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John Keats è uno dei principali esponenti della seconda generazione romantica inglese con Byron e Shelley

«Bellezza è verità, verità è bellezza, - questo solo
Sulla Terra sapete, ed è quanto basta.»
(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv.49-50)


GRANDI PERSONAGGI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.

I BRITANNICI

Beckett - Blake - Byron - Chaucer - Coleridge - Dickens - Donne - Dryden - Eliot - Keats - Kipling - Marlowe - Milton - Russell - Scott - Shakespeare - Shaw - Shelley - Wilde -Wordsworth - Yeats -

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John Keats ritratto da William Hilton.


John Keats (Londra, 1795 – Roma, 1821) è stato un poeta britannico, unanimemente considerato uno dei più significativi letterati del Romanticismo, e uno dei principali esponenti della "seconda generazione romantica" inglese assieme a Lord Byron e Percy Bysshe Shelley, come loro deceduto in giovane età. Nato a Londra in una famiglia d'estrazione modesta, la sua vera vocazione letteraria si sviluppò all'età di quindici e sedici anni, quando fece copiose letture che lo avvicinarono a Shakespeare e alla poesia di Edmund Spenser. Lavorò alacremente, fino a quando - prostrato dalla salute cagionevole - morì a Roma nel 1821, a soli venticinque anni. Peculiarità della poetica di Keats è la vivace rispondenza alla bellezza della poesia e dell'arte; tra le sue opere principali si possono ricordare il poema di sapore miltoniano Hyperion, The Eve of St. Agnes, La Belle dame sans merci e le numerosissime odi, tutte composte in un brevissimo periodo di pochi anni nel quale Keats si dedicò tutto alla poesia.
John Keats nacque a Londra il 31 ottobre 1795. Il padre Thomas, nativo delle regioni dell'ovest, lavorava come garzone di scuderia presso John Jennings, proprietario della Swan and Hoop Inn (la Taverna del Cigno e del Cerchio), a Moorgate; sposò il 9 ottobre 1794 Frances, la figlia di Jennings, al quale poi succedette negli affari. John fu il primo di cinque figli. Trascorse i primi anni di vita prevalentemente nella tenuta amministrata dal padre, fino a quando i genitori (che, essendo d'estrazione piuttosto modesta, non avevano le finanze per educarlo nei prestigiosi college di Eton o Harrow) nell'estate del 1803 lo mandarono alla scuola privata del reverendo John Clarke, dove diede prova di carattere pugnace, facendo al contempo disparate letture. Qui respirò infatti un'atmosfera satura di letteratura, stimolata dal figlio del reverendo, Charles Cowden Clarke, un giovane di buona cultura e dal contagioso entusiasmo per la poesia che rimase legato a Keats da un saldo vincolo d'amicizia, anche una volta finito il corso.

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Charles Cowden Clarke, figlio del maestro di Keats, si legò di profonda amicizia al poeta e gli fu vicino fino alla morte


La tranquillità di questi anni, tuttavia, iniziò ad incrinarsi, allorché Keats fu colpito da una serie di gravi disgrazie. Il 16 aprile 1804, quando Keats non aveva ancora nove anni, morì il padre per via d'un trauma cranico a seguito di una caduta da cavallo e, nel marzo del 1810, perse anche la madre, malata di tubercolosi. I giovani fratelli Keats vennero così affidati alla nonna materna, la quale, però, non potendosene prendere cura, farà nominare due tutori: Richard Abbey e John Sandell. Proprio dietro loro volontà, nell'autunno 1810 John lasciò la scuola del reverendo Clarke per studiare e lavorare come apprendista presso Thomas Hammond, farmacista e chirurgo di Edmonton, nel nord di Londra, nonché vicino di casa e medico della famiglia Jennings.
Per via di alcuni dissapori sorti con il chirurgo, Keats terminò l'apprendistato prima della scadenza del termine e nell'ottobre del 1815 si registrò come studente di medicina presso il Guy's Hospital; superati, nel 1816, gli esami di licenza all'Apothecaries's Hall, venne nominato assistente del Guy's Hospital. Ma se quest'ambiente gli servì d'eccellente tirocinio per la professione della medicina, Keats ebbe modo di notare come non svolgesse questo mestiere con amore; pertanto ben presto si diede, appassionato autodidatta, ai congeniali studi poetici.
Quest'ardente vocazione letteraria fu stimolata dall'amico Cowden Clarke, dal quale trasse l'amore per i versi di Edmund Spenser; non è un caso se la prima poesia che viene canonicamente riconosciuta a Keats è appunto Imitation of Spenser, scritta probabilmente nel 1813. Ma anche da Torquato Tasso e dalla traduzione d'Omero di George Chapman apprendeva ad ampliare gli orizzonti del suo mondo poetico; concepì un entusiasmo giovanile pure per le prime opere di John Milton, e per John Fletcher e William Browne. Frattanto, strinse amicizia con Leigh Hunt che, oltre ad essere un uomo di larga cultura e versato nella buona poesia, era anche un fiero continuatore della tradizione dello Spenser; nei confronti di Hunt, che riconoscendone il nascente genio ne pubblicò la poesia O Solitude nel suo giornale The Examiner, Keats manifestò infatti affetto e reverenza di antico discepolo.

