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Ottone I, e il Sacro Romano Impero


GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. Gli imperatori romani figurano in un'altra sezione.

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Ottone I e il Sacro Romano Impero

Ottone I, che è considerato il fondatore del Sacro Romano Impero, fu un abile politico, eccellente guerriero e stratega e, senza dubbio, il più grande sovrano a calcare la scena europea dai tempi di Carlo Magno. Dotato di un notevole ascendente personale, egli diverrà l’incontrastato protagonista della prima metà del X secolo. Sicuramente, in quell’arco di tempo l’Europa visse un momento difficile: dalla suddivisione dell’impero di Carlo Magno (deceduto nell'814) si registrò un periodo di grande instabilità, segnato da una grave crisi del papato, dalle invasioni dei vichinghi, dei saraceni, di magiari e vendi e dai difficili rapporti con l’impero bizantino. Ottone era nato il 23 ottobre del 912, verosimilmente a Wallhausen, piccolo villaggio della Sassonia al confine con la Turingia. Suo padre, duca della casata sassone dei Liudolfingi, si era dato parecchio da fare per riunire sotto la propria autorità il frammentato popolo sassone. Il rilancio economico della fine del 900 gettò le basi per una rifioritura culturale che troverà proprio in Ottone l'elemento catalizzatore.
Il padre di Ottone, Enrico, riuscì a imporre la propria autorità soprattutto attraverso le armi, riducendo le rivalità fra i ducati tedeschi, che finirono con l’affidare a lui la protezione dei propri possedimenti divenendo suoi vassalli. Così, quando fu eletto al trono nel 919, Enrico I di Sassonia appariva come il detentore di un potere reale capace non solo di riunire sotto una sola corona tutti i popoli germanici, ma anche di respingere le incursioni di slavi e magiari, al cui acutizzarsi seppe opporre la costruzione di una serie di città-fortezze nelle zone di confine.
Il prestigio ottenuto da questi successi gli consentì di estendere la sua influenza nell’area franca orientale, dove riuscì ad annettersi il ducato di Lorena, mentre una certa preponderanza militare gli consentiva di sottomettere e convertire al cristianesimo la marca danese, oltre a imporre tributi ai boemi. Nella dieta tenuta a Erfurt il 2 luglio del 936, Enrico I decise unilateralmente di considerare come unico erede Ottone, quel figlio avuto in seconde nozze dalla principessa sassone Matilde di Ringelhaim.
Si trattò di un passo rivoluzionario, in netta contrapposizione con la tradizione carolingia che invece soleva dividere il regno tra i vari eredi. Comportamento anomalo che fu accettato in virtù dell’autorevolezza che il sovrano era riuscito a guadagnarsi nel corso della propria esistenza. Tuttavia, nell’agosto del 936, Enrico moriva e la sua volontà vinse un’ultima volta: il 7 dello stesso mese, infatti, ad Aquisgrana, Ottone veniva eletto sovrano al cospetto di tutto l'establishment della Germania. Poi non ci volle molto affinché le perplessità espresse nei confronti del giovane Ottone, che aveva sposato, appena diciassettenne, Edith del Wessex, sorellastra del sovrano anglosassone Æthelstan e figlia del glorioso Edoardo il Vecchio, si trasformassero nei primi gravi problemi da affrontare. Nel 938 Ottone si trovò a fronteggiare il fratellastro maggiore Thankmar, la cui ribellione inaugurò una stagione di intrighi, congiure di palazzo, disordini e conflittualità familiari che agitarono i primi venti anni del suo regno. Egualmente figlio di Enrico I e della prima moglie Hatheburg, figlia di Erwin di Sassonia, Thankmar aveva ereditato, alla morte del suocero, il titolo di duca di Sassonia, ma, ritenendosi il vero erede al trono e non avendo accettato la scelta paterna, Thankmar radunò un grosso esercito tra la sua gente e decise di affidare alle armi la validità delle sue pretese.
Ottone, chiamato così a dimostrare di avere le doti giuste, sconfisse il fratellastro in una battaglia nella quale Thankmar trovò la morte, Sistemata così la questione del fratellastro, Ottone decise di affidare il governo della Sassonia a Hermann Billung, un suo fedelissimo che continuò l’espansione verso est del ducato a danno delle popolazioni slave. Nel frattempo, a ribadire quanto la scelta di Enrico I fosse stata vincente, contribuirono le primissime iniziative adottate dal sovrano, con le qualii fu evidente che la sua azione politica fosse ispirata a un disegno di marca imperiale. D’altronde a fugare i dubbi in merito alle ambizioni di Ottone basta pensare che nel corso della sua incoronazione, contrariamente al padre, egli accettò l’unzione e la corona dal vescovo, puntando decisamente sulla Chiesa come base di appoggio del proprio potere.
