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Venedikt Vasil'evic Erofeev e il capolavoro Mosca-Petuškì

Mi rivolgo a tutti i parenti e agli intimi, a tutti gli uomini di buona volontà, mi rivolgo a tutti quelli che hanno un cuore aperto alla poesia e alla compassione.

Erofeev


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

I RUSSI

Bulgàkov - Cechov - Dostoevskij - Erofeev - Esénin - Gogol - Gor'kij - Lermontov - Nabokov- Pasternak - Puškin - Šolochov - Solženicyn - Tolstoj - Turgenev - Zamjatin -

Venedikt Vasil'evic Erofeev (Kirovsk,1938 – Mosca, 1990) è stato uno scrittore sovietico. Espulso dalla facoltà di lettere, esordì nel 1956 con la redazione degli Appunti di uno psicopatico e, successivamente (1962), con la pubblicazione de La buona novella. Condusse una vita dissestata, dedita all'alcolismo e all'accattonaggio. Nel 1970 scrisse Mosca-Petuškì, un capolavoro letterario, (pubblicato per la prima volta in Israele nel 1973 e tradotto in più di 40 lingue), in cui l'alter ego di Erofeev vaga per la città come un ubriacone, scoprendo infine la propria dimensione esistenziale. Spesso dileggiato in patria, pubblicò nel 1985 la tragedia La notte di Valpurga, ambientata in un manicomio. Secondo un Istituto di ricerca Mosca-Petuškì è uno tra i 10 romanmzi più importanti della letteratura russa.

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Marco Ercolani
24 Settembre 2018

