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Vittorio Alfieri e il suo capolavoro il Saul.

«Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» (dalla Lettera responsiva a Ranieri de' Calzabigi, 7 settembre 1783)
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GRANDI PERSONAGGI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.

ITALIANI (Giova ricordare che, partendo dagli scrittori latini, fino a oggi la letteratura italiana è la più ricca del pianeta).

Alfieri - Angiolieri - Ariosto - Boccaccio - Carducci - Cavalcanti - D'Annunzio - Da Lentini - Dante - Fibonacci - Guinizzelli - Leopardi - Machiavelli - Manzoni - Monti - Pascoli - Petrarca - Pirandello - Poliziano - Tasso - Verga -

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Vittorio Alfieri ritratto da François-Xavier Fabre (1797), Palazzo Alfieri (Asti), ritenuto dal poeta il più somigliante e da lui donato alla sorella Giulia nel 1798

«Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» (dalla Lettera responsiva a Ranieri de' Calzabigi, 7 settembre 1783)

Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803) è stato un grande drammaturgo, poeta e scrittore.

«Nella città di Asti, in Piemonte, il 17 gennaio dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati e onesti parenti».

Così Alfieri presenta sé stesso nella Vita scritta da esso, autobiografia stesa, per la maggior parte, intorno al 1790, ma completata solo nel 1803. Alfieri ebbe un'attività letteraria breve ma prolifica e intensa; il suo carattere tormentato, oltre a delineare la sua vita in senso avventuroso, fece di lui un precursore delle inquietudini romantiche.
Come la gran parte dei piemontesi dell'epoca, Vittorio Alfieri ebbe come madrelingua il piemontese. Giacché di nobili origini, apprese dignitosamente il francese e l'italiano, cioè il toscano classico. Quest'ultimo, tuttavia, risentiva inizialmente degli influssi delle altre due lingue che conosceva, cosa di cui lui stesso si rendeva conto e che lo portò, al fine di spiemontesizzarsi e sfrancesizzarsi (o disfrancesarsi), a immergersi nella lettura dei classici in lingua italiana, e a compiere una serie di viaggi letterari a Firenze per studiarne la lingua. Dopo una giovinezza inquieta ed errabonda, si dedicò con impegno alla lettura e allo studio di Plutarco, Dante, Petrarca, Machiavelli e degli illuministi come Voltaire e Montesquieu: da questi autori ricavò una visione personale razionalista e classicista, convintamente anti-tirannica e in favore di una libertà ideale, al quale unì l'esaltazione del genio individuale tipicamente romantica.
Giova notare che a differenza di Dante con le sue cristalline certezze, l'Alfieri visse di dubbi e certezze, di malinconia ed euforia, di cadute e successi che ne fanno oggetto di studi per gli psicoanalisti. Era un nobile di alto lignaggio ma odiava la liturgia delle corti e il militarismo dei re; apprezzò la rivoluzione francese ma la odiò quando divenne una tirannide . Io ho amato Alfieri in giventù e lo amo ora in età avanzata perchè il suo amore per le libertà undividuali e l'odio per la stupidità "saccente" sono stati il timone della mia vita.
Si entusiasmò per la Rivoluzione francese, durante il suo soggiorno parigino, nel 1789, ma ben presto, a causa del degenerare della rivoluzione dopo il 1792, il suo atteggiamento favorevole si trasformò in una forte avversione per la Francia. Tornò in Italia, dove continuò a scrivere, opponendosi idealmente al regime di Napoleone, e dove morì, a Firenze, nel 1803, venendo sepolto tra i grandi italiani nella Basilica di Santa Croce. Già dagli ultimi anni della sua vita Alfieri divenne un simbolo per gli intellettuali del Risorgimento, a partire da Ugo Foscolo.

«Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi…» (da Vita di V. Alfieri, Epoca prima, 1755, capitolo II)

Vittorio Alfieri nacque dal conte di Cortemilia Antonio Amedeo Alfieri, membro della nobile famiglia omonima, e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon (già vedova del marchese Alessandro Cacherano Crivelli). Aveva un fratello, Giuseppe Maria, e una sorella, Giulia. La madre aveva avuto già due figli dalle prime nozze: Angela Maria Eleonora e Vittorio Antonio che morirà giovanissimo nel 1758.

Il padre morì di polmonite nel primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposò in terze nozze nel 1750 con il cavaliere Carlo Giacinto Alfieri dei conti di Magliano, un parente del defunto marito. Visse fino all'età di nove anni e mezzo ad Asti a Palazzo Alfieri (la residenza paterna), affidato a un precettore, senza alcuna compagnia.
La sorella Giulia fu mandata presso il monastero astigiano di Sant'Anastasio. Dal terzo marito la madre avrà Anna Maria Giuseppina Barbara, Giuseppina Francesca, Pietro Lodovico Antonio, Giuseppe Francesco Agostino e Francesco Maria Giovanni.
Come scrive nell'autobiografia, era un bambino molto sensibile, a tratti vivace, solitario, insofferente alle regole, descritto dai biografi moderni come tendente alla nevrosi, una condizione che si protrarrà per tutta la vita, causandogli spesso anche disturbi psicosomatici. Soffrirà di frequenti disturbi gastrici per la sua intera esistenza.

«Fra gli otto e nov'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche da salute, che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, uscii dal mio salotto che in un terreno dava nel cortile, dov'era intorno intorno molt'erba. Mi misi a strapparne colle mani quanta ne poteva, e a metterne in bocca, masticarne, e ingoiarne quanta poteva, benché il sapore me ne riuscisse ostico assai, e amaro. Aveva sentito dire non so da chi che la cicuta era un'erba che avvelenava, e faceva morire; non aveva fatto nessun pensiero di morire, e quasi non sapea quel che fosse; pure, seguendo un istinto naturale misto con non so quale idea di dolore, mi spinsi avidamente a mangiar di quell'erba, credendo che in quella vi dovea anch'esser cicuta.»

Nel 1758, per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, governatore di Cuneo e nel 1762 viceré di Sardegna, fu iscritto all'Accademia Reale di Torino. Viene ospitato dapprima dallo stesso zio Pellegrino; ma è troppo vivace, per cui viene fatto entrare il primo agosto, invece di ottobre, nell'Accademia; questo lo fece sentire abbandonato fra estranei, in un luogo in cui "nessuna massima di morale e nessun ammaestramento di vita" veniva dato, perché "gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica". I primi nove anni sono soprannominati dallo stesso Alfieri come "nove anni di vegetazione", privi di vere conseguenze, ma pure pieni di fatti e sentimenti significativi e rivelatori già di un carattere preciso e volitivo.
Alfieri all'Accademia compì i suoi studi di grammatica, retorica, filosofia, legge. Venne a contatto con molti studenti stranieri, i loro racconti e le loro esperienze lo stimolarono facendogli sviluppare la passione per i viaggi. Egli definì questi anni come "otto anni di ineducazione; asino, fra asini e sotto un asino", in cui si sentiva "ingabbiato" e con insegnanti inadeguati.

«Si traducevano le Vite di Cornelio Nepote, ma nessuno di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli uomini di cui si traducevan le vite, né dove fossero stati i loro paesi, né in quali tempi, né in quali governi vivessero né cosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte o false o confuse; nessuno scopo in chi le insegnava; nessunissimo allettamento in chi imparava. Erano insomma dei vergognosissimi perdigiorni; non c’invigilando nessuno e chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù.»

Viene afflitto anche da una malattia dei capelli, che lo costringe a tagliarli e a portare la parrucca per breve tempo. Nel 1762, grazie allo zio Benedetto Alfieri, assiste per la prima volta a uno spettacolo teatrale rappresentato al Teatro Carignano di Torino.
Dopo la morte dello zio, nel 1766 lasciò l'Accademia non terminando il ciclo di studi che lo avrebbero portato all'avvocatura e si arruolò nell'Esercito, diventando "portinsegna" (cioè "alfiere", tradizione di famiglia da cui derivava appunto il cognome, secondo una leggenda) nel reggimento provinciale di Asti. Rimase nell'esercito fino al 1774 e si congedò col grado di luogotenente. In questo periodo scoprirà anche un'altra delle sue passioni, l'amore per i cavalli, che lo accompagnerà sempre.
I viaggi

«A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mio [un giovane che l'accompagnava, assieme al domestico Elia] mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse il sangue, venne e me lo cavò.» (da Vita di V. Alfieri, Epoca terza, 1768, capitolo VI)

Tra il 1766 e il 1772, Alfieri cominciò un lungo vagabondare in vari stati dell'Europa. Visitò l'Italia da Milano a Napoli sostando a Firenze e a Roma, nel 1767 giunse a Parigi dove conobbe, tra gli altri, Luigi XV che gli parve un monarca tronfio e sprezzante. Deluso anche dalla città, a gennaio del 1768 giunse a Londra e, dopo un lungo giro nelle province inglesi, andò nei Paesi Bassi. A L'Aia visse il suo primo vero amore con la moglie del barone Imhof, Cristina (descriverà i precedenti sentimenti come "amorucci"). Costretto a separarsene per evitare uno scandalo, tentò il suicidio, fallito per il pronto intervento di Francesco Elia, il suo fidato servo, che lo seguiva in tutti i suoi viaggi.

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Ritratto di Giulia Alfieri contessa di Cumiana

Rientrò a Torino, dove alloggiò in casa di sua sorella Giulia, che nel frattempo aveva sposato il conte Giacinto Canalis di Cumiana. Vi rimase fino al compimento del ventesimo anno di età, quando, entrando in possesso della sua cospicua eredità, decise di lasciare nuovamente l'Italia. Fallisce intanto un tentativo del cognato di combinargli un matrimonio con una ragazza nobile e ricca, la quale, pur affascinata dal giovane "dai capelli e dalla testa al vento", alla fine farà cadere la sua scelta su un altro giovane dall'indole più tranquilla.
Tra il 1769 e il 1772, in compagnia del fidato Elia, compì il secondo viaggio in Europa: partendo da Vienna, passò per Berlino, incontrando con fastidio Federico II, toccò la Svezia e la Finlandia, giungendo in Russia, dove non volle neppure essere presentato a Caterina II, avendo sviluppato una profonda avversione al dispotismo, anche "illuminato" Alla morte di Federico, Alfieri scrisse nelle Rime il sonetto critico

Il Gran Prusso tiranno al qual dan fama (in cui il re viene definito costui, macchiato di assoluto regno, / Non può d’uomo usurpar nome, nè loda; / Ma, di non nascer re forse era degno.)

