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Henrik Ibsen, il padre della drammaturgia moderna.


«Bambini affamati, vittime torturate dai loro oppressori, anziani indifesi considerati un odioso fardello dai loro figli; e tutta la solitudine, la povertà, e il dolore, si facevano beffa di ciò che la vita umana avrebbe dovuto essere. Desidero fortemente alleviare i mali del mondo, ma non posso farlo, e ne soffro.» (Autobiografia di Bertrand Russell)

Versi tratti dalla poesia "Orologio da rote" di Neruda

GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

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Henrik Johan Ibsen (Skien, 20 marzo 1828 – Oslo, 23 maggio 1906) è stato un drammaturgo, poeta e regista teatrale norvegese. È considerato il padre della drammaturgia moderna, per aver portato nel teatro la dimensione più intima della borghesia ottocentesca, mettendone a nudo le contraddizioni.

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Henrik Johan Ibsen


Henrik Johan Ibsen nacque a Skien, cittadina della Norvegia sudorientale, nel 1828, da una famiglia di discendenza danese e tedesca. Il padre, Knud Plesner Ibsen, era un ricco armatore, e la madre, Marichen Cornelia Martine Altenburg, era figlia di uno degli uomini più facoltosi di Skien, proprietario, tra le altre cose, di una grande casa in città, di una distilleria a Lundetangen e di una fattoria in campagna. Le sue due navi erano impegnate nel commercio di legname. I suoi beni passarono alla vedova e quindi a Marichen, quando quest'ultima sposò Knud, il 1º dicembre 1825. Con il matrimonio, come volevano le leggi vigenti, tutto divenne proprietà del marito.
Henrik era il figlio cadetto, anche se il primogenito Johan, di due anni più grande, morì il 14 aprile 1828. Gli Ibsen ebbero altri quattro figli: nel 1830 nacque Johan Andreas, nel 1832 l'unica femmina Hedvig Kathrine, nel 1834 Nicolai Alexander e nel 1835 Ole Paus. Nonostante il padre avesse rapidamente fatto fortuna con il suo multiforme commercio, tanto da figurare, nel 1833, come sedicesimo contribuente di Skien, subì un rovescio finanziario ancor più repentino. Ridotto in povertà, attorno al giugno 1835 si trasferì con la famiglia a Venstøp, piccolo villaggio a quattro chilometri di distanza, in una fattoria che aveva acquistato due anni prima. Knud, dopo il trasferimento, provò a salvare la disastrosa situazione finanziaria con modesti commerci, destinati, negli anni successivi, a fallire anch'essi.
Henrik era un bambino solitario e molto introverso, che rifuggiva la compagnia dei coetanei. Era solito rinchiudersi in una stanza della fattoria per leggere, improvvisare spettacoli con il suo teatro giocattolo, disegnare e dipingere (la pittura fu sin dalla tenera età l'altra grande passione di Ibsen). Con il suo atteggiamento, si esponeva alle prese in giro degli altri bambini, che lanciavano palle di neve e pietre contro la sua stanza, finché Ibsen usciva a cacciarli in malo modo. Molti anni più tardi Thalie Kathrine Ording, coetanea del drammaturgo e sua vicina di casa a Venstøp, ritrasse il ragazzino Henrik come «sgradevole» e «veramente odioso. Malevolo e crudele. Era anche solito picchiarci. Quando crebbe divenne di aspetto molto gradevole, ma non piaceva a nessuno per la sua cattiveria. Nessuno voleva stare con lui, che se ne stava sempre per conto proprio».

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La tenuta di Venstøp


Ibsen frequentò una scuola elementare della sua città natale, percorrendo quotidianamente a piedi i chilometri che la separavano dalla fattoria di Venstøp. Maturò un precoce interesse per la medicina, ma al termine delle elementari, anziché iscriversi (forse per mancanza di disponibilità economica) all'istituto che avrebbe assecondato questo proposito avviandolo verso studi universitari, seguì per un paio d'anni una scuola privata, retta da due giovani teologi, John Hansen e W.F. Stockfleth. Lì studiò il latino e il tedesco, dimostrando particolare interesse per la storia antica e gli studi biblici.
Nel 1843 la famiglia fece ritorno a Skien, ma già nel dicembre, in seguito al dichiarato fallimento dell'attività del padre, che era nel frattempo diventato un commerciante in legname, Ibsen dovette abbandonare gli studi e, per sostenere la famiglia, recarsi a Grimstad - località che a quel tempo «non aveva più di 800 abitanti» -, dove lavorò fino al 1850 come assistente nella farmacia di Jens Arup Reimann. Questi viveva con la famiglia nello stesso edificio della farmacia, dove anche Ibsen fu alloggiato. Henrik dovette condividere la stanza con i tre figli più grandi dei Reimann maturando, nella continua, forzata convivenza con altre persone, un bisogno di solitudine e di spazi che lo caratterizzò poi sempre fortemente.