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Henri Focillon scrive: «I visionari li si direbbe a disagio nello spazio e nel tempo. Interpretano più che imitare, trasfigurano più che interpretare». E ribadisce: «Il visionario soggiace al potere della vertigine». Nella letteratura russa del secondo novecento non c’è autore più fedele alla vertigine di Venedikt Vasil’evic Erofeev, autore del celebre poema-romanzo, Moskva-Petuski (1969-1970). Venedikt Erofeev, nella sua opera irridente e anomala, tragica e sconsacrata, sembra tradurre «in forma di romanzo» quattro celebri versi dell’amato Aleksandr Blok: «Inchiodato al banco d’una bettola / sono ubriaco da un pezzo, che importa. / Su una trojka la mia felicità / in un fumo d’argento è rapita…».
La vertigine di Erofeev è l’estasi alcolica. In russo ‘Erofeiv’ significa ‘alcolizzato’. Lo scrittore sembra portare, nell’etimologia del proprio nome, lo stigma del suo futuro destino. Venedikt Vasil’evic Erofeev nasce nel 1938 a Cupa, in Karelia. Il padre, vittima delle repressioni staliniane, è condannato a cinque anni di reclusione e a tre di privazione dei diritti civili. La madre si trasferisce a Mosca e abbandona i figlia Nina, Boris e Venedikt nell’orfanotrofio di Kirovsk. Venedikt, che si distingue per la prodigiosa memoria, si iscrive nel 1955 alla facoltà di filologia dell’Università Statale Lomonosov. Straordinario lettore, soprattutto di poesia, a sette anni scrive Memorie di un pazzo e a diciotto un diario lirico-autobiografico Memorie di uno psicopatico. Supera gli esami del primo anno di università, poi viene espulso per mancata frequenza. Fa ogni genere di lavoro (magazziniere, custode, muratore, meccanico, eccetera). Si avvicina con passione ai testi proibiti dal regime (Mandel’stam, Cvetaeva) e alla musica proibita (Mahler, Stravinskij). È campione nelle gare di bevute di vodka senza ubriacarsi. Si sposa con Valentina Vasil’evna Kimakova e vive con lei, la suocera e una capra in una vecchia isba fredda e fatiscente, non lontano da Petuski. Nel 1966 ha un figlio: compone per lui poesie e manuali, usati spesso dalla suocera per accendere la stufa nei giorni di gelo. Nel 1969-1970 scrive Moskva-Petuski, il romanzo-poema che lo renderà celebre, tragicomico poema dell’io ubriaco nel tratto ferroviario Mosca-Petuski. Scrive anche un romanzo, Dmitrij Šostakovic – dove parla di un omonimo del grande compositore sovietico che lavora in una rivendita di alcolici – e di cui perderà, ubriaco, il dattiloscritto proprio nel vagone di un treno. Diversi i racconti, tra cui La mia piccola Leniniana e Vasilji Rozanov visto da un eccentrico. Nel 1974 conosce Galina Pavlovna Nosova, che diventerà la sua seconda moglie. Nella dacia di Kanatcizovo scrive il testo teatrale La notte di Valpurga. Muore di cancro alla laringe nel 1990.
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«Ma di che si stupisce, paziente? Ha a disposizione una sindrome bellissima. A dirle un segreto, è da un bel po’ che ci siamo messi a ospedalizzare anche quelli che – a uno sguardo superficiale – non dispongono manco di un sintomo di alterazione psichica. Ma non dobbiamo dimenticare le capacità di dissimulazione involontaria o consapevole di cui sono dotati simili pazienti. Queste persone, di norma, non commettono fino al termine della propria vita nemmeno un’azione antisociale, nemmeno un reato, e non fanno nemmeno sospettare il minimo disequilibrio nervoso. Ma è proprio per questo che sono così pericolosi e devono essere sottoposti a cure. Non foss’altro che per la loro mancanza di propensione interiore all’adattamento sociale» (“La notte di Valpurga”, in Tra Mosca e Petuski, Roma, Fanucci 2003). Potrebbe essere questa una ‘diagnosi psicopatologica’ possibile dell’eccentrico Erofeev? ‘Mancanza di propensione interiore all’adattamento sociale’. L’ironia di questa diagnosi testimonia la conoscenza dell’autore dei meccanismi burocratici e repressivi della politica psichiatrica dell’era brezneviana. In La notte di Valpurga sono evidenti, anche se deformati da un filtro grottesco, echi del tragico, cecoviano rapporto con la follia, espresso in La corsia n. 6 e il Monaco nero.
