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Songtsen Gampo e l'impero tibetano


GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. Gli imperatori romani figurano in un'altra sezione.

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Songtsen Gampo e l'impero tibetano

Per comprendere chi fu e cosa fece Songtsen Gampo è necessario emergere dalle leggende da cui, sia lui, che il suo popolo trassero origine, e ricercare quella verità che rappresenta l’unico tramite riconducibile alla storicità. La moderna antropologia colloca i tibetani all’interno di quella vasta famiglia etnica nota con il nome di ceppo mongolide, che comprende diversi popoli dell’area centro asiatica. In effetti non è semplice determinare con certezza l’origine degli abitanti del Tibet. Anche partendo da angoli di visuale molto grossolani, ad esempio la banale osservazione fisica dei tratti somatici, vediamo come alcuni ricordino nell’aspetto i mongoli, mentre altri siano più simili ai nativi d’America e altri ancora possano sembrare parenti stretti di giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a una tale varietà di tipologie si possono comunque stabilire alcuni punti fermi. Gli abitanti delle regioni centrali di Ü e Tsang, e in larga parte anche quelli del Tibet occidentale, sono di statura media, hanno la testa rotonda e gli zigomi pronunciati. Quelli che vivono nelle province orientali e settentrionali di Kham e Amdo, sono invece decisamente alti, dolicocefali e con gli arti piuttosto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capelli neri e lisci e occhi scuri, dalla caratteristica forma “a mandorla”. Ciò è la risultante di un lungo processo di rimescolamento etnico, il cui protagonista originario fu con ogni probabilità il popolo appartenente alla tribù nomade dei qiang (o chiang), specializzata nell’allevamento, che si situò in epoca non specificata presso la valle dello Yarlung. Questa tribù si sarebbe poi mischiata ad altri nomadi locali, quali i moso, originari dell’attuale provincia cinese dello Yunnan, nota come “Paese delle donne” in virtù di una forte tradizione matrilineare, e a quelli provenienti dalla regione di Fu, entrambe situate nel Tibet centro-orientale. Di lì a breve, si assistette alla fusione con le tribù dei sumpa e degli azha stanziati nelle terre poste immediatamente a settentrione. In seguito, l’espansione verso oriente e la conseguente occupazione del territorio del Kham, a cui seguì l’assorbimento del popolo degli yuezhi di origine indoeuropea, determinarono l’amalgama che contribuì alla formazione del nucleo di ciò che oggi identifichiamo come popolo tibetano.
Questo, una volta occupato stabilmente il Tibet settentrionale e l’area centrorientale, si sarebbe spostato verso sud dove, instaurando un processo già avviato nelle vallate centrali, adottò un tipo di vita parzialmente agricolo e quindi più sedentario, adatto alla formazione di una società per classi in cui iniziò a distinguersi un primo nucleo aristocratico: ogni capo aveva i suoi vassalli i quali erano serviti da servi e sudditi, tutti dediti a un’agricoltura sempre più organizzata o all’allevamento di bestiame, retaggio di una cultura nomade mai completamente abbandonata.
A quel punto i tibetani, oltre a entrare in contatto con le popolazioni residenti sulle montagne boscose a sud dell’Himalaya, quelle genericamente definite mon e contraddistinte dall’assenza di un’organizzazione statale, divennero tangenti ad altre realtà territoriali, che contribuirono pesantemente alla loro influenza culturale. Il Khotan a nord, il Nepal a sud, il Suvarnagotra e l’Uddiyana a ovest furono infatti vettori di molteplici elementi greci, indiani e iranici che plasmarono gli usi e i costumi di questo popolo che appariva considerevolmente intraprendente.
Il monumento funerario di Drigum Tsempo, eretto all’interno del palazzo di Yumbulagang, è definito dai tibetani come “la prima tomba dei re”, a testimoniare con la sua presenza visibile e concreta che questo sovrano esistette realmente: con lui le vicende del Tibet entrarono, se non nella storia, almeno in una sorta di preistoria dove alcuni elementi certi e databili cominciarono a emergere dalla mitologia.
Trentuno sovrani si avvicendarono così sul trono della dinastia Yarlung finché, tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, il trentaduesimo esponente della schiatta, nato con il nome di Nyag-khri, riuscì a estendere la propria influenza sui capi clan limitrofi, che lo riconobbero come re affidandogli il titolo di sPurgyal bTsan-po, ovvero “sPurgyal il potente”, inaugurando una titolatura che da quel momento in poi caratterizzerà tutti i futuri sovrani tibetani.