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La farmacia dei Reimann a Grimstad. Ibsen abitò in questo edificio dal 1843 al 1847


Come rivela una lettera del 20 maggio 1844 all'amico Poul Lieungh, Ibsen si trovava bene presso i Reimann: «sono molto contento e non mi sono mai pentito di essere venuto qui, perché Reimann è molto buono con me, e fa tutto il possibile per stimolare il mio interesse nel lavoro in farmacia, che all'inizio non era granché piacevole». Come era avvenuto a Skien, anche a Grimstad il futuro drammaturgo fuggì il più possibile la compagnia dei coetanei, incorrendo nelle loro prese in giro e nei loro sospetti. Quando aveva finito di lavorare, si ritirava in solitudine fino a notte fonda per leggere, dipingere, abbozzare le sue prime poesie e prepararsi all'esame d'ammissione per la facoltà di medicina. Dotato di acuto spirito di osservazione, cominciò presto a studiare con occhio critico gli avventori della farmacia, da cui trasse materia per attaccare, nei componimenti dell'epoca, l'ipocrisia e i rapporti sociali. Fu un ragazzo dalla precoce virilità, con una folta barba già in età adolescenziale. Nel 1846 Ibsen, appena diciottenne, ebbe una relazione con una delle donne di servizio della farmacia, la ventottenne Else Sophie Birkedalen, che il 9 ottobre diede alla luce il figlio Hans Jacob.
Da una lettera spedita a una sua cugina, sappiamo che egli non si trovava più bene presso i Reimann. I debiti contratti dal proprietario della farmacia, già cospicui quando Ibsen cominciò l'apprendistato, andarono aggravandosi progressivamente, e Reimann si diede all'alcol, dimostrandosi, dopo Knud, un'altra deludente figura paterna. Nell'agosto 1846 vendette la sua attività all'asta; il nuovo proprietario la cedette a sua volta, nel marzo 1847, quando un giovane farmacista benestante, Lars Nielsen, la rilevò. Dalla nuova situazione Ibsen provò un senso liberatorio, sentendosi sollevato dall'atmosfera difficile venutasi a creare in casa Reimann. Nielsen spostò l'attività a Østregata, un quartiere più centrale, dove le condizioni di lavoro erano migliori e dove Ibsen, in virtù di un esame superato nella vicina Arendal, divenne "assistente qualificato", ed ebbe così un aumento di stipendio.
Le prime opere
A quest'epoca risale l'amicizia con Christopher Due, appena giunto a Grimstad come impiegato della dogana. La fama del giovane Ibsen cominciò a crescere nella cittadina, dove si faceva notare per l'intelligenza e lo spirito sarcastico e anticlericale. La farmacia di Østregata diventò così un luogo di ritrovo per i giovani che avevano velleità intellettuali. Intanto Ibsen scriveva versi, alcuni satirici e pungenti, altri - che mostrava solo a Due - più "seri". Fu grazie all'intercessione di Due, divenuto corrispondente da Grimstad per il neonato giornale Christiania-Posten, che Ibsen poté vedervi pubblicata il 29 settembre 1849 la sua prima composizione, la poesia I Høsten (In autunno).
Nel 1848 si applicò agli studi liceali e sognò di dedicarsi alla carriera politica. Tra l'inverno del 1848 e il successivo, Ibsen scrisse il suo primo dramma, Catilina, in tre atti e in versi. Lo affidò all'amico Ole Schulerud, uno studente di legge che si recava a Christiania (così si chiamava, all'epoca, Oslo), e che lo presentò all'unico teatro cittadino. L'opera fu rifiutata, ma Schulerud, fermamente convinto del talento e delle capacità del drammaturgo, la pubblicò a sue spese. Uscì nell'aprile 1850, in qualche centinaio di esemplari.
Ibsen, la cui povertà era ormai estrema (tra il mantenimento del figlio e gli studi non gli rimanevano nemmeno i soldi per vestirsi), scelse di lasciare l'angusto luogo per tentar fortuna nella capitale. Il 12 aprile Catilina apparve nelle librerie; il giorno seguente Ibsen partì alla volta di Christiania. Arrivò il 28 aprile 1850 in una città che contava 30000 abitanti. Fu alloggiato dalla signora Sæther, zia di Schulerud, che oltre al nipote ospitava anche Theodor Abildgaard, uno studente di legge che introdusse Ibsen nell'ambiente delle Associazioni operaie di Marcus Thrane (1817-1890), un socialista norvegese recentemente rientrato dalla Francia, dove era rimasto conquistato dagli ideali rivoluzionari del 1848. Ibsen tenne alcune lezioni presso la scuola domenicale delle Associazioni, finché Abildgaard e Thrane, il 7 luglio 1851, furono arrestati (e presto sarebbero stati condannati ai lavori forzati).

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Marcus Thrane

Nel frattempo Ibsen seguiva i corsi dell'istituto Heltberg per prepararsi all'examen artium, il superamento del quale costituiva un prerequisito per l'ammissione all'università. In questa scuola conobbe, tra i discenti, i futuri scrittori Aasmund Vinje (1818-1870) e Bjørnstjerne Bjørnson. Il secondo, insignito nel 1903 del Premio Nobel per la letteratura, rimase uno dei più stretti amici di Ibsen, mentre il primo introdusse a sua volta il giovane drammaturgo nella temperie politica del tempo. Il mancato superamento dell'esame, causato dalla bocciatura in greco e matematica, fu compensato dai primi successi come drammaturgo. Rielaborando un testo già avviato a Grimstad, Ibsen compose Il tumulo del guerriero (Kjæmpehøjen), atto unico in versi che fu accettato dal teatro di Christiania, e rappresentato il 26 settembre 1850. L'opera, ambientata nel decimo secolo, propone la contrapposizione tra lo spirito vendicativo dei vichinghi e il perdono cristiano.