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Erofeev è l’esatto opposto dello scrittore che vuole organizzarsi la carriera, intento a conservare con scrupolosa attenzione le tracce della sua scrittura. Per lunghi anni, vittima delle sue dissipazioni creative e alcoliche, non ha una fissa dimora a Mosca; fa mille lavori, dall’operaio della linea ferroviaria al fuochista, dal custode al magazziniere, e altro ancora. Il romanzo-poema Mosca-Petuski è un viaggio da ‘viaggiatore incantato’ (Leskov), sospeso nella digressione senza scopo e senza tempo dell’ebbrezza alcolica, un viaggio scandito dal nome delle stazioni attraversate, non si sa se nella realtà effettiva o se nelle nebbie del delirio alcolico. La sistematica, rovinosa dispersività di Erofeev, che vende o perde i suoi dattiloscritti, è leggendaria. Il dattiloscritto di Moskva-Petuski è venduto dall’autore per pochi rubli a un collezionista di samizdat, e solo per un caso un amico, che ne intuisce il valore, lo fa trascrivere nel corso di una notte prima di restituirlo all’autore. È un’abitudine, per Erofeev, perdere i dattiloscritti, venderli per i pochi rubli di una sbornia o consentire che siano usati come combustibile della stufa per riscaldarsi dal gelo polare delle notti russe. Sembra che, alla radice della sua opera, ci sia la volontà, più o meno consapevole, di smarrirla e disperderla, dimostrando come l’inevitabilità della distruzione sia parte integrante e costitutiva del processo creativo dell’autore.
Moskva-Petuski è il resoconto fantastico di un viaggio tra sbronze dilaganti e stati di abbandono e di angoscia, un viaggio forse mai accaduto, dove il protagonista, un ubriacone incallito che ha lo stesso nome dell’autore, Venicka, tragicamente diventa lui stesso un fantasma, venendo trucidato dai suoi persecutori (immaginari? reali?), nel finale del libro-poema, in una grottesca parodia dell’esecuzione di Joseph K. in Il processo kafkiano. Mario Caramitti, nel risvolto di copertina di una delle edizioni più recenti del libro, scrive: «Non che Venicka, protagonista e narratore del romanzo, non navighi letteralmente sulla vodka, ma questa – nei vagoni malconci della tratta che collega Mosca a Petuski – si trasforma in spirito santo, in manna, nella morte e nell’ispirazione artistica… E assieme alla vodka sguazzano in una fantasmagorica miscela i testi sacri del cristianesimo e di tutte le letterature del mondo, e uno strambo gruppo di personaggi che di stazione in stazione, come una corte dei miracoli, si raduna attorno a Venicka, attore e regista di una grande recita collettiva. Venicka domina la scena da esilarante mattatore, facendo tutto un fascio dei propri cataclismi personali (l’amore, la paternità) e della storia universale, tra trovate sorprendenti e poetiche meditazioni, tra ebbrezza e dolore, in un regime della narrazione sospeso tra la visionarietà fantastica e un realismo brutale e grottesco».
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Venedikt Erofeev potrebbe dire, con Dostoevskij: «Quarant’anni? Turpe superare i quarant’anni! Non si deve! Dopo i quaranta è indecente respirare!» (Diario di uno scrittore, Bompiani, 2007). Frasi del genere, un misto di invettiva e tragedia, di ebbrezza alcolica e saggezza filosofica, sono la matrice che innerva la scrittura del nostro autore. Erofeev, bevendo, non cerca tanto la prematura morte personale, che peraltro non tarderà troppo a venire, quanto la mise en abyme di qualsiasi utopia sociale del suo tempo, di qualsiasi realismo progressista e socialista che autorizzi false speranze o presuntuose illusioni. Il suo viaggio-libro è un work in regress che termina con la morte fantasmatica e atroce del suo protagonista – tragica premonizione della morte reale dell’autore, ucciso da un cancro alla gola, perché i persecutori, alla fine del libro, uccidono il protagonista piantandogli una lesina da calzolaio proprio nella gola. È soltanto un caso che il mestiere di calzolaio fosse stato esercitato da Stalin nella sua giovinezza?
