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Cosroe I, il grande antagonista di Giustiniano


GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.

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Cosroe I

Negli stessi anni in cui Giustiniano tentava di mantenere integro l'impero romano d'oriente, a est l'impero sasanide viveva un periodo di grande splendore.
La dinastia di stirpe iranica era sorta sulle ceneri di quella arsacide, sostituendola nel dominio della Persia a partire dal 224 d.C. Fu in quell’anno che Ardashir I, riuscì a riunificare tutti i regni vassalli in cui si era frantumata la galassia della Partia, restituendole unità attraverso la restaurazione di una monarchia centralizzata.
Ispirandosi all’esempio achemenide di Ciro il Grande, , il nuovo sovrano puntò su una forte autorità politica, che attraverso la rivitalizzazione della religione zoroastriana e delle sue strutture sociali riuscì non solo a controllare i domini caduti nelle sue mani, ma anche ad assicurare longevità alla sua stirpe. A contribuire alla prosperità e allo sviluppo di questa occorsero due fattori: l’occupazione di una posizione geografica strategica (l’attuale l’Iran), da sempre centro di passaggio e sorveglianza sui traffici con l’Oriente e il perdurante periodo di crisi che afflisse Roma nel corso del III secolo; ci si riferisce a un'epoca della storia dell'Impero romano compresa all'incirca tra il 235 ed il 284, ovverosia tra il termine della dinastia dei Severi e l'ascesa al potere di Diocleziano. Ciò permise a Shapur I, uno dei più valorosi discendenti di Ardashir I, di celebrare il proprio trionfo su ben tre differenti augusti, Gordiano III, Filippo l’Arabo e Valeriano, che fu tenuto prigioniero dei parti fino alla morte.
In seguito, ci volle tutta l’energia di Costantino, che dovette impegnarsi massicciamente sulla frontiera orientale e ancora, quella di Giuliano, che negli anni sessanta del IV secolo riuscì a portare l’esercito romano fino sotto le mura della capitale sasanide Ctesifonte, in un’altalena di eventi che, in nessun momento della storia, vide uno dei due imperi dotato della forza per infliggere il colpo definitivo all’altro. Ai romani bruciava ancora la sconfitta di Carre, battaglia combattuta il 9 giugno dell'anno 53 a.C. presso la città di Carre (oggi Harran, Turchia) tra l'esercito della Repubblica romana comandato dal generale romano Marco Licinio Crasso e l'esercito partico al comando dell'Eran Spahbod Surena.
Tra il IV e il V secolo toccò alla Persia essere scossa da una profonda crisi politica e militare; il regno fu infatti trascinato nel gorgo delle trasmigrazioni dalle stesse popolazioni nomadi che furono all’origine della spinta unna verso l’Europa. In particolare, le tribù denominate impropriamente degli “unni bianchi” e conosciute come eftaliti, partendo dall’Afghanistan durante il corso del V secolo giunsero a realizzare una compagine statale talmente potente da riuscire a infliggere al re sasanide Peroz I una disastrosa sconfitta nel 484: tutto l’esercito persiano andò distrutto, il sovrano stesso morì in battaglia e ai suoi sudditi non restò che evitare il pericolo di una dominazione con il versamento di un ingente tributo annuale.
Risollevare le sorti dell’impero sasanide toccò allora al figlio del defunto Peroz, Kavad I, il quale, dopo aver perso il regno una prima volta nel 496, tornava saldamente sul trono una seconda volta nel 498 proprio grazie all’appoggio ottenuto dagli eftaliti, con i quali aveva stretto alleanza tramite legami matrimoniali. L’obbligo finanziario contratto nei loro confronti, spinse Kavad I a riallacciare i rapporti con l’impero romano d’Oriente, al quale chiedeva sostegno economico per fare fronte alle onerose richieste dei propri "alleati". L’allora imperatore Anastasio negò l'appoggio.
Per tutta risposta Kavad, che Procopio dipinge come un sovrano volitivo e dotato da una chiara visione politica, nel 502 dichiara guerra all’impero d’Oriente. Si inaugura così quella stagione tumultuosa che contraddistinguerà, seppur con strappi e pause, i rapporti tra le due grandi compagini sino almeno al 628, quando l’azione decisiva di Eraclio inferse il colpo di grazia all’antagonista.