Raggiunse Londra e, nell'inverno del 1771, conobbe Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier, conosciuta nella precedente visita, con la quale instaurò una relazione amorosa.
Il visconte, scoperta la tresca, sfidò a duello l'Alfieri, che rimase ferito a un braccio lievemente. Lo scandalo che seguì e il processo per adulterio pregiudicarono una possibile carriera diplomatica dell'Alfieri, che in seguito a questi fatti fu costretto a lasciare la donna e Londra. Riprese così il suo girovagare, prima nei Paesi Bassi, poi in Francia, Spagna (noto il vivace episodio in cui lui e il servo litigano furiosamente fra di loro e con uno spagnolo fino a mettere mano alle spade, dopo che Alfieri gli ebbe tirato un candelabro in seguito ad una pettinatura dolorosa: "orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo e vergognosissimo e dissi ad Elia ch’egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi") e infine Portogallo, dove a Lisbona incontrò l'abate piemontese Tommaso Valperga di Caluso, che lo spingerà a intraprendere la sua carriera letteraria. Nel 1772 cominciò il viaggio di ritorno. Arrivò a Torino il 5 maggio 1772, indebolito e ammalato (forse di una patologia venerea da cui poi guarì). Nel 1773 si ammala di nuovo gravemente allo stomaco e all'intestino.
Ritorno a Torino
Il ventiquattrenne Alfieri rientrò nella capitale sabauda, dopo molto tempo di travagliato amore, nel 1773 e si dedicò per due anni a uno studio intenso della letteratura, rinnegando in tal modo, secondo le sue stesse parole, «anni di viaggi e dissolutezze»; a Torino prese una casa in piazza San Carlo, la ammobiliò sontuosamente, ritrovò i suoi vecchi compagni di Accademia militare e di gioventù. Legge Plutarco, Dante, Petrarca, il Don Chisciotte della Mancia, Cicerone e tutti i classici e i contemporanei, arrivando a possedere una vastissima biblioteca. Con gli amici istituì una piccola società che si riuniva settimanalmente in casa sua per «banchettare e ragionare su ogni cosa», la "Societé des Sansguignon", in questo periodo scrisse «cose miste di filosofia e d'impertinenza», per la maggior parte in lingua francese, tra cui l'Esquisse de Jugement Universél, ispirato agli scritti di Voltaire e Montesquieu.
Ebbe anche una relazione con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Turinetti marchese di Priero. Tra il 1774 e il 1775, mentre assisteva la sua amica malata, portò a compimento la tragedia Antonio e Cleopatra, rappresentata a giugno di quello stesso anno a Palazzo Carignano, con successo. Nel frattempo cominciò il lavoro sulle altre tragedie.
Nel 1775 troncò definitivamente la liaison amorosa con la marchesa Falletti, e studiò e perfezionò la sua grammatica italiana riscrivendo le tragedie Filippo e Polinice, che in una prima stesura erano state scritte in francese. Per imporsi l'abbandono dell'amante si taglia il codino che tutti i nobili e i borghesi usavano portare, perché, vergognandosi di mostrarsi "tosato", non sarebbe uscito di casa, se non dopo molto tempo, evitando di andare a trovare la donna, dalla quale lo dividevano solo poche decine di metri.
Nell'aprile dell'anno seguente si recò a Pisa e Firenze per il primo dei suoi "viaggi letterari" per apprendere bene la lingua italiana e come disse, "spiemontizzarsi" e "disfrancesarsi", dedicandosi allo studio e compilando anche piccoli vocabolari d'uso in cui alle parole e alle espressioni francesi o piemontesi corrispondevano "voci e modi toscani". Qui iniziò la stesura dell'Antigone e del Don Garzia. Tornò in Toscana nel 1777, in particolare a Siena, dove conobbe quello che sarebbe diventato uno dei suoi più grandi amici, il mercante Francesco Gori Gandellini. Questi influenzò notevolmente le scelte letterarie dell'Alfieri, convincendolo ad accostarsi alle opere di Niccolò Machiavelli. Da queste nuove ispirazioni nacquero La congiura de' Pazzi, il trattato Della Tirannide, l'Agamennone, l'Oreste e la Virginia (che in seguito susciterà l'ammirazione del Monti). Per dedicarsi solo ed esclusivamente alla letteratura per lungo tempo, arrivò a farsi legare alla sedia da Elia, in un famosissimo episodio.
La contessa d'Albany

«Un dolce foco negli occhi nerissimi accoppiato (che raro addiviene) a candidissima pelle e biondi capelli davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito o conquisto.» (da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1777, capitolo V)

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Ritratto di Luisa d'Albany nel decennio 1770

Nell'ottobre del 1777, mentre terminava la stesura di Virginia, Alfieri conobbe a Firenze la donna che lo tenne a sé legato per tutto il resto della vita, e che definì come il suo "degno amore": la principessa Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d'Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente giacobita al trono di Gran Bretagna secondo la successione Stuart, che Alfieri aveva già visto da lontano l'anno prima. Nello stesso periodo si dedicò alle opere di Virgilio e terminò il trattato Del Principe e delle lettere e il poema in ottave L'Etruria vendicata. La sua ennesima relazione con una donna sposata rischiava di finire come le altre se non fosse che lo Stuart, alcolizzato e violento, non si limitò a far scoppiare uno scandalo o sfidare il poeta a duello, ma divenne aggressivo con la giovane moglie a cui era andato in sposa in un matrimonio combinato da Luigi XV e Maria Teresa d'Austria. Alfieri descrive lo Stuart come "sempre ebro attempato marito" e riguardo a Luisa afferma che

"le sue pene eran mie; e vi ho successivamente patito dolori di morte. Io non la poteva vedere se non la sera, e talvolta a pranzo... ma sempre presente lo sposo..."

Il 30 novembre 1780, Carlo Edoardo, ubriaco dopo i festeggiamenti di Sant'Andrea, aggredì fisicamente la moglie, dopo aver scoperto la sua infedeltà coniugale, e tentando forse di ucciderla, fino a che intervennero i domestici. Con l'avallo del governo granducale, la contessa d'Albany riuscì con uno stratagemma ad abbandonare il marito rifugiandosi a Roma presso il convento delle Orsoline, con l'aiuto di suo cognato, Enrico Benedetto Stuart, cardinale e duca di York, che disapprovava il comportamento del fratello pur ignorando la relazione con Alfieri. Nell'autobiografia il poeta descrive l'aspirante re come una sorta di tiranno:

«La donna mia (come piú volte accennai) vivevasi angustiatissima; e tanto poi crebbero quei dispiaceri domestici, e le continue vessazioni del marito si terminarono finalmente in una sí violenta scena baccanale nella notte di Sant'Andrea, ch'ella per non soccombere sotto sí orribili trattamenti fu alla per fine costretta di cercare un modo per sottrarsi a sí fatta tirannia, e salvare la salute e la vita. Ed ecco allora, che io di bel nuovo dovei (contro la natura mia) raggirare presso i potenti di quel governo, per indurli a favorire la liberazione di quell'innocente vittima da un giogo sí barbaro e indegno. Io, assai ben conscio a me stesso che in codesto fatto operai più pel bene d'altri che non per il mio; conscio ch'io mai non diedi consiglio estremo alla mia donna, se non quando i mali suoi divennero estremi davvero, perché questa è sempre stata la massima ch'io ho voluta praticare negli affari altrui, e non mai ne' miei propri; e conscio finalmente ch'era cosa oramai del tutto impossibile di procedere altrimenti, non mi abbassai allora, né mi abbasserò mai, a purgarmi delle stolide e maligne imputazioni che mi si fecero in codesta occorrenza. Mi basti il dire, che io salvai la donna mia dalla tirannide d'un irragionevole e sempre ubriaco padrone, senza che pure vi fosse in nessunissimo modo compromessa la di lei onestà, né leso nella minima parte il decoro di tutti. Il che certamente a chiunque ha saputo o viste dappresso le circostanze particolari della prigionia durissima in cui ella di continuo ad oncia ad oncia moriva, non parrà essere stata cosa facile a ben condursi, e riuscirla, come pure riuscì a buon esito.» (Vita, Epoca IV, capitolo VIII)

Dopo qualche tempo Alfieri, che nel frattempo (1778) aveva donato, con il famoso atto definito da lui come "disvassallarsi" dalla monarchia assoluta dei Savoia di cui non voleva essere suddito, tutti i beni e le proprietà feudali alla sorella Giulia riservandosi un vitalizio e una parte del capitale, oltre che rinunciato alla cittadinanza del Regno sabaudo-piemontese (divenendo apolide), raggiunse a Roma la contessa e si recò poi a Napoli, dove terminò la stesura dell'Ottavia ed ebbe modo di iscriversi alla loggia massonica della "Vittoria". Pur mantenendo il titolo di conte, d'ora in poi si firmerà sempre "Vittorio Alfieri da Asti", come un semplice cittadino.
Tornò a Roma stabilendosi a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, con la contessa d'Albany, che nel frattempo ottenne una dispensa papale, sempre grazie al cognato, che le permise di lasciare il monastero di clausura. Nei due anni successivi di soggiorno romano lo scrittore portò a compimento le tragedie Merope e Saul (1782), il suo capolavoro, dedicato all'amico Tommaso Valperga di Caluso, e viene ricevuto in udienza da papa Pio VI.
Nel 1783, Alfieri fu accolto all'Accademia dell'Arcadia col nome di Filacrio Eratrastico. Nello stesso anno terminò anche l'Abele. Tra il 1783 e il 1785 pubblicò in tre volumi la prima edizione delle sue tragedie stampate dai tipografi senesi Pazzini e Carli.Ma questo periodo idilliaco fu bruscamente interrotto dal cardinale di York, il quale, scoprendo la relazione dello scrittore con la cognata, gli intimò di abbandonare Roma, pena un decreto di espulsione papale che non gli avrebbe più permesso il ritorno. Il poeta per la seconda volta della sua vita è colto dal pensiero del suicidio, come riportano alcuni sonetti del periodo, ossessionati dal pensiero della morte e dell'amore infelice (ad esempio Te chiamo a nome il dì ben mille volte, 1783, in cui è evidente anche il gusto preromantico della poesia cimiteriale).
Alfieri, con il pretesto di far conoscere le proprie tragedie ai maggiori letterati italiani, intraprese allora una serie di viaggi. Conobbe Ippolito Pindemonte a Venezia, Melchiorre Cesarotti a Padova, Pietro Verri e Giuseppe Parini a Milano. Ma le tragedie raccolsero per la maggior parte giudizi negativi. Solamente il poeta Ranieri de' Calzabigi si complimentò con lo scrittore che con le sue opere aveva posto il teatro italiano sullo stesso piano di quello transalpino.

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Alfieri e la contessa d'Albany, F. X. Fabre, 1796, Torino, Museo Civico di arte antica, realizzato per Tommaso Valperga di Caluso e precedentemente al Castello di Masino.

Nel 1782 e nel 1783 viene colpito per la prima volta dalla gotta.. L'anno seguente va in Inghilterra per la terza volta, per comprare dei cavalli, passando per Parigi, dove non apprezza l'ambiente intellettuale ma assiste a due degli esperimenti di Montgolfier col pallone volante, passando per Asti per rivedere la madre. Nell'aprile del 1784, la contessa d'Albany, per intercessione di Gustavo III di Svezia presso Carlo Edoardo, ottenne la separazione legale dal marito (ma non l'annullamento del matrimonio) e il permesso di lasciare Roma; si ricongiunse all'Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar, in segreto, per salvare le apparenze e la pensione della contessa, pagata dalla corona francese ai parenti degli Stuart in esilio, su concessione di Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena (nonostante gli stessi Stuart, come tutti i monarchi inglesi, rivendicassero da secoli anche il regno di Francia, e al contempo i francesi riconoscessero la dinastia Hannover). A Colmar, Alfieri scrisse l'Agide, la Sofonisba e la Mirra.
Costretti ad abbandonare l'Alsazia alla fine dell'anno, in condizioni di salute non buone, per l'obbligo della contessa di risiedere negli Stati papali (a causa di un nuovo intervento contrario del cardinale di York), Alfieri si sistemò a Pisa e la Stolberg a Bologna. La già insostenibile situazione fu aggravata dalla improvvisa morte dell'amico Gori, che aveva confortato e sostenuto Alfieri in questi anni. Sono di quel periodo alcune rime tra cui il Panegirico di Plinio e Traiano e le Note, sorte in polemica risposta verso le critiche negative alle sue tragedie.
Nel 1785 portò a termine le tragedie Bruto primo e Bruto secondo. Lo stesso anno passò un periodo a Firenze da solo, fatto che fu considerato una provocazione dagli Stuart, in quanto Carlo Edoardo vi risiedeva ancora, come si nota da una sdegnata missiva inviata dalla figlia legittimata del Pretendente, Charlotte Stuart, duchessa di Albany, allo zio Enrico Benedetto, in cui vengono ripetute le accuse che l'Alfieri respinse come "stolide e maligne imputazioni" nel passo precedente citato, e si incita a farlo espellere dalla città. Poco dopo, Alfieri da alle stampe la Mirra (dedicata apertamente a Luisa d'Albany), che è ritenuta assieme al Saul, il capolavoro assoluto di Alfieri, opera anticipatrice, come i miti greci a cui si rifà, di tematiche della psicoanalisi.
Nel dicembre del 1786, l'Alfieri e la Stolberg (che sarebbe divenuta vedova due anni dopo), per sfuggire definitivamente all'influenza di Enrico Benedetto Stuart e del potere papale, si trasferirono a Parigi acquistando due case separate; in questo periodo furono ripubblicate le sue tragedie per opera dei famosi stampatori Didot. Nel salotto della Stolberg, Alfieri conobbe molti letterati, in particolare fece la conoscenza di André Chénier (futura vittima della Rivoluzione), che ne rimase talmente colpito da dedicargli alcuni suoi scritti, e il console Filippo Mazzei, diplomatico toscano naturalizzato statunitense (collaboratore dell'allora ambasciatore Thomas Jefferson), con cui strinse un'amicizia che durò negli anni successivi. Nel febbraio del 1788, con la morte di Carlo Edoardo Stuart, Alfieri e la contessa poterono finalmente vivere liberamente la loro relazione. Alfieri decise di non sposare la contessa d'Albany, poiché col matrimonio sarebbe divenuta la contessa Alfieri di Cortemilia, perdendo il titolo di principessa vedova Stuart, e lui - contrario da sempre all'istituto matrimoniale (nello stesso periodo la madre tenta di nuovo di combinargli un matrimonio con una giovane piemontese) - asserì di non voler "avere una semplice contessa per moglie, potendo avere per amante una regina!" (regina consorte Luisa d'Inghilterra, Scozia e Irlanda era il nome ufficiale con cui i giacobiti britannici, la corte francese e quella pontificia chiamavano la Stolberg, in quanto moglie dell'autoproclamato re Carlo III). Lei stessa era d'accordo nel mantenere il proprio status e non sposarsi in seconde nozze, anche per non perdere il sostegno economico della Francia.
La rivoluzione francese e Napoleone

«Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi.» (da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, "capitolo XIX (1790)")

Nel 1789, Alfieri e la sua compagna furono testimoni oculari dei moti rivoluzionari di Parigi. Gli avvenimenti in un primo tempo fecero comporre al poeta l'ode A Parigi sbastigliato, in occasione della presa della Bastiglia (14 luglio), che poi però rinnegò: l'entusiasmo (dopo aver pensato di scrivere al re per chiedergli l'abdicazione per una pacifica transizione, come si vede in una lettera mai spedita del 14 marzo) si trasformò in odio verso la rivoluzione e i francesi, esplicitato nelle rime de Il Misogallo. Tra il 1791 e il 1792 visitò di nuovo l'Inghilterra, dove rivide Penelope Pitt, ma senza parlarle.