Nella realtà dei fatti, contrariamente a quanto successo a Carlo Magno, che in qualche maniera venne “utilizzato” dalla Chiesa in qualità di paladino della cristianità contro longobardi e bizantini, Ottone ebbe chiaro sin da subito un progetto nel quale il clero giocava un ruolo subordinato agli interessi del sovrano. Così, per ovviare ai danni derivati alla monarchia dal Capitolare di Quiérzy dell’877, in cui le integrazioni di Carlo il Calvo consentivano ai nobili l’ereditarietà dei feudi maggiori, Ottone lucidamente preferì orientarsi verso una politica che avvantaggiasse i vescovi nell'affidamento dei feudi: almeno sulla carta, infatti, gli ecclesiastici non potevano avere figli e quindi non potevano trasmettere il feudo in eredità alla loro morte. Quanti più privilegi e immunità avesse accordato ai membri dell’Episcopato, tanto più potere avrebbe fornito alla Corona che ne incamerava i beni alla loro morte.
Allo stesso modo si mosse nei confronti della nobiltà laica, intendendo “sottometterla” alla propria autorità attraverso una politica che prediligesse maggiormente i giovani esponenti di quelle dinastie, più malleabili rispetto alle vecchie generazioni tradizionalmente legate al padre e quindi “contaminate” dall’idea di una maggiore autonomia. La risposta delle casate non poté che esprimersi attraverso un forte dissenso, di cui seppe approfittare il fratello minore Enrico che, al pari di Ottone, poteva vantare diritto al trono. Così nel 939 l’ambizione di Enrico portò questi ad appoggiare la ribellione innescata dalle grandi famiglie del regno, i cui principali esponenti furono i feudatari Eberardo di Franconia, Giselberto di Lorena e Federico vescovo di Magonza, tutti delusi dall’orientamento imposto da Ottone.
Ottone, fu impegnato a contrastare un fronte di opposizione che si avvaleva dell’appoggio di Luigi IV d’Outremer. L’erede di Carlo il Semplice infatti, seppur incoronato a Laon come sovrano di Francia, doveva fare i conti con il duca di Parigi, Ugo il Grande (fondatore della dinastia capetingia), la cui ostilità di fatto rendeva Luigi un sovrano senza scettro, appoggiato dai soli duchi di Normandia e Borgogna. Nonostante lo scarno consenso l’Outremer era agitato da bellicose aspirazioni espansionistiche, che rivolse a danno della Lotaringia, per ottenere il controllo della quale scelse di aderire alla coalizione che si stava agitando contro Ottone.
Era comprensibile, dunque, che al cospetto di un tale spiegamento di forze Ottone, abbandonato da moltissimi feudatari laici ed ecclesiastici, accusasse il colpo. Salvo reagire prontamente dimostrando una tempra che spesso è risultata essere il marchio di fabbrica dei leader. Il giovane sovrano infatti sfoggiò una brillantezza militare degna dei migliori condottieri, unita a una robusta capacità di ricevere “miracoli”. Infatti tutte le sue gesta sono basate dagli storici di corte sull’electio divina quale principio legittimante il potere di Ottone. Il miracolo diventava dunque il mezzo attraverso il quale Dio stesso operava sulla terra per consentire al suo prediletto di sconfiggere le avversità e poter compiere il destino che Dio stesso gli aveva assegnato.
Il "miracolo" si ripetè nella battaglia di Andernach, anch’essa combattuta preso il Reno. I fedeli duchi Udone e Corrado il Saggio sconfissero l’esercito di Eberardo e Giselberto, i principali alleati di Enrico, che trovarono la morte sul campo il primo, annegando nel fiume, il secondo. Di fronte allo sfaldamento della coalizione antiottoniana, Enrico capì di non avere possibilità di successo per cui, cosparsosi il capo di cenere, chiese e ottenne il perdono di Ottone. A dispetto della grazia ricevuta Enrico si rese protagonista di un nuovo complotto sbrigativamente risolto da parte di Ottone con un nuovo pentimento di Enrico, un nuovo giuramento di fedeltà e con la concessione di un nuovo perdono ottenuto nel Natale del 941: la minaccia di un lungo conflitto, animato dalle ampie implicazioni parentali fu sostanzialmente sventata da papa Stefano IX, questi indusse le parti a un accordo che portò alla ridistribuzione delle competenze sul territorio.