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Ole Bull


Nel 1851 Ole Bull lo volle alla direzione del Norske Theater di Bergen, dove aveva lavorato come maestro di scena. Il neonato teatro si proponeva di far vivere, attraverso le opere, la storia e le tradizioni patrie, in una parola l'identità norvegese. Ibsen fu ospitato da Helene Sontum, proprietaria di una delle più rispettabili pensioni cittadine. L'incarico, che gli garantiva una paga stabile, paragonabile a quella di un insegnante, rappresentò un significativo miglioramento delle sue condizioni economiche. Per quanto Bergen fosse la più popolosa e fiorente città del Regno, non aveva ancora molto da offrire a livello culturale, e tutti, al Norske Theater, erano piuttosto inesperti. Così, per migliorare la sua formazione, il comitato del Norske finanziò a Ibsen e a una giovane coppia della troupe, i coniugi Brun, un viaggio a Copenaghen e Dresda. Il 15 aprile 1852 salpò alla volta della capitale danese, culturalmente molto vivace. Ibsen si stabilì in una stanza nelle vicinanze del Teatro Reale, diretto da quel Johan Ludvig Heiberg che dal 1825 aveva cominciato ad assurgere a maggior gloria delle scene danesi, e che accolse calorosamente Ibsen, offrendogli un lasciapassare per accedere gratuitamente alle rappresentazioni. Presso il Teatro Reale Ibsen compì la maggior parte dei suoi studi, durante il soggiorno a Copenaghen. Il vecchio direttore Thomas Overskou (1798-1873) gli mostrò il backstage spiegandogli il funzionamento dei macchinari. Durante le sei settimane di permanenza in terra danese, il Teatro Reale mise in scena diverse opere shakespeariane, tra cui un Amleto dai tratti realistici e poco accademici, in linea quindi con la produzione ibseniana maggiore. A Copenaghen Ibsen incontrò anche Hans Christian Andersen.
Partito il 6, giunse a Dresda il 9 giugno, dove continuò il suo apprendistato. Durante il soggiorno trascorse un'esistenza molto solitaria, visitando le bellezze cittadine e scrivendo. Il periodo in Sassonia funse da ispirazione per una raccolta di poesie, I Billedgalleriet, in cui evocò la perdita della fede ma al tempo stesso la possibilità di stabilire un contatto con il divino attraverso la contemplazione dei capolavori artistici di Raffaello, Correggio o Murillo. La raccolta fu scritta più avanti e pubblicata nel 1859. Tornato a Bergen, mandò in scena La notte di San Giovanni (Sancthansnatten), commedia romantica in tre atti che Ibsen forse cominciò a redigere in collaborazione con uno studente di Christiania, Christian Bernhoft, che poi desistette. L'opera fu scritta tra la primavera e l'estate, principalmente durante il soggiorno continentale. La notte di San Giovanni è una storia d'amore ambientata nel Telemark coevo, in cui è evidente l'influsso shakespeariano del Sogno di una notte di mezza estate, oltre che di autori scandinavi quali Hostrup, lo stesso Heiberg e Paul Botten-Hansen.
Il nazionalismo, pur trovandovi spazio, risulta subordinato all'affinamento artistico e alla perizia nei dialoghi, che Ibsen cura, alla ricerca di un proprio stile e di una propria identità letteraria. La prima rappresentazione, il 2 gennaio 1853, vide il tutto esaurito, ma all'unica replica, il 5 gennaio, l'afflusso di pubblico fu più ridotto. Se l'accoglienza di pubblico non fu buona - partirono fischi durante la prima -, è altresì vero che nessun dramma, al teatro di Bergen, andava mai oltre le due serate, e spesso anzi ci si fermava alla prima. La critica, non entusiasta, lasciò comunque intravedere qualche apprezzamento.
Trasferitosi in una dépendance del teatro, dove avrebbe vissuto per quattro anni, nella primavera del 1853 Ibsen conobbe la quindicenne Rikke Holst (1837-1923), che subì il fascino del solitario, malinconico, scontroso e appassionato drammaturgo. Presto i due si fidanzarono, ma la forte opposizione del padre di lei pose fine all'idillio. Non era un periodo facile: Ibsen non riusciva ad imporsi come drammaturgo e veniva anche criticato dal comitato del teatro, in una lettera che gli rimproverava una gestione insoddisfacente. Per l'opera da rappresentare il 2 gennaio 1854, Ibsen riprese in mano Il tumulo del guerriero, sottoponendolo a una radicale revisione, riducendo l'afflato lirico di oehlenschlaegeriana matrice e curando maggiormente la verosimiglianza storica. I personaggi acquisivano una loro identità più marcata e anche l'opposizione fra cristianesimo e paganesimo si faceva più definita e drammatica. Nonostante ciò, la pièce ebbe un'unica rappresentazione, che i giornali passarono praticamente sotto silenzio. Il Bergenske Blade, tuttavia, la pubblicò come supplemento.