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La presa della Bastiglia (Charles Thévenin, 1793). Musée Carnavalet, Parigi


Nel 1792 l'arresto di Luigi XVI e le stragi del 10 agosto convinsero la coppia, ottenuti i passaporti (le "schiavesche patenti") a lasciare definitivamente la città per tornare, passando attraverso Belgio, Germania e Svizzera, in Toscana. Nel frattempo era stato emanato un ordine d'arresto per la contessa, in quanto nobile e straniera, ma non per Alfieri; anticipando la partenza da Parigi e forzando i posti di blocco ("io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar più di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei francesi"), Alfieri e la compagna si salvarono dai gendarmi venuti per eseguire il mandato, che saccheggiarono la loro abitazione. In questo modo sfuggirono probabilmente ai massacri di settembre e al regime del Terrore.
Poco dopo infatti fu proclamata la Repubblica francese e i loro beni rimasti furoni sequestrati, compresi libri, manoscritti, mobili, effetti personali e la maggioranza del denaro, investito in titoli di stato della corona e svalutato dall'assegnato. Tra il 1792 e il 1796 Alfieri, stabilitosi in Palazzo Gianfigliazzi a Firenze, in condizioni economiche precarie dopo l'entrata dei francesi in Piemonte e il blocco della rendita vitalizia piemontese, si immerse totalmente nello studio dei classici greci (dopo aver appreso il greco antico a 46 anni da autodidatta) traducendo Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane. Proprio da queste ispirazioni nel 1798 nacque l'ultima tragedia alfieriana: l'Alceste seconda (da lui definita "ultime scintille d'un vulcano presso a spegnersi"). Si appassiona anche a recitare le proprie tragedie personalmente, preferendo per sé il ruolo di Saul. Tra il 1799 e il 1801 le vittorie francesi sul suolo d'Italia costrinsero l'Alfieri a fuggire da Firenze per rifugiarsi in una villa presso Montughi, temendo per la propria vita. Il suo misogallismo - nonostante, però, dichiarasse di odiare i francesi, continuò ad avere buoni rapporti con singole persone transalpine: come il pittore François-Xavier Fabre, esule a Firenze, intimo amico della coppia Alfieri-Stolberg e loro ritrattista, e una non meglio identificata amica "che parlava francese" - gli impedì persino di accettare la nomina a membro dell'Accademia delle Scienze di Torino nel 1801, dopo che il Piemonte era entrato anch'esso in orbita napoleonica.
Un suo nipote acquisito, il generale Luigi Leonardo Colli, aderì all'esercito francese e l'Alfieri lo rimproverò in una lettera. Il poeta non si oppose apertamente e politicamente al dominio filo-francese in Toscana, ma si ritirò completamente dalla vita pubblica affidando alle rime, principalmente a Il Misogallo, il suo sdegno; emblematico del suo stato d'animo anche il sonetto 276 del 1798, in cui rivendica di non essere sottomesso, anche a scapito della perdita parziale del proprio patrimonio ("Così due volte dal mio Aver mi spicco, / E la mia Libertà con me sol pere: / Nel fango i vili intanto al suol conficco"). Durante questo periodo, nonostante facesse vita estremamente appartata, divenne il punto di riferimento di molti patrioti e letterati italiani, anche simpatizzanti per la Francia, e le sue tragedie riscossero un enorme successo di pubblico. Il giovane poeta Ugo Foscolo lo prese a modello da seguire.
Ad Alfieri Foscolo dedicò il Tieste (1797), inviandolo al drammaturgo astigiano con la dedica.
Il generale francese Alexandre Miollis, entrato a Firenze, cercò di incontrarlo ma Alfieri rifiutò, con la seguente missiva:

«Se il signor Generale Miollis comandante a Firenze ordina a Vittorio Alfieri di farsi vedere da lui, purché il suddetto ne sappia il giorno e l'ora, egli si renderà immediatamente all'intimazione. Se poi è un semplice privato desiderio del Generale Miollis di vedere il sunnominato individuo, Vittorio Alfieri lo prega istantemente di volerlo dispensare, perché, stante la di lui indole solitaria e selvatica, egli non riceve mai né tratta con chi che sia.»

Intanto, con una lettera di circostanza, la Stolberg riesce a riavere da Napoleone la pensione francese, mentre Alfieri non recuperò più i beni sequestrati in Francia né la rendita del Piemonte. Soltanto nel 1798, Pierre-Louis Ginguené, ambasciatore di Francia a Torino e futuro storico della letteratura italiana, non sollecitato da lui ma di propria iniziativa, gli aveva fatto avere i manoscritti rimasti a Parigi, e una piccola parte dei libri (150 su più di 1000 volumi). A causa del decreto consolare del 29 giugno 1802, a tutti i piemontesi residenti all'estero venne poi ingiunto di rientrare in patria entro il 23 settembre e di giurare fedeltà alla nuova costituzione francese; Alfieri, non più cittadino piemontese da tempo, spedì alla sorella certificati medici attestanti la sua impossibilità a viaggiare. Giulia giurò così in nome del fratello. Lo stesso anno torna a dedicarsi alla passione per i cavalli, acquistandone quattro.
Negli ultimi anni di vita, oltre che all'autobiografia e alle traduzioni, chiusa l'epoca delle grandi tragedie si impegna principalmente in opere di satira e commedia (Misogallo, Satire e le sei commedie); le commedie furono composte tutte tra il 1801 e il 1802: L'uno, I pochi e I troppi, tre testi sulla visione satirica dei governi dell'epoca (monarchia, oligarchia, democrazia); Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto (o semplicemente L'antidoto), sulla soluzione ai mali politici (quasi un testamento politico, in cui l'Alfieri, "il conte repubblicano", avverso a tutti i governi, pare infine accettare una monarchia parlamentare in stile inglese come il male minore, come sistema misto simile all'antica Repubblica Romana), La finestrina, ispirata ad Aristofane, e Il divorzio, in cui condanna i matrimoni nobiliari d'interesse, il cicisbeismo e tutti i cattivi costumi dell'Italia dei suoi tempi. Tra le originali iniziative di Alfieri nell'ultimo periodo, il progetto di una collana letteraria denominata "l'ordine di Omero", del quale si autonomina simbolicamente "cavaliere". Nella raccolta include ventitré poeti antichi e moderni, tra cui Molière, Racine e Voltaire, ultima testimonianza del rapporto letterario di amore-odio con la cultura francese, in particolare con il principale filosofo dei "lumi", prima ammirato e preso a modello da imitare e superare (nel Bruto primo, nel Bruto secondo e in Della tirannide), poi bersagliato nella satira L'antireligioneria, e infine parzialmente da lui riabilitato. In settembre Alfieri viene colpito da un nuovo attacco di gotta (la "podagra" cronica), un male che lo tormenta da tempo, nonché da erisipela, a cui seguirà una grave malattia di stomaco. La salute dello scrittore peggiora drasticamente dalla primavera del 1803: continui attacchi di gotta e artrite, dolori reumatici, problemi all'apparato digerente; gli viene somministrato oppio, diminuisce costantemente il cibo e assume rimedi improvvisati o inefficaci, ma continua a lavorare alacramente concludendo l'autobiografia, tra la preoccupazione della contessa; è stato ipotizzato che nella parte finale della sua vita Alfieri soffrisse di malattia cardiovascolare con ipertensione, oppure di un tumore gastrointestinale o di uremia, stadio finale della malattia renale cronica, o di una serie di diverse patologie assieme.

alfieri 12

Firenze, Basilica di Santa Croce: il monumento funebre scolpito da Canova, raffigurante l'Italia turrita afflitta per la morte del poeta, le maschere teatrali e il medaglione con il ritratto. L'epitaffio alla base (più corto di quello che lui stesso aveva composto) recita: «Victorio. Alferio. Astensi / Aloisia. e. Principibus. Stolbergis / Albaniae. comitissa / M. P. C. An. MDCCCX» ("A Vittorio Alfieri, astigiano. Luisa Principessa Stolberg, contessa d'Albany, pose qui il monumento l'anno 1810")


Il 3 ottobre 1803 si ammalò gravemente di una febbre gastrointestinale, secondo i medici complicazione della gotta, probabilmente quindi un disturbo renale (nefropatia gottosa) o causata da cure errate autosomministrate, unite alla frugalità dell'alimentazione e ad un'infezione. Già aveva scritto all'amico Valperga di Caluso una lettera d'addio, sentendosi consumato:

«Potendo io da un giorno all'altro soccombere alla gravissima malattia che mi consuma, ho stimato bene di lasciare queste poche righe perché vi siano trasmesse poi in attestato che sempre sino all'ultimo momento mio siete stato presente alla mente mia, e carissimo al mio cuore. La persona ch'io sovra ogni cosa al mondo ho venerata e amata, vi potrà poi un giorno narrare di bocca le circostanze del mio male. Vi supplico, e scongiuro di far il possibile per rivederla, e consolarla, e concertare con essa varie disposizioni ch'io le ho affidate riguardanti i miei scritti.» (Alfieri all'abate di Caluso)

Inizialmente sembrò rimettersi, ma cinque giorni dopo, Vittorio Alfieri si spense improvvisamente a Firenze l'8 ottobre 1803, all'età di 54 anni per crisi respiratoria e arresto cardiaco, con tutta probabilità colpito da infarto. Gli studi moderni e le diagnosi retrospettive attribuiscono perlopiù la morte del poeta a una forma di insufficienza renale o cardiaca. In seguito al malore, riuscì solo a far chiamare la contessa d'Albany, e poco dopo, seduto sul letto, si accasciò e non riprese più conoscenza.