Così Ottone, che fino a quel momento aveva dato ampia prova delle proprie qualità sul campo militare, dimostrò altrettanta sagacia in quello politico, risolvendo o quanto meno tamponando una situazione degenerata con un ampio ricorso ad alleanze cementate attraverso un’oculata rete di legami matrimoniali. Già a partire dal 942 liquidò la questione con Luigi d’Outremer riconoscendogli il titolo di sovrano dei franchi occidentali, sui quali però continuava a mantenere una sorta di giurisdizione, e previa rinuncia alla Lorena che, nel 944, affidava a Corrado il Rosso, destinato a diventare suo genero attraverso il matrimonio con la figlia Liutgarda. Parimenti, sottrasse al nuovo re di Francia anche il controllo della Borgogna, salvo cederla nel 943 al legittimo erede Corrado; costui, opportunamente educato presso la corte di Ottone, che probabilmente lo ebbe in tutela durante il corso della minore età, una volta assunto il regno rimase indissolubilmente legato al sovrano tedesco.
A quel punto Ottone poteva ergersi come una sorta di arbitro che regolasse indirettamente i destini di Francia, temperando le contese tra la casata carolingia e quella capetingia, in virtù dei matrimoni con i quali, a suo tempo, aveva legato le sorelle Edvige di Sassonia e Gerberga rispettivamente a Ugo il Grande e Luigi d’Outremer. Garantita così la sicurezza a occidente, Ottone si preoccupò di sistemare le faccende “domestiche” per poter così dedicarsi alla frontiera orientale, ovvero quel punto caldo che lo terrà impegnato per tutto il corso della propria esistenza. Mantenuto per sé il controllo diretto della Franconia, oltre a quello della Sassonia, nel 947 si convinse ad affidare a Enrico la signoria sulla Baviera, una scelta che si rivelò azzeccata, visto che dal quel momento il fratello si dimostrerà finalmente un suddito leale.
Infine, nel 949, concesse al figlio Liudolfo, la Svevia, sperando così, una volta accontentati tutti, di poter finalmente volgere lo sguardo verso altri problemi. La prima guerra dei ducati e tutte le sue multiformi conseguenze avevano messo in luce il vulnus irrisolto dalla nascente dinastia sassone, ovvero l’insofferenza dei nobili a riconoscere l’autorità effettiva di un sovrano che intendesse realmente esercitarla. Fu per ovviare a ciò che Ottone potenziò il suo programma di riduzione del feudalesimo laico a vantaggio della Chiesa, concedendo ampi benefici ai vescovi che, elevati alla dignità di conti palatini, venivano sottratti alla dipendenza dei signori laici; prendendoli sotto il suo diretto controllo Ottone selezionava così il corpo ecclesiale che, prima dell’investitura, doveva in ogni caso incontrare la sua approvazione, onde procedere al giuramento di fedeltà alla Corona, prestare omaggio feudale ed essere immesso nella carica e nei possessi con la consegna del pastorale.
Operando a favore del clero il re si conquistava l’immagine di difensore della fede, ma soprattutto otteneva la fedeltà di uomini che a lui dovevano tutto, andando così a costituire l’ossatura portante del regno. Tanto maggiore fu la sicurezza di cui godeva Ottone all’interno e verso occidente, tanto più grandiosi divennero i disegni che egli cercò di attuare. Individuati in Ermanno Billung e nel margravio Gero due formidabili attendenti, il re concesse a questi di estendere la sfera d’influenza germanica dall’Elba fino al mar Baltico, al corso superiore dell’Oder e al confine della Slesia. Entro questo territorio sorsero così la marca di Billung sul Baltico e, a sud di questa, quella di Gero.
Questo cordone confinario, nel quale più tardi penetrò un’intensa immigrazione germanica, fu rafforzato con la fondazione di nuovi vescovati, la cui serie si allineava dai monti della Boemia al Baltico, e di là, più oltre, fino alla Danimarca, dove sorgevano contemporaneamente tre vescovati. Il re cercò di riunire le nuove diocesi in un’unica provincia ecclesiastica ma, a causa di resistenze operate dal clero locale, solamente nel 968 riuscì a ottenere la costituzione dell’arcivescovato di Magdeburgo. La nuova organizzazione servì a intensificare l’opera di cristianizzazione alla quale si aprì allora, tra la Svezia e i Balcani, un immenso campo d’azione. La Boemia, già cristianizzata, vide poco dopo la morte di Ottone la nascita del vescovato di Praga, già da tempo progettato. Da lì l’evangelizzazione si propagò nella Polonia, che appunto durante il regno di Ottone si stava affermando come stato potente ed esteso. A Poznan fu istituito il vescovato polacco, finché nel 963 la Polonia divenne tributaria della Germania, come già aveva fatto la Boemia sotto Enrico I e come aveva confermato nel 950.
