “legisti” che fin dal IV secolo a.C. avevano conformato l'architettura statale del regno di Qin. Quella tradizione si rinnovò grazie al ciambellano Shang Yang e soprattutto per via dell'impulso operato da Li Si, un ambizioso avventuriero che era riuscito a carpire la fiducia di Zhèng sin dai primi mesi della sua reggenza, scalando mano a mano i vertici della corte sino a diventare primo ministro.
I sostenitori delle teorie legiste, ponevano la legge al di sopra di tutto, avversando l'apparato rituale che fino a quel momento aveva mirato a legare intimamente la dimensione politica a quella religiosa. Attraverso quel connubio, l'autorità dei sovrani Zhou (ovvero coloro che avevano preceduto i Qin per un periodo stimabile tra XII e III secolo a.C.) si era indebolita sino a sussistere unicamente nella sfera religiosa. In tal modo veniva a decadere la teoria del “Mandato Celeste”, la quale stabiliva che il monarca dovesse detenere ogni potere uniformando la propria condotta al volere divino. Con maggior realismo i fautori del “legismo” teorizzavano il ricorso alla legge, chiara e in linea di principio eguale per tutti, e alla tattica per attuare quel controllo sociale che la virtù da sola non era in grado di assicurare.
Contro di essi, i seguaci di Confucio sostenevano che la legge dovesse trovare applicazione esclusivamente presso il popolo, assecondando un assioma secondo il quale se la virtù, sorretta da un complesso di riti che rispecchiavano l'ordine naturale dell'universo, non era in grado di scendere fino agli strati sociali più bassi della società, allo stesso modo la legge non avrebbe dovuto ascendere alle classi più elevate. Regole, punizioni e ammende, anche se necessarie, finivano così per rappresentare l'aspetto coercitivo dell'amministrazione confuciana.
I seguaci di Confucio se, a parole, auspicavano la nascita di un sovrano illuminato che ripristinasse l'unità dei vari reami cinesi, di fatto difendevano l'assetto feudale e la priorità dei vincoli familiari nell'assegnazione di terre e poteri, assicurando agli aristocratici una sorta di immunità, nel presupposto che l'educazione morale fosse sufficiente a disciplinarli.
Era evidente che lasciare in vigore gli antichi privilegi avrebbe ovunque favorito quelle nobiltà locali che per secoli avevano mantenuto diviso il territorio cinese. Avendo intuito la debolezza di questa situazione Zhèng, una volta assunto il controllo dello Stato, mosse guerra contro i reami, riuscendo a sopraffarli uno dopo l'altro. Prima fu la volta del regni di Han, sul quale ebbe la meglio nel 230 a.C.; seguirono nel 225 Wei, nel 223 Chu, nel 222 Zhao e Yan, e infine Qi, che capitolò nel 221 a.C.
Al netto delle violenze e dei massacri con cui il sovrano riuscì nell'impresa, il conseguimento di quell'obiettivo fu il frutto della sapiente tessitura delle alleanze e dell'audacia di cui Zhèng seppe essere interprete. Tale condotta ha fatalmente innescato un immediato rimando al celeberrimo trattato sulle guerra che la tradizione attribuisce a Sun Tzu, vissuto presumibilmente tra il VI e il V secolo a.C., più o meno quando Confucio proponeva i suoi precetti. Il sovrano al quale l'Arte della guerra è dedicato sembra in effetti adattarsi alla figura di Zhèng, predestinato a incarnare le teorie esposte nel trattato al punto da marcare un'azzardata connessione tra Sun Tzu e il futuro Qin Shi Huang.
Sebbene qualsiasi sinologo boccerebbe senza troppe remore tale accostamento, studi recenti dimostrerebbero come, effettivamente, esistano i margini scientifici per avallare tale ipotesi. Alcuni elementi presenti nell'opera, quali l'ampiezza delle armate e la loro organizzazione, gli accenni all'impiego della balestra, entrata in uso verso la fine del V secolo a.C., fanno propendere per una postdatazione al periodo compreso tra il 400 e il 320 a.C., ovvero all'epoca degli Stati combattenti i cui echi ancora risuonavano nelle orecchie del futuro imperatore. Se ciò risultasse vero, quel “vincere senza combattere”, sintesi dell'opera di Sun Tzu che individuava quale strumento infallibile di vittoria la conoscenza di se stessi unita alla conoscenza del nemico, preconizzerebbe la parabola di Yíng Zhèng e della sua conquista della Cina.