«Ma non pare che per tutto ciò gli venisse in pensiero che la morte, la quale da lungo tempo egli era uso figurarsi vicina, allora imminente gli soprastasse. [...] richiamata la Signora Contessa il trovò in ambascia, che il suffocava. Nondimeno alzatosi di sulla sedia andò ancora ad appressarsi al letto, e vi si appoggiò, e poco stante gli si oscurò il giorno, perdé la vista e spirò. Non si erano trascurati i doveri e conforti della Religione. Ma non si credeva il male così precipitoso, né alcuna fretta necessaria, onde il confessore chiamato non giunse a tempo. Ma non perciò dobbiamo credere che non fosse il Conte apparecchiato a quel passo, il cui pensiero avea sì frequente, che spessissimo ancora ne facea parola. Così la mattina del sabbato 8 di ottobre 1803 cotant'uomo ci fu tolto...» (L'abate Valperga di Caluso alla contessa d'Albany)

Venne sepolto nella basilica di Santa Croce, inizialmente in una tomba nei pressi dell'altare dello Spirito Santo, e alle esequie assistette anche il celebre scrittore francese emigrato e controrivoluzionario François-René de Chateaubriand, all'epoca in Italia come diplomatico incaricato da Napoleone (dopo l'amnistia per gli espatriati) presso lo Stato Pontificio. I suoi residui beni personali passarono per testamento alla contessa, e da lei al Fabre nel 1824, con l'eccezione di alcuni dipinti e manoscritti: il ritratto del 1793, donato alla Galleria degli Uffizi assieme a quello coevo della Stolberg, quello del 1797, che lo stesso Alfieri lasciò alla sorella Giulia ad Asti, e il ritratto della coppia del 1796 di proprietà inizialmente dell'abate di Caluso.
A sua memoria rimane lo splendido monumento funebre marmoreo, commissionato dall'Albany (sepolta anch'ella nella basilica) nel 1804 e realizzato da Antonio Canova, che fu ultimato dallo scultore neoclassico nel settembre 1810, quando il corpo di Alfieri venne lì traslato e il sepolcro inaugurato solennemente. L'anno successivo la basilica fu visitata dallo scrittore francese Stendhal, grande ammiratore dell'arte di Canova, che parlò del monumento nelle sue lettere.
Opere
Le tragedie

Terminata l'Accademia militare a Torino, e dopo un lungo giovanile vagabondare in vari stati dell'Europa, nel 1775 (l'anno della conversione) rientra nella capitale piemontese e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo - come scrive nella Vita - anni di viaggi e dissolutezze; completa così la sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che registra un grande successo; seguiranno poi Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra. La fama delle sue tragedie è legata alla centralità del rapporto libertà-potere e all'affermazione dell'individuo sulla tirannia. Una profonda e sofferta riflessione sulla vita umana arricchisce la tematica quando il poeta si sofferma sui sentimenti più intimi e sulla società che lo circonda.
Le sue tragedie furono in gran parte rappresentate quando il poeta era ancora in vita ed ebbero un notevole successo nel periodo giacobino, nonostante il profondo disprezzo dell'autore per la rivoluzione francese. Le tragedie più rappresentate nel triennio giacobino italiano (1796-99) furono la Virginia e i due Bruti. A Milano al Teatro Patriottico nel 1796, il 22 settembre dello stesso anno, Napoleone presenziò a una replica della Virginia. Il Bruto primo fu replicato anche alla Scala e a Venezia, mentre a Bologna vennero rappresentate tra il 1796 e il 1798 ben quattro tragedie (Bruto II, Saul, Virginia, Antigone). Le reazioni negli spettatori erano spesso molto singolari; ne parla anche il Leopardi nel suo Zibaldone (1823), il quale citando la rappresentazione a Bologna dell'Agamennone racconta che:

«Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro tanto odio verso Egisto, che quando Clitenestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse.» Anche Stendhal scriveva da Napoli:

«27 febbraio 1817. Esco or ora dal Saul al Teatro Nuovo. Si direbbe che questa tragedia tocchi le corde segrete del sentimento nazionale italiano. Il pubblico va in visibilio […]» (Stendhal, Roma, Napoli e Firenze)

Negli intervalli degli spettacoli i patrioti ballavano la "Carmagnola" in platea. Negli anni successivi, molti attori ottocenteschi si specializzarono nelle opere alfieriane: da Antonio Morrocchesi al teatro Carignano di Torino, a Paolo Belli Blanes a Firenze o a Milano. Le tragedie sono ventidue, compresa la Cleopatra (o Antonio e Cleopatra) poi in seguito da lui ripudiata. L'Alfieri le scrive in endecasillabi sciolti, seguendo il concetto di unità aristotelica. La stesura del testo prevedeva tre fasi: ideare (trovare il soggetto, inventare trame e battute, caratterizzare i personaggi), stendere (fissare il testo in prosa, nelle varie scene e atti), verseggiare (trasporre tutto in endecasillabi sciolti). Eccone l'elenco completo:

  • Saul (1782)
  • Merope
  • Filippo 
  • Rosmunda 
  • Ottavia
  • Maria Stuarda
  • Agide
  • Bruto primo
  • Bruto secondo 
  • Don Garzia 
  • Sofonisba (1789)

Tragedie greche:

  • Polinice 
  • Agamennone 
  • Antigone 
  • Mirra 
  • Oreste 

Tragedie definite della libertà:

  • La congiura de' Pazzi 
  • Virginia 
  • Timoleone 

Tragedie pubblicate postume:

  • Cleopatra
  • Alceste seconda

La tramelogedia
Alfieri volle coniugare il melodramma, molto in auge in quel periodo, con i temi più ostici della tragedia. Nacque così l'Abele (1786), un'opera che egli stesso definì tramelogedia.
Le prose politiche
Alfieri esordì con una prosa politica e anticlericale, a metà tra satira e dialogo, ispirata all'illuminismo, intitolata Esquisse de Jugement Universél (1773-1774), antecedente alle tragedie. L'odio per la tirannia e l'amore viscerale per la libertà vennero sviluppati poi in due trattati:
- Della tirannide (1777-1790), di tema interamente politico, scritto durante il suo soggiorno a Siena, dove conobbe il suo più grande amico, il mercante Francesco Gori Gandellini. Si apre con una dedica "alla libertà". L'Alfieri fa una disamina del dispotismo, considerandolo la rappresentazione più mostruosa di tutti i tipi di governo. La tirannide è basata, per Alfieri, sul sovrano, sull'esercito e sulla Chiesa, che costituiscono le basi di questo Stato.

«Tirannide indistintamente appellare si deve ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto eluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono o tristo, uno, o molti; ad ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammetta, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. [...] base e molla della tirannide ella è la sola paura. E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella cagione che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore...»

- Del principe e delle lettere (1778-1786), di tema politico-letterario, dove l'Alfieri giunge alla conclusione che il binomio "monarchia e lettere" sia dannoso per lo sviluppo di queste ultime. Il poeta prende in esame anche le opere di Virgilio, Orazio, Ariosto e Racine, nate con il benestare di principi o monarchi munifici, considerandole il frutto di uomini "mediocri", contrapponendoli a Dante. Il poeta inoltre esprime la sua adesione all'interpretazione obliqua di Machiavelli, come "ammonitore" repubblicano dal potere dei tiranni.
A essi seguirono altre prose politiche minori:
- Panegirico di Plinio a Trajano (1785), personale rivisitazione dell'omonimo panegirico di Plinio il Giovane (Panegirico a Traiano).
- La Virtù sconosciuta (1786), il poeta, in un dialogo immaginario con l'amico defunto Gori Gandellini, lo paragona a fulgido esempio di virtù cittadina e indipendenza morale.
- Elogio di Niccolò Machiavelli (1794), discorso pronunciato nell'Accademia Fiorentina, in cui Alfieri ribadisce la sua tesi repubblicana sul machiavellismo come "dissimulazione".


Le odi politiche
- L'Etruria vendicata, poema in quattro canti e in ottave progettato nel maggio 1778, inizialmente con il titolo Il Tirannicidio, narra l'uccisione di Alessandro de' Medici per opera di suo cugino Lorenzino che l'Alfieri celebra come un eroe di libertà nel solco della tradizione repubblicana anti-medicea che già nel Rinascimento aveva plaudito l'atto.
- L'America libera, un componimento di cinque odi, in cui Alfieri esalta la generosità disinteressata di La Fayette, che aiutò i ribelli e celebra l'eroismo di Washington, che Alfieri paragona a quello degli antichi eroi.
- Parigi sbastigliato, ode composta da Alfieri dopo la distruzione della Bastiglia, scritta tra il 17 luglio e il 5 agosto 1789. Rinnegata dopo la fuga dalla Francia, come testimoniato in un brano del Misogallo del gennaio 1793 in cui definisce la sua ode un "delirio", ritrattando tutto. L'odio antirivoluzionario: Il Misogallo

«Io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco.» (da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1795, capitolo XXIV)

Il Misogallo (dal greco miseìn, che significa "odiare" e "gallo" che sta a indicare i francesi) è un'opera che aggrega generi diversi: prose (sia discorsive sia in forma di dialogo tra personaggi), sonetti, epigrammi e un'ode. Si tratta della ritrattazione completa dell'ode Parigi sbastigliato, e una rivalutazione della figura umana di Luigi XVI (considerato un re troppo gentile per i "vili francesi") contro il tirannico Robespierre, a cui vengono attribuite in toto le opinioni e le azioni dei rivoluzionari, durante il dialogo immaginario col re. Inoltre vi è anche un componimento, il Sonetto XII, dedicato a Maria Teresa Luisa di Savoia, principessa di Lamballe, amica di Maria Antonietta brutalmente trucidata durante i massacri di settembre, mentre il Sonetto XXIV è dedicato alla regina stessa. Questi componimenti si riferiscono al periodo compreso tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio 1798.
È una feroce critica di Alfieri sulla Francia, sui francesi e sulla Rivoluzione, ma egli rivolge l'invettiva anche verso il quadro politico e sociale europeo, verso i molti tiranni antichi e recenti, che dominarono e continuavano a dominare l'Europa. Per l'Alfieri, «i francesi non possono essere liberi, ma potranno esserlo gli italiani», mitizzando così un'ipotetica Italia futura, «virtuosa, magnanima, libera ed una». Alfieri è quindi un controrivoluzionario e un aristocratico (anche se la "nobiltà" non è per lui "di nascita", prova ne sia il disprezzo per la sua stessa classe sociale, ma quella dell'animo forte, dotato del "forte sentire") anche se non si può certo definire un vero reazionario, essendo un uomo che esaltava il valore della libertà individuale, che ritenne potesse essere preservata dalla nuova Italia che sarebbe nata.
Alfieri e le ideologie rivoluzionarie

«Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è Patria. L'arte mia son le Muse: la predominante passione, l'odio della tirannide; l'unico scopo d'ogni mio pensiero, parola, e scritto, il combatterla sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto ella si manifesti o si asconda.» (Lettera di Vittorio Alfieri al Presidente della plebe francese (ossia della Convenzione nazionale), da Il Misogallo, parte I)

Alfieri fu contrario alla pubblicazione che fu fatta in Francia dei suoi trattati giovanili in cui esprimeva le sue idee anti-tiranniche in maniera decisa, lasciando trasparire anche un certo anticlericalismo, come il trattato Della tirannide; tuttavia, anche dopo la pubblicazione de Il Misogallo, non ci fu in lui un rinnegamento di queste posizioni, quanto la scelta del male minore, ovvero il sostegno verso chiunque si opponesse al governo rivoluzionario, che lo faceva inorridire per lo spargimento di sangue del regime del Terrore - sia contro nobili e antirivoluzionari, sia contro rivoluzionari non giacobini e per aver portato la guerra in Italia; secondo Mario Rapisardi egli, che non era anti-riformista (purché il rinnovamento venisse dall'alto, dal legislatore, e non dalla pressione e dalla violenza popolare), aveva paura di essere confuso con i "demagoghi francesi", che incitavano la "plebe". Nel Misogallo è presente un elogio della filo-girondina Charlotte Corday che uccise Marat, paragonata a Marco Giunio Bruto il cesaricida, personaggio storico assai stimato dell'astigiano che lo aveva celebrato nel Bruto secondo.
Cos ì si espresse nel trattato sopracitato a proposito della religione cattolica, che egli giudica un mezzo di controllo sul popolo meno istruito (anche se, in fondo, dannoso anche per l'attitudine "da schiavo" che induce in esso), poco valido per un letterato o un filosofo:

«Il Papa, la Inquisizione, il Purgatorio, la Confessione, il Matrimonio indissolubile per Sacramento e il Celibato dei preti, sono queste le sei anella della sacra catena» e «un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del papa e della Inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo».

La sua accusa alla Rivoluzione è quindi anti-tirannica da una parte e culturale dall'altra, non ritenendo che un culto astratto - come il cosiddetto culto della Ragione o quello dell'Essere supremo - fosse adatto a contenere, con insegnamenti morali, il popolo ignorante dell'epoca. Inoltre, pur detestando parte dell'alto clero e della nobiltà, non approvava l'odio indiscriminato e gli assassini legalizzati di cittadini francesi colpevoli solo di essere di famiglia nobile o membri del basso e medio clero, o di aver espresso opinioni contrarie al governo rivoluzionario. In una lettera all'abate di Caluso del 1802, Alfieri ribadisce privatamente le sue tesi giovanili sull'Ancien Regime e sul papato (che quasi rinnegava invece pubblicamente, ne Il Misogallo e nelle Satire):

«Il motore di codesti libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione, l'amore del vero o di quello che io credeva tale. Lo scopo fu la gloria di dire il vero, di dirlo con forza e novità, di dirlo credendo giovare.( [...] ) Il raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto, e quanto più v'ho pensato dopo, tanto più sempre mi è sembrato verace e fondato; e interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso, ovvero tacerei.(...) In due parole, io approvo solennemente tutto quanto quasi è in quei libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti e i libri medesimi, perché non c'era bisogno che ci fossero, e il danno può essere maggiore assai dell'utile».