Nel corso del 1854 nuovi nomi cominciarono a lavorare per il teatro di Bergen. Tra questi, il più importante per la carriera ibseniana fu un uomo d'affari, Peter Michael Blytt (1823-1897), a cui il drammaturgo sottopose in settembre un manoscritto, attribuendone la paternità a un autore di Christiania. La tragedia era stata in realtà scritta da Ibsen, che, timoroso, voleva mandare avanti un suo testo proteggendosi con l'anonimato. Blytt fu entusiasta dell'opera, Donna Inger di Østråt (Fru Inger til Østråt), pièce ambientata nel primo Cinquecento, in un contesto di forti tensioni politiche in cui la protagonista combatte a fianco dei rivoltosi svedesi e norvegesi contro l'aristocrazia danese, ma è dilaniata interiormente, in quanto l'amato figlio è frutto di un matrimonio con quella stessa aristocrazia. Storia nazionale e introspezione psicologica affiorano quindi nuovamente in Ibsen, nella sua opera più shakespeariana. Le tracce del realismo psicologico sono un'evidente eredità del viaggio continentale; il dramma idealista del passato si manifesta ancora, ma la transizione verso quello realistico si fa più concreta. La tragedia aprì la nuova stagione, il 2 gennaio 1855, con due rappresentazioni, la prima delle quali apprezzata dal pubblico.
L'anno successivo, alla consueta première del 2 gennaio, presentò Una festa a Solhaug (Gildet på Solhaug), dramma in cui si avvertono gli echi di Scribe e della sua scuola francese, in particolare della scribiana Bataille de dames (1851), che Ibsen aveva comprato a Copenaghen e diretto a Bergen. Una festa a Solhaug diede al suo autore maggior popolarità rispetto ai lavori precedenti, tanto che fu messa in scena per sei volte al teatro di Christiania. La compagnia danese di Thomas Cortes la rappresentò, oltre che nella capitale, a Kristiansand e a Trondheim. Nello spettacolo di Trondheim Ibsen introduce un'importante novità: gli attori si rivolgono gli uni agli altri nei dialoghi, invece di indirizzarsi costantemente al pubblico, come era consuetudine. Quando l'imperatore francese Napoleone III giunse in Norvegia, nella tarda estate del 1856, chiese di poter assistere a un'opera teatrale. Con la troupe in vacanza e parte dell'orchestra impegnata altrove, Blytt e Ibsen prepararono in una notte la rappresentazione della Festa a Solhaug, che vide l'attrice Louise Brun (1830-1866) nel ruolo della protagonista Margit. Napoleone fu omaggiato di una copia del dramma, apprezzò la prestazione della Brun e chiese una copia della musica di Ferdinand Giovanni Schediwy.
L'ultimo anno a Bergen vide Ibsen mandare in scena, il 2 gennaio 1857, Olaf Liljekrans, dramma per il quale ottenne un compenso superiore a quello previsto dallo stipendio annuale. L'opera è vagamente ispirata a un testo incompiuto che l'autore scrisse nel 1850, intitolato La pernice di Justedal (Rypen i Justedal). Nell'Olaf, il personaggio eponimo è spinto dalla madre, per ragioni di stabilità economica, a sposare una fanciulla che non ama, Ingeborg, e la lotta interiore che si innesca nel protagonista viene infine risolta, dopo varie vicissitudini, dall'amore tra Ingeborg e un altro uomo, che permette a Olaf di convolare a nozze con l'amata Alfhild. Olaf Liljekrans non ebbe successo e non riscontrò mai nemmeno l'entusiasmo dell'autore, che acconsentì alla sua pubblicazione solo per l'edizione delle opere del 1902. Frattanto, Ibsen conobbe Suzannah Daae Thoresen (1836-1914), figlia del pastore Hans Conrad Thoresen e della moglie Sara Margrethe Daae, e figliastra della scrittrice Anna Magdalene Kragh, terza consorte di Hans Conrad. Magdalene animava uno dei salotti letterari più importanti della città. È qui che nel 1856 Ibsen strinse rapporti con Suzannah, benché l'avesse probabilmente già conosciuta in precedenza. La ragazza, appena ventenne, aveva un temperamento simile a quello del drammaturgo: timida e poco amante degli eventi mondani, era al contempo passionale e molto istruita. Presto i due si fidanzarono, e si sposarono a Bergen il 18 giugno 1858, dando poi alla luce a Christiania il loro unico figlio, Sigurd (dal nome di un personaggio dei Guerrieri di Helgeland), il 23 dicembre 1859.