Cosroe, nato presumibilmente nel 501, colui che era destinato a diventare l’esponente più rappresentativo della dinastia sasanide scontava in origine lo svantaggio di figurare come il terzogenito di Kavad. Sennonché, l’amore provato dal sovrano per quel figlio, fu tale da indurre il re a sovvertire il naturale e consueto ordine di successione in favore di Cosroe. Fu così che, per conferire «lustro al giovane al cospetto delle nazioni», tra il 524 e il 525 Kavad propose all’allora imperatore Giustino nientemeno che di adottare il proprio figlio.
La proposta scioccante, oltre a rivelare quanto la paura unna avesse indotto i due imperi a far causa comune sino ad azzerare la distanza che li separava, trovava validi argomenti di realizzazione su entrambe le sponde: Kavad avrebbe messo al riparo Cosroe dalle recriminazioni dei fratelli maggiori, e quanto a Giustino, accettare l’onore di quella richiesta gli permetteva di gettare le basi per una pace definitiva.
Ma i maggiorenti dell'imperatore Giustino si opposero in tutti i modi e l'adozione svanì.
Il padre di Cosroe non sopravvisse che qualche anno all’avvenimento che aveva scompaginato le sue mire, venendo a morte nel settembre del 531. Per quanto la lettura del testamento illustrasse chiaramente quali fossero le intenzioni del defunto, un partito legalista si erse a difesa della salvaguardia della normale procedura di successione, individuando dunque l’erede legittimo in Kawus, il figlio primogenito di Kavad. Questi vantava l’alleanza dei seguaci di Mazdak, una singolare figura che, partita dalle file dello zoroastrismo, aveva finito per trasformarsi in un rivoluzionario, riuscendo a influenzare pesantemente i primi anni del regno di Kavad I, determinandone la rovina e l’allontanamento dal trono. Quando Mazdak aveva iniziato la sua predicazione, la Persia languiva in uno stato deplorevole in cui il popolo, già devastato dalle incursioni degli eftaliti, scontava una condizione di povertà determinata da un sistema economico che vedeva la la concentrazione delle proprietà agricole in mano alla nobiltà e al clero zoroastriano. Il sacerdote ribelle ebbe dunque buon gioco nel professare istanze che sostenessero il ritorno a uno stato nel quale ciascuno poteva godere delle stesse opportunità. Oltre a convincere un gran numero di seguaci, Mazdak riuscì ad attrarre a sé il sovrano che, sulla spinta di quelle rivendicazioni, avviò un programma di riforme sociali che si concretizzarono con l’istituzione di magazzini governativi a vantaggio dei meno abbienti e nello sviluppo di una politica contraria al clero zoroastriano, che portò alla chiusura di tutti i cosiddetti “templi del fuoco”. La reazione aristocratica non tardò a manifestarsi, determinando l’allontanamento di Kavad nel 496 e il suo conseguente riparo presso gli eftaliti con i quali, insieme al figlio Cosroe, preparò la riscossa.
Una volta riottenuto il regno, Kavad prese le distanze da quelle posizioni rivoluzionarie e sposò la causa zoroastriana, sulla quale impiantò il nuovo corso politico, preoccupandosi di riservare alla corona un ruolo di preminenza e di controllo. Lo stesso Cosroe si inserì sulla scia paterna divenendo un fervido fautore dello zoroastrismo e della sua restaurazione, al punto che negli anni tra il 524 e il 525 si pose alla testa di una spedizione militare che inferse un duro colpo ai mazdakiti, decretando la morte del loro stesso profeta.
Fu grazie all’appoggio della casta sacerdotale e della quasi totalità della compagine nobiliare che Cosroe poté aver ragione del fratello maggiore Kawus, estendendo poi l’opera di eliminazione dei mazdakiti che ne avevano sostenuto le ragioni. Costoro, nel corso del tempo, avevano radicalizzato le proprie posizioni giungendo, secondo la vulgata posteriore diffusa non senza interesse dai conservatori zoroastriani (e poi ripresa con entusiasmo dalle storiografie marxiste) a propugnare gli espropri delle proprietà e la messa in comune delle donne.