La tesi di un Alfieri convertito deriva principalmente da alcune lettere del Caluso, da certi brani del Misogallo, dal sonetto 250 sul culto cattolico e dall'attacco a Voltaire nella satira L'antireligioneria, dove accusa i philosophes di aver empiamente dileggiato e superficializzato il cristianesimo e la religione in generale, avendo di fatto gettate le basi per i disastri della rivoluzione francese. Secondo Alfieri è molto pericoloso distruggere un sistema di pensiero religioso, senza prima averlo sostituito con uno nuovo e altrettanto capace di essere compreso dal popolo, verso cui l'autore non nutre alcuna fiducia, e funzionare da garante di ordine. In realtà, cosa che Alfieri sembra qua ignorare, è lo stesso Voltaire, bersagliato dalla satira, che ritiene che la religione possa, quando non è dannosa, fare da strumento di ordine per il popolo. In realtà Alfieri, seppur apprezza alcuni aspetti del cristianesimo, dell'ebraismo e dell'islam rispetto al paganesimo e all'ateismo, afferma tuttavia implicitamente di non avere una fede personale ("Certo, in un Dio fatt’uom creder vorrei / A salvar l’uman genere, piuttosto / Che in Giove fatto un tauro a furti rei").
Il concetto di libertà, "ribelle" ma non "rivoluzionaria", di Alfieri venne paragonato da Piero Gobetti a quello di Max Stirner, il filosofo tedesco autore del libro L'Unico e la sua proprietà (nato poco più tre anni dopo la morte dell'astigiano), anch'egli "uomo in rivolta" ma anti-rivoluzionario; Alfieri ha, per Gobetti, una «disperata necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti, le tirannie religiose e politiche», non tollerando minimamente quello che può mettere un freno alla sua libertà individuale. L'unione a questi sentimenti di un certo patriottismo e richiamo all'ordine sociale, nella fase finale della vita, è indice della complessità dell'uomo e dell'intellettuale, che non volle essere un filosofo coerente, ma un letterato.

Le satire

Pensate fin dal 1777 e riprese più volte nell'arco della sua vita, sono componimenti sui "mali" che afflissero l'epoca del poeta. Sono diciassette:

  • Prologo: Il cavalier servente veterano, ridicolizzazione dei cicisbei.
  • I re.
  • I grandi.
  • La plebe.
  • La sesquiplebe, che tratta della ricca borghesia cittadina.
  • Le leggi, con una critica sul poco rispetto delle leggi in Italia.
  • L'educazione, sull'istruzione.
  • L'antireligioneria, ispirata alle idee di Machiavelli, sulla religione come instrumentum regni (ovvero mezzo politico), è una caustica e durissima condanna di Voltaire e dei suoi epigoni, alla base della rivoluzione. L'accusa principale è la sostituzione di una falsità con un'altra falsità peggiore: «Donde un error si svelle, altro sen pianti ( [...] ) senza edificar, distrugger pria».
  • I pedanti, contro la critica letteraria.
  • Il duello.
  • I viaggi, sull'inutilità dei viaggi, in cui l'Alfieri prende implicitamente di mira anche sé stesso, viaggiatore instancabile.
  • La filantropineria, contro i teorici della rivoluzione francese, in particolare contro Rousseau.
  • Il commercio, sulla bassezza morale dell'attività mercantile. Alfieri non considera un male il lavoro dei mercanti in sé, ma attacca i difetti e le meschinità di molti di essi.
  • I debiti, sul malgoverno delle nazioni.
  • La milizia, una critica agli stati militaristi come la Prussia..
  • Le imposture, sulle società segrete, in particolare i suoi ex confratelli della Massoneria.
  • Le donne, in cui l'Alfieri considera il "gentil sesso" sostanzialmente migliore degli uomini, ma imitatore dei loro difetti.

Le commedie

Alfieri scrisse sei commedie:

  • L'uno;
  • I pochi;
  • I troppi;
  • L'antidoto;
  • La finestrina;
  • Il divorzio.

Le prime quattro costituiscono una specie di tetralogia politica, La finestrina è un'opera a carattere etico universale, Il divorzio tratta dei costumi italiani contemporanei. Furono scritte nell'ultima parte della vita dell'Alfieri, intorno al 1800, anche se l'idea di produrre commedie fu concepita alcuni anni prima. Lo stesso Alfieri racconta nella Vita di essersi ispirato a Terenzio per creare un proprio stile di autore comico:

«Pigliai anche a tradurre il Terenzio da capo; aggiuntovi lo scopo di tentare su quel purissimo modello di crearmi un verso comico, per poi scrivere (come da gran tempo disegnava) delle commedie di mio; e comparire anche in quelle con uno stile originale e ben mio, come mi pareva di aver fatto nelle tragedie.» (da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1790, capitolo XX)

I giudizi sulle commedie dell'Alfieri sono in genere assai negativi. Uno studio su queste composizioni è quello di Francesco Novati, il quale, pur considerandole «un importante documento, una pagina notevolissima della storia della letteratura», principalmente perché le ritiene «un tentativo originale, nuovo, ardito», le definisce nel complesso «opere imperfette, in parte rifatte, emendate, limate» e ne elenca numerosi difetti: la lingua in cui sono scritte «è un faticoso miscuglio di vocaboli e modi famigliari, popolari talvolta, anzi prettamente fiorentini, e di forme auliche, lontanissime dall'uso comune», e il dialogo che ne consegue «manca di vivacità, scioltezza e spontaneità»; il verso «è riuscito duro, stentato, fiacco, cadente, senza suono, senza carattere»; in generale sono «ideate e condotte secondo teoriche sull'indole e sullo scopo del teatro comico che non si possono approvare».
Lo stesso Novati riporta altri giudizi ancora più severi, come quello di Vincenzo Monti, che giudicava «insopportabili» tutte le opere postume di Alfieri, o di Ugo Foscolo, che disse le commedie «modelli di stravaganza». In un altro studio sulle commedie di Alfieri, Ignazio Ciampi sostiene che l'autore «dimostra non aver troppo ben pensato sullo scopo e sulla utilità della commedia quando insegna un po' troppo assolutamente che in questa non si debbono dipingere i costumi del tempo in cui si scrive, ma l'uomo in generale», individuando tuttavia in queste opere alcuni «pregi d'invenzione e di esecuzione».
Autobiografia

«Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliarda d'ogni altra, l'amore di me medesimo; quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti...» (Introduzione alla Vita)

Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia, la Vita scritta da esso, dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile e il 27 maggio 1790 e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio e il 14 maggio 1803 (anno della sua morte). La Vita è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo Mario Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della Vita, che ancora inedita, Madame de Staël leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti. Non a caso l'opera all'inizio del XIX secolo venne tradotta in francese (1809), inglese (1810) tedesco (1812), e parzialmente in svedese (1820). In quest'opera analizza la sua vita come per analizzare la vita dell'uomo in generale, si prende come esempio. A differenza di altre autobiografie (come ad esempio le Mémoires di Goldoni o la Storia della mia vita di Casanova) Alfieri risulta molto autocritico. In maniera cruda e razionale, egli non si risparmia neppure quando deve accusare il suo modo di fare, il suo carattere eccentrico e soprattutto il suo passato; tuttavia, Alfieri non ha né rimorsi né rimpianti per quest'ultimo.
Oltre che pregevole opera letteraria e documento biografico, si inserisce nel solco della memorialistica settecentesca e costituisce, con le altre autobiografie citate e con Le confessioni di Rousseau o gli epistolari di uomini di cultura come Voltaire e Diderot, un importante documento storico della vita quotidiana e del mondo delle classi medio-alte, intellettuali e aristocratiche del XVIII secolo prima e durante la rivoluzione francese.
Traduzioni
Alfieri dedicò molto tempo allo studio dei classici latini e greci, che lo portò a eseguire le seguenti traduzioni, pubblicate postume nel 1804:

-La congiura di Catilina e La guerra di Giugurta di Sallustio
- l'Eneide di Virgilio
- le Commedie di Terenzio
- i Persiani di Eschilo
- il Filottete di Sofocle
- l'Alcesti di Euripide
- le Rane di Aristofane
Lettere
La raccolta più completa delle sue lettere è quella pubblicata nel 1890 dal Mazzatinti, intitolata Lettere edite e inedite di Vittorio Alfieri, considerata da molti studiosi di non particolare importanza letteraria, seppur interessante come approfondimento dell'autobiografia.
Rime
Alfieri scrisse le Rime tra il 1776 e il 1799. Stampò le prime (quelle scritte fino al 1789) a Kehl, tra il 1788 e il 1790. Preparò a Firenze nel 1799 la stampa della seconda parte, che costituì l'undicesimo volume delle Opere Postume, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1804 per l'editore Piatti. Le Rime di Vittorio Alfieri sono circa 400 e hanno un carattere fortemente autobiografico: difatti costituiscono una sorta di diario in poesia e nascono da impressioni su luoghi e vicende concrete o come sfogo legato a particolari occasioni amorose, e questa qualità si evince anche dal fatto che ogni poesia di norma reca l'indicazione di una data o di un luogo.
Si tratta soprattutto di sonetti, forma poetica assai cara all'autore, poiché gli permettevano di esprimere i suoi sentimenti e le sue idee con una grande concentrazione concettuale. Le Rime si ispirano soprattutto alla poesia di Francesco Petrarca sia nelle situazioni sentimentali sia nel ricorrere di parole, formule e frasi, spesso tratte dal Canzoniere. Ma Alfieri, diversamente dal petrarchismo settecentesco degli arcadi, trae da Petrarca l'immagine di un io diviso tra forze opposte, portando il dissidio interiore a una tensione violenta ed esasperata. Alfieri poi si ispira al linguaggio musicale e melodico dell'autore del Canzoniere, ma solo esteriormente: infatti il suo è un linguaggio aspro, antimusicale, caratterizzato da un ritmo spezzato da pause, inversioni ardite, violente inarcature degli enjambements, scontri di consonanti e formule concise e lapidarie.
Un linguaggio simile a quello delle tragedie dunque, che deve rendere lo stato d'animo inquieto e lacerato del poeta: infatti la poesia per Alfieri deve puntare all'intensificazione espressiva delle proprie angosce e sofferenze. Grande importanza ha in Alfieri il tema amoroso: si tratta di un amore lontano e irraggiungibile, causa di sofferenza e infelicità. Molti componimenti sono dedicati alla contessa d'Albany. Ma il motivo amoroso assume un significato più vasto: costituisce infatti un mezzo per esprimere il proprio animo tormentato, in eterno conflitto con la realtà esterna. Alla tematica sentimentale si intreccia quindi il motivo politico, anch'esso vicino al clima delle tragedie: compare la critica contro un'epoca vile e meschina, il disprezzo dell'uomo che si sente superiore contro una mediocrità che egli avverte come vittoriosa e dominante nel mondo, l'amore per la libertà, la nostalgia verso un passato idealizzato, popolato da grandi eroi disposti a sfidare il proprio tempo pur di perseguire i propri ideali. Alfieri poi delinea un ritratto idealizzato di sé: difatti si presenta come "letterato-eroe" e negli atteggiamenti titanici e fieri dei protagonisti delle sue tragedie: Alfieri si rappresenta come un uomo solo contro il mondo contemporaneo. È l'ideale di un uomo in cui domina più il sentimento (il "forte sentire") che la ragione. Compare poi nelle Rime la tematica pessimistica che costituisce il limite della tensione eroica di Alfieri. Sempre presenti sono in lui sono l'ira e la malinconia, da una parte il generoso sdegno di un'anima superiore verso una realtà vile, dall'altra un senso di disillusione e di vuoto, di noia, di vanità. La morte diventa dunque un tema ricorrente e viene vista dal poeta come l'unica possibilità di liberazione da sé e dal potere assoluto dei re, e anche come l'ultima prova davanti alla quale bisogna confermare la saldezza magnanima dell'io ("uom sei tu grande o vil? Muori e il saprai" dice in Sublime specchio di veraci detti).

«Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda, / L’adunca falce a me brandisci innante? / Vibrala, su: me non vedrai tremante / Pregarti mai, che il gran colpo sospenda. // Nascer, sì, nascer chiamo aspra vicenda, / Non già il morire, ond'io d’angosce tante / Scevro rimango; e un solo breve istante / De' miei servi natali il fallo ammenda. // Morte, a troncar l'obbrobrïosa vita, / Che in ceppi io traggo, io di servir non degno, / Che indugj omai, se il tuo indugiar m'irrita? // Sottrammi ai re, cui sol dà orgoglio, e regno, / Viltà dei più, ch'a inferocir gl'invita, / E a prevenir dei pochi il tardo sdegno.» (Sonetto XXI)

Questo pessimismo, mai nichilista ma sempre combattivo, porta quindi all'amore per i paesaggi aspri, selvaggi, tempestosi e orridi (il "sublime" romantico), ma anche deserti e silenziosi: l'io del poeta vuole infatti intorno una natura simile a sé, una proiezione del proprio animo e questo è un motivo già tipicamente romantico, così come la continua smania di viaggiare, quello che sarà definito wanderlust a partire da Goethe e dallo sturm und drang.