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Ritratto di Keats realizzato dall'amico Severn, tra il 1821 e il 1823.


Gli studi letterari, se inizialmente furono paralleli all'attività medica, assorbirono Keats completamente da quando, nel dicembre del 1816, decise di abbandonare il Guy's Hospital per dedicarsi completamente alla poesia, passione che lo divorerà sino alla sua prematura morte. Già nel 1817 pubblicò un volumetto di versi, dove restò predominante l'influenza esercitata da Hunt, che si confermò essere il suo principale modello di riferimento poetico degli esordi. Nel frattempo, furono molti gli amici che Keats si attirò col fascino irresistibile della sua personalità, e con il suo brillante senso dell'amicizia: oltre al pittore Joseph Severn, che aveva già conosciuto in precedenza, nel periodo dominato da Hunt strinse amicizia con John Hamilton Reynolds, Benjamin Bailey, Charles Armitage Brown e il pittore Benjamin Haydon, che ebbe il merito di riconoscere l'altissimo valore dei marmi di Elgin (che ammirò, insieme al poeta, al British Museum agli inizi del 1817). In questi anni cominciò anche l'intimità con Percy Bysshe Shelley, Charles Lamb, Horace Smith e William Hazlitt, del quale ammirò vivamente la «profondità di gusto», che citò come una di quelle cose «da meravigliarsene nel nostro tempo». In poco tempo Keats apprese pure come, per dare un impulso decisivo alla propria vocazione poetica, dovesse godere della stretta compagnia con tali uomini, affiancandola allo studio serio e metodico di William Shakespeare e William Wordsworth, sviluppando al contempo la parte più autentica e vitale di se stesso.

«Una cosa bella è una gioia per sempre:
Si accresce il suo fascino e mai nel nulla
Si perderà; sempre per noi sarà
Rifugio quieto e sonno pieno di sogni
Dolci, e tranquillo respiro e salvezza»
— estratto di Endymion


Alla morte del fratello Tom, avvenuta il 1º dicembre 1818, Keats si trasferì dall'amico Charles Armitage Brown in un appartato e silenzioso angolo di Londra, a Wentworth Place, Hampstead. L'inverno 1818–19 fu assai prolifico, in quanto segnò l'inizio del suo annus mirabilis, durante il quale produsse a ritmo incalzante gran parte dei suoi componimenti più significativi: anzitutto il suo primo libro di poesie, dal titolo Poems, del quale il componimento Sleep and Poetry rappresenta il contributo più notevole; poi, il poema Endymion, scritto nel 1817 e pubblicato l'anno successivo, dove sotto l'allegoria della vicenda ellenica di Endimione, viene dimostrata l'unicità della bellezza che si rivela in tutte le attività umane.
Altri frutti poetici di questo fervore creativo furono l'Hyperion (1818-19), incentrato sempre sul tema della bellezza, Lamia, dove viene vissuto il drammatico conflitto tra ragione e sentimento, e The Eve of St Agnes (gennaio 1819), poema di colore spenseriano in cui Keats raggiunge la piena maturità poetica, parlandoci della «delizia d'un amore che appaga e trionfa». Altrettanto riuscite furono la Ode to Psyche, la Ode on a Grecian Urn, la Ode to a Nightingale la delicata ballata La Belle Dame sans Merci e infine la Eve of St Mark; Keats, inoltre, fu il primo poeta tra i moderni ad attingere particolare vigore dalle arti figurative: dal Poussin, dal Lorenese, dal Tiziano, dall'arte greca.
A Wentworth Place Keats conobbe, tra il settembre e l'ottobre del 1818, Fanny Brawne, che era ospitata insieme alla madre dai Brown: la simpatia si trasformò ben presto in intimità. Ciò nonostante i due non si unirono in matrimonio, a causa delle condizioni economiche poco agiate del poeta e delle sue condizioni di salute assai precarie. Sin dagli inizi del 1818, infatti, Keats era travagliato da una lenta consunzione, che lo spinse - su suggerimento dei medici - a trasferirsi a Roma col suo amico Joseph Severn, sperando che un clima più caldo potesse giovargli: non farà mai più ritorno in Inghilterra.