Insomma, si assistette a una sorta di “primavera araba” in cui i mazdakiti, si scagliavano violentemente contro coloro che invece consideravano aver tradito le istanze della religione, ovvero i ceti corrotti che detenevano il potere. Cosroe, che nell’affermazione del proprio potere dovette fare i conti con tutto ciò, riuscì a ricreare un equilibrio, denotando un’intelligenza politica di rara raffinatezza. La sua non fu una “restaurazione”: i mazdakiti furono fatti fuori, è vero, ma molte delle istanze sociali che erano emerse costrinsero la dinastia sasanide a trovare una risposta che il nuovo sovrano riuscì a fornire. Prima però dovette risolvere le incombenze tipiche di chiunque sia giunto al potere eliminando la "concorrenza", adottando una soluzione tanto vecchia quanto efficace: l’epurazione.
Nello stesso anno in cui ascendeva al trono, Cosroe dovette scongiurare un complotto ordito dallo zio materno Bawi, lo spahbed dell’esercito (una sorta di comandante in capo) che, coadiuvato da una nutrita schiera di notabili, intendeva portare sul trono Kavad, ovvero il figlio di Zames, secondogenito di Kavad I. Cosroe soffocò la congiura nel sangue, sterminando nobili, principi e familiari. Questi, dopo aver alimentato a corte un regime di paranoia in cui ognuno divenne timoroso della propria ombra, si apprestò dunque a inseguire l’ispirazione della propria ambizione, che si rivelò da subito prepotente. Come e più del padre, puntava su una rigida interpretazione dello Stato imperniato sulla figura del sovrano in una visione quasi assolutista. Per riuscire a realizzare i propri piani aveva però bisogno di concedersi una pausa risolvendo la questione ancora in piedi con l’impero bizantino.
L’Eranshahr, come era definito dai suoi stessi abitanti l’impero sasanide, era ancora impelagato in una guerra che al di là di alterne fortune non stava producendo risultati concreti. Cosroe dunque nel 532 accettò di buon grado la stipula di una pace che, nelle intenzioni degli autori, avrebbe dovuto essere eterna (almeno formalmente), ottenendo così una dilazione che gli avrebbe permesso di concentrarsi esclusivamente sugli affari interni.
Intervenire su una realtà sfilacciata dalle recenti tensioni era d’obbligo, tanto più che Cosroe dimostrò di conoscere quali fossero le soluzioni adatte a ricucire quegli strappi, manifestando un acume politico degno di nota. Aveva infatti compreso che le istanze professate dai mazdakiti non potevano essere ignorate se non a scapito della perdita della pax sociale: fare proprie quelle rivendicazioni, convogliarle attraverso l’emanazione dell’autorità regale e al contempo diminuire l’influenza delle classi nobiliari fu quanto riuscì a fare, sopravanzando in tal senso quanto tentato da suo padre. Cosroe, in pratica, instaurò una sorta di tirannia dal volto umano.
All’inizio del regno di Kavad, la maggior parte della terra era di proprietà delle grandi famiglie aristocratiche. Questi grandi proprietari terrieri non solo godevano di esenzioni fiscali, ma erano essi stessi esattori delle tasse all’interno delle loro aree provinciali. Con lo scoppio della rivoluzione mazdakita, i contadini e i cittadini di classe inferiore si erano impossessati di grandi porzioni di terreno, che intendevano redistribuire secondo principi egualitari. Fallita la grande rivolta, il caos in cui giacevano i diritti di possesso rendeva praticamente impossibile instaurare un rinnovato regime fiscale, costringendo Kavad e Cosroe dopo di lui a risolvere salomonicamente la questione. Fu decretato che tutte le terre dell’impero, indipendentemente da chi fosse il loro proprietario, erano tenute a pagare una tassa fissa, la tasqa menzionata nel Talmud babilonese, che si andava ad associare alla karga, l’imposta sulle persone.