Il pensiero letterario: Alfieri tra l'Illuminismo e il Romanticismo

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Vittorio Alfieri dipinto da François-Xavier Fabre, Firenze 1793, Galleria degli Uffizi, realizzato assieme al ritratto di Luisa d'Albany detto en pendant con questo quadro. L'autore è rappresentato con acconciatura e abbigliamento classici, in uno stile idealizzato, panneggiato e nelle vesti di poeta-vate. Visibile l'anello di corniola con il ritratto di Dante raffigurato in diversi dipinti. Dietro questo quadro, Alfieri ricopiò un "sonetto autoritratto" del 1786.

Il sonetto-autoritratto

Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:

or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:

per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.


«Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso / mende non vegga, e più che in altri assai / ma non mi piacque il vil mio secol mai: / e dal pesante regal giogo oppresso, / sol nei deserti tacciono i miei guai» (Tacito orror di solitaria selva, in Rime)

Le influenze letterarie di Alfieri provengono dagli scritti di Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, oltre che dai classici come Cicerone e Plutarco, che l'astigiano conobbe nei suoi molteplici viaggi in Europa, durante il processo di "spiemontizzazione". Se successivamente prese le distanze da Voltaire e Rousseau (che non aveva voluto conoscere personalmente nemmeno in gioventù, ritenendolo un "uomo superbo e bisbetico"), a causa dell'ispirazione dei rivoluzionari francesi dai due pensatori, l'influenza di Montesquieu e il principio di divisione dei poteri rimasero forti in lui.
Anche certe ispirazioni russoviane (Giulia o la nuova Eloisa, Le confessioni, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, ovvero il Rousseau intimista e non quello politico, e nella Vita difatti precisa di aver avuto «infinita stima del Rousseau più assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe' suoi libri, di cui que' pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento»), unite al gusto ossianico e preromantico (Alfieri cita la celebre traduzione dei Canti di Ossian di James MacPherson realizzata da Melchiorre Cesarotti, di cui ammirava il lavoro letterario pur avendo avuto degli screzi personali), restano costantemente sullo sfondo della Vita e delle Rime (specialmente l'amore per i paesaggi naturali e selvaggi, l'introspezione della propria personalità "unica" e i sentimenti contrastati).

«La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano; e benché non avessi mai letto l'Ossian, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo lo lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti.» (Vita, parte III, descrizione dei dintorni di Stoccolma)

Lo studio e il perfezionamento della lingua italiana avvennero con la lettura dei classici italiani e latini (Dante e Petrarca per la poesia, Virgilio per il verso tragico).
Il suo interesse per lo studio dell'uomo, per la concezione meccanicistica del mondo, la lontananza dalla religione – vista, influenzato da Machiavelli, solo come un mezzo di stabilità politica per la plebe; inoltre, simile a Plutarco, Alfieri è teoricamente "uomo di fede romantica", seppur molto particolare, contrario all'ateismo esplicito da una parte, e avversario della superstizione dall'altra, vicino ad un deismo teorico e intimo, in pratica quasi agnostico in materia – in fin dei conti la sua aspirazione per l'assoluta libertà e l'avversione verso il dispotismo, collegano Alfieri alla dottrina illuminista. I temi letterari illuministici, volti a chiarificare le coscienze e ad apportare il progresso sociale e civile, sono affrontati dal poeta non in modo distaccato, ma con l'emotività e le inquietudini del pensiero romantico. Tuttavia, posto il suo disprezzo per il clericalismo e la teocrazia pontificia, egli non aderì mai se non superficialmente e in gioventù all'Illuminismo: amante della cultura classica di stampo greco-romano, non considerava il futuro e il progresso come migliori del passato, inoltre, fortemente individualista, disprezzava ogni utilitarismo e considerava tutti i sovrani come tiranni, anche se si trattava di "despoti illuminati". Il popolo resta per lui una "plebe informe" impossibile da educare nell'immediato, la borghesia come la nobiltà gli appaiono classi volgari, ipocrite e opportuniste, e il cosmopolitismo non lo attrae, poiché egli si sentì sempre uno straniero fuori dall'Italia.
Il linguaggio letterario di Alfieri è elevato, aulico e serio, e solo nel Misogallo, nelle commedie e nelle Satire egli usa una terminologia più bassa, popolaresca o ironica, fino al sarcasmo, pur non essendogli congeniali; solitamente la parte satirica è considerata la poeticamente meno riuscita della sua opera.
Alfieri è considerato dalla critica letteraria come l'anello di congiunzione di queste due correnti ideologiche, ma l'astigiano, al contrario dei più importanti scrittori illuministi dell'epoca, quale Parini, Verri, Beccaria, Voltaire, che sono disposti a collaborare con i monarchi "illuminati" (Federico di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa d'Austria) e a esporre le proprie idee nei salotti europei, rimane indipendente e reputa umiliante questo genere di compromesso, proprio come disprezza i letterati opportunisti come Vincenzo Monti. D'altronde Alfieri fu un precursore del pensiero romantico anche nel suo stile di vita, sempre alla ricerca dell'autonomia ideologica (non a caso lasciò tutti i suoi beni alla sorella Giulia per poter abbandonare la sudditanza dai Savoia) e nel non accettare la netta distinzione settecentesca fra vita e letteratura, nel nome di valori etico-morali superiori, in sdegnosa solitudine anche a costo di essere tacciato di misantropia.

«O ria di regno insazíabil sete,
che non fai tu? Per aver regno, uccide
il fratello il fratel; la madre i figli;
la consorte il marito; il figlio il padre...
Seggio è di sangue, e d'empietade, il trono.»
(Vittorio Alfieri, Saul)


Fin da giovane Vittorio Alfieri dimostrò un energico accanimento contro la tirannide e tutto ciò che può impedire la libertà ideale. In realtà risulta che questo antagonismo fosse diretto contro qualsiasi forma di potere che gli appariva iniqua e oppressiva. Anche il concetto di libertà che egli esalta non possiede precise connotazioni politiche o sociali, ma resta un concetto astratto. Nel trattato Della tirannide spiega che questo è l'unico modo di vivere degno, prevenendo chi lo giudica troppo ripetitivo:

«Dir più d'una si udrà lingua maligna,
(Il dirlo è lieve; ogni più stolto il puote)
Che in carte troppe, e di dolcezza vuote,
Altro mai che tiranni io non dipigna:
Che tinta in fiel la penna mia sanguigna
Nojosamente un tasto sol percuote [...]
Né mie voci fien sempre al vento sparte,
S'uomini veri a noi rinascon dopo,
Che libertà chiamin di vita parte.»
(Della tirannide, Previdenza dell'autore)


La libertà alfieriana, infatti, è espressione di un individualismo eroico e desiderio di una realizzazione totale di sé. Infatti Alfieri sembra presentarci, invece che due concetti politici (tirannide e libertà), due rappresentazioni mitiche: il bisogno di affermazione dell'io, desideroso di spezzare ogni limite, rappresentato dall'"eroe alfieriano", e le "forze oscure" che ne ostacolano l'agire. Questa ricerca di forti passioni, quest'ansia di infinita grandezza, di illimitato, è il tipico titanismo alfieriano di matrice preromantica, che caratterizza, in modo più o meno marcato, tutte le sue opere. Tuttavia, è proprio nel tirannicidio, e spesso nella successiva morte, che molti dei suoi eroi trovano la pace. Tuttavia non nega alle proprie tragedie una funzione educativa dello spettatore.

«Io credo fermamente, che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei proprj diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti, e magnanimi.» (dalla lettera a Ranieri de' Calzabigi)

Ciò che viene tanto osteggiato da Alfieri è molto probabilmente la percezione di un limite che rende impossibile la grandezza (qualcosa di affine al sehnsucht romantico), tanto da procurargli costante irrequietezza, angosce e incubi che lo costringono a cercare nei suoi innumerevoli viaggi ciò che può trovare soltanto all'interno di sé stesso. Il sogno titanico è accompagnato da un costante pessimismo che ha le radici nella consapevolezza dell'effettiva impotenza umana. Inoltre la volontà di infinita affermazione dell'io porta con sé un senso di trasgressione che gli causerà un senso di colpa di fondo che verrà proiettato appunto nelle sue opere per trovare un rimedio al proprio malessere; fenomeno, questo, che viene chiamato catarsi, ed è un concetto della tragedia teorizzata da Aristotele e dai greci. Spesso il tiranno - si pensi alla rappresentazione di Saul, tiranno che tiranneggia infine sé stesso (ed è tiranneggiato da Dio per bocca dei profeti Samuele e Achimelech, mentre Davide resta un personaggio secondario) e che Alfieri amava recitare personalmente - è molto più ben tratteggiato rispetto all'eroe, che appare quasi sempre, invece, retorico, altisonante e con una psicologia poco approfondita (con alcune eccezioni come i due Bruti). Altre volte l'eroe o l'eroina cambia ruolo, da tirannicida diventa successivamente tiranno: Clitennestra con l'aiuto di Egisto uccidono il "tiranno" Agamennone, e in seguito vengono uccisi da Oreste che vendica Agamennone), l'uno come tiranno usurpatore, l'altra per errore (per non urtare la sensibilità del pubblico del tempo, Alfieri edulcora la vicenda mitologica del matricidio verso Clitennestra).
L'eredità spirituale «Il seme che hai piantato, o Alfieri, fruttò ed ora l'Italia combatte e sarà grande» (da una dedica sul libro delle firme in Palazzo Alfieri.
Alfieri ha fortemente ispirato la letteratura e il pensiero italiano del XIX secolo: dopo la sua morte, e persino negli ultimi anni di vita ritirata del poeta, a partire dai primi giovani intellettuali e patrioti di epoca napoleonica, sorse un vero e proprio culto della persona di Alfieri, che divenne una figura quasi leggendaria. Foscolo è il principale letterato moralmente erede dell'Alfieri, con la sua insofferenza a ogni imposizione tirannica; egli trasse il suo stile giovanile proprio da lui, e lo ha cantato nei Sepolcri e ha ispirato alcune sue opere, come le Ultime lettere di Jacopo Ortis, all'atmosfera delle tragedie alfieriane, mentre la figura del Parini, rappresentata nel romanzo, più che al poeta lombardo trae in parte ispirazione, soprattutto per il carattere fiero e combattivo, direttamente dal drammaturgo piemontese (Foscolo fa pronunciare a Parini invettive anti-tiranniche di stampo alfieriano che non gli appartennero mai). Nei Discorsi su Lucrezio lo descrive, assieme a Parini, come l'unico contemporaneo ad aver compreso la funzione civile e politica della letteratura. Dedicò all'Alfieri anche alcuni versi del sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita e la tragedia Tieste, che fu inviata, con la dedica, alla residenza fiorentina del poeta astigiano. Foscolo preferì non visitare personalmente l'Alfieri, rispettando la sua estrema riservatezza degli ultimi anni. Non si incontrarono mai, a quanto afferma Foscolo nell'epistolario e nell'Ortis; pare però che quest'ultimo, anche se non rispose alla lettera del Foscolo, avesse elogiato con alcuni conoscenti lo stile della tragedia, prevedendo il grande avvenire letterario dell'allora giovane ufficiale napoleonico (nonostante l'iniziale disparità di vedute su Napoleone e il giacobinismo, anche Foscolo poi, in età matura, converrà con Alfieri in un giudizio negativo del generale francese, chiamandolo "tiranno") e futuro primo vero poeta-vate dell'Italia risorgimentale. Il Trattato di Campoformio, con cui Napoleone cedette la Repubblica di Venezia nel 1797 all'Austria fu per il poeta "il tradimento della patria nostra [...] consumato" e per Alfieri l'instaurarsi di una "cachistocrazia" in luogo della libertà veneziana: i francesi e gli austriaci sono definiti nel Misogallo "infami al par dei vincitori i vinti / qual è miglior? Nessuno, ambo dan lutto". Foscolo riprese il modello alfieriano nel proprio autoritratto in versi Solcata ho fronte, e cantò i suoi ultimi anni e la sepoltura in Santa Croce nel carme Dei sepolcri:

«E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
fremono amor di patria.»
(U. Foscolo, Dei sepolcri)


Leopardi, che da giovanissimo si cimentò nella tragedia, lo ha immaginato suo maestro nella canzone Ad Angelo Mai, e lo ricorda anche nel sonetto giovanile Letta la vita dell'Alfieri scritta da esso e nelle Operette morali (Il Parini ovvero della gloria). Il titanismo leopardiano dell'ultima fase (ciclo di Aspasia, La ginestra) è di stampo romantico e alfieriano nella sua sfida al mondo, alla natura e alla morte:

(Me certo troverai, qual si sia l’ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente",
in Amore e morte; "e piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor", ne La ginestra
).