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La casa a Hampstead, dove Keats si trasferì dopo la morte del fratello Tom


Keats lasciò Londra il 13 settembre 1820, per poi imbarcarsi a Gravesend sul brigantino Maria Crowther: Una furiosa tempesta assalì l'imbarcazione durante il viaggio per il porto di Napoli, dove il Keats fu assoggettato a rigorosa quarantena per dieci giorni a causa di una sospetta epidemia di colera che sembrava essere scoppiata in Inghilterra. Il poeta raggiunse Roma solo il 14 novembre, quando le speranze di trovare un inverno dolce e temperato erano ormai svanite.
L'ultima lettera scritta dal Keats, datata 30 novembre 1820 e indirizzata a Charles Armitage Brown, è testimone del suo tracollo fisico:

«Scrivere una lettera è per me la cosa più difficile del mondo. Lo stomaco continua a farmi male, e sto ancora peggio se apro un libro - e tuttavia sto meglio di quando ero in quarantena. E poi ho paura di dover fare i conti con i vantaggi e gli svantaggi di quel che mi interessava in Inghilterra. Ho la sensazione continua che la mia vita reale sia già passata, e di star quindi conducendo un'esistenza postuma»

Nei mesi a Roma, Keats abitò al n. 26 di piazza di Spagna, in quel palazzo alla destra della scalinata di Trinità dei Monti dove in seguito trova sede la Keats-Shelley Memorial House. Diverse testimonianze raccontano di un'amicizia particolare che Keats iniziò celermente a stringere con un vicino di casa, Giorgio Rea, un ricco, vizioso ed istrionico mecenate omosessuale locale con la passione per la poesia e una forte dipendenza dalle droghe, che, venuto a conoscenza del soggiorno romano del poeta inglese, prese a frequentare giornalmente casa di Keats, pronto ad assisterlo e a pagare di tasca propria le migliori cure. Malgrado l'abnegazione e le devote cure del Severn e del dottor James Clark, Keats iniziò lentamente a spegnersi. John Keats morì di tubercolosi il 23 febbraio 1821, nel suo alloggio in piazza di Spagna, a soli venticinque anni; venne sepolto tre giorni dopo nel cimitero acattolico di Roma, presso la piramide di Caio Cestio. Sulla sua tomba Keats non volle scritti né il nome, né la data di morte, ma semplicemente un breve epitaffio, che recita:

«Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell'amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: "Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua"»

La tomba fu commissionata dai suoi amici Joseph Severn e Charles Armitage Brown. In seguito di fronte fu aggiunta dagli amici una lapide in "risposta", la cui lastra marmorea, mostra la seguente scritta, che "svela" l'identità del celebre sepolto:

«Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull'acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.»

Quando Severn morì, fu sepolto a fianco del poeta inglese, e il suo epitaffio reca la scritta "amico di John Keats".

Poetica
«Bellezza è verità, verità è bellezza, - questo solo
Sulla Terra sapete, ed è quanto basta.»
(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv.49-50)


Malgrado la morte prematura e le circostanze tanto sfavorevoli - tra l'annus mirabilis e il fatale trapasso a Roma passarono meno di tre anni - Keats è considerato uno dei maggiori esponenti del Romanticismo inglese. L'inadeguatezza della preparazione tecnica e il gusto scarsamente formato non riuscirono a intaccare il suo genio, che decise di seguire con cieca fiducia, evitando di imitare quei grandi maestri che aveva studiato così avidamente. Fu proprio questa la formula vincente di Keats, che fra tutti i poeti inglesi a lui contemporanei fu forse quello con maggiore temperamento artistico, sempre vigile nel cogliere la bellezza delle cose, e gli aspetti più intimi della sensibilità romantica: pure i suoi conoscenti ebbero modo di ammettere che «nulla gli sfuggiva. Il ronzio di un'ape, vista d'un fiore, lo splendore del sole sembravano far vacillare la sua stessa vita: l'occhio gli si accendeva, gli si colorivano le guance, le labbra gli tremavano». Non a caso, il suo itinerario di poesia si svolse sotto la grande ombra di William Shakespeare, e lo stesso Keats ebbe coscienza della spirituale tutela e dell'indiscutibile influsso che il Bardo dell'Avon esercitava su di lui, tanto che la qualità shakespeariana della sua opera omnia è stata poi confermata dai suoi critici maggiori.
Oltre alle varie poesie, delle quali si è già parlato, altro magnum opus di Keats fu il suo epistolario: a chiunque concesse la sua amicizia, egli si rivelò in modo spassionato. Dalle varie lettere emerge anche un preciso ritratto caratteriale del Keats, un uomo che, seppur travagliato da un sentimento morboso, mostra comunque un cuore sensibile, grande coraggio, e una natura fortemente emotiva, generosa.
Ernest de Sélincourt sentì come la poetica di Keats è il riverbero quasi subliminale del suo sentimento d'amicizia:

«Ma la caratteristica che in Keats uomo colpisce forse di più, è la sua straordinaria capacità di provare e ispirare affetto. Fu un fratello devoto: Hyperion fu cominciato mentre K[eats] assisteva il fratello Tom durante una malattia che riuscì fatale; e uno degli aspetti più belli del suo carattere ci è rivelato dai suoi rapporti col fratello George e con la più giovane sorella Fanny. Della sua capacità di amicizia si è già detto. Per quanto diversi fossero gli amici che ebbe, a ognuno egli diede qualcosa di sé stesso e ne ricevette in cambio un affetto raro per profondità di sentimento. Si può dire che la bellezza delle sue poesie è un riflesso della bellezza della sua vita»

Dal punto di vista stilistico, i versi di John Keats fondono svariate influenze: tra i punti di riferimento più evidenti appaiono l'amico Leigh Hunt e la grande tradizione classica inglese di Spenser, Shakespeare e Milton. Peculiarità dello stile di Keats, assorbite dai succitati poeti, sono l'attento utilizzo dei suoni e un frequente ricorso ad immagini concrete.
Le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici), infatti, abbondano nei versi di Keats, che in questo modo raggiungono un'estrema musicalità e una grande freschezza espressiva: particolare attenzione viene posta sull'utilizzo delle vocali, che secondo il poeta dovrebbero essere impiegate come le note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. Inoltre, come già accennato, le poesie di Keats evocano gli oggetti nelle sue molteplici qualità, ottenute mediante l'accostamento di diverse sfere sensoriali (vista-olfatto, tatto-vista-olfatto). In questo modo si ottengono delle immagini molto vivide, grazie alle quali non solo si immagina la fisicità dell'oggetto, bensì partecipa alla sua vita intima.
La produzione poetica di Keats subì fasi alterne di aperta ostilità e di apprezzamento da parte dei critici. Quando il poeta era ancora in vita, i suoi versi non conobbero affatto una buona accoglienza: alla pubblicazione dell'Endymion, per esempio, John Gibson Lockhart - in uno sprezzante articolo sul Blackwood - definì Keats un povero malato, consigliandogli di riabbracciare la professione medica: «... è cosa migliore e più saggia essere un dottore morto di fame che un poeta morto di fame». Ancora più acerba - data l'autorevolezza della rivista - fu la critica che John Wilson Croker gli rivolse sulla Quarterly Review:

«Keats (se questo è il suo vero nome, perché dubitiamo che una persona sana di mente firmi col suo vero nome una roba simile) è un discepolo della nuova scuola che è stata definita da qualcuno la scuola della poesia "cockney"; che si può dire consista delle idee più incongrue espresse nel più sguaiato dei linguaggi…Si tratta di una copia di Hunt, molto più inintelligibile e altrettanto sregolata, due volte più logorroica e dieci volte più noiosa e assurda del suo prototipo»

L'insuccesso critico dell'Endymion ebbe eco anche tra le pagine della British Critic, che pure stroncò atrocemente il poeta. Keats, tuttavia, non si lasciò sopraffare dall'ignominiosa opera demolitrice dei critici del suo tempo, intravedendo in tutti questi vituperi un'opportunità per migliorare la propria poetica. In una lettera dell'8 ottobre 1818 indirizzata all'amico Hessey scrisse che:

«il caso ha voluto che ricevessi il giornale tutti i giorni, ho visto anche quello di oggi. Non posso fare a meno di sentirmi in debito con quei Signori che hanno preso le mie difese - per il resto, comincio a conoscere meglio la mia forza e la mia debolezza. La lode e il biasimo non hanno che un effetto momentaneo su chi amando la bellezza in generale è giudice severo del proprio lavoro. Le critiche che mi sono fatto da me, m’hanno fatto più male di quelle del Blackwood o della Quarterly; e poi quando so di essere nel giusto, non c’è lode da parte di estranei che possa darmi quell'eccitazione che provo nel percepire in solitudine e nel riconfermare a me stesso ciò che ho giudicato bello [...] Non ho mai avuto paura di fallire; perché preferirei comunque fallire che non essere tra i grandi»