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Moskva-Petuski è uno dei rari casi in cui l’io narrante, alla fine, sembra descrivere la sua stessa morte. Jacques Derrida afferma che in letteratura non si può mai dire «io sono morto», ma gli scrittori sono sempre attratti da questa impossibilità, dai monologhi di Edgar Allan Poe fino ai racconti di James Ballard. Erofeev, con accorta strategia, sfida fino all’estremo limite le leggi della verosimiglianza e fa dire al suo alterego, alla fine del libro: «e da quel momento non ho più ripreso coscienza né mai più la riprenderò». Finale ambiguo, intrigante. Il protagonista, pur non riprendendo coscienza, ha però l’energia di scrivere l’intero libro. Oppure l’intero libro è l’allegoria di un viaggio postumo, un febbrile delirio alcolico, il resoconto allucinato di un incubo? Sul tema delirio alcolico è indimenticabile il film americano Giorni perduti, diretto da Billy Wilder nel 1945, dove il protagonista, contro ogni logica e ogni suggerimento, continua a bere fino al delirium tremens. Celebre la scena in cui, riverso nel letto, in piena astinenza, scoprendo una bottiglia di whisky dimenticata nascosta sopra il lampadario, la afferra come ultima salvezza e beve ancora, irrefrenabilmente.
Venicka-Velemir, il protagonista di Moskva-Petuski, darebbe la vita per un’ultima bottiglia di vodka nascosta magari in una reticella per la spesa dimenticata nel vagone di uno scompartimento ferroviario. Bere è un modo tragico e spassoso di perdersi completamente, un modo velocissimo di arrivare alle soglie della propria distruzione. Ma, nell’atto di bere, c’è anche la costruzione di un’identità forte, spavalda, maniacale, non depressa, un’identità che può essere mille identità – bugiarda, prepotente, facinorosa, pronta a sfidare, a gridare, a ‘esistere’. L’ubriaco mette le carte allo scoperto, rende visibile ciò che deve restare nascosto. In questo senso, certi monologhi di Dostoevskij potrebbero essere alla radice di questi monologhi (da Il sosia a Bobok). Venicka si raddoppia negli altri protagonisti del libro, Baffonero e Decabrista, e in questo delirio di moltiplicazione di identità ricostruisce e ricompone nuove invenzioni, in una recita sconsacrata ed esilarante della propria ‘distopia’ personale, della propria eccentrica visione rispetto ai centri stabiliti del mondo. Uno dei capitoli più spassosi e più tragici riguarda il singhiozzo discusso da Erofeev come entità metafisica, parodia tragica della logica umana, dell’arbitrio divino, di ogni arrogante Ente supremo. «Il singhiozzo sovrasta ogni legge. E così come v’ha colpito poc’anzi la repentinità del suo inizio, così vi colpirà la sua fine, che voi non potete né prevedere né evitare, come la morte. -ventidue-quattordici-stop. E silenzio. E in questo silenzio il vostro cuore vi dirà: esso è insondabile, mentre noi siamo impotenti. Noi siamo del tutto privi di libero arbitrio e in balia del caso che non ha nome e da cui non c’è scampo. Noi siamo creature tremebonde, mentre esso è onnipotente».
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Un celebre libro di Alexander Radišcev, Viaggio da Pietroburgo a Mosca (Voland, 2007), è uno dei classici riconosciuti della letteratura utopista russa: scritto all’inizio degli anni ’90 del XVIII secolo, per la sua condanna del dispotismo fu considerato dall’Imperatrice Caterina II la Grande più pericoloso di una guerra persa. Caterina accusò di follia l’autore e fece imprigionare l’editore. In ventiquattro tappe, che sono altrettanti capitoli, Radiscev descrive un viaggio da Pietroburgo a Mosca compiuto in carrozza da un nobile che così viene a contatto con gli aspetti multiformi della realtà dell’epoca. Anche Erofeev fa un viaggio eretico, non in carrozza ma in treno, viaggio che lo mette in contatto soprattutto con la sua realtà psichica di bevitore («una psiche sciabordante vodka») che come un caleidoscopio rimanda a mille assonanze/dissonanze: il sacro, l’utopia, la poesia, la rivolta. Le assonanze del nome Petuski, a 115 chilometri da Mosca, con il nome della mitica Pietroburgo blokiana sono spesso evidenti (nel romanzo Erofeev inventa una beffarda analogia tra una poesia di Aleksandr Blok – «Oggi, poche ore dopo Natale,/ è fiorito nel mio giardino il gelsomino d’inverno» – e un profumo di gelsomino usato per un cocktail a base di vodka).
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Diario di un pazzo e Memorie di uno psicopatico (Edizioni Miraggi tamizdat, 2017) sono alcuni tra i testi che avvicinano Erofeev al mondo della follia. Memorie di uno psicopatico è un atto di eresia contro la religione, un rovesciamento paradossale delle formulazioni evangeliche, interpretate in modo antitetico all’interpretazione corrente. Una delle caratteristiche della follia è proprio il «prendere alla lettera» certi luoghi comuni, cancellando qualsiasi significato metaforico per mostrare ogni realtà come assoluta e unica, come profezia rivelata. Il vangelo, nelle parabole di Cristo, invita spesso a un letterale abbandono dalla mondanità che porterebbe l’uomo, nell’intransigenza di quella scelta, a essere uno strannik, un jurodivyj, un santo. Chi segue alla lettera il vangelo – Nazarin, Viridiana, Simon del deserto nei film omonimi di Louis Bunuel – alla fine viene espulso dalle regole sociali e considerato ‘folle’.