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Suzannah Thoresen


Christiania
L'11 agosto 1857 Ibsen firmò il contratto come direttore artistico del Kristiania Norske Theater, nella zona di Møllergaten, a Christiania, e prese funzione dal 3 settembre. Il teatro era in competizione con quello di Bank Pladsen, dove gli attori e i dirigenti erano danesi, e le opere importate da Copenaghen. Quest'ultimo era inoltre sito in un'elegante piazza a ridosso del centro, mentre il teatro di Ibsen si trovava in un'area abitata da lavoratori, sporca, frequentata da prostitute e ubriachi. Scopo del Kristiana Norske Theater era di promuovere i drammi e i vaudeville degli autori norvegesi del momento. Visse un breve periodo con l'amico Schulerud, che sarebbe morto trentatreenne nel 1859, e poi cambiò diverse dimore. Nel frattempo ci furono il matrimonio e la nascita del figlio, poco dopo la quale Suzannah annunciò che non avrebbe avuto altre gravidanze, notizia che ha talvolta spinto a ritenere che da quel momento il matrimonio sia stato in bianco. Presto, a Christiania, si formò un gruppo di cinque estimatori di Ibsen, che si incontravano il lunedì nella casa del critico Botten-Hansen, già difensore del Catilina. Botten-Hansen aprì inoltre a Ibsen le porte del settimanale Illustreret Nyhedsblad. In quegli anni compose Hærmændene paa Helgeland (I guerrieri di Helgeland, 1857). A una fase posteriore della sua intensa produzione letteraria risalgono opere come Terje Vigen (1862), Kjærlighedens Komedie (La commedia dell'amore, 1862) e il dramma storico Kongs-emnerne (I pretendenti al trono, 1863).
Nel 1864 Ibsen pubblicò I pretendenti al trono, che aveva scritto in sei settimane. Nello stesso anno, intanto, scoppiò la guerra dello Schleswig-Holstein, in merito alla quale Ibsen era a favore dell'intervento scandinavo. Il re di Svezia e Norvegia, Carlo XV, e il suo ministro degli Esteri Manderström, avevano inoltre promesso di intervenire in difesa dei danesi in caso di attacco tedesco. Indignato della successiva neutralità del suo Paese, che abbandonò la Danimarca al suo destino, materializzatosi nella sconfitta di Dybbøl (18 aprile), Ibsen maturò un profondo risentimento verso la sua terra natale.
Soggiorno in Europa
Partito alla volta dell'Italia il 5 aprile 1864, Ibsen era a Berlino il 4 maggio, quando vide sfilare il cannone sottratto ai danesi a Dybbøl, in mezzo alla folla giubilante che sputava, in segno di scherno, sul bottino di guerra. Come scrisse a Magdalene Thoresen un anno più tardi, «fu per me il segno che un giorno la storia avrebbe sputato negli occhi della Svezia e della Norvegia, per il ruolo avuto nella questione». Il primo impatto con l'Italia, il 9 maggio, rimase fortemente impresso nella mente dello scrittore. Il 1º dicembre 1898, a Copenaghen, lo avrebbe ricordato con queste parole: «[...] usciti dal tunnel [Ibsen è in treno, all'altezza di Trieste], ci trovammo d'improvviso a Miramare, dove quella luce meravigliosamente chiara che costituisce la bellezza del Sud mi si manifestò d'un tratto, scintillante come bianco marmo. Quest'immagine avrebbe influenzato tutto il mio lavoro successivo [...]». Giunto a Roma a metà giugno, Ibsen si mise subito in contatto con il console norvegese, Johan Bravo, che lo introdusse nel Circolo Scandinavo del Palazzo Correa, punto di ritrovo degli intellettuali nordici, dove viveva il bibliotecario del circolo e segretario di Bravo, Lorentz Dietrichson (1834-1917), giovane professore con cui il drammaturgo strinse amicizia. All'interno del Circolo Ibsen acquisì una posizione di un certo rilievo; ancora con il dente avvelenato, il 20 gennaio 1865 propose di vietare a ogni tedesco l'ingresso nel club, mozione respinta quasi all'unanimità. Nel frattempo fu raggiunto da moglie e figlio e si stabilì in via Capo le Case, dimora ibseniana fino a quando lo scrittore lasciò Roma nel 1868. Sin dall'inizio Ibsen mise mano a opere poetiche e teatrali, portando a compimento un dramma di ampio respiro, nato dall'indignazione di Dybbøl: Brand. Redatto inizialmente (non si sa a che punto fosse arrivata la stesura) come poema epico, dall'estate 1865 cominciò ad essere versificato come poema drammatico, con la notevole celerità attestata dalla lettera che il drammaturgo scrisse a Bjørnson da Ariccia il 12 settembre 1865. Brand fu compiuto per il mese di ottobre. Bjørnson mise in contatto l'amico con il danese Frederik Hegel, il più grande editore scandinavo del tempo, e il dramma fu pubblicato nel marzo 1866. L'anno seguente, dopo un viaggio tra Ischia e Sorrento compose il Peer Gynt (1867), dramma in versi di genere fantastico e di difficile messa in scena, reso famoso anche dalle musiche che Edvard Grieg scrisse appositamente per la sua prima rappresentazione (Christiania, 24 febbraio 1876). La fase romantica ibseniana si conclude con la commedia brillante De unges Forbund (La lega dei giovani, 1869) e con il dramma Kejser og Galilaer (Cesare e Galileo, 1873). Dal 1868 al 1874 risiedette a Dresda, poi tornò di nuovo a Roma.

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Ibsen a Dresda nel 1870.