Rafforzato ed esteso il proprio dominio, Ottone obbligò poi al vassallaggio e all’adesione al cristianesimo anche il re Harald di Danimarca, costringendolo a fondare molte sedi vescovili; sulla scia di quei successi il sovrano sassone riuscì dunque ad assoggettare ed evangelizzare gli slavi stanziati oltre l’Elba, presso i quali istituì l’arcivescovado di Magdeburgo. In una manciata di anni, trasformò in una enorme potenza la Germania, cui aveva imposto un ruolo egemone nel mondo cristiano occidentale.
A quel punto Ottone si dovette ritenere sufficientemente forte per compiere i successivi passi e volgersi verso l'Italia. L’occasione gli fu servita da Berengario II, il margravio d’Ivrea che nel 950, approfittando della morte del re d’Italia Lotario II, si era precipitato a Pavia dove, il 5 dicembre dello stesso anno, riusciva a ottenere la corona per sé e il riconoscimento del proprio figlio Adalberto come legittimo successore. Quella che appariva come un’usurpazione fu aggravata dal rapimento dell’avvenente Adelaide, la vedova di Lotario che rivendicava lo scettro italiano in virtù del fatto di essere figlia di Rodolfo II di Borgogna, sovrano d’Italia dal 922 al 933: Berengario II infatti, deciso a conferire quanta più legittimità possibile alla sua usurpazione, desiderava ardentemente che Adelaide sposasse suo figlio Adalberto, non disdegnando di ricorrere a una crudele segregazione attraverso cui era convinto di piegare lo spirito della vedova.
Adelaide, che già era in odore di santità in virtù delle sue iniziative benefiche, si dimostrò tutt’altro che disposta a chinare il capo, riuscì a fuggire e a riparare a Canossa, dove impetrò l’aiuto del fratello Corrado, allora signore di Borgogna e protetto di Ottone. A quel punto il sovrano tedesco si trovò più che autorizzato a intervenire, tanto più che sull’iniziativa di Berengario gravava il pesante sospetto che fosse stato proprio lui ad assassinare Lotario, provocandone la morte con il veleno. A rendere più pressante un coinvolgimento diretto, già peraltro giustificato da un’“azione superba” che violava il diritto feudale, contribuì in maniera preponderante la proposta di matrimonio attraverso cui la bella Adelaide offriva a Ottone di colmare il vuoto lasciato da Edith d’Inghilterra, deceduta nel 946.
Pertanto Ottone, nel 951, si mosse alla guida di un forte esercito alla volta dell’Italia. Alla fine di agosto il re era a Verona e il 21 settembre giungeva senza incontrare ostacoli a Pavia, dalla quale Berengario e Adalberto erano fuggiti per rifugiarsi nella rocca di San Marino sul monte Titano. Ottone mandò un’ambasciata per trattare il matrimonio con Adelaide e, ottenuta l’accondiscendenza della futura regina, inviò oltre il Po il fratello Enrico affinché accompagnasse la donna a Pavia. Ottone preferì tenere un profilo piuttosto basso e nel febbraio del 952 se ne ritornava in Sassonia, non senza prima spendersi in importanti donazioni in monasteri e chiese nell’area distesa lungo il Po tra Piacenza e Villole: un’iniziativa che, se le cronache tradussero come concessione in omaggio alla devozione della novella sposa, rappresentò molto più lucidamente un interessamento a una zona che stava cominciando ad assumere una valenza strategica notevole.
Nonostante avesse lasciato il governo di Pavia a Corrado di Lorena, fece scalpore quanto successe qualche mese dopo quando, nella Pasqua del 952, un supplice Berengario II si presentò alla corte di Magdeburgo. Ottenuto il perdono e avviate conseguenti trattative, costui incassava, nella dieta tenutasi il 7 agosto di quello stesso anno, la restituzione della corona d’Italia, dando l'avvio a un domino che si rivelerà disastroso per Ottone. L’unico a guadagnarci infatti, oltre ovviamente a Berengario, fu Enrico di Baviera, al quale Berengario stesso fu costretto a cedere la marca di Verona. La cosa non piacque affatto a Liudolfo di Svevia che, già indispettito dalle voci intercorse in seguito alla nascita di un altro fratello, colui che diverrà Ottone II, da tutti ormai additato come il futuro erede al trono, insorse energicamente contro il padre Ottone.