Nella canzone Ad Angelo Mai è presente invece una lunga strofa che ne celebra la figura:

«...uom non è sorto,
O sventurato ingegno,
Pari all’italo nome, altro ch’un solo,
Solo di sua codarda etate indegno
Allobrogo feroce, a cui dal polo
Maschia virtù, non già da questa mia
Stanca ed arida terra,
Venne nel petto; onde privato, inerme,
(Memorando ardimento) in su la scena
Mosse guerra a' tiranni [...] Disdegnando e fremendo, immacolata
trasse la vita intera,
e morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
età né suolo. Altri anni ed altro seggio
conviene agli alti ingegni.»
(Giacomo Leopardi, Ad Angelo Mai, quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, vv. 151-171)


Manzoni si è ispirato ai suoi saldi principi (come Foscolo anche lui modellò un sonetto-autoritratto sul modello alfieriano), Gioberti che scrisse che l'astigiano aveva creato di sana pianta la tragedia italiana difendendola contro la servitù letteraria e civile dei suoi tempi e così Oriani e Carducci. Giosuè Carducci affermò che l'Alfieri, insieme all'Alighieri e a Machiavelli è il «Nume indigete d'Italia»

Influenza politica del pensiero alfieriano

«Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
Redivivi omai gl’Itali, staranno
In campo audaci, e non col ferro altrui
In vil difesa, ma dei Galli a danno.
Al forte fianco sproni ardenti dui,
Lor virtù prisca, ed i miei carmi, avranno:
Onde, in membrar ch’essi già fur, ch’io fui,
D’irresistibil fiamma avvamperanno. [...]
Gli odo già dirmi: O Vate nostro, in pravi
Secoli nato, eppur create hai queste
Sublimi età, che profetando andavi.»
(V. Alfieri, Il Misogallo, "Conclusione")


I primi patrioti del Risorgimento italiano, sia liberali, sia moderati (monarchici che si rifacevano al suo atteggiamento controrivoluzionario) sia di altre fedi politiche, da Santorre di Santarosa a Cesare Balbo, si riconobbero nei suoi ideali e la casa natale di Asti fu meta di moltissimi uomini che combatterono per l'unità d'Italia. Secondo Giuseppe Mazzini, Alfieri fece ciò che Shakespeare, Racine e Schiller non fecero per le loro nazioni: essi furono semplici autori tragici, mentre Alfieri fu maestro «di alto pensare e di alto fare» e da lui gli italiani impararono "quanto possa una volontà".
Santorre di Santarosa scrisse che:

«Alfieri illumina nel vostro cuore le virtù eroiche ed eleva il vostro pensiero; le sue parole dure, ma piene di forza e di energia sono tutte recanti il timbro del genio di Melpomene» ("Delle speranze degli italiani" Milano, 1920)

Luigi Provana del Sabbione, storico e senatore del Regno di Sardegna, dichiarò che anche lui come molti patrioti aveva baciato la tomba di Vittorio Alfieri in Santa Croce e aveva fissato gli occhi sulla finestra del poeta che si affacciava sull'Arno. Fu visto anche come una sorta di figura decadentista del "dandy" ante litteram, come un personaggio di artista aristocratico e libero. Anche dopo il Risorgimento l'ammirazione di molti intellettuali verso la personalità dell'astigiano continuò: il pensiero politico di Alfieri, quale emerge dalle tragedie e dai trattati, fu visto di volta in volta come un precursore dell'idea anarchica, dell'individualismo, del nazionalismo fascista, del pensiero libertario e di forme di liberalismo.

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Vittorio Alfieri, ritratto di William Girometti (1985)

Nel primo Novecento ispirò alcune opere e, in parte, il pensiero del giornalista liberale e antifascista Piero Gobetti, anche lui piemontese, come nell'articolo Elogio della ghigliottina, in cui Gobetti si rifà ad alcune idee espresse nel trattato alfieriano Della tirannide: se tirannide deve essere (il bersaglio di Gobetti è il fascismo), è meglio, paradossalmente, che non sia affatto una dittatura morbida, ma che sia oppressiva, in modo che il popolo capisca cos'è davvero un regime e si ribelli apertamente a esso. Gobetti descrive il pensiero politico di Alfieri come «liberalismo immanentistico».

Nell'epoca contemporanea, le tragedie alfieriane non vengono sovente rappresentate, al di fuori della città di Asti, a causa della difficile fruizione di esse per un pubblico poco preparato in materia (la più rappresentata è comunque il Saul, ritenuta la migliore), mentre è tuttora molto citato e preso come esempio, anche per la realtà moderna, il trattato Della tirannide, specialmente la definizione data dal drammaturgo piemontese di questo tipo di governo. Si è registrato inoltre, in rassegne dedicate al teatro settecentesco, un recente interesse per le commedie, sdegnate dalla critica alla loro comparsa; in particolare, Il divorzio è stato rappresentato spesso accanto alle grandi opere del periodo, come le tragedie di Voltaire, le commedie di Diderot e quelle di Goldoni.

Nella Vita, riferendo dell'anno 1775, l'Alfieri narra che durante un banchetto di liberi muratori declamò alcune rimerie:

«Egli ti additi il murator primiero,
Del grande Ordine infin l'origo estrema
E se poi ti svelasse un tanto arcano,
Avresti tu sì nobili concetti
E ad inalzare il vol bastante mano?
Ah, scusatela si, fratei diletti;
Non ragiona l'insana, oppur delira
Quando canta di voi con versi inetti.»



Egli chiede scusa ai fratelli se la sua musa inesperta osa cantare i segreti della loggia. Poi il capitolo in terzine prosegue menzionando il Venerabile, il primo Vigilante, l'Oratore, il Segretario. Negli elenchi della massoneria piemontese il nome dell'Alfieri non è mai comparso. I suoi primi biografi supposero che egli fosse stato iniziato nei Paesi Bassi o in Inghilterra, nel corso di uno dei suoi viaggi giovanili. "È certa invece la sua appartenenza alla loggia della "Vittoria" di Napoli, fondata nel 1774 (o 1775) all'obbedienza della Gran Loggia Nazionale "Lo Zelo" di Napoli da Massoni aristocratici vicini alla regina Maria Carolina d'Asburgo-Lorena (1752-1814)".
È assodato che moltissimi suoi amici furono massoni e dall'elenco, posseduto dal centro alfieriano di Asti, che menziona i personaggi ai quali il Poeta inviò la prima edizione delle sue tragedie (1783), compaiono i fratelli von Kaunitz, di Torino, Giovanni Pindemonte (fratello di Ippolito) e Gerolamo Zulian a Venezia, Annibale Beccaria (fratello di Cesare), Luigi Visconte Arese e Gioacchino Pallavicini di Milano, Carlo Gastone Rezzonico a Parma, Saveur Grimaldi a Genova, Ludovico Savioli a Bologna, Kiliano Caracciolo, Maestro venerabile a Napoli, Giuseppe Guasco a Roma.
L'Alfieri compare alcuni anni dopo, al numero 63 dell'elenco nel Tableau des Membres de la Respectable Loge de la Victoire à l'Orient de Naples in data 27 agosto 1782, con il nome di "Comte Alfieri, Gentilhomme de Turin". La sua affiliazione alla loggia di Napoli fu sicuramente favorita dai frequenti soggiorni in quella città e soprattutto dall'importanza che Napoli accrebbe nei confronti della massoneria, dal momento che i Savoia di lì a poco chiusero ogni attività massonica in Piemonte (1783), costringendo il conte Asinari di Bernezzo, capo della massoneria italiana di rito scozzese, a cedere la carica proprio al principe Diego Naselli di Napoli.
Durante il periodo dell'affiliazione, Alfieri si cela per la sua corrispondenza ai confratelli sotto lo pseudonimo-anagramma di conte Rifiela. Con il sopraggiungere in Europa dei venti rivoluzionari che sfoceranno poi nella rivoluzione francese, l'Alfieri prese le distanze dalla massoneria, forse perché essa accentuò l'impegno giacobino, antimonarchico, anticlericale, o forse anche per quel suo aspetto caratteriale indipendente fino all'ossessione, divenendo così un "massone in sonno". Nella satira di Le imposture (1797) si scaglierà contro i suoi vecchi confratelli apostrofandoli come "fratocci" che imbambolavano gli adepti per farne creature proprie, ingenuo piedistallo per i furbi.

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Statua di Vittorio Alfieri opera di G. Dini, 1862. Asti, Piazza Alfieri


Secondo Pietro Cazzani, direttore del Centro studi Alfieriani tra il 1939 ed il 1957, la differenza di fondo tra Alfieri e Dante (oltre a quelle ben più evidenti): «è la "toscanità" del fiorentino, i cui umori si trasformano in aggressive ironiche fantasie, contrapposta al "piemontesismo" dell'astigiano, la cui seria moralità prende toni cupi con impensabili estri». Per Umberto Calosso il poeta non dimenticò mai le sue origini, con quel «misto di ferocia e generosità, che non si potrà mai capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue piemontese».
Alfieri scrisse poi due sonetti in lingua piemontese (gli unici della sua produzione) datati aprile e giugno 1783. Ecco il testo in italiano:

«Sono duro, lo so, sono duro, ma parlo a gente
che ha l'anima tanto fiacca e sporca
che non c'è da stupirsi se a questa cricca
io piaccio appena all'uno per cento.

Tutti si imparano a memoria il Metastasio
e ne hanno piene le orecchie, il cuore e gli occhi:
gli eroi li vogliono vedere sì, ma castrati,
il tragico lo vogliono ma imponente.

Eppure io non mi do per vinto finché non si decida
se sul palco si deve tuonare o solfeggiare,
agitare i cuori o accarezzarsi un poco l'orecchia.

Giàcche in questo mondo bisogna che si rida l'uno dell'altro,
io ho un piccolo dubbio che voglio ben bene rimasticare:
se sono io che sono di ferro o gli italiani di fango.»


Umberto Calosso accosta l'opera di Alfieri

«illuminista in fervido movimento» a quella di Beethoven; per il critico i motivi profondi dell'Alfieri risuonano «nei precipizi abissali della sinfonia di Beethoven».

Anche per il Cazzani, in molte tragedie alfieriane, ci troviamo davanti alla stessa solitudine cosmica del maestro di Bonn. Nella sua autobiografia il poeta racconta di come la musica suscitava nel suo animo grande commozione. L'Alfieri più volte raccontò come quasi tutte le tragedie siano state ideate o durante l'ascolto di musica o poche ore dopo averla ascoltata.
Alcuni manoscritti contengono anche le indicazioni delle musiche da eseguirsi durante le rappresentazioni teatrali (per esempio il Bruto secondo). Il Cazzani ipotizza anche che tra i musicisti prediletti dell'Alfieri ci sia il piemontese Giovanni Battista Viotti, che fu presente a Torino, Parigi e Londra negli stessi anni dei soggiorni alfieriani.
Il poeta che più di una volta confessò di essere sensibile alle bellezze naturali, davanti alle opere artistiche manifestava una certa «ottusità d'intelletto». A Firenze, per la prima volta nel 1766, dichiarò che le visite alla Galleria e a Palazzo Pitti, si svolgevano forzatamente, con molta nausea, senza nessun senso del bello.
Di Bologna scrisse: « [...] dei suoi quadri non ne seppi nulla».
Quando visse a Roma nascevano i primi fermenti del movimento archeologico che precedette il Neoclassicismo, non fece nessuna menzione degli artisti che ne presero parte, ed anche il salotto della contessa d'Albany, a Parigi frequentato dagli artisti più noti dell'epoca (tra cui Jacques-Louis David) non era per lui di alcun interesse, e del Louvre gli interessò «solo la facciata».
Questo spiega perché, fatta eccezione dei ritratti di François-Xavier Fabre, nessuna tela di un certo valore adornò le pareti degli appartamenti abitati da Alfieri nel corso della vita.
L'Alfieri e la contessa d'Albany, nell'agosto 1792, dovettero abbandonare precipitosamente Parigi per l'insurrezione repubblicana. Dall'inventario degli oggetti d'arte della casa di Parigi (Maison de Thélusson, rue de Provence nº18), stilato dal governo rivoluzionario dopo la confisca degli immobili e contenuto negli Archives nationales di Parigi si è potuto risalire ai quadri presenti negli appartamenti.
Anche in questo caso l'elenco è deludente: si tratta più che altro di riproduzioni incise per lo più dei Carracci, della Cappella Sistina di Michelangelo, della Scuola di Atene di Raffaello, della galleria di Palazzo Farnese, con qualche incisione riproducente opere di Élisabeth Vigée Le Brun, di Angelika Kauffmann e di Anton Raphael Mengs.