Un passo del trattato Nedarim illustrava quanto la tasqa fosse tenuta molto alta almeno in merito agli edifici, al punto da sottolineare come eticamente accettabile il fatto che l’inquilino delle terre in oggetto potesse versare al proprietario dell’immobile, in sostituzione al canone d’affitto, il corrispettivo della tasqa dovuta da costui; ciò implica che tale imposta poteva anche giungere a consumare tutta la rendita derivante da una proprietà. Quanto all’inflessibilità di tale risoluzione, appare particolarmente istruttivo quanto riportato nel Ta’rikh al Rusul wdl-Muluk, la “Storia di re e profeti” redatta a cavallo tra VIII e IX secolo dallo storico islamico Abu Ja’far Muhammad bin Jarir al-Tabari. Il testo rivelava infatti come, una volta preso il potere, Cosroe si preoccupasse di riattivare il controllo catastale della produzione e dei rendimenti dei terreni agricoli già ordinato da suo padre, a sua volta ispiratosi alla pratica bizantina.
Analizzando lo scritto scopriamo che dopo aver provveduto all’enumerazione di tutte le palme da dattero, degli olivi e delle teste dei lavoratori che a vario titolo contribuivano all’opulenza dell’Eranshahr, Cosroe ordinò ai suoi segretari di calcolare il totale complessivo e dunque di dare lettura al popolo riunito di quali fossero gli oneri fiscali relativi. Nell’occasione Cosroe sentenziò che la tassa venisse versata in tre scadenze fisse annuali, in modo che le casse dello Stato fossero sempre piene «sicché, se mai dovesse presentarsi una situazione d’emergenza in un qualche punto della nostra vulnerabile frontiera […] o qualsiasi altra cosa altrove, e noi ci trovassimo nella necessità di […] recidere questa pianta quando ancora è in boccio e fossimo quindi obbligati a spendere denaro […] avremmo del denaro in deposito, già pronto e a portata di mano, dal momento che non vogliamo imporre il pagamento di una nuova tassa per quella emergenza».
Cosroe aveva compreso al pari di tutti i sovrani come il potere materiale di uno Stato deriva dall’abilità di estrarre reddito dalla sua popolazione, sia che questo avvenga in virtù d’una obbedienza tradizionale sia che sfrutti la paura della punizione.
Proseguendo nel suo programma di riforme, Cosroe si preoccupò che in ogni città della Persia gli orfani e i figli dei poveri fossero mantenuti e istruiti a spese pubbliche, che le donne trovassero sicura sistemazione presso i cittadini più ricchi delle loro classi, che gli artigiani a seconda della loro diversa abilità, godessero di un impiego onorevole. Potenziò il settore agricolo distribuendo bestiame, sementi e strumenti ai contadini e ai fittavoli che non erano in condizione di coltivare i loro terreni, oltre a irrobustire la rete idrica con la costruzione di dighe, ponti e canali che in breve irrorarono le aride terre dell’impero. Nel frattempo, la risistemazione della rete stradale consentiva alle merci di viaggiare liberamente e speditamente in tutte le regioni poste sotto il suo dominio, oltre che collegarsi con le principali arterie viarie che conducevano verso l’India e la Cina.
Cosroe si accingeva a interpretare sempre più il ruolo di Shahanshah, il re dei re che si ergeva quasi alla stregua di un dio su tutti i monarchi suoi vassalli. Emulando il Sole, suo celeste fratello secondo l’attribuzione conferitagli dallo zoroastrismo, Cosroe si impegnò a brillare sempre più attirando a corte artisti e intellettuali che ne magnificassero le gesta. La stessa Jundishapur, nota anche come Gundeshapur, la città posta nei pressi dell’odierna Ahwaz nell’Iran sud-occidentale, rifondata nel III secolo da Shapur I, divenne un importante centro del sapere. Qui si concentrarono gli sforzi di Burzuyah, un personaggio che a seconda delle fonti viene descritto come gran visir o medico di corte; a lui Cosroe aveva affidato la missione di recarsi in India per carpire direttamente alla fonte i segreti della medicina braminica. Questi fece di più, e oltre ad apprendere i fondamenti di quell’arte, si preoccupò di riportare in patria il Pañchatantra, un’antica raccolta in prosa e versi di favole indiane a carattere apologetico, che attraverso la traduzione in palhavi operata dallo stesso Burzuyah approderà prima nella cultura islamica, assumendo nell’VIII secolo il titolo di Kalila wa Dimna, quindi giungerà in occidente nel XIII secolo per tramite di Giovanni di Capua, che ne offrirà una versione latina dal nome Directorium humanae vitae.