Così, incassato l’appoggio di Corrado il Rosso di Lotaringia, di Wichmann di Sassonia, di Federico di Magonza, a cui si aggiunse il sostegno del fratello Bruno, di Reginaldo di Hagenau e dallo svevo Bucardo, nel 953 Liudolfo diede vita a quella che passerà alla storia come la seconda guerra dei ducati. A salvare Ottone da una situazione difficile e la Germania da un sanguinoso conflitto civile, contribuì quanto di più impensabile lo scacchiere dell’epoca poteva offrire: il popolo degli ungari.
Queste tribù di origine ugrofinnica, provenienti dalle pianure dell’Asia centrale, avevano approfittato della “cancellazione” del popolo avaro operata da Carlo Magno per spingersi a partire dall’862 sempre più a Occidente, devastando le pianure del cuore d’Europa con incursioni sempre più minacciose, fino a trasformarsi in un vero e proprio spauracchio per la comunità cristiana continentale. Già a suo tempo Enrico I aveva combattuto gli ungari, riuscendo più o meno a tamponare la loro penetrazione con una vittoria a Merseburg nel 933. Che si trattasse di un successo temporaneo, però, lo rivelò l’intraprendenza con cui nel 954 i predoni, approfittando del dissidio che stava lacerando la Germania dall’interno, effettuarono un’incursione in profondità nel territorio della Baviera; addirittura sfidarono Ottone, contrariamente alle loro usanze belliche, a sostenere una battaglia campale.
Che lo scontro aperto non fosse il loro forte è ampiamente dimostrato da tutte le fonti che, piuttosto, sono unanimi nell’affermare come le tattiche degli ungari apparissero assolutamente simili a quelle di altre etnie loro affini, primi su tutti gli unni. Esattamente come questi dunque, l’arma segreta degli ungari, o magiari come dir si voglia, consisteva in una mobilissima forza composta di arcieri a cavallo e cavalleria leggera, che dopo aver fiaccato e decimato a distanza le formazioni di fanteria e cavalleria pesante tipiche degli eserciti europei dell’epoca, vi si gettava addosso facendole a pezzi. Fino a quel momento, insomma, l’adozione di tattiche di guerriglia, rispondeva a una logica di rapina tipica di un’etnia nomade che si muoveva dalla Pannonia esclusivamente per fare bottino e che non praticava guerre di conquista, limitandosi a depredare villaggi, paesi e abbazie prive di protezione o scarsamente protette. La provocazione a Ottone di affrontarsi in una campagna campale fu molto probabilmente determinata dalla percezione che il sovrano sassone navigasse in pessime acque e che, di fronte a un attacco mirato, avrebbe potuto contrapporre un pugno di uomini. Quel che gli ungari non avevano calcolato era che la loro azione, al contrario, ricompattò le fila attorno al sovrano tedesco: di fronte a una minaccia percepita come aliena, determinata da un popolo che ancora annegava nel paganesimo, la cristianissima Germania preferì porre da parte le proprie beghe personali e costituire un fronte unico imperniato intorno a chi aveva già dimostrato di possedere la patente del paladino di Cristo.
Così, di fronte a una reazione inaspettatamente decisa, gli ungari decisero di tenersi alla larga e di rientrare nelle loro basi di partenza. Salvo cambiare idea l’anno successivo, e riaffacciarsi sul confine germanico con intenzioni ancora più bellicose. Quella volta infatti, il loro harka o capo, Bulcsù, aveva radunato una forza di 25.000 uomini, munita di pesanti macchine ossidionali: l’assiduo confronto con le tecniche di combattimento occidentale aveva evidentemente prodotto i suoi frutti e anche se appare azzardato immaginare che gli ungari stessero mettendo in atto una vera e propria operazione di conquista, per certo con quell’incursione segnavano uno scarto nella loro attività di scorreria, che non si sarebbe più limitata alla devastazione del territorio nemico, bensì avrebbe comportato anche l’assedio di città fino ad allora precluse alle loro mire, per via delle propria mura difensive.