L'impero cinese
Le prime informazioni della storia scritta della Cina risalgono alla dinastia Shang (1700-1046 a.C.). Gli ossi oracolari con i primi caratteri cinesi della dinastia Shang sono stati datati attraverso il radiocarbonio al 1500 a.C.. La cultura, letteratura e filosofia cinesi iniziarono il loro sviluppo durante la successiva dinastia Zhou (1045-256 a.C.). La dinastia Zhou cominciò poi a cedere alle pressioni interne ed esterne durante l'VIII secolo a.C. e la sua capacità nel controllare i signorotti locali andò indebolendosi fino al punto che il territorio si suddivise in piccoli Stati regionali, dando inizio al periodo delle primavere e degli autunni che sfociò successivamente nel periodo dei regni combattenti. Il primo vero impero si ha, pertanto, con Yíng Zhèng.
Yíng Zhèng ebbe chiarissima la natura innovativa dell'impresa che lo portò a diventare il padrone di “ciò che sta sotto al Cielo”: in pratica tutto il mondo civilizzato conosciuto dai cinesi dell'epoca. Per sottolineare l'assunzione di un potere pressoché assoluto, Qin ormai trentottenne assunse il titolo di huangdi, cioè “augusto signore”. Il termine era stato usato fin dall'epoca degli Shang, più o meno risalente al XV-X secolo a.C., per designare la regalità ancestrale.
Quel titolo veniva ora preceduto dall'attributo huang, “augusto”, che richiamava la mitica sovranità dei sanhuang e wuhuang, vale a dire i “tre” e i “cinque augusti” di cui parlavano le tradizioni secolari annoverandoli come leggendari sovrani concepiti alla stregua di veri e propri “eroi culturali”. Si trattò dunque di una scelta premeditatamente superba, una vera sfida alla tradizione che finora aveva riservato l'impiego di quei “caratteri” alla designazione dei mitologici sovrani da cui era scaturita la civiltà cinese delle origini.
A ribadire quanto la volontà di Yíng Zhèng fosse consapevole, intervenne l'aggiunta del termine Qin, cioè il reame d'appartenenza del nuovo signore, che finirà per identificare l'intero impero. Non a caso da questo deriverà con ogni probabilità la denominazione di “Cina”, adottata nella forma “Sina/Thina” dai geografi greci e romani forse attraverso mediazioni indiane o iraniche.
Come se ciò non bastasse, Zhèng decise di far precedere al suo titolo già altisonante l'ideogramma Shi, “primo”, per dimostrare che il suo regno inaugurava una nuova era e che egli sarebbe stato il primo augusto imperatore di una dinastia il cui “mandato celeste”, sarebbe durato per “diecimila generazioni”.
Partendo da queste premesse, colui che da quel momento in poi sarà conosciuto come Qin Shi Huangdi, ovvero “Primo augusto imperatore della dinastia Qin”, si preoccupò di trasformare le immense conquiste militari in una realtà politica e amministrativa, mettendo in atto una profonda opera di rifondazione su basi nuove, tali da permettere la sopravvivenza di un organismo tanto grande. Si trattò di tradurre in pratica le dottrine imparate dal suo antico maestro Li Si, che prevedevano una riorganizzazione dello Stato basata sulla concentrazione dell'autorità e del potere nelle mani di un'unica persona, cui il popolo – ma anche l'aristocrazia – dovevano obbedire ciecamente.
Come prima misura furono abolite le vecchie entità territoriali, cancellati i loro confini e abbattute molte fortificazioni difensive costruite negli anni precedenti. Per reprimere contestazioni regionali, l'imperatore sradicò le nobiltà dai luoghi d'origine dove avevano interessi e seguito. Le aristocrazie ereditarie vennero così spodestate e più di 120.000 famiglie nobili furono costrette ad abbandonare i propri luoghi di nascita, per trasferirsi nella nuova capitale dell'impero, Xianyang, posta nei pressi dell'odierna Xi'an, nella Cina nord-occidentale, che giungeva così a contare oltre un milione di abitanti.