Erofeev è un intellettuale déraciné (non controlla la sua opera, scrive samizdat, non ha una residenza fissa). I suoi libri oggi leggibili sono solo soltanto una parte di quelli disseminati e frammentati nella sua avventurosa, stramba esistenza. Lo scrittore ci narra la sua impossibilità di essere uomo in un ‘limbo grondante vodka’. I suoi libri, ora, sono studiati come quelli di uno dei più originali e irriverenti scrittori sovietici del secondo novecento. Ma per decenni Erofeev, pur essendo una persona reale e pur scrivendo testi reali, era come se non fosse mai esistito. La sua era e resta una voce degli inferi, un ghignante, sotterraneo, subumano sberleffo. Lo scrittore ci racconta questa sofferta e oscura materialità della lingua parlata, dell’ebbrezza alcolica, della disperazione assoluta. In questo senso non è dissimile dallo sgradevole, grottesco Rozanov, ma senza atteggiamenti intellettuali: più di lui è a contatto con la corrotta, violenta vita reale, anche se i suoi libri sono, in un certo senso, come quelle del celebre scrittore, Foglie cadute.
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Erofeev è uno scrittore realista, di un realismo ‘intensivo’. Questo realismo è come un enorme crogiuolo in cui tutto è in sommovimento e mai si definisce: senso del sacro, parodia, del sacro, sovversione, surrealismo, visionarietà, ubriachezza. L’alcool, nella fase della ‘grande sbornia’, libera la mente e la trascina verso invenzioni analogiche straordinarie. Tutto sembra possibile, nel momento dell’onnipotenza alcolica, come all’interno di un delirio megalomanico – anche fare smorfie irridenti contro i giganti della letteratura. Come quando Erofeev accusa Goethe, il celebre scrittore del Faust, di essere sobrio nella realtà perché quella è solo la maschera del suo ‘essere un perfetto ubriacone’ attraverso i personaggi delle sue opere.
Erofeev era alto e prestante, i capelli precocemente bianchi, sempre ubriaco. Sbeffeggiava il realismo socialista e gli angelismi spiritualisti. Attraverso la finzione reale dell’ubriachezza, introduce concetti eretici di violenza inaudita e propone una sua religiosità scarna, nuda, assoluta, da jurodivny, da anomalo santo. Il viaggio Mosca-Petuski assomiglia molto a un viaggio cristico, con tanto di sacrificio finale di Cristo-Venicka, ma la costante eresia contro i cieli e gli angeli dell’ipocrita religiosità bigotta è testimoniata dalla scena finale dell’uomo maciullato delle gambe, ormai morto, nella cui bocca gli angioletti-bambini ficcano una sigaretta. Petuski, nelle assonanze del nome, è anche il sogno edenico della grande ‘città di Pietro’ che, riconosciuto come impossibile nella realtà, assume tonalità da incubo. Ma Pietroburgo, nella fantasia degli scrittori, da tempo ha smesso di essere «un luogo dove gli uccelli non smettono di cantare né di giorno né di notte, e né d’inverno né d’estate sfiorisce il gelsomino». Già la Pietroburgo di Andrej Belyi era un perfetto incubo. Un suo capitolo, dal titolo Nevski Prospekt, rimanda alla lezione gogoliana, matrice tout court dell’anima grottesca russa; è un frammento che descrive una folla in movimento e trasuda percezioni allucinate che non sfigurerebbero nelle future fantasie di Erofeev. Scrive Belyi: «Le spalle tutte formavano una calca vischiosa che scorreva lentamente; la spalla di Alkeksàndr Ivànov si incollò anch’essa alla calca; e, per così dire, vi si agglutinò; egli seguiva un’altra spalla, conformandosi alle leggi dell’impenetrabilità dei corpi; e così fu scagliato sul Nevskij. […] Non c’erano persone sul Nevskij; ma un garrulo millepiedi strisciante; l’umido spazio versava la molteplicità delle voci in una molteplicità di parole; le parole tutte, imbrogliandosi, si intrecciavano in frasi di nuovo; e ogni frase pareva incongruente; restava sospesa sul Nevskij; c’era nell’aria una nera esalazione di frottole» (Pietroburgo, Einaudi, 1961).