Il regno che si venne così a delineare fu chiamato dai suoi abitanti Bod, un termine che i loro vicini indiani resero con Bhota o Bhauta e i cinesi tramutarono in Fan, termine usato per designare i “barbari”; presto diventato Tufan, per assimilazione con la popolazione turco-mongola dei tufa, la parola mutò ulteriormente in Tuput secondo l’accezione turca e quindi, attraverso la traduzione musulmana, divenne Tubbet o Tibbat, che presto venne assimilato dagli esploratori medievali, che la trasformarono in Tibet.
Stando alle evidenze archeologiche, risulterebbe che fu proprio sPurgyal bTsan-po, dopo aver riunificato i propri clan ancora sparsi in vallate e pianori circoscritti da aspre catene montuose che ne avevano condizionato l’isolamento, a imprimere una forte accelerazione espansionistica. Quei nomadi e pastori si scoprirono formidabili guerrieri capaci di occupare le terre a occidente della valle dello Yarlung denominate Tsang e di completare l’annessione del cuore dell’attuale Tibet acquisendo il territorio di Ü, dove oggi sorge l’odierna Lhasa.
Consolidata la supremazia su questi territori, il sovrano, che in virtù di tali imprese assumeva il nome di Namri Songtsen, ovvero “Montagna dei Cieli”, allestì campagne che si spinsero fino alle allora frontiere orientali della Cina, conquistando diversi territori qiang dei sumpa, oggi circoscritti nell’odierno Qinghai. Un’altra iniziativa lo vide trionfare a sud-est nel regno dei monpa, stanziati nella zona dell’attuale Bhutan. I successi ottenuti sul campo militare gli permisero di gettare le fondamenta di un potente stato centralizzato, il cui cuore decretò essere la nuova capitale Gyama, l’odierna Gonkar, che fece edificare un centinaio di chilometri a ovest della precedente Yumbulagang.
Fu proprio nello dzong, la fortezza castello di nuova costruzione, che all’incirca nel 617 d.C. nacque Songtsen Gampo, colui che gli annali cinesi dell’epoca citavano col nome di Qizonglongzan. Le informazioni sulla sua infanzia sono praticamente inesistenti: le prime notizie desumibili dalla lettura del Libro dei Tang, annali dell’omonima dinastia cinese redatti a partire dal X secolo, assicurano che egli divenne sovrano nella prima adolescenza, l’età in cui, secondo la tradizione regale degli Yarlung, si sapeva già andare a cavallo, raggiungendo quel requisito considerato essenziale per poter assurgere al trono.
Quell’incoronazione, avvenuta nel 629, fu determinata piuttosto dalla congiura che proprio in quello stesso anno toglieva di mezzo il padre Namri Songtsen e catapultava il ragazzo in un mondo di intrighi al quale difficilmente sarebbe sopravvissuto, se il genitore non avesse avuto l’accortezza di porlo sotto la tutela della potente famiglia nobiliare dei Myang. Grazie al sostegno dei ministri che il genitore gli aveva lasciato in retaggio, il ragazzo dimostrò sin da subito una grande predisposizione alla leadership.
Appena ottenuto il potere, infatti, non solo sottomise i nobili insorti ristabilendo l’ordine, ma lanciò l’esercito alla conquista delle regioni settentrionali, in direzione della Via della seta. Immediatamente fautore di una politica espansionistica, bilanciata da un accentuato centralismo, il nuovo sovrano si produsse in uno sforzo bellico che nel lustro seguente alla sua intronizzazione, dal 630 al 635, gli valse la conquista e la sottomissione dello Shangshung settentrionale, quindi del territorio dei sumpa, in direzione di Kokonor.