La Persia, divenuta così crogiolo di culture, irrobustì la fama di Cosroe che, ispiratore di quel processo, finì per essere ricordato anche come sapiente. Allo stesso modo, a corroborare tale inclinazione concorse la tradizione che attribuì al sovrano anche l’acquisizione e la diffusione del gioco degli scacchi. Questi giunsero presso la sua corte attraverso la via cinese e indiana, dopo aver assunto il nome di Caturanga, le «quattro parti di un insieme», con evidente riferimento alla tradizionale quadripartizione dell’esercito indiano dell’epoca, a cui gli elementi del gioco facevano riferimento.
Quanto a Cosroe, comprendere i meccanismi che soggiacevano al movimento delle truppe sulla scacchiera deve aver contribuito a instillargli la voglia di sperimentare quella conoscenza nel mondo reale. La scelta del rivale al nuovo gioco non poteva che ricadere sull’impero bizantino, antagonista storico della sua dinastia.
A solleticare la nuova impresa era stata l’ambasceria inviata da Vitige poco prima del 540, attraverso la quale il re goto prospettava al sovrano persiano la possibilità di intervenire sul fronte orientale dell’impero bizantino, allettandolo con l’evidenza che le sue difese sguarnite avrebbero offerto una misera resistenza a una sua invasione. Cosroe, che in tal senso era spinto anche dalle richieste del suo alleato al-Mundhir, il sovrano lakhmida di al-Hira in perenne lotta con i vicini ghassanidi, a loro volta storici alleati dei bizantini, ruppe allora gli indugi. Fu proprio una contesa in atto tra i lakhmidi e i ghassanidi a offrirgli il pretesto per disconoscere la pace firmata otto anni prima e così improvvidamente definita eterna. Secondo quando riportato da Procopio infatti, Al-Mundhir rivendicava il possesso di un infelice terreno posto a sud di Palmira, buono esclusivamente al pascolo. Nonostante ciò il sovrano ghassanide Areta, pur di riuscire a nuocere al rivale, si opponeva a quella appropriazione, basandosi sulle testimonianze antiche e sull’evidenza etimologica del nome Strata con il quale quella striscia di terra era nota; il termine era romano e oltre a significare “strada pavimentata”, ne denunciava l’origine attribuendola all’autorità bizantina, sebbene il suo rivale accampasse diritti ereditati dai tributi imposti ai pastori che la frequentavano.
La disputa richiese l’attenzione dello stesso Giustiniano, il quale fu costretto a inviare l’amministratore del tesoro imperiale Strategio e il comandante della Palestina Summo affinché dirimessero la questione. Mentre il primo consigliò prudentemente di non fornire a Cosroe pretesti per dichiarare guerra a Bisanzio, tanto più per una terra infertile dal valore pressoché nullo, il secondo allettò al-Mundhir con grandi somme di denaro affinché non solo rinunziasse alle sue pretese, ma passasse dalla parte di Bisanzio. Cosroe, che nel frattempo incassava anche la richiesta di aiuto degli armeni, stanchi di subire la pressione fiscale imposta da Costantinopoli, aveva finalmente il suo pretesto: accusando i bizantini di aver stralciato i patti con il loro tentativo di corruzione, fu lui che passò dalle parole ai fatti, oltrepassando la frontiera nella primavera del 540.
L’esercito persiano, raccolto nelle pianure di Babilonia, prudentemente evitò le città fortificate della Mesopotamia, e oltrepassato l’Eufrate ne seguì la riva occidentale fino a giungere al cospetto della piccola cittadina di Sura. Questa resistette per un giorno, finché il comandante della guarnigione, colpito da una freccia, non fu ucciso: l’indomani, disperando di poter continuare, i cittadini spalancarono le porte appellandosi alla clemenza di Cosroe. Ma il re si fece piuttosto prendere dalla stizza per le perdite subite in precedenza, che tramutò in una crudeltà saziata solo dal massacro della popolazione e dalla distruzione della città.