In ogni caso, l'asprezza di queste critiche fu tale che si creò la leggenda secondo cui la malattia (e, pertanto, la precoce morte) di Keats fosse stata provocata proprio dal dolore suscitato dagli attacchi della stampa; si narra, addirittura, che Lord Byron - altro fiero detrattore della poetica di Keats - pur di evitare di essere coinvolto nella vicenda eliminò nei suoi manoscritti qualsiasi riferimento al poeta. Questa credenza, in ogni caso, fu alimentata da Percy Bysshe Shelley; quest'ultimo, mosso dal profondo rispetto che nutriva per Keats, sette settimane dopo il suo funerale scrisse una toccante elegia in suo onore, Adonaïs, dove constatò che il suo trapasso costituiva un'immane tragedia.
L'elegia di Shelley portò la poesia di Keats ad essere apprezzata e amata in ogni parte dell'Europa che, fino ad allora, l'aveva guardato con diffidenza. Constance Naden riconobbe nei versi del poeta uno spirito squisito, così come Richard Monckton Milnes, che ne scrisse la prima biografia, che si rivelò fondamentale per collocarlo all'interno del canone poetico inglese. Anche i cicli pittorici dei Preraffaelliti (confraternita che annoverava artisti quali Millais e Rossetti) sono debitori della figura di Keats, che fu oggetto di una grande riscoperta anche negli ambienti più accademici: nel 1882, Swinburne scrisse nell'Enciclopedia Britannica che «la Ode to a Nightingale [è] uno dei capolavori finali dell'uomo». Keats fu ammirato anche dalla poetessa americana Emily Dickinson.
Il più grande estimatore di Keats fu tuttavia Oscar Wilde, che lo considerava il più grande poeta del secolo. Quando visitò Roma, Wilde testimoniò il suo amore per Keats in maniera incondizionata: visitò infatti il cimitero acattolico, ove il poeta era sepolto, e scorto il manto erboso sul quale poggiava la sua tomba si inginocchiò con immensa devozione. Da quest'incontro di anime affini - anche Wilde, come Keats, era animato da un profondo culto della bellezza - nacque il sonetto The Grave of Keats, scritto nell'immediato e dato alle stampe nel 1881, ma pubblicato la prima volta nel luglio del 1877 sulla rivista The Irish Monthly, inserendo riferimenti al mondo classico, e col titolo cambiato in O, giovane degno di pietà (Heu Miserande puer). Il testo del 1881 cita anche l'opera di Keats Isabella o il vaso di basilico, rivisitazione della novella di Boccaccio su Lisabetta da Messina.

«Affrancato dall’ingiustizia e dalla sua sofferenza,
Finalmente sotto il velo azzurro di Dio egli riposa.
Strappato alla vita quando vita e amore erano ignoti,
Il più giovane dei martiri qui giace.

Bello come Sebastiano, e come lui ucciso prima del tempo.
Nessun cipresso fa ombra alla sua tomba, nessun tasso funereo,
Ma gentili violette gocciolanti di rugiada.
Una catena sempre in fiore gli intesse le ossa.

O fierissimo cuore spezzato dal tormento!
O labbra più dolci dopo quelle di Mitilene!
O poeta-pittore della nostra terra inglese!

Il tuo nome fu scritto nell’acqua – ma resisterà:
E lacrime come le mie manterranno vivo il tuo ricordo
Come fece Isabella con la sua pinta di basilico.»
(O. Wilde, La tomba di Keats)


Del Keats esiste un numero cospicuo di codici autografi, che in gran parte sono proprietà dell'università di Harvard; ma il poeta è ben rappresentato anche nella British Library, nella Keats House a Londra, nella Keats-Shelley Memorial House romana e infine nel Morgan Library & Museum di New York.

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Opere principali

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John William Waterhouse - La Belle Dame Merci (1893

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Ode all'usignolo di Domenico Maria Fratto

Senza di te

Non posso esistere senza di te. 
Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti: 
la mia vita sembra che si arresti lì, 
non vedo più avanti. 
Mi hai assorbito. 
In questo momento ho la sensazione 
come di dissolvermi:
sarei estremamente triste 
senza la speranza di rivederti presto. 
Avrei paura a staccarmi da te. 
Mi hai rapito via l'anima con un potere 
cui non posso resistere;
eppure potei resistere finché non ti vidi; 
e anche dopo averti veduta 
mi sforzai spesso di ragionare 
contro le ragioni del mio amore. 
Ora non ne sono più capace. 
Sarebbe una pena troppo grande.
Il mio amore è egoista. 
Non posso respirare senza di te.

 

 

Lasciando alcuni amici di prima mattina

Lasciate intanto che la musica erri
ai miei orecchi d'intorno; e come quella
ogni cadenza deliziosa tocca,
lasciate che io scriva un verso pieno
di molte meraviglie delle sfere,
splendido al suono: con che altezze in gara
il mio spirito venne! Né contento
è di restare così presto solo.

 

 

Dolci le udite melodie

Dolci le udite melodie, più dolci
le non udite; dunque voi, soavi
flauti, all'orecchio no, più care all'anima
sonate melodie prive di suono.

Bel ragazzo, cessare tu non puoi
sotto gli alberi il canto, né quegli alberi
essere nudi; audace amante, mai
tu puoi baciare benché quasi a mèta;

pur non ti dolga, ella non può sfiorire
benché tu gioia non ne colga, sempre
tu l'amerai ed ella sarà bella.