La necessità di essere tenute sotto il diretto controllo della corte fu compensata con l'edificazione di nuove dimore costruite secondo gli stili delle regioni di provenienza. Al loro cospetto, il palazzo imperiale di Epang esprimeva la nuova concezione di un'architettura celebrativa monumentale. Giova notare che l'abolizione delle barriere tra i vecchi reami consenti di promuovere scambi interregionali.
L'imperatore potenziò le vie fluviali e i trasporti terrestri, realizzando più di 4.000 miglia di strade che dalla capitale si diramavano in ogni angolo dell'impero. 500.000 uomini furono mobilitati per la realizzazione di grandi opere d'ingegneria quali la costruzione del canale Ling, che collegava i fiumi Xiangjiang e Lijiang nell'estremo sud del Paese, o per il rafforzamento degli argini dei grandi fiumi, spesso afflitti da frequenti inondazioni: in tal modo, oltre a provvedere al raccordo delle navigazioni marittime e fluviali, Zhèng si preoccupava di creare un'efficace rete di irrigazione su cui impiantare una proficua agricoltura.
Il suo disegno di unificazione si espresse anche attraverso l'uniformità delle misure di peso, capacità e lunghezza, plasmate sullo standard di Shangyang già in uso al tempo degli Stati combattenti, mentre le monete di nuovo corso furono fissate in un unico conio di rame, di forma circolare, con un foro centrale quadrato per essere raccolte in filze. Il modello, già antico, si sarebbe diffuso e conservato in uso fino ai nostri tempi in gran parte dell'Estremo Oriente. Addirittura, l'imperatore si preoccupò di imporre alle ruote dei carri scartamenti fissi degli assi delle ruote perché incidessero uniformi binari sui manti in terra battuta delle carreggiate. L'amministrazione dello Stato adeguava alle nuove dimensioni territoriali il sistema delle circoscrizioni periferiche già introdotto nel regno di Qin. L'impero venne così diviso in trentasei province (jun) presto portate a quarantotto, articolate in distretti (xian) a loro volta suddivisi in contee (xiang). L'antico sistema feudale fu abolito e sostituito da una burocrazia fortemente centralizzata, che aveva il compito di esercitare un controllo capillare sulla popolazione. Ai governatori provinciali, di diretta nomina imperiale, spettavano competenze civili; i comandi militari, con i loro distaccamenti, facevano capo a generali agli ordini di un capo supremo dell'esercito, il quale figurava come uno dei ministri dell'imperatore che, al pari dei ministri in carica per gli affari civili, non godeva di potere di delega ed era tenuto a controllare che gli ordini imperiali fossero eseguiti. Ispettori di nomina e fiducia imperiali riferivano al sovrano o alla sua cancelleria l'operato delle autorità provinciali, civili e militari, anche in merito alle amministrazioni distrettuali. Se l'amministrazione dell'impero non dava preoccupazioni queste venivano dai confini; esse erano rapresentate da sanguinari uomini a cavallo, gli xiongnu, quelli che secondo alcuni storici altri non sarebbero se non gli unni che qualche secolo dopo avrebbero invaso l'Europa. Le loro incursioni continuavano a minacciare i territori del Nord, e per arginarle Qin Shi, promosse delle vere e proprie spedizioni di conquista, affidandole al comando del generale Meng Tian, ma le armate non raggiunsero i risultati sperati, costringendo l'imperatore a compiere una delle ciclopiche opere per le quali è passato alla Storia. La Grande Muraglia.
Per assicurare la difesa dei confini settentrionali, Qin Shi, ordinò di costruire un enorme muro di terra battuta e pietre che si sviluppava per oltre 6000 chilometri dalle montagne occidentali fino alla penisola di Liaodong, a ridosso della Corea. Nasceva così l'antenata della Grande Muraglia, rifatta all'epoca della dinastia Ming, quando tra il XV e il XVI secolo la struttura fu estesa fino a circa 8000 chilometri e dotata di una più solida struttura in muratura.
L'imperatore impose, anche, l'uniformità nella scrittura degli ideogrammi, in tal modo Qin Shi restituiva all'impero un corpo unitario di caratteri, da contrapporre alle grafie difformi che si erano sviluppate nei vari stati durante i “Regni combattenti”.