Nell’immaginario dell’epoca l’avanzata ungara fu percepita come un’invasione dalle prospettive catastrofiche per tutta la cristianità. Di conseguenza, la battaglia che Ottone si accingeva a combattere tra il 9 e il 10 agosto 955 a sud di Augusta, nel pianoro che si estende seguendo il corso del fiume Lech, da cui il nome di Lechfeld, era destinata ad assumere i toni di uno scontro epocale, uno di quei crocevia capaci di cambiare con il proprio esito il corso della storia. Almeno sulla carta, Ottone, che pure aveva incassato il ritorno tra le sua fila del figlio Liudolfo e del genero Corrado il Rosso, appariva in uno svantaggio numerico consistente: almeno tre a uno, se dobbiamo prestar fede ai cronisti, che gli attribuirono per l’occasione una forza ammontante a non più di 8.000 uomini. Il sovrano sassone, che arrivava dal nord dopo una marcia attraverso un terreno accidentato e coperto, scelto appositamente per rendere la vita difficile agli arcieri magiari, dispose i suoi uomini in una lunga colonna divisa in contingenti a seconda della nazionalità. In testa furono schierati tre reparti bavaresi, seguiti dai franconi e poi dai sassoni dello stesso Ottone. Nella retroguardia furono posizionati due reparti di svevi e un contingente di boemi, che avrebbero dovuto difendere le salmerie. Dopo molte scaramucce nelle quali l'esercito di Ottone perse circa 2.000 cavalieri, Ottone, a un certo punto della battaglia, sapeva di poter contare su un vantaggio tattico non indifferente, essendo riuscito a “inchiodare” i magiari tra l’incudine della città assediata e il martello della sua cavalleria pesante. Certo, era ancora una scommessa rischiosissima, ma si trattava di uno scontro frontale tra un'armata di cavalieri leggeri armati principalmente di archi e frecce, e un pugno di cavalieri corazzati. Ottone schierò quindi i 6.000 cavalieri rimastigli in una lunga linea e, prima di sferrare l’attacco, si preoccupò di ricordare ai suoi che essere sponsorizzati dal Padreterno avrebbe fatto la differenza, come testimoniarono le parole riportate dalla Storia dei Sassoni di Widuchindo che più o meno suonarono così: «Ci sono superiori in numero, lo so, ma non hanno né le nostre armi, né il nostro coraggio. Sappiamo anche che essi non hanno l’aiuto di Dio, e questo ci è di grandissimo conforto!». Dopodiché, impugnata la Santa Lancia e lo scudo, Ottone fu il primo a spronare il cavallo contro i nemici. Le armate magiare furono travolte e la battaglia si concluse con una impressionante carneficina: rimasero uccisi 2.000 cavalieri tedeschi e 20.000 magiari. La lezione fu recepita: non solo da quel momento le incursioni ungare in Europa cessarono del tutto, ma il nuovo sovrano Taksony, si dimostrò conciliante con i vincitori, permettendo addirittura che una volitiva opera di evangelizzazione tramutasse i diabolici magiari in un popolo cristianissimo che, abbandonate progressivamente le usanze nomadi, si stabilizzerà formando il nucleo della futura nazione ungherese. Quanto a Ottone, il prestigio ottenuto da quell’impresa, che rimase il più alto punto mai raggiunto nella sua carriera militare, fu immenso, al punto che già sul campo di Lechfeld, i nobili germanici lo sollevarono sui loro scudi proclamandolo imperatore. L’intelligente sovrano saprà sfruttare l’onda lunga di questa portentosa vittoria, che culminerà proprio con la proclamazione a imperatore del Sacro Romano Impero, strappata dalle mani tremolanti di papa Giovanni XII nel febbraio del 962.
Gli eventi furono innescati a partire dal 955, quando Berengario II, approfittando delle difficoltà di Ottone, con un colpo di mano riusciva di nuovo a estendere la propria autorità sino a Verona. Il re sassone gli scatenò contro il figlio Liudolfo, non fosse altro per testare la sincerità del suo pentimento, ma il giovane scomparve presto dalla scena morendo di malaria nel novembre del 957. Berengario riprese progressivamente il controllo di tutti i territori che già un tempo erano stati suoi, ma suo figlio Adalberto spadroneggiava al punto da volgere l'attenzione su Roma. Alberico, signore di Roma, commise un grave errore: portò, infatti, al soglio pontificio il figlio diciottenne, Ottaviano, il quale, oltre a rispolverare l’usanza di cambiare nome, in Giovanni XII, nel momento in cui venne nominato papa, sembrava lontanissimo dalle ispirazioni dello spirito. Piuttosto, risultò evidente quanto fosse costretto dalle catene della carne, preferendo alle preghiere e ai fumi dell’incenso il sudore dell’alcova.