Dopo le prodezze di Sura, le truppe sasanidi procedettero nella loro avanzata in Siria, senza che una forza degna di questo nome si parasse a fronteggiarle. Gerapoli, Berrea, Aleppo e Calcide si salvarono solo dietro pagamento di ingenti riscatti, mentre le terre del contado furono messe a ferro e fuoco e depredate. Cosroe giunse così in vista di Antiochia, il centro più importante della regione e il cui assedio, almeno sulla carta, avrebbe comportato parecchi grattacapi. Nonostante fosse stata squassata da un recente terremoto nel 526, la città infatti si era rialzata in tempi relativamente brevi grazie al pronto intervento di Giustiniano che, ribattezzandola “la città di Dio”, l’aveva dotata di una nuova cinta muraria. Sebbene ricostruita in tutta fretta, avendo lasciato fuori dalla sua protezione importanti edifici, essa costituiva ancora un ostacolo di tutto rispetto integrando le difese naturali costituite dal fiume Oronte e dal retrostante monte Silpio.
Cosroe si sarebbe accontentato di un riscatto ma la popolazione, ringalluzzita dall’arrivo di 6000 soldati agli ordini dei duci del Libano Teoctisto e Molatze, rispose negativamente. A quel punto al sasanide, non restò che assalire le mura, concentrando i suoi sforzi sull’altura che dominava la città, dove le fortificazioni apparivano più vulnerabili, e soprattutto nel punto in cui la cinta muraria si palesava talmente angusta da non permettere ai difensori di disporsi in numero sufficiente a respingere l’assalto. Solo la cattedrale fu risparmiata, unitamente alla chiesa di San Giuliano e al quartiere abitato dagli ambasciatori: il resto fu divorato dalla violenza delle fiamme, a parte quelle poche strade remote preservate dalla clemenza del vento che, soffiando in maniera contraria, domò finalmente l’incendio.
Cosroe, seguendo il corso dell’Oronte si spinse per diciotto miglia sino a raggiungere la costa all’altezza di Seleucia: lì, toccando simbolicamente il vertice delle sue conquiste occidentali, si immerse nel mare e dedicò sacrifici al creatore del Sole. Gli ambasciatori bizantini che nel frattempo l’avevano raggiunto, gli strapparono la concessione che egli si sarebbe accontentato del tributo di mille libbre d’argento. Malamente rincuorati dalle assicurazioni del sovrano, i bizantini si unirono a lui nel tour, nel raccontare il quale Procopio non risparmia di porre l’accento sull’avidità dell’Anushirvan. Pare infatti che, una volta varcate le porte delle città, Cosroe non si sia accontentato di quanto pattuito, ma abbia preteso il pagamento di una cifra dieci volte più alta.
Una volta rientrato a Babilonia ordinò che a poca distanza da Ecbatana fosse costruita una città destinata a ospitare tutti i prigionieri che si era trascinato dietro dall’avventura siriana. La nuova fondazione prese il magniloquente nome di Weh Antiok Khusrau, letteralmente “meglio di Antiochia l’ha costruita Cosroe”; e in effetti, giusto per ratificare quel titolo che più che un nome sembrava una dichiarazione di intenti, l’Anima Immortale si preoccupò di dotarla di terme e di un ippodromo, oltre che di lussi inusitati per una popolazione che di fatto era prigioniera. La megalomania di Cosroe concesse non solo approvvigionamenti pagati direttamente dall’erario imperiale ma addirittura uno status privilegiato, che elevava la città dalla condizione di cattività e la poneva, in quanto suddita del re, sotto le sua tutela.