Furono così incise su lastre di pietra le iscrizioni celebrative dell'unificazione imperiale, e allo stesso modo furono promulgati i famosi editti del monte Taishan, attraverso i quali Qin Shi annunciava al cielo l'unificazione della Terra sotto un solo imperatore. La cerimonia ricalcò le gesta che le antiche leggende ascrivevano a Shun, uno dei mitici padri fondatori della civiltà, il quale una volta asceso al trono si sarebbe recato a ispezionare l'impero giungendo sino alle vette delle montagne sacre, il monte Taishan per l'appunto; lì avrebbe offerto i sacrifici in direzione dei quattro punti cardinali e ricevuto l'omaggio sottomesso e deferente dei signori di quelle terre. Va sottolineato che nella cultura cinese si immaginava che la terra fosse piatta e quadrata e che la volta celeste, di forma circolare, fosse sorretta da montagne poste come pilastri ai quattro punti cardinali.
Con lo stesso spirito e avvalendosi del formidabile strumento della scrittura “universalmente codificata”, Qin Shi poté travasare i contenuti di un nuovo corpus giuridico, il codice Qin, mirato alla realizzazione del suo particolarissimo disegno di potere, che non ebbe scrupoli a adottare leggi draconiane, ivi compresa quella della mutua responsabilità collettiva. Secondo questa, non solo chi osava esprimere ribellione o semplice dissenso era destinato a pene spietate, ma anche i suoi familiari erano condannati a subire gli stessi atroci supplizi.
La vecchia classe dirigente, che dal punto di vista ideologico si rifaceva alla tradizione confuciana portatrice dei valori dell'antichità, da sempre più critica verso la politica di Qin Shi Huangdi, iniziò ad alzare la voce. Quando il malcontento toccò livelli di guardia, l'imperatore attuò una durissima repressione, dichiarando apertamente guerra alla dottrina confuciana e al ceto intellettuale che faceva riferimento a essa grazie a un copioso numero di opere letterarie, che per quanto autorevoli fonte d'ispirazione scontavano un'inconciliabile divergenza dai principi che animavano l'imperatore.
Ciò spinse Qin Shin e i suoi ministri a compiere quel passo che gli storici successivi additarono come culmine della tirannide: un editto del 213 a.C. ordinò il rogo di tutti gli scritti non ritenuti ortodossi in quanto pericolosi per l'ordine costituito. Una sola copia d'ogni testo destinato alla distruzione sarebbe stata archiviata nella Biblioteca Imperiale, in special modo quelli di argomento scientifico, tecnico e di divinazione (come il celeberrimo I-Ching), per ragioni di pratiche quotidiane, mentre gravi sanzioni avrebbero colpito coloro che avessero conservato e nascosto i documenti in loro possesso.
L'anno successivo ben 460 letterati, accusati di aver criticato il regime e di aver conservato testi proibiti scampati al rogo, vennero condannati a essere sepolti vivi in una fossa comune. Fu comunque grazie al coraggio di costoro che alcuni dei capolavori della letteratura cinese, quali lo Shujing, il Classico dei documenti, si salvarono. Era, questa, una raccolta di documenti relativi agli eventi della storia della Cina antica che, stando a quello che racconterà successivamente lo storico Sima Qian, scampò alla distruzione grazie alla provvida iniziativa di Fusheng, un oscuro impiegato presso l'ufficio imperiale che occultò in un muro le tavolette di legno su cui copiava le opere con le quali veniva a contatto per ragioni di lavoro.
Il regime di terrore istituito, ispirato dalla dottrina legista secondo la quale l'essere umano era per sua natura cattivo e poteva compiere il bene solo se costretto a farlo, finì per contagiare anche il potentissimo Qin Shi, inabissandolo in uno stato costante di paranoia in cui ormai vedeva dappertutto complotti. Di certo non contribuì a sollevargli lo spirito l'essere scampato a tre attentati.
Qin perse comprensibilmente la fiducia nei suoi cortigiani e in chiunque avesse la sfortuna di incrociare il suo cammino.
Nel frattempo, incubi e sogni enigmatici lo tormentavano senza tregua, e senza che i suoi indovini sapessero persuasivamente decifrarli o placarli. Quin si sentiva sempre più solo e malato: lo attanagliavano vertigini, mal di testa, nausee.