La fase del teatro sociale
La fase più squisitamente sociale del teatro ibseniana ha inizio con Samfundets støtter ("I pilastri della società", 1877), seguito da Et dukkehjem ("Casa di bambola", 1879), scritto ad Amalfi e imperniato su una figura femminile (Nora) che si ribella al marito ma soprattutto alle ipocrite leggi della società in cui vive. Seguono altri capolavori, come Gengangere ("Gli spettri", 1881), En folkefiende ("Un nemico del popolo", 1882), Vildanden ("L'anitra selvatica", 1884), Rosmersholm ("La casa dei Rosmer", 1886), Fruen fra havet ("La donna del mare", 1888) e Hedda Gabler (1890). Nel 1891 Ibsen lasciò definitivamente Roma. A questo periodo risalgono i drammi Bygmester Solness ("Il costruttore Solness", 1892) e Lille Eyolf ("Il piccolo Eyolf", 1894). Dopo il ritorno a Kristiania, Ibsen scrisse i suoi ultimi lavori, John Gabriel Borkmann (1896) e Når vi døde vågner ("Quando noi morti ci risvegliamo", 1899). Nel 1900 Ibsen venne colpito da paralisi. Morì sei anni dopo a Kristiania, il 23 maggio 1906.

Opere
(1850) Catilina
(1850) Il tumulo del guerriero (Kjæmpehøjen)
(1852) La notte di San Giovanni (Sancthansnatten)
(1854) Donna Inger di Oestraat (Fru Inger til Østeraad)
(1855) Festa a Solhaug (Gildet paa Solhoug)
(1856) Olaf Liljekrans
(1857) Guerrieri a Helgeland (Hærmændene paa Helgeland)
(1862) Terje Vigen
(1862) La commedia dell'amore (Kjærlighedens Komedie)
(1863) I pretendenti al trono (Kongs-Emnerne)
(1866) Brand
(1867) Peer Gynt
(1869) La lega dei giovani (De unges Forbund)
(1873) Cesare e Galileo (Kejser og Galilæer)
(1877) Le colonne della società (Samfundets Støtter
) (1879) Casa di bambola (Et Dukkehjem)
(1881) Spettri (Gengangere)
(1882) Un nemico del popolo (En Folkefiende)
(1884) L'anitra selvatica (Vildanden)
(1886) La casa dei Rosmer (Rosmersholm)
(1888) La donna del mare (Fruen fra Havet)
(1890) Hedda Gabler
(1892) Il costruttore Solness (Bygmester Solness)
(1894) Il piccolo Eyolf (Lille Eyolf)[45]
(1896) John Gabriel Borkman
(1899) Quando noi morti ci risvegliamo (Når vi døde vågner)

CASA DIN BAMBOLA

Ambientato in una cittadina della Norvegia, circa nel 1879, il dramma segue il destino di una donna sposata, le cui aspirazioni di vita e auto-realizzazione sono frustrate in un mondo dominato dagli uomini, sebbene Ibsen negasse l'intento di scrivere un'opera femminista. Il testo destò grande scalpore, suscitando reazioni offese e oltraggiate dalla storia, e aprì un grande dibattito che si riverberò sui giornali e nella società.