Di fronte a questa ennesima dimostrazione di potenza, Giustiniano, che al contrario arrancava tra mille problemi, non seppe reagire se non giocandosi la carta sempre buona di Belisario. Questi, richiamato in tutta fretta abbandonò lo scenario italiano e, giunto a Costantinopoli nell’inverno del 540, fu catapultato nella primavera dell’anno successivo sul fronte persiano. Considerate la scarse risorse di cui lo dotò Giustiniano, il generalissimo dovette affidarsi soprattutto alle sue abilità che, seppur notevoli, non sarebbero ugualmente state sufficienti a organizzare uno straccio di reazione, se nel frattempo Cosroe non avesse concentrato la propria attenzione su altri obiettivi. Il sasanide infatti, in quello stesso anno, aveva ricevuto un’ambasceria degli abitanti della Lazica, che si lamentavano della condizione in cui li aveva gettati il magister militum Giovanni, un losco individuo conosciuto come Tzibo. Questi, una volta ricevuto l’incarico da Giustiniano, aveva iniziato a vessare gli abitanti della regione istituendo un monopolio del commercio del sale che ne strangolava l’economia. Cosroe rispose all’esplicita richiesta di aiuto marciando in gran segreto alla volta della Colchide alla testa di un nutrito esercito. Per tenere segreta l’operazione, fece intendere a tutti che si muoveva verso l’Iberia (attuale Georgia), a contrastare gli unni delle cui sporadiche incursioni già da qualche tempo aveva dato mostra di lamentarsi.
Così le sue truppe, grazie anche all’ausilio di guide locali, superarono le asperità che contraddistinguevano l’ingresso della Lazica piombando nel paese. Cosroe, dopo essere stato accolto dal sovrano Gubaze che rimetteva nelle sue mani la propria autorità, affidò al generale Aniabede il compito di espugnare Petra, la città nella quale Giovanni Tzibo se ne stava asserragliato e dalla quale dirigeva i propri traffici come un ragno nella sua tela. Accortosi in tempo dell’avanzata persiana, abbandonò la città facendo credere agli assalitori che essa fosse stata privata dei suoi difensori. Ciò spinse i sasanidi ad abbassare la guardia, convincendoli di poter effettuare un ingresso incruento; a quel punto le truppe di Giovanni, che invece si erano nascoste nei dintorni, ebbero buon gioco degli avversarsi che, colti impreparati, furono praticamente sterminati. Quando Cosroe fu informato della sconfitta mosse egli stesso contro la città, ma il suo desiderio di vendetta si dovette placare al cospetto delle fortificazioni che conferivano a Petra il nome che le spettava. Da un lato, infatti, era resa inaccessibile dal mare, mentre per il resto era circondata da rupi a picco che elevandosi da ogni parte, lasciavano libero un solo settore, che la sagacia dei costruttori aveva dotato di lunghe mura a protezione dell’unico accesso, difeso a sua volta da due imponenti torri di guardia. Edificate con pietre di enormi dimensioni, le torri risultavano invulnerabili all’attacco degli arieti o di qualsiasi altra macchina ossidionale. Cosroe dovette dunque ricorrere all’ingegno. Ordinò di scavare una galleria sotterranea, che alla base delle torri fu riempita di fascine opportunamente incendiate. Le fiamme, alzandosi un poco alla volta, indebolirono le strutture scalzando le pietre fino a farle crollare. A quel punto, attaccare quel settore fu relativamente facile, anche perché gli assediati avevano sguarnito le postazioni per evitare di essere coinvolti nel crollo. Seguirono febbrili negoziazioni con le quali i cittadini in preda al panico tentarono di stornare la furia di Cosroe, promettendo l’immediata resa della città e la consegna dei loro beni. Il sovrano, che forse si era stancato dell’assedio, incredibilmente acconsentì, tanto più che Giovanni era morto durante le fasi dell’attacco, placando così il suo desiderio di vendetta.