Fu assecondando la deriva di tali elucubrazioni che l'imperatore si appassionò sempre più alle teorie alchemiche del taoismo e in particolare al segreto dell'immortalità, sperando di sopravanzare l'ambivalenza di un potere che se da una parte garantiva un'implicita energia espansiva e moltiplicatrice, dall'altra non si manifestava mai disgiunto dal senso di morte. Organizzò così spedizioni alla ricerca della montagna dell'Immortalità che, secondo un'antica leggenda, avrebbe custodito l'elisir di lunga vita. Egli stesso si recò per tre volte nell'isolotto di Zhifu posto nella Cina nord-orientale, convinto di trovare il segreto che gli avrebbe permesso di essere il primo sovrano di una dinastia eterna. Fu nell'alveo di questa ossessione che si concretizzò la diaspora che la leggenda legò a un astuto maestro taoista, Xu Fu, il quale, facendo leva sulla credulità del sovrano, mise in salvo un folto seguito di persone, ingannandolo con la lusinga di andare a procurargli la “droga dell'immortalità”.
Quello che appare certo è che nonostante gli insuccessi, Qin Shi si rifiutava di arrendersi, nella sua spasmodica ricerca dell'immortalità. Assecondando oscuri ambienti esoterici presenti a corte, che alimentarono la sua ansia di estendere il potere assoluto a domini ultraterreni, iniziò a ingurgitare pillole che questi asserivano gli avrebbero sicuramente concesso quell'eternità tanto agognata. Paradossalmente, furono proprio quelle pillole ad accelerare il suo percorso verso la morte. Esse infatti contenevano mercurio che nelle intenzioni (non si comprende se consapevoli o no) avrebbero dovuto garantire la vita eterna ma che al contrario, ingerite regolarmente, produssero un lento e costante avvelenamento che culminò nel luglio del 210 a.C. con l'inevitabile morte dell'imperatore allora quarantanovenne.
Gli intrighi a corte continuarono anche dopo la sua scomparsa, animati dall'irrefrenabile Li Si che, coadiuvato dall'eunuco Zhao Gao, taceva la morte dell'imperatore, fino a ordire un complotto che modificasse le disposizioni riguardanti la successione in cui si costringeva il legittimo erede Fusu al suicidio e, sulla scorta di un falso proclama imperiale, si eleggeva al trono il secondogenito Hu Hai, che assunse l'altisonante titolo di Ershi Huangdi, vale a dire Secondo Augusto Imperatore. Costui si rivelò molto meno capace del padre, consentendo che il governo si sgretolasse velocemente lasciando il posto a una nuova dinastia, quella degli Han.
Il mito dell'immortalità: l'esercito di terracotta Tale fu lo strepitoso ritrovamento in cui per caso incappò un contadino quando, nel 1974, intento a scavare un pozzo nei pressi di Xi'an, urtò con la zappa qualcosa di duro che si rivelerà essere il collo di uno dei guerrieri. Veniva alla luce così l'incredibile mausoleo che Qin Shi si era fatto costruire in vita, quello che le cronache di Sima Qian raccontavano così: "Alla costruzione del sepolcro furono inviati oltre 700.000 lavoratori. Si scavò il suolo fino all'acqua, vi si colò del bronzo e si portò il sarcofago. All'interno furono trasportati e sepolti utensili meravigliosi, gioielli e oggetti rari. Riprodotti gli edifici di tutte le amministrazioni. Alcuni artigiani ricevettero l'ordine di fabbricare balestre e frecce automatiche, in modo che se qualcuno avesse voluto fare un buco per introdurvisi gli avrebbero tirato addosso uccidendolo. Un vero palazzo sotterraneo si ergeva là dove ruscelli di mercurio disegnavano fiumi eterni. Magnifiche e ingegnosissime macchine li colavano e li collegavano gli uni con agli altri. In alto vi erano tutti i segni del cielo, in basso tutte le disposizioni geografiche. Si fabbricarono con grasso di foca torce perché durassero a lungo. Il figlio del sovrano, Eul Sce, ordinò che le donne dell'imperatore deceduto, le quali non avevano avuto figli, lo seguissero nella morte. E furono numerose. Al termine dei funerali, quando la bara fu calata, venne chiusa e nascosta la via centrale che portava al sepolcro, si fece cadere la porta dell'entrata esterna e vi si chiusero dentro tutti coloro che erano stati impiegati come operai o come artigiani e avevano fabbricato le macchine e nascosto i tesori; che sapevano tutto quanto era stato celato nella tomba, ne conoscevano il valore e ne avrebbero divulgato il segreto. Venne poi posta sul tumulo della vegetazione, in modo da farlo somigliare a una montagna". Al momento, di questa impressionante composizione sono stati riesumati solo quei terribili guardiani, realizzati con impressionante realismo e immortalati con le eventuali deformazioni o mutilazioni che possedevano i modelli originali in vita; tutti disposti in una posa che non lascia dubbi: pronti a dar battaglia e a intimorire così chiunque avesse osato profanare la tomba del loro signore.