Scritto ad Amalfi durante un soggiorno di Ibsen, fu pubblicato all'inizio del mese di dicembre 1879 e rappresentato il 21 dicembre dello stesso anno al Teatro Reale di Copenaghen. Pungente critica sui tradizionali ruoli dell'uomo e della donna nell'ambito del matrimonio durante l'epoca vittoriana, Ibsen scrisse nei suoi primi appunti: «Ci sono due tipi di leggi morali, due tipi di coscienze, una in un uomo e un'altra completamente differente in una donna. L'una non può comprendere l'altra; ma nelle questioni pratiche della vita, la donna è giudicata dalle leggi degli uomini, come se non fosse una donna, ma un uomo». Il personaggio di Nora, protagonista dell'opera, fu ispirato da Laura Kieler (Tromsø, 1849 - Aalsgaarde, 1932), scrittrice e amica di Ibsen, protagonista di un celebre scandalo dell'epoca, molto simile alla vicenda narrata dal testo teatrale. La Kieler, essendosi poi riconciliata con il marito o forse anche semplicemente infastidita che la sua vita fosse stata usata come foraggio per il suo dramma controverso, non perdonò mai Ibsen.
Trama
Atto I
Nel primo atto emerge la figura della padrona di casa, Nora, che, dopo uno scambio amorevole di battute con il marito, incontra la signora Kristine Linde, amica di gioventù. Mentre la prima rende partecipe l’amica della sua felicità (sia per il nuovo ruolo del marito, ormai divenuto Direttore della Banca, sia per la nuova condizione economica della famiglia, in relazione alla quale s'intravede una vita di agio e di benessere), la seconda confessa di non essere propriamente felice. Senza più lavoro, senza più la madre, senza figli, Kristine si sente persa. A quel punto, Nora si offre per proporre al marito l’inserimento lavorativo dell'amica. C’è solo un problema: inserire Kristine, nel contesto della Banca, equivale a licenziare l’avvocato Krogstad, con cui Nora era entrata in contatto, diversi anni prima, per ottenere milleduecento talleri (senza il consenso del marito - cosa non consentita - e falsificando una firma, quella del padre deceduto) finalizzati al trasferimento in Italia, necessario nell’ottica della sopravvivenza del marito. Di conseguenza, Krogstad, pur di non perdere il suo lavoro per la seconda volta (la prima volta lo perse a causa sempre di una firma falsa), decide di ricattare Nora. Per questo Nora, la quale non vuole che il marito venga al corrente della vicenda, chiede a Helmer di non licenziare Krogstad. Inutili i suoi tentativi dinanzi all'inflessibilità, anche morale, del marito. Nora, assalita dai sensi di colpa, chiude con queste parole il primo atto: “Io rovinare i miei bimbi! Avvelenare la nostra casa! Non è vero. Non è vero! Mai! Mai! Per tutta l’eternità ciò non è vero!”
Atto II
Nel secondo atto Nora cerca ancora, tra una cosa e un’altra, negli attimi di preparazione di un ballo, di frenare il licenziamento dell’avvocato. Helmer, però, nella sua inflessibilità, spedisce comunque, attraverso la cameriera, la lettera di congedo. Krogstad si reca dunque a casa di Nora e questa volta esige non i soldi dati in prestito ma fa un'altra richiesta: vuole ottenere un ruolo di rilievo all'interno della Banca. Andandosene, lascia nella cassetta della posta una lettera in cui riferisce al marito l’episodio del prestito e del rapporto economico avuto con Nora. Quando Helmer torna a casa, Nora temporeggia in tutte le maniere per evitare la lettura della lettera da parte del marito.
Atto III
Nel frattempo, la signora Linde, al corrente della situazione, recapita una lettera a casa di Krogstad. All’inizio del terzo atto emerge un particolare, una dinamica: Kristine e Krogstad avevano avuto una relazione, interrottasi per volere della prima. Kristine lo aveva infatti abbandonato per una relazione con un altro uomo. A questo punto, però, quando i due si parlano, si ha la svolta: "Ho bisogno di qualcuno a cui poter fare da madre, e i suoi figli hanno bisogno di una mamma. Anche noi due abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Krogstad, io ho fede nel fondo buono della sua natura… insieme a lei oserò tutto.” Kristine gli propone, con queste parole, di ricongiungersi a lui. Offrendole le mani, con il pensiero della riabilitazione agli occhi di tutti dopo lo spiacevole episodio di cui si era macchiato, l'avvocato accetta senza pensarci.
Helmer, tornato dal ballo, legge comunque la lettera. Sconvolto ("bugiarda, ipocrita, criminale!", queste le parole che indirizza alla moglie), arriva persino al pensiero di congedarla dal suo compito di madre, di sollevarla dall'educazione dei figli. In quell'istante di rabbia giunge la cameriera, con una seconda lettera che rimpiazza la prima e che annuncia, con immensa gioia nell’animo di Helmer, le rinunce dell’avvocato e la salvezza della famiglia.
Per Nora è comunque troppo tardi: l'epifania di cui Nora è protagonista la traghetta alla consapevolezza della propria inferiorità nel contesto familiare, della propria condizione di infantilità. "Quando stavo col babbo egli mi comunicava tutte le sue idee, e quindi quelle idee erano le mie. Se per caso ero di opinione diversa, non glielo dicevo, perché non gli sarebbe affatto piaciuto. Mi chiamava la sua bambolina e giocava con me, come io giocavo con le mie bambole. Poi venni in casa tua…” Il mutamento e la presa di coscienza sulla sua condizione avvengono improvvisamente e Nora decide, quindi, di abbandonare suo marito in cerca della sua vera identità, della strada attraverso la quale educare finalmente se stessa. Comprende la necessità di amarsi, di adempiere ai compiti e ai doveri verso se stessa, al di là dei miserabili lacci della società. E con il tonfo della porta che si chiude, che è anche il tonfo assordante della necessità di auto-determinazione, della affermazione della dignità di essere umano, nonché di ribellione volta a vincere la condizione di subalternità, si chiude anche la meravigliosa opera di Ibsen.
Critica