SAUL
Saul è una tragedia  in endecasillabi sciolti strutturata in cinque atti. Nella narrazione, l'Alfieri si è attenuto all'unità di tempo (un giorno), di spazio (Gelboé) e di azione. Come già detto il Saul èstato studiato più dagli psicoanalisti che dai letterati: gli atteggiamenti di Saul sono quelli tipici di chi è affetto dal disturbo bipolare che all'epoca dell'Alfieri non era stato ancora analizzato.

Trama

Atto I

David compare nel campo degli Israeliti a Gelboè; egli non vuole più vivere fuggendo da Saul e desidera combattere i Filistei. Giunge Gionata, felice di rivedere l'amico. Gionata racconta a David che Saul, preda di uno spirito malvagio («un rio demon, che fero gl'invasa il cor»), è pericolosamente avvinto dalle lusinghe del perfido Abner e che Micol vive tristemente per la sua assenza. David chiede a Gionata quando potrà rivederla. Micol appare annunciando al fratello che si vuole mettere in cerca dell'amato ma David, che si era fatto da parte, si unisce a lei e i due si ritrovano uniti. Decidono che si dovrà cercare il momento propizio per presentarsi a Saul e cercare una riconciliazione

Atto II

Saul sta conversando con Abner, rimpiangendo la propria passata grandezza e dispiacendosi per l'attuale disgrazia, che Abner attribuisce a David. Saul racconta un recente sogno, nel quale l'ombra di Samuele gli ha tolto la corona dal capo per posarla su quello di David, ma David non l'ha accettata, dicendo a Samuele di restituirla a Saul. Giungono Gionata e Micol; essi con tono persuasivo preparano Saul all'arrivo di David, che in seguito giunge e umilmente chiede a Saul di permettergli di combattere contro i loro nemici. Saul sembra accettare le suppliche di David, ma interviene Abner, accusando David di tramare, con l'aiuto dei profeti, contro Saul. David dimostra la propria innocenza mostrando un lembo del mantello di Saul che gli ha tagliato mentre dormiva nella grotta di Engaddi: avrebbe potuto facilmente ucciderlo ma non lo ha voluto fare. Saul alfine si convince e si rallegra per il ritorno di David, affidandogli il comando dell'esercito, e chiede a Gionata di combattere con lui:

«Saul: Il giorno,
sì, di letizia, e di vittoria, è questo.
Te duce io voglio oggi alla pugna: il soffra
Abner; ch’io ’l vo’. Gara fra voi non altra,
che in più nemici esterminare, insorga.
Gionata, al fianco al tuo fratel d’amore
combatterai: mallevador mi è David
della tua vita; e della sua tu il sei.»

Atto III

Abner espone a David il proprio piano di battaglia, che viene lodato; Abner avrà il comando della parte principale dell'esercito, mentre David e Gionata combatteranno nei pressi della tenda di Saul. David rimane solo, poi lo raggiunge Micol, dicendogli che Abner ha ancora cercato di destare la rabbia di Saul contro di lui e mostrandosi preoccupata per la sua sicurezza. Giungono anche Gionata e Saul, e quest'ultimo è visibilmente in preda a uno degli attacchi di follia che negli ultimi tempi lo hanno colpito. Ma alla fine Saul scoppia in lacrime, e Gionata chiede a David di aiutarlo a ritrovare la calma cantando uno dei carmi celesti in cui eccelle e con cui spesso in passato ha allietato il re. David accetta il consiglio, ricorrendo a poemi lirici di metro vario, secondo il tema che intende celebrare. I versi finali di tono guerresco, però, in cui David vanta le proprie doti («due spade ha nel campo il popol nostro») risvegliano ancora la follia di Saul, che cerca di afferrare la spada per abbattere David; Gionata e Micol glielo impediscono e David fugge.

Atto IV

Gionata e Micol si lamentano dello stato di Saul. Quest'ultimo giunge, chiedendo a Micol di condurgli David. Rimasto solo con Gionata, Saul gli racconta i suoi contrastanti sentimenti di odio e amore per David, che Gionata attribuisce alla volontà celeste. Giunge Abner, dicendo che nel momento della battaglia imminente David è scomparso, e che il sacerdote Achimelech, che conduce con sé, è stato scoperto nel campo. Achimelech ammette la propria identità, e Saul lo accusa di avere aiutato David consegnandogli la spada di Golia:

«Saul: All'espulso Davidde asilo davi,
e securtade, e nutrimento, e scampo,
ed armi? E ancor, qual arme! il sacro brando
del Filisteo, che appeso in voto a Dio
stava allo stesso tabernacol, donde
tu lo spiccavi con profana destra.»

Achimelech difende David, predice a Saul la prossima sventura e indica in Abner un malvagio consigliere («Ve' chi a morir ti spinge: costui; quest'Abner, di Satàn fratello»). Saul comanda che Achimelech venga messo a morte, nonostante le suppliche di Gionata, e ordina ad Abner di cambiare i piani di battaglia decisi da David: egli vuole che si combatta al mattino e non al pomeriggio, come invece David e Abner avevano stabilito, per avere il sole alle spalle e in faccia al nemico. Rientra Micol senza David, e monta ancora la furia di Saul, il quale ordina che le armi siano rivolte contro David se questo si presenterà in battaglia, poi si trova a pensare di potersi fidare solo di se stesso:

«Saul: Sol, con me stesso, io sto. — Di me soltanto,
(misero re!) di me solo io non tremo.»

Atto V

David e Micol si separano teneramente: Micol ha riferito le intenzioni di Saul al marito, e questi a malincuore decide di fuggire, ma non vuole che lei l'accompagni, perché prevede di andare incontro a dure avversità. Micol resta sola e sente inattesi suoni di battaglia in lontananza, e presso di lei Saul che si lamenta gemendo. Saul entra in preda al delirio: vede la morte incombere su sé e i suoi figli, si rimprovera per l'assassinio di Achimelech e vorrebbe richiamare David per donargli il trono. Accorre Abner accompagnato da alcuni soldati in fuga, dicendo che c'è stato un improvviso attacco dei Filistei, che hanno sconfitto le forze di Saul e ora sono sul punto di minacciare Saul stesso. Saul non ascolta le suppliche di Abner di fuggire, ma gli chiede di portare in salvo Micol, l'unica figlia che gli resta poiché anche Gionata è stato ucciso. I Filistei entrano mentre Saul, ritrovati dignità e lucidità, dopo avere riconosciuto che l'ira divina lo ha portato alla disfatta, è nell'atto di trafiggersi con la propria spada:

«Saul: Oh figli miei!... — Fui padre. —
Eccoti solo, o re; non un ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi. — Sei paga,
d’inesorabil Dio terribil ira? —
Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,
fido ministro, or vieni. — Ecco già gli urli
dell’insolente vincitor: sul ciglio
già lor fiaccole ardenti balenarmi
veggo, e le spade a mille... — Empia Filiste,
me troverai, ma almen da re, qui... morto. —»

Commento

Saul, coraggioso guerriero, fu incoronato re di Israele su richiesta del popolo e consacrato dal sacerdote Samuele, che lo unse in nome di Dio. Col tempo, però, Saul si allontanò da Dio finendo per compiere diversi atti di empietà. Allora Samuele, su ordine del Signore, consacrò re un umile pastore: David. Questi fu chiamato alla corte di Saul per placare con il suo canto l'animo del re, e lì riuscì ad ottenere l'amicizia di Gionata, figlio del re, e la mano della giovane figlia di Saul, Micol.

David generò però una forte invidia nel re, che vide in lui un usurpatore e al tempo stesso vi vide la propria passata giovinezza. David venne perseguitato da Saul e costretto a rifugiarsi in terre dei filistei (e per questo accusato di tradimento).

La vicenda del Saul narra le ultime ore di vita del re e vede il ritorno di David, che da prode guerriero è accorso in aiuto del suo popolo in guerra con i Filistei, pur sapendo bene il rischio che ciò poteva comportare per la sua vita. David è pronto a farsi uccidere dal re, ma prima vuole poter combattere con il suo popolo. Saul lo vuole uccidere, ma dopo averlo ascoltato si convince a dargli il comando dell'esercito. David ad un certo punto commette però un errore, parlando di “due agnelli” in Israele, e ciò genera il delirio omicida di Saul verso il giovane. Saul poi spiega a Gionata la dura legge del trono, per la quale “il fratello uccide il fratello”. Davanti al re arriva il sacerdote Achimelech, che porta a Gionata la condanna divina e lo mette al corrente dell'avvenuta incoronazione di David. Il re fa uccidere il sacerdote, e da quel momento egli andrà sempre più verso il delirio.

Nell'ultimo atto, Saul prevede in un incubo la propria morte e quella dei suoi figli e con una visione piena di sangue si ridesta, e coglie la realtà dei fatti: i Filistei li stanno attaccando, e l'esercito israelita non riesce a difendersi. A questo punto Saul ritrova se stesso, e uccidendosi riconquista l'integrità di uomo e di re. L'azione della tragedia gravita attorno alla figura del re Saul, in costante oscillazione tra passioni opposte.

Su di lui pende la condanna di Dio, e di questo Saul è convinto in quanto consapevole delle proprie azioni, da cui il suo tormento. Un tormento che si manifesta sotto forma di incubi e di follia ad opera di uno spirito maligno. Come si evidenzia nella terza scena del quarto atto in cui Saul rivolgendosi al re Filisteo Arcamazeh si dice pronto ad affrontare la morte solo per porre fine alla sofferenza sua e della sua stirpe annullando la maledizione che grava su di lui.

Nel II atto Saul narra un incubo nel quale il sacerdote Samuele chiamava lui e la sua discendenza alla morte, poi questi gli “strappa la corona dal crine” per metterla sulla testa del nuovo re di Israele: David.

Saul odia David, colui che ai suoi occhi vuole portargli via la dignità reale e l'amore della figlia. David è un valoroso guerriero, mentre Saul ormai è un vecchio re in decadenza, prossimo alla morte. Se da un lato Saul è conscio del fatto che solo David può ottenere la vittoria sicura sui Filistei e dare l'amore alla figlia, dall'altra il vertiginoso aumento del potere di David, già incoronato re dai sacerdoti, crea in lui un odio senza limiti.

È così che Saul si trova a combattere, in perenne fluttuazione tra due passioni opposte. Egli non riesce più ad essere contemporaneamente padre e re vincente. Il suo è un io disgregato, incapace di ritrovare l'unità. Questo aspetto in particolare fu analizzato dall'allievo di Freud Jung nell'analisi degli archetipi. È proprio un percorso verso l'unità di Saul, quello che si compie lungo i cinque atti della tragedia. Saul passa attraverso i sentimenti più contrapposti mentre si avvicina man mano la sua ultima meta: il suicidio.

Egli troverà finalmente la sua integrità attraverso una rinuncia radicale: uomo che rifiuta la vita, padre che rinuncia alla figlia, re che rinuncia al suo popolo che “cade”. Ma ritrova un'immagine definitiva e coerente che nessuno potrà annullare. È così che la rinuncia va letta come un supremo possesso: con la morte Saul espia i suoi eccessi sanguinosi e tirannici, rinuncia alla figlia dandole una prova d'amore.

Pur prendendo il soggetto dalla Bibbia, Alfieri non dà vita a un dramma religioso, ma a un dramma psicologico incentrato sulla contraddittorietà di Saul. Egli è un tiranno che, dopo la sua sterminata brama di dominio, diventa un eroe che, però, si lascia alle spalle una lunga vita di miseria e abiezione, per poi trovare il riscatto dalla miseria delle passioni, delle debolezze e della paura attraverso il suicidio, inteso non come atto vile e rinunciatario, ma come atto eroico.

Personaggi

  • Saul
  • Gionata (figlio di Saul)
  • Micol (figlia di Saul)
  • David
  • Abner (figlio di Ner e cugino di Saul, generale degli israeliti)
  • Achimelech (sacerdote)
  • Samuele (sacerdote)
  • Soldati Israeliti
  • Soldati Filistei


13 aprile 2024 - Eugenio Caruso

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Tratto da

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