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L'esercito di terracotta di Qin Shi


Nella tradizione cinese Qin Shi è generalmente descritto come un tiranno brutale, superstizioso, ossessionato dall'immortalità e terrorizzato dagli assassini, e spesso anche come un regnante mediocre. Molto probabilmente i giudizi degli storici antichi sono offuscati dalla propaganda confuciana, che condannava l'imperatore per le sue persecuzioni contro di loro e per il suo supporto al legismo, corrente di pensiero che venne screditata durante la confuciana dinastia Han. Due testi di propaganda confuciana in tal senso sono i Dieci crimini di Qin, compilato da storici confuciani, e Le colpe di Qin, di Jia Yi, un testo ammirato come esempio di retorica e pensiero confuciano; in questo si sostiene come le cause del crollo della dinastia Qin fossero da attribuire al comportamento di Qin Shi Huang, che andò contro gli insegnamenti di Confucio, ricercando avidamente il potere e angustiando il popolo con leggi severe e opere imponenti, per la costruzione delle quali molti lavoratori sarebbero morti. Il fatto che il confucianesimo abbia dominato il pensiero cinese fino all'inizio dell'età contemporanea rende molto difficile distinguere la verità dalla leggenda. Certamente non fu un mediocre se riuscì, primo nella storia, a unificare sotto un unico dominio tutta la Cina.
Dopo la caduta della dinastia Qing la storiografia cinese cominciò a rivalutare la figura del primo imperatore; lo storico Xiao Yishan, legato al Kuomintang, ne elogiò l'aver protetto la Cina dai barbari con campagne militari e con la costruzione della grande muraglia. Nel 1941 Ma Feibai ne pubblicò una biografia revisionista intitolata Qin Shi Huangdi Zhuan in cui lo definiva "uno dei grandi eroi della storia cinese" e paragonava Chiang Kai-shek a lui, auspicando che questi realizzasse una nuova unificazione della Cina così come il primo imperatore aveva fatto.
Con la sconfitta del Kuomintang e l'ascesa al potere del Partito Comunista Cinese la sua figura fu nuovamente reinterpretata, stavolta da un punto di vista marxista; nella Storia completa della Cina, compilata nel 1955, la sua opera di unificazione e standardizzazione fu giudicata espressione degli interessi della nobiltà e dei mercanti, e la caduta della dinastia Qin conseguenza della lotta di classe, che non vide trionfare i contadini solo perché la rivolta si era compromessa con elementi della classe dirigente. Tuttavia, quando a Mao Zedong fu riferito di essere stato paragonato al primo imperatore, egli ribatté: «Egli seppellì vivi 460 studiosi; noi ne abbiamo sepolti vivi quarantaseimila... Voi [intellettuali] ci accusate di essere dei Qin Shi Huang. Vi sbagliate. Noi abbiamo sorpassato Qin Shi Huang di cento volte».
Nel 1972 però, l'interpretazione ufficiale cambiò nuovamente: Hong Shidi pubblicò una biografia dal titolo Qin Shi Huang, in cui il primo imperatore veniva descritto come un precursore della rivoluzione, che distrusse le forze che volevano il paese diviso e rifiutò il passato, senza temere di usare la forza per avere la meglio contro i reazionari come "l'industriale e mercante di schiavi" cancelliere Lü Buwei. Nel 1974 sulla rivista Bandiera Rossa Luo Siding diede seguito a questa interpretazione ascrivendo le colpe della caduta della dinastia Qin all'eccessiva tolleranza del primo imperatore, che non aveva imposto la "dittatura sui reazionari, fino al punto di permettere a essi di farsi strada negli organi di autorità politica e usurpare posizioni importanti", come il capo eunuco Zhao Gao che si impadronì del potere con lo scopo di restaurare l'ordine feudale.

 

Eugenio Caruso - 15 novembre 2017

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