Pare che durante quelle audaci quanto fortunate scorribande militari il re stesso si sia posto alla testa delle sue armate. Mentre, seminando il panico, le orde tibetane continuavano un’inarrestabile avanzata nelle zone del Kasamira, del La dwags e dello Zangs skar, equivalenti ai moderni Kashmir, Ladakh e Zanskar, nel Sud del Paese la pace veniva garantita attraverso un’oculata politica diplomatica, che sin dal 632 aveva portato come frutto un’alleanza matrimoniale con il limitrofo regno del Nepal. L’ambasciata guidata dal ministro Gar Tongtsen aveva infatti garantito a Songtsen l’unione con Brikuti Devi, figlia di Amshuvarman, fondatore della dinastia nepalese dei Thakuri. Le nozze, oltre a garantire la sostanziale neutralità del Nepal, permisero al Tibet di poter liberamente muoversi a settentrione, perseguendo il disegno di espansione aggressiva, e sancivano in contemporanea quanto l’entità del regno di Songtsen fosse ormai talmente potente da indurre i suoi vicini a trattarlo con grande rispetto.
L’entità di questa nuova forza fu evidente quando nel 638, ritenendo di aver acquisito mezzi e potenza militare sufficienti, Songtsen Gampo decise di sfidare direttamente la Cina. L’impero, da poco sotto il dominio della dinasta Tang, era in quel momento in piena espansione: nel 630 aveva sconfitto i turchi orientali e cinque anni dopo erano state le armate dei Tuyuhun ad arrendersi di fronte all’esercito dell’imperatore Taizong. (I Tang regnarono sulla Cina per 289 anni. Tutto iniziò nel 617 con Li Yuan Gaozu, comandante della guarnigione di Taiyuan nello Shanxi. Il generale sottoscrisse un'alleanza con i Turchi orientali e marciò su Chang'an, la capitale imperiale, espugnandola. Nel 617, in un primo momento mise sul trono un nipote dell'imperatore Yang Guang, ultimo della dinastia Sui. Ma il comandante cambiò parere l'anno successivo, a cinque mesi dalla morte del vecchio sovrano: Li Yuan indossò la corona e fondò la dinastia Tang. Fino al 625 si dedicò a consolidare il potere e a reprimere ogni ribellione. Approfittando della situazione, Songtsen riunì la sua armata a cui aggiungeva quella proveniente dallo Shangshung da poco conquistato, quindi invadeva il territorio dei Tuyuhun ormai sguarnito e privo di guida, accaparrandosi con estrema facilità un’entità statale che fino a poco tempo prima si era disputata con i cinesi la supremazia dell’Asia centrale.
Contemporaneamente, Songtsen inviava alla corte dei Tang un’ambasceria con la quale chiedeva all’imperatore cinese di stringere un’alleanza e di sancirla attraverso la concessione in matrimonio della figlia. Taizong, già preoccupato per la vittoria ottenuta a suo discapito dal rivale, rifiutò la proposta, assolutamente intenzionato a non favorire in nessun modo l’ascesa irrefrenabile del tibetano. Songtsen allora ricorse alla via delle armi, in cui ancora una volta risultò eccellere. Sbaragliate le truppe cinesi, il sovrano tibetano riusciva a penetrare sino a Songpan, alle porte della pianura di Sichuan. Grazie al potere contrattuale che si era così guadagnato il regno tibetano, stavolta il fedele ministro Gar Tongtsen, inviato di nuovo a proporre un’alleanza matrimoniale, fu accolto con tutt’altro tenore: l’imperatore cinese, che non poteva più ignorare la potenza del vicino, fu costretto a concedere in moglie la nipote.
La principessa, Wen-Cheng Kung-chu, si rivelerà determinante, al pari della precedente sposa nepalese, nel favorire il processo di penetrazione della religione buddhista. Fino a quel momento infatti, sebbene il Tibet fosse contornato da Stati che avevano abbracciato da tempo gli insegnanti del Buddha, si era dimostrato refrattario ad accoglierli, preferendo rimanere ancorato alla tradizione spirituale del Bon, una sorta di religione della natura con venature sciamaniche, radicata tra la gente e molto influente tra i ranghi del governo e della nobiltà.
La tradizione racconta che queste due giovani donne portarono in dote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcune scritture e immagini sacre buddhiste, che rappresentarono i primi elementi di buddhismo a essere introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono più importante fu senza dubbio la statua di Buddha Sakyamuni, che faceva parte della dote di Gyasa, come venne conosciuta in tibetano la principessa cinese, e che si dice fosse stata benedetta dallo stesso Buddha. Ancora oggi questa statua, che si trova a Lhasa all’interno della cattedrale del Jokang, è meta di un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli, esattamente il contrario di ciò che avvenne all’epoca, in cui gi sforzi prodotti dalle due principesse promossero solo una tiepida partecipazione in un popolo che, al di là di alcune pratiche esteriori, continuò a considerare il buddhismo come una religione straniera fondamentalmente estranea anche agli stessi ambienti della corte.