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Ad eccezione del suo amore per la poesia russa (Cvetaeva e Mandel’stam su tutti), e per Freud, che legge con assiduità, Erofeev si accosta prevalentemente ai grandi autori della satira russa, in primis Gogol. Nella sua ‘sconsacrazione’ di ogni sublime (nell’introduzione a Mosca-Petuski ci informa si avere deliberatamente espunto dal libro tutto un lungo brano sul turpiloquio), supera persino il sarcasmo intellettuale del grottesco Bulgakov e del suo alter ego fisiologico Rozanov, come le fantasie stravaganti dell’autore di Russia scompigliata. Aleksej Remizov. Piuttosto viene in mente la figura di Kostantin Vaginov, il giovane autore di Bambocciata, strampalato e stravagante romanzo popolato di personaggi assurdi e folli che però ha una sua vena elegante e sottile, quasi struggente. Erofeev, al contrario, è un borborigma della letteratura, una vera pietra d’inciampo, un coagulo di scrittura visionaria, metamorfica, non riassumibile e non definibile. Nella freschezza sfrontata delle sue metafore, nella sua capacità di «descrivere l’oralità» è secondo solo a Céline, che nei suoi Colloqui con il professor Y ci racconta di come sia complesso e artificioso riprodurre la lingua parlata attraverso la lingua scritta mantenendone la naturalezza. Il racconto Il tunnel di Friedrich Dürrenmatt e il film Un soir, un train di André Delvaux sono i più vicini, nella loro natura fantastica, al poema ‘ferroviario’ di Erofeev. Nella narrazione dello scrittore tedesco un treno, privo di conducente, è lanciato a tutta velocità dentro un tunnel che non sembra avere fine. Nel film del regista belga un attonito Yves Montand si ritrova, dopo un incidente ferroviario, a sognarsi di camminare in un luogo dove non comprende la lingua, abitato probabilmente solo da anime di morti. Difficile trovare degli eredi alla scrittura di Erofeev. Potrebbero esserlo, in parte, i racconti surreali e metafisici di Anna Starobinev, moscovita, trentenne, dal titolo Paura, tradotti in italiano nel 2007. In uno di questi il protagonista, che sprofonda in una totale perdita d’identità, ha qualcosa di stralunato e di enigmatico che lo avvicina al Venicka erofeeviano.
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L’identificazione che il delirio alcolico di Erofeev richiede al lettore è l’identificazione assoluta nel punto di vista del narratore ubriaco, la «sospensione di ogni incredulità», la capacità di abbandonarsi e di perdersi nei meandri di un’opera squinternata e imprevedibile per le sue devianze e le sue irregolarità. All’interno del libro c’è un episodio esemplare, che prefigura l’assassinio finale di Venicka, ma in modo meno tragico: è l’apparizione di Mitridate, re del Ponto, col moccio al naso, sovrano destituito di ogni sublimità (Mitridate è sopravvissuto ai diversi attentati contro la sua vita assumendo terapeuticamente piccole dosi di veleno); qui, invece di essere ucciso, è lui a uccidere, in un rovesciamento onirico e comico, tipico della fantasia erofeeviana.
«E dalla nebbia esce fuori qualcuno molto conosciuto. Achille no, non è Achille, ma è molto conosciuto. Oh adesso, lo riconosco: è Mitridate, il re del Ponto. Tutto impiastrato di moccio e con il coltellino in mano… «Tutto questo che dici va benissimo, Mitridate, ma… perché hai un coltellino in mano?...». «Come perché?... ma per tagliarti la gola… ecco perché… Belle domande: perché?... Per tagliarti la gola, è ovvio…».
Il soliloquio alcolico disseminato in tutti i suoi libri da Erofeev, autore dissennato, disubbidiente, infelice, tormentato, scava nella memoria del lettore una scia di feroce, compulsiva comicità che sfida ogni logica narrativa e ogni architettura compositiva, e si impone come il potente, definitivo, farneticante fallimento dello scrittore: «Ho a lungo battuto la testa furiosamente contro il muro del Cremlino, e non sono riuscito a cavare un briciolo di buonsenso…» (Memorie di uno psicopatico). E un lampo di autobiografia emerge, fulmineo, in queste parole che rivendicano la necessità orgogliosa della follia: «Il mio bisnonno impazzì. Mio nonno benedisse con le dita tremanti le canne dei fucili sovietici puntate contro di lui. Mio padre si è strozzato con alcol a 96 gradi. E io come prima sono Venedikt. E lo sarò per sempre».