Si fosse limitato a questi eccessi, probabilmente Giovanni XII sarebbe scomparso senza lasciare traccia, egli invece ebbe l’ardire di associare alle sue già lodevoli inclinazioni negative una buona dose di ambizione, che lo spinse ben presto a entrare in collisione con le mire espansionistiche di Berengario II e di suo figlio Adalberto.
Ai due sedicenti signori d’Italia non parve vero di poter aggiungere un importante tassello al loro sogno di conquista della penisola sfruttando un pretesto che gli consentiva di sparigliare lo status quo e piombare sul Patrimonio di San Pietro. Fu allora che l’incauto Giovanni compì la scelta che avrebbe segnato il suo destino e molto più quello dell’intera Europa, decidendo di ricorrere all’aiuto di Ottone. Lo stato d’animo con il quale il sovrano tedesco accolse tale richiesta è facilmente immaginabile: fu come se il Padreterno gli stendesse un tappeto rosso verso la realizzazione del progetto imperiale che stava inseguendo sin da quando muoveva i primi passi.
Fu esattamente ciò che sottostimò il povero Giovanni. Il pontefice infatti si inserì nel percorso tracciato dai suoi predecessori, che sin dagli albori dell’era carolingia, ricorrevano spesso all’impiego di forze “imperiali” per contrastare minacce vicine. Probabilmente egli dovette immaginare che il sovrano tedesco si sarebbe comportato né più meno che i suoi omologhi franchi.
Fu seguendo questa logica che Giovanni inviò la fatidica ambasciata a Ottone, promettendogli in cambio del suo aiuto la dignità imperiale, resa vacante da quando Berengario I, l’ultimo detentore del titolo sopravvissuto alla frantumazione della galassia carolingia, era morto nel 924: probabilmente per Giovanni si trattava solo di inscenare una cerimonia folcloristica, nel corso della quale avrebbe semplicemente posato una corona sul capo di un potente signore, capace di proteggere un papa dai suoi nemici. Ma il pontefice non era Adriano I né tantomeno Ottone era Carlo Magno, a testimonianza di quanto i tempi fossero cambiati. Il re tedesco infatti sognava in grande e, accarezzando come accennato quel progetto grandioso che, realizzato di lì a breve, avrebbe dato vita nientemeno che al Sacro Romano Impero, era ben conscio del valore di quella incoronazione; ed era altrettanto consapevole di quanto fosse fondamentale che tale consacrazione passasse per le mani di un papa che, per quanto depravate, rimanevano pur sempre “sacre”.
Con tali premesse, il 2 febbraio dello stesso anno Ottone fece il suo ingresso a Roma, dove lo attendeva in pompa magna Giovanni, pronto a incoronare lui e sua moglie Adelaide. A pochi giorni dall’incoronazione, il neoimperatore presentava un salatissimo conto a Giovanni XII, cui finalmente apparve chiaro quanto fosse stata sciagurata la sua richiesta d’aiuto: il 13 febbraio del 962 il pontefice fu “costretto” a controfirmare il celebre Privilegium Ottonianum con il quale Ottone ottenne un giuramento di fedeltà da parte del papa e soprattutto che ogni futura elezione papale avvenisse previa autorizzazione imperiale e alla presenza dei suoi rappresentanti, riducendo di fatto il pontefice a una condizione di vassallaggio senza precedenti.
Fu forse il punto più basso mai toccato dal prestigio pontificio, nonostante l’affanno di alcuni storici tenti di limitarne la portata: al contrario, l’impero toccava un apice mai raggiunto dai tempi di Carlo Magno e per certi versi anche più alto, considerata l’autonomia rivendicata al cospetto della Chiesa. Sarà per questa consapevolezza che una volta partito Ottone, Giovanni iniziò a tramare con coloro che sino a pochi attimi prima erano i suoi nemici, operando un voltafaccia che poteva contare sullo sconcerto di una parte dell’aristocrazia romana, abituata a una certa autonomia e maldisposta verso le ingerenze di un imperatore così intraprendente.