Mentre avveniva tutto ciò, Belisario aveva il suo bel daffare a riorganizzare nelle pianure della Mesopotamia truppe per lo più disarmate e demoralizzate. Quando le sue spie lo informarono che dei persiani non c’era traccia, essendo tutti impegnati a fare la guerra agli unni (esattamente come divulgato ad arte da Cosroe) il generale giudicò opportuno cogliere l’occasione ed effettuare a sua volta una sortita nelle terre del nemico. Così, lasciata Dara, le forze bizantine puntarono su Nisibi, importante città di confine posta sul fiume Migdonio. Giunto a circa 42 stadi dall’obbiettivo, ovvero all’incirca 8 chilometri, Belisario ordinò di porre il campo, lasciando interdetti i suoi sottoposti che, invece, si aspettavano di attendarsi a ridosso delle mura. Il generale dovette allora spiegare loro la sua strategia: egli sapeva che nonostante Cosroe e compagni fossero impegnati altrove, era impensabile che il re sasanide avesse lasciato sprovviste le città durante la sua assenza; tale era appunto il caso di Nisibi, che non solo era protetta da un forte contingente, ma affidata al comando di Nabedes, uno che aveva fama di essere secondo solo a Cosroe stesso. Affrontare quella forza a ridosso della fortificazione sarebbe stato alquanto sconsigliabile: molto meglio attendere lì, in una zona appositamente scelta per la sua abbondanza di fonti d’acqua e indurre i persiani a compiere la prima mossa. Nonostante la bontà del piano una parte delle truppe romee, guidata dal comandante Pietro, in aperto disaccordo con il generale, si accampò a ridosso della città. Come se non bastasse, invece di rispettare le precauzioni raccomandante da Belisario di tenersi sempre in armi, soprattutto all’ora di pranzo, quando era più probabile che i persiani, consapevoli delle abitudini degli avversari, avrebbero attaccato, costoro, sfiancati dal gran caldo abbandonarono le loro posizioni e si riversarono nella piana alla confusa ricerca di cibo. Nabedes non si fece pregare e ordinò immediatamente ai suoi di uscire dalla fortezza e attaccare quei poveri pazzi. Gli uomini di Pietro sarebbero stati fatti a pezzi se nel frattempo il resto delle forze di Belisario, avvertito dal polverone alzato dalle truppe persiane all’attacco, non fosse intervenuto a limitare i danni. In ogni caso lo scontro si risolse nettamente a favore di Nabedes, al punto da persuadere il comandante bizantino che conquistare Nisibi era un affare al di là della sua portata.
Decise dunque di proseguire oltre e tentare miglior sorte contro l’avamposto di Sisauranon, posto a circa una giornata di distanza. Qui, una numerosa popolazione era difesa da un drappello di 800 cavalieri posto sotto il comando di un altro pezzo da novanta dell’esercito persiano, l’ufficiale Bleschames. Il valore di costui fu provato dal successivo attacco durante il quale i romei, oltre a perdere un discreto numero di uomini, non ottennero nulla se non scalfire appena le poderose mura della fortificazione. Belisario, allora, optò per un radicale cambiamento di strategia: meglio rimanersene buoni e tranquilli e lasciare che il contingente di saraceni a lui associato, sotto il comando di Areta, effettuasse una bella incursione nei territori dell’Assiria portando scompiglio e preparando così il terreno alla sua avanzata. Mentre Areta e compagni varcavano il Tigri intenzionati a svolgere con zelo il compito loro affidatogli, Belisario ebbe la ventura di catturare alcuni persiani che lo informarono delle pessime condizioni in cui versavano i magazzini di Sisauranon, ormai prossimi a esaurirsi. A quel punto non fu difficile mettersi d’accordo con gli assediati, che in cambio dell’incolumità spalancarono le porte della fortezza. Alla popolazione, per la maggior parte cristiana, non fu torto un capello, mentre il prode Bleschames, tradotto insieme ai suoi a Costantinopoli, fu dirottato in Italia a combattere i goti, a riprova di come le sue virtù belliche fossero apprezzate. Ora non rimaneva che attendere Areta e la messe dei suoi saccheggi: ma il subalterno, per nulla persuaso all’idea di dividere con gli alleati il frutto delle sue fatiche, inviò alcuni uomini alla volta di Belisario recanti la falsa notizia che una grande forza ostile si stava avvicinando in tutta fretta. Il timore di quell’incontro, unito a una persistente febbre che stava falcidiando i suoi uomini poco avvezzi alle condizioni climatiche di una terra desertica e arida, convinsero il generale che fosse giunto il momento di ritirarsi.



Eugenio Caruso - 13 febbraio 2018

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