Determinato nel voler dotare la lingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafici) di una sua peculiare scrittura, Songtsen inviò in India un gruppo di eruditi allo scopo di trovare una grafia che potesse adattarsi al suo idioma e far sì che anche il Tibeti avesse, come quasi tutti gli Stati con cui confinava, la possibilità di tradurre in segni i suoni fonetici. Secondo alcuni, l’esigenza di una grafia derivò soprattutto dall’interesse per il buddhismo che il sovrano provava, e che anzi, attraverso quello strumento, voleva permettere ai propri sudditi di poter abbeverarsi direttamente agli insegnamenti del Buddha.
Quale che fosse la ragione il risultato fu di natura epocale: Thonmi Sambota, lo studioso a cui il re aveva affidato la guida dell’impresa, tornò in Tibet dopo diversi anni, portando con sé una sorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi e gupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in quel tempo nei regni dell’India centro-settentrionale e himalayana. In virtù di quella nuova conoscenza, il Tibet entrava finalmente nell’alveo della storia, consacrando di fatto Songtsen Gampo come il tangibile fondatore dello Stato tibetano. L’alfabeto tibetano è composto da 30 caratteri, derivati dalle 50 lettere degli alfabeti indiani di quell’epoca, ed è caratterizzato da un’elegante accentuazione delle linee curve. La scrittura tibetana, in linea con quella indiana, è un tipo di scrittura sillabica contraddistinta da segni specifici per i diversi timbri vocalici e procede, fatta eccezione per alcune, orizzontalmente da sinistra a destra
Ma avvenne anche di più. L’adozione di una scrittura di derivazione indiana sottolineò con forza il legame culturale che, al di là delle differenze etniche, collegò il Tibet all’India, legame che andrà sempre più rafforzandosi nei secoli successivi grazie alla vasta diffusione del buddhismo nel mondo tibetano. Come hanno fatto rilevare numerosi autori, l’adozione di un tipo di scrittura rappresenta una precisa scelta di campo culturale, che comporta profonde implicazioni, in grado di travalicare gli ambiti di una opzione puramente tecnica verso una particolare forma grafica, per svilupparsi verso ben altri orizzonti. Creando una grafia così vicina al sanscrito, il mondo tibetano compì, oltre mille anni or sono, un passo che lo allontanò irreversibilmente dall’area cinese cui lo legavano alcune remotissime ascendenze etniche, per entrare a pieno titolo nell’universo della koiné indiana.
La grandezza di questo sovrano si espresse anche attraverso la serie di provvedimenti che adottò per potenziare lo Stato di cui risultò ineguagliabile demiurgo. Spinto dalla necessità di governare un territorio che i suoi successi militari avevano reso immenso, ne razionalizzò l’organizzazione suddividendolo in sei distretti, a capo dei quali pose un’autorità militare locale, coadiuvata da un gruppo di amministratori civili a cui spettava tra i vari compiti quello della riscossione delle tasse, fondamentali per foraggiare lo strumento principale delle conquiste, l’esercito. Le forze armate furono riformate e dotate di un preciso ordinamento gerarchico: ogni grado ricevette delle insegne, ogni formazione proprie bandiere e propri distintivi. Da rilevare che l’emblema destinato a rappresentare il reggimento dello Yarlung (il nucleo originario dello Stato tibetano), rappresentato da due leoni posti l’uno di fronte all’altro, campeggia ancora oggi sulla bandiera nazionale del Tibet. L’opera riformatrice di Songtsen riplasmò completamente la società tibetana, imbrigliandola in un rigido sistema feudale che prevedeva la suddivisione del popolo in esercito, contadini e inservienti affiancati alla nobiltà e al clero. Quest’ultimo ceto in particolare appariva minuziosamente diversificato: oltre ai bon, i recitatori da cui traeva nome la religione preesistente, che eseguivano funzioni sacerdotali al servizio del re, esistevano gli shen, dediti alla divinazione; a questi, in tempi remotissimi si aggiunsero i bardi (sgrung) e i genealogisti e cantori di enigmi (lde’u), a dimostrazione di quanto l’elemento spirituale fosse pregnante nel retaggio del popolo tibetano sin dai primordi. Fu proprio sfruttando questa peculiarità che Songtsen riuscì a conferire carattere di durevolezza al suo impero: sebbene infatti il suo potere si poggiasse sul sostegno delle grandi famiglie nobiliari dei dBa e dei Myang, dalle cui fila provenivano tutti i ministri dello Stato, egli seppe salvaguardare una sostanziale indipendenza della figura reale, sfruttando la convinzione della sua presunta natura divina e del suo sacro mandato. Come è facile immaginare, l’autorità così ottenuta si manifestò attraverso esempi esteriori volti a magnificarne la sostanza. Detto in altri termini, Songtsen si produsse in un’intensa attività edificatoria, in virtù della quale non solo dotò il Paese della capitale che ancora risplende tra quelle vette, Lhasa, ma si preoccupò di incastonare il Tibet con una miriade di monasteri, fortezze, palazzi la cui bellezza ha sfidato i secoli per comparire intatta sino a oggi. Su tutti il tempio di Rassa Trulnang, oggi noto con il nome di Jo khang, la cattedrale di Lhasa; o il palazzo sul Marpo Ri, proprio là dove mille anni dopo sarà eretto il Potala.