Quali che fossero le motivazioni, Giovanni non sembrò nutrire scrupoli nella ricerca di alleati da adottare in funzione antimperiale, tessendo in breve una rete di contatti che non si scandalizzava di includere anche i secolari nemici della cristianità: i suoi messi partirono alla volta di Frassineto, il ben noto caposaldo saraceno in terra di Provenza, dove aveva trovato scampo il figlio di Berengario, Adalberto; altri presero la strada di Costantinopoli, dove avrebbero perorato la causa di Giovanni contro Ottone; altri ancora, camuffati da missionari, si avventurarono nelle terre d’Ungheria, per impetrare l’aiuto di coloro che non più di sette anni prima, ancora idolatri e bellicosi, avevano rappresentato il grande spauracchio dell’Europa.
Tutte le legazioni vennero, però, intercettate dagli uomini di Ottone che, non nutrendo una sconfinata fiducia nell’aiuto divino, né tantomeno sulla lealtà di Giovanni, si era premunito di tenere strettamente sotto controllo le mosse del pontefice. Fu in tale frangente che, oltre alle compromettenti missive, giunsero al cospetto del sovrano anche le testimonianze sull’imbarazzante condotta del papa che, nonostante l’energia profusa per i suoi machiavellici disegni, poteva contare su un’inesauribile scorta atta al soddisfacimento delle sue voglie. Ottone non si scompose e, attribuendo sprezzantemente le “intemperanze” papali alla giovane età del pontefice, muoveva alla volta della rocca di San Leo, ultimo caposaldo della resistenza di Berengario: contestualmente, inviò ambasciatori alla volta di Roma per chiedere conto a Giovanni del suo comportamento. Per tutta risposta il papa accusò di mendacio la legazione imperiale, considerò una falsificazione le lettere che lo avrebbero inchiodato e addirittura ebbe l’ardire di lamentare l’invasione delle terre di San Leo, poste a poca distanza dall’odierna San Marino, come appartenenti allo Stato della Chiesa.
A ciò si aggiunge che Giovanni aveva da poco accolto con tutti gli onori a Roma Adalberto, infrangendo il giuramento sancito nel Privilegium; si comprende come a Ottone non restasse che calare verso Roma per ridurre il pontefice a più miti consigli. Era il 2 novembre del 963 quando l’imperatore penetrò nell’Urbe senza incontrare la benché minima resistenza: alla vista della armate imperiali Giovanni si era volatilizzato riparando nel castello di Tivoli. Quattro giorni dopo l’imperatore convocò un sinodo che avrebbe dovuto giudicare l’operato di Giovanni, ma che si tramutò ben presto in un processo in contumacia contro il pontefice. Qui, complice la testimonianza di Liutprando che nella Historia Ottonis si scatenò, si dipinse il ritratto di un monstrum capace di compiere un compendio di bassezze inenarrabili.
Si giunse così al 6 dicembre del 963 in cui, di fronte a una tale ridda di peccati, a Ottone non restava che destituire Giovanni e sostituirlo con Leone VIII, uno che fino al giorno prima faceva il protonotaro e che nell’arco di una notte si fece impartire tutte le consacrazioni del caso. Non passò neppure un mese che Giovanni riuscì a fomentare una rivolta che insanguinò Roma: per quanto limitato, era pur sempre il figlio del grande Alberico, capace di rinfocolare nei cittadini dell’Urbe la passione per una gloria che fu. Ma Ottone non era disposto a indulgere verso qualsivoglia tentativo di rivendicazioni e soffocò con violenza ogni velleità di ribellione. Al pontefice deposto andò meglio il mese successivo quando, complice la partenza dell’imperatore, Giovanni riuscì a rimettere piede nell'Urbe scatenando una cristianissima vendetta a cui sfuggì il solo Leone, che riparò a Camerino presso Ottone.
Di fronte a questo rinnovato orrore, l’imperatore, che ormai aveva saldato i conti con le ultime resistenze di Berengario e Adalberto, consegnando definitivamente il regnum Italiae alla corona tedesca, si apprestò a porre la parola fine sul capitolo Giovanni XII, che intanto sfuggiva alla giusta punizione a causa di ciò che molto pudicamente fu rubricato come un colpo apoplettico. I romani vissero un ultimo sussulto di orgoglio eleggendo come pontefice Benedetto V, un semplice diacono che non ebbe neppure il tempo di accedere ai gradi di sacerdozio ed episcopato, indispensabili per l’esercizio della sua carica: passato neppure un mese dal suo insediamento, il 23 giugno 964 Ottone rientrava di nuovo nell’Urbe dopo averla ridotta alla fame, per insediare definitivamente il pontefice da lui designato, ovvero Leone VIII