 

 


Sposa ancora inviolata del silenzio

Sposa ancora inviolata del silenzio,
figlia del lento tempo e della quiete,
narratrice silvana che più dolce
della rima sai favole narrare;

qual leggenda di foglie incorniciata
abita la tua forma, di immortali
o mortali, o di entrambi, in Tempe o nelle
valli di Arcadia? Quali uomini o iddii

son questi? Quali vergini restie?
Che folle caccia e lotta per fuggire?
Che flauti e tamburelli, che fiera estasi?





Ella dimora insieme alla Bellezza

Ella dimora insieme alla Bellezza,
la Bellezza che morir deve; e insieme
alla Gioia che tien sempre sui labbri
la mano a dire addio; presso al Piacere
che duole e in velen muta mentre sugge

ape la bocca. Sì, nel tempio stesso
del Piacere ha il sacrario la velata
Malinconia benché la veda solo
chi con strenua lingua sa schiacciare
contro al palato il grappolo di gioia;

l'anima di colui assaggerà
la tristezza inerente al suo potere,
e andrà fra i suoi trofei capi sospesa.




Voglio una coppa piena fino all'orlo

Che terribile bellezza!
Da quest'istante strappo dalla mia mente
qualsiasi altra donna
Terenzio, Eunuco,

Voglio una coppa piena sino all'orlo
E dentro annegarci l'anima:
Riempitela d'una droga capace
Di bandire la Donna dalla mente.

E non voglio dell'acqua poetica, che scaldi
I sensi al desiderio lussurioso,
Ma una sorsata profonda
Tracannata dalle onde del Lete,

Per liberare con un incanto il mio
Petto disperato dall'immagine
Più bella che gli occhi miei festanti
Videro, intossicandone la mente.

È inutile  mi perseguita strugge.

 



La dolcezza di quel viso.

Lo sfavillio del suo sguardo splendente
E quel seno, terrestre paradiso.

Mai più felice sarà la vista mia,
Ché ha perso il visibile ogni sapore:
Perduto è il piacere della poesia,
L'ammirazione per il classico nitore.

Sapesse lei come batte il mio cuore,
Con un sorriso ne lenirebbe la pena,
E sollevato ne sentirei la dolcezza,
La gioia, mescolata col dolore.

Come un toscano perduto in Lapponia,
Tra le nevi, pensa al suo dolce Arno,
Così sarà lei per me in eterno
L'aura della mia memoria.




A..

Se io avessi una bella forma d'uomo,
allora i miei sospiri entro l'avorio
di codesta conchiglia, il tuo orecchio,
saprebbero echeggiare e il tuo gentile
cuore trovare senza indugio; armato
troppo bene sarei dalla passione
per questa impresa. Ahimè, ma cavaliere
di cui muoia il nemico non son io,
sul petto prominente non mi brilla
corazza alcuna; né un pastor di valle
sono, felice, che per gli occhi d'una
fanciulla gli tremarono le labbra.

Pure bisogna ch'io per te vaneggi,
dolce chiamarti, delle rose d'Ibla
più dolce assai che sentono di miele
quando le impregna una rugiada ricca
tanto che inebria. Ah sì, quella rugiada
gustare voglio, quella mi bisogna,
e quando il viso pallido disvela
la luna voglio andarne raccogliendo
qualche po' con incanti e con malie.






Scritto nel giorno in cui Leigh Hunt uscì di prigione

Benché imprigionato per aver detto il vero
a un principe adulato, il generoso Hunt,
in spirito immortale, libero si è serbato,
come nobile allodola richiamata dal cielo.

Lacchè dei Grandi, che cosa ti aspettavi?
Ch'egli avrebbe fissato i muri della cella
finché tu controvoglia ne riaprissi la porta?
No! Più alta e felice era già la sua sorte!

Nelle corti di Spenser egli vagò, in pergole
leggiadre, colse magici fiori, audace risalì,
con Milton, i campi d'aria; e in feudi

a lui certi da vero genio fece inebrianti voli.
Chi potrà la sua fama funestare quando
sarete morti tu e la tua ciurma di mariuoli?




Al sonno

O soave che balsamo soffondi
alla quieta mezzanotte, e serri
con attente e benevole le dita
gli occhi nostri del buio compiaciuti,
protetti dalla luce, avvolti d'ombra
nel ricovero di un divino oblio.

O dolcissimo sonno! Se ti piace
chiudi a metà di questo, che è tuo, inno
i miei occhi in vedetta, o attendi l'amen
prima che il tuo papavero al mio letto
largisca in carità il suo dondolio.