«NORA: Tu non pensi e non parli come l'uomo di cui possa essere la compagna. Svanita la minaccia, placata l'angoscia per la tua sorte, non per la mia, hai dimenticato tutto. Ed io sono tornata ad essere per te la lodoletta, la bambola da portare in braccio. Forse da portare in braccio con più attenzione perché t'eri accorto che sono più fragile di quanto pensassi. Ascolta, Torvald; ho capito in quell'attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli... Vorrei stritolarmi! Farmi a pezzi! Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero!
TORVALD: Capisco. Siamo divisi da un abisso. Ma non potremmo, insieme...
NORA: Guardami come sono: non posso essere tua moglie.
TORVALD: Ma io ho la forza di diventare un altro.
NORA: Forse, quando non avrai più la tua bambola.»
(Casa di bambola, Atto III. Traduzione di Lucio Chiavarelli.)
Alla sua uscita, il dramma di Ibsen suscitò scandalo e polemica essendo stato interpretato come esempio di femminismo estremo. Sugli inviti delle famiglie altolocate scandinave dell'epoca era frequente la postilla «Si prega di non discutere di Casa di bambola». Ibsen addirittura fu costretto a cambiare finale all'opera nella sua rappresentazione tedesca, poiché l'attrice che interpretava Nora si rifiutò di recitare la parte di una madre ritenuta da lei snaturata. Ibsen stesso dichiara il 3 gennaio 1880: «Casa di bambola ha sollevato una fortissima reazione; le fazioni si fronteggiano bellicose; l'intera grossa tiratura del libro, 8.000 esemplari, è andata esaurita nel giro di due settimane e si sta già preparando una ristampa. Oggetto della contesa non è il valore estetico del dramma, ma il problema morale che pone. Che da molte parti sarebbe stato contestato lo sapevo in anticipo; se il pubblico nordico fosse stato tanto evoluto da non sollevare dissensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l'opera.»
Per i vittoriani il legame del matrimonio era considerato sacrosanto e l'abbandono del marito da parte della moglie era inconcepibile e completamente inaccettabile. Lo stesso Torvald afferma: «Oh è rivoltante, così tradisci i tuoi più sacri doveri?» e con autorità proclama: «[Nora] Ma tu sei mia moglie, ora e per sempre!». Il dramma di Nora è quello di una donna costretta a vivere in una società a cui non sente di appartenere perché la considera una mera bambola. La sua vicenda non è soltanto una polemica sulla condizione femminile del XIX secolo, ma rappresenta anche una testimonianza dell'insopprimibile anelito alla libertà e all'esaltazione della vita. Nora afferma di non capire queste leggi e di non riuscire a convincersi che siano giuste, poiché ella non è disposta a rinunciare a vivere. Tutte le leggi che le proibiscono di amare ed essere felice sono per lei solo parole scritte in qualche libro che rimangono tali. Prima di tutto, Nora vuole vivere pienamente e realizzarsi come persona, badando a se stessa autonomamente senza essere mai più la bambola di qualche bambino viziato. «Credo di essere prima di tutto una creatura umana, come te... o meglio, voglio tentare di divenirlo.»
James Joyce scrisse su Fortnightly Review, 1900: «L'opera drammatica di Ibsen non polarizza sull'azione o sugli avvenimenti. Persino i personaggi, per quanto perfetti, non sono l'essenza delle sue opere. Ma il nudo dramma [...] è questo che attrae innanzitutto la nostra attenzione. Come base di tutte le sue opere, Ibsen ha scelto la vita di personaggi comuni nella loro verità senza compromessi. Ha abbandonato la forma in versi e non ha mai tentato di abbellire il suo lavoro secondo tecniche professionali.» Di tutt'altro avviso, Georg Groddeck rovescia la connotazione femminista attribuita a Nora, sottolineando come la donna abbia instaurato col marito un rapporto puerile: «Nora rimprovera al marito di non aver mai parlato con lei seriamente di cose serie. E va bene; ma lei l'ha fatto? No, mai. Gli ha tenuto nascosta la sua vita interiore, neppure per un momento gli ha concesso di guardare nel suo vero essere, quello della finzione». L'autore sottolinea inoltre come il sacrificio eroico immaginato dalla donna (il suicidio) sarebbe del tutto inutile, perché non basterebbe a salvare la reputazione del marito: esso sarebbe solo il coronamento di una finzione, di una tragedia da lei costruita egoisticamente. E ancora, sul finale del dramma: «Nora prende sul serio la sua partenza, non c'è da dubitarne; sul serio come può prendere lei qualcosa sul serio. Ma in effetti questa serietà non va mai al di là del sogno, neppure in questo caso. Potete star tranquilli: Nora non lotterà per i diritto della donna. Al contrario, Nora tornerà molto presto nella casa di bambola e lì riprenderà il suo vecchio gioco in forma nuova. Quel tanto di eccitazione che si poteva trarre da questo conflitto - ed è l'eccitazione che a lei importa - l'ha ottenuto»[.
Rappresentazioni
La prima italiana di Casa di bambola fu il 9 febbraio 1891 al Teatro dei Filodrammatici di Milano, nella traduzione di Luigi Capuana, dalla Compagnia drammatica della città di Roma (Duse-Andò), con Eleonora Duse (Nora), Flavio Andò (Torvald Helmer), Cristina Bradil (Anne Marie), Olga Giannini (signora Linde), Ettore Mazzanti (Nils Krogstad), Eleonora Ropolo (Helene), Vittorio Zampieri (dottor Rank). Resta memorabile la rappresentazione con protagonista l'intensa attrice russa Alla Nazimova, che interpretò per la prima volta lo spettacolo nel 1907. Nel 1922 ella fu anche la protagonista della relativa trasposizione cinematografica. La Rai mandò in onda quattro edizioni della commedia; il ruolo di Nora fu interpretato dalle seguenti attrici: Lilla Brignone, Giulia Lazzarini nel 1968, Ottavia Piccolo, e Micaela Esdra nel 1986.

Ho visto Casa di bambola, grazie a una trasmissione televisiva (regia di Giandomenico Giagni, con Giulia Lazzarini, Maria Capocci, Renato De Carmine, Anna Miserocchi, Alessandro Sperlì) trasmessa nel 1968. Per me fu un'epifania: in casa tra mamma, zia e domestica le donne avevano il predominio assoluto. Dopo quella trasmissione iniziai a leggere le commedie di Ibsen con grande soddisfazione. Devo ammettere che la Norvegia ci ha regalato tre grandi letterati: Hamsun, Bjornson e Ibsen.



13 agosto 2023 - Eugenio Caruso


Tratto da

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www.impresaoggi.com