Mentre il buddhismo penetrava inesorabilmente, innervando tutta la società tibetana, al punto che di lì a poco la tradizione avrebbe attribuito alle due spose pioniere caratteri divini identificando la cinese When Cheng come la Tara Bianca, e la nepalese Bhrikuti Devi come la Tara Verde, ovvero manifestazioni viventi del variegato pantheon buddhista, le armate di Sogtsen, evidentemente ancora lontane dal praticare gli insegnamenti pacifisti del Buddha, continuavano inesorabili la loro danza di sangue e conquista.
Le incessanti campagne militari permisero al Tibet di espandersi ulteriormente a nord-est, attuando la conquista dei territori di altre tribù qiang e di quelli dei Minyak nel Dangxian, o Xia Occidentale. A queste si associò l’invasione del territorio dello Yunan, della Birmania e, a partire dal 640, quella del Nepal, che finiva così di beneficiare del privilegio di non essere aggredito, ottenuto attraverso quel matrimonio ormai sbiadito nel tempo. Pare che a propiziare l’intervento tibetano fosse stata la richiesta impetrata dal figlio del defunto re, che si era visto usurpare il trono dallo zio: indipendentemente dalle cause, il Nepal scompariva dalle carte per venire inglobato nell’impero tibetano.
Nel decennio successivo, Songtsen non smise mai di indossare la corazza, riuscendo intorno al 648 a infliggere una sonora sconfitta alle truppe del regno indiano di Maghada, reo di aver brutalmente cacciato un’ambasceria inviata dall’imperatore tang con il quale, evidentemente, all’epoca Songtsen intratteneva ottimi rapporti. Fu l’ultima impresa di cui abbiamo testimonianza. Due anni dopo, nel 650, l’imperatore tibetano moriva, folgorato da un’epidemia non meglio conosciuta. La sua dipartita lasciava un’entità statale che nelle sue mani era diventata talmente forte e stabile da rappresentare nei successivi duecento anni la realtà più rappresentativa dell’Asia centrale, capace attraverso i suoi successori di espandersi ulteriormente annettendo territori appartenenti oggi a India, Cina, Pakistan e Afghanistan. A partire dal IX secolo, quella parabola ascendente terminò bruscamente, producendo la rapida frammentazione di un impero che solo fino a pochi anni prima sembrava ingannevolmente destinato a un futuro da dominatore. Al popolo tibetano non restò che aggrapparsi a quella religione che il grande Songtsen aveva avuto la lungimiranza di inoculare, divenendo di fatto l’elemento di appartenenza e la bandiera all’ombra della quale sopravvivere nel corso tumultuoso dei secoli, oggi più che mai.
Quanto al suo fondatore, l’ascesa al mondo del mito appariva quasi scontata: la tradizione vuole infatti che alla sua morte egli si sia dissolto nella statua di Avalokitesvara, il dio buddhista di cui in vita aveva rappresentato la reincarnazione.
La storia, quindi, ci insegna perchè i cinesi covino tanto astio nei riguardi dei tibetani; il ricordo dell'antica dominazione e degli antichi soprusi è ancora vivo.

tibet


Eugenio Caruso - 3 agosto 2019

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