Poi salvami, altrimenti il giorno andato
lucido apparirà sul mio guanciale
di nuovo, producendo molte pene,
salvami dall'alerte coscienza
che viepiù insignorisce il suo vigore
causa l'oscurità, scavando come
una talpa. Volgi abile la chiave
nella toppa oliata e dà il sigillo
allo scrigno, che tace, del mio cuore.





Fulgida stella   (BRIGHT STAR)

Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss'io, però non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.

No, eppure sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell'amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d'onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
o se no, venir meno nella morte.

 

 

Dici di amarmi


Dici di amarmi, ma con una voce
più casta di quella di una suora che canta
il tenue Vespro della sera a se stessa,
mentre suona la campana a festa...
Please, amami sul serio!

Dici di amarmi, ma con un sorriso
freddo come un'alba di settembre,
come se fossi la suora di San Cupido
nella settimana di astinenza.
Please, amami sul serio!

Dici di amarmi, ma poi le tue labbra
color corallo non insegnano gioia
più del corallo stesso nel mare,
non si aprono mai per un bacio...
Please, amami sul serio!

Dici di amarmi, ma poi la tua mano
non stringe con dolcezza la mia mano,
è morta come quella di una statua
mentre la mia per la passione brucia.
Please, amami sul serio!

Sospirami qualche parola di fuoco!
Sorridi come se quelle parole mi bruciassero,
stringiti a me come una che ama, o baciami,
e nel tuo cuore seppelliscimi!
Please, amami sul serio!

 



Le stagioni umane

Quattro stagioni fanno intero l'anno,
quattro stagioni ha l'animo dell'uomo.
Egli ha la sua robusta Primavera
quando coglie l'ingenua fantasia
ad aprire di mano ogni bellezza;

ha la sua Estate quando ruminare
il boccone di miel primaverile
del giovine pensiero ama perduto
di voluttà, e così fantasticando,
quanto gli è dato approssimarsi al cielo;

e calmi ormeggi in rada ha nel suo Autunno
quando ripiega strettamente le ali
pago di star così a contemplare
oziando le nebbie, di lasciare
le cose belle inavvertite lungi
passare come sulla siglia un rivo.

Anche ha il suo Inverno di sfiguramento
pallido, sennò forza gli sarebbe
rinunciare alla sua mortal natura.




Il grillo dei campi e il grillo del focolare

Mai la terrestre poesia non muore.
Quando tutti gli uccelli al solleone
vengono meno e stan nascosti in mezzo
la frescura degli alberi, una voce
corre di siepe in siepe intorno al prato
su cui appena passò rasa la falce:
è del grillo dei campi, il capintesta
nel tripudio d'estate, mai godere
non cessa, perché quando a giuochi è stanco
posa con agio sotto una grata erba.

Fine non ha la poesia terrestre.
D'inverno, in una sera solitaria,
quando il silenzio è opera del gelo,
strepe fuor della stufa il suon del grillo
del focolare che col caldo sempre
viene crescendo, e a uno che smarrito
a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto
par del grillo dei campi ai colli erbosi.




All’Autunno

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
tu, intima amica del sole al suo culmine,
che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
e colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
i gusci di nocciola e ancora fai sbocciare
fiori tardivi per le api, illudendole
che i giorni del caldo non finiranno mai
perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:

chi non ti hai mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
seduta senza pensieri sull’aia
coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
o sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
la testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
o, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una musica ce l’hai.
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
e toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
piangono tra i salici del fiume,
e agnelli già adulti belano forte del baluardo dei colli,
le cavallette cantano, e con dolci acuti
il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

 

 

Ode all'usignolo

Il cuore si strugge ed un sonnolento torpore
affligge i sensi, come se ebro di cicuta,
o d’un sonnifero pesante trangugiato
pochi istanti fa, fossi affondato nel Lete:
è non certo per invidia della tua felice sorte,
ma troppo felice nella tua felicità.
Tu, arborea driade dalle lievi piume,
che in una macchia melodiosa
di faggi verdi e sparsa d’ombre innumerevoli
canti l’estate la felicità a gola spiegata.

O per un sorso di vino! Che sia stato
rinfrescato da secoli nelle profondità sotterranee,
sapido di Flora e di prati verdi,
di danza, di canti provenzali, d’allegria solare!
Oh, sì, bere una coppa colma di calore,
pregna di rosso, Ippocrene pura e sincera,
con rosari di bolle occhieggianti sull’orlo,
e la bocca macchiata di porpora;
sì, poter bere, e inosservato lasciare il mondo
per svanire, infine, con te, nelle foreste oscure.

Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi
ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
il languore, la malattia, l’ansia.
Qui dove gli uomini seggono e odon l’un l’altro gemere,
qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,
dove la giovinezza impallidisce, si consuma
e spettrale muore,
dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,
e la disperazione regna, dagli occhi di piombo,
dove la bellezza vede spenta la luce dallo sguardo
e il nuovo amore non riesce a struggersi oltre il domani.