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Ritratto


MOSCA-PETUSKI

DI MARANNA MASTRIFORTI

Venja non ha mai visto il Cremlino. Questo romanzo sgangherato si apre con tale considerazione, ma il protagonista non ha tempo di pensarci; deve affrettarsi a raggiungere la stazione, da cui prenderà il treno per Petuškì, dove lo aspetta la sua donna, ma dove non arriverà. Venja, alterego dell’autore, è un ubriacone disoccupato, che pare di vedere bighellonare per strada e che intrattiene chi gli capita a tiro con aneddoti e considerazioni farneticanti. In realtà, i suoi, sono tutt’altro che i vaneggiamenti di un pazzo: tramite monologhi e conversazioni (intraprese con compagni di viaggio reali o fittizi), che colpiscono per lucidità, acume, nonché profonda autocritica, il protagonista conduce un’analisi viscerale sulla società in cui è immerso, che non lascia scampo a alcuna contraddizione e debolezza dell’uomo del suo tempo.
Venja ci racconta di come le condizioni di lavoro in Russia siano assolutamente precarie e alienanti, di come la rivoluzione abbia fallito, scadendo in un’inerzia burocratica avvilente, di come tutti gli ideali e ogni forma di fiducia (in Dio, nell’amore, nel prossimo) si siano pian piano svuotati di significato, lasciando spazio alla solitudine, allo smarrimento, e all’alcol.
Siamo negli anni ’70: quella che fa da sfondo al viaggio allucinatorio del protagonista è una Russia slabbrata e zoppicante, una culla di incongruenze e delusioni, rappresentata dai suoi treni lenti, le sue bettole e i volti stanchi dei suoi figli. In questo contesto, l’alcol ha un valore fondamentale, salvifico; rappresenta una valvola di sfogo e una fonte di sogni per gli uomini che cerchino riparo alla miseria e all’isolamento. Non è un caso che Venja, perennemente «inciclonato», proprio grazie all’effetto della vodka dia origine a colloqui e visioni surreali, che si pongono come un mezzo di evasione da questo mondo da cui si sente oppresso.
Nonostante questa necessità di fuga, ciò che maggiormente colpisce consiste nel fatto che le considerazioni del protagonista non mancano mai di una pura quanto disperata umanità, che Venja cerca per tutto il viaggio, a partire dai gestori di un bar in cui cerca di acquistare altro alcol, dai suoi compagni di viaggio, dai suoi interlocutori fittizi (angeli, Dio, Sfinge, Satana), fino ai suoi assassini. Ciò che Venja cerca e chiede agli altri è un riconoscimento umano, una possibilità di fiutare sentimenti, un barlume di commozione, di resistenza alla miseria e all’incomunicabilità. Questo lo rende spesso incompreso, lo relega allo status di anima solitaria, ma irriducibile nel suo coraggio.
Venja si rivolge così al suo pubblico in maniera urlante, disperata: c’è una tale urgenza comunicativa in lui, che è probabilmente questa costante richiesta di ascolto, che ci convince a intrattenerci con lui, e che, nel buio della realtà che descrive, ci fa intravedere un accenno di speranza. E si intuisce con forza questo intimo bisogno di credere in una qualche forma di riscatto umano: «Mi rivolgo a tutti i parenti e agli intimi, a tutti gli uomini di buona volontà, mi rivolgo a tutti quelli che hanno un cuore aperto alla poesia e alla compassione». (Molto bella quest'espressione degli uomini che hanno un cuore aperto alla poesia. NDR).
In questo immaginario desolante, Petuškì, la meta del protagonista, si pone come luogo incontaminato, primordiale, in cui vige una sorta di inscalfibile età dell’oro: «Petuškì è un posto dove gli uccelli non smettono mai di cinguettare, né di giorno né di notte, dove né d’estate né d’inverno sfiorisce il gelsomino. Dove il peccato originale – forse è estinto davvero – non tormenta nessuno. Lì, anche quelli che restano inciclonati per delle settimane, hanno lo sguardo senza fondo e limpido…». Un sogno, insomma, a cui Venja sembra non avere alcuna intenzione di rinunciare, perché Petuškì, come la vodka, è ciò che al mondo rappresenta tutto quel che di buono gli umani devono cercare, l’ideale a cui è giusto tendere, in un mondo fatto solo di incomprensione e indifferenza.
In linea con la vena polemica del protagonista-autore, la scrittura del romanzo è vivace e serrata, grazie anche al costante stream of consciousness in cui Venja si immerge. Lo stesso fatto editoriale che il romanzo circolasse in samizdat (autopubblicazione clandestina di testi censurati), ci dà indizi sul fatto che il testo recasse in sé un taglio critico di rilevante portata. Ci sono alcune bizzarre trovate sperimentali (basti pensare alla scelta di intitolare i capitoli con i nomi delle stazioni ferroviarie della tratta Mosca-Petuškì), inoltre tutto il testo è intriso di riferimenti letterari, senza mai approdare però a un vacuo eruditismo: i capisaldi della letteratura russa – Turgenev, Cechov, Dostoevskij, Puškin – diventano qui personaggi con cui Erofeev si farebbe volentieri qualche bicchiere, con cui condivide quel «dolore universale» che caratterizza e allo stesso tempo condanna le anime dotate di intelligenza e sensibilità più acute.

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Frontespizio della prima edizione

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Opere tradotte in italiano

  •  (1973). Edizioni italiane:
    • Mosca sulla vodka, Milano, Feltrinelli, 1977, 2004
    • Tra Mosca e Petuški, Roma, Fanucci, 2003
    • Mosca-Petuškì: poema ferroviario, traduzione di Paolo Nori, Macerata, Quodlibet, 2014
  • Memorie di uno psicopatico (1956-58), Torino, Miraggi edizioni, 2017

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27 novembre 2023 - Eugenio Caruso

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Tratto da

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