Lontano! Lontano! e arrivare da te,
non portato da Bacco e dai suoi pargoli,
ma sulle invisibili ali della poesia,
anche se la mente, ottusa, si confonde e indugia:
già lì, con te, tenera è la notte,
con la sua luna regina sul trono
e le fate stellate tutt’intorno:
qui, invece, non c’è luce alcuna,
se non quella che dal cielo con la brezza spira
per verdeggianti tenebre e sinuosi sentieri di muschio.

Non vedo quali fiori siano ai miei piedi,
né che dolce incenso impenda sui rami,
ma nella profumata oscurità intuisco ogni soavità
di cui il mese propizio dota
l’erba, il boschetto e il selvaggio albero da frutta,
il biancospino e la pastorale Eglantina,
viole, presto appassite e sepolte tra le foglie;
e la figliuola maggiore di metà maggio:
la veniente rosa muschiata, dall’umore di vino di rugiada,
mormoreggiante dimora d’insetti nelle sere estive.

Nel buio ascolto, e ben molte volte
ho quasi desiderato la confortevole morte,
l’ho chiamata con soavi nomi in molte meditate rime,
l’ho pregata perché via si portasse nell’aria il mio respiro.
Or più che mai mi pare bene morire:
spegnersi a mezzanotte, senza alcun dolore,
mentre tu versi fuori l’anima
in tale estasi!
Tu canteresti ancora: ed io avrei orecchie invano,
al tuo alto requie divenuto una zolla.

Tu non nascesti per morire, tu, piuma immortale!
Le affannate generazioni non ti calpestano,
e la voce, che odo in questa fuggevole notte, fu udita
in antichi giorni da re e da villani:
forse è lo stesso canto che il sentiero trovò
nel cuore di Ruth, quando afflitta da nostalgia
ella stette in lagrime tra il grano straniero;
lo stesso, forse, che spesse volte ha
incantato magiche finestre, aperte sulla schiuma
di perigliosi mari, in fatate terre deserte.

Deserte! Come una campana risuona questa parola
che rintocca per ritrarmi da te alla mia solitudine!
Addio! La fantasia non può frodare così bene
com’ella ha fame di fare, ingannevole silfo.
Addio, addio. La tua antifona dolorosa svanisce
oltre i prati vicini, oltre la silenziosa corrente,
su per il colle per svanire appieno
tra i boschi della vicina valle.
È stato un sogno? O una visione?
Svanita è quella musica: dormo o son desto?

 

 

Ode su un'urna Greca 

I

Tu, ancora inviolata sposa della quiete,
Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio,
Narratrice silvana, tu che una favola fiorita
Racconti, più dolce dei miei versi,
Quale intarsiata leggenda di foglie pervade
La tua forma, sono dei o mortali,
O entrambi, insieme, a Tempo o in Arcadia?
E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose?
Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?
E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia? 

II

Sì, le melodie ascoltate sono dolci; ma più dolci
Ancora sono quelle inascoltate. Su, flauti lievi,
Continuate, ma non per l'udito; preziosamente
Suonate per lo spirito arie senza suono.
E tu, giovane, bello, non potrai mai finire
Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli;
E tu, amante audace, non potrai mai baciare
Lei che ti è così vicino; ma non lamentarti
Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire,
E tu l'amerai per sempre, per sempre così bella.

III

Ah, rami felici! Non saranno mai sparse
Le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera;
E felice anche te, musico mai stanco,
Che sempre e sempre nuovi canti avrai;
Ma più felice te, amore più felice,
Per sempre caldo e ancora da godere,
Per sempre ansimante, giovane in eterno,
Superiori siete a ogni vivente passione umana
Che il cuore addolorato lascia e sazio,
La fronte in fiamme, secca la lingua.

IV
E chi siete voi, che andate al sacrificio?
Verso quale verde altare, sacerdote misterioso,
Conduci la giovenca muggente, i fianchi
Morbidi coperti da ghirlande?
E quale paese sul mare, o sul fiume,
O inerpicato tra la pace dei monti
Hai mai lasciato questa gente in questo sacro mattino?
Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre,
E mai nessuno tornerà a dire
Perché sei stato abbandonato.

V

Oh, forma attica! Posa leggiadra! Con un ricamo
D'uomini e fanciulle nel marmo,
Coi rami della foresta e le erbe calpestate.
Tu, forma silenziosa, come l'eternità
Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale!
Quando l'età avrà devastato questa generazione,
Ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori
Non più nostri, amica all'uomo, cui dirai
"Bellezza è verità, verità bellezza", questo solo
Sulla terra sapete, ed è quanto basta.


7 dicembre 2023 - Eugenio Caruso


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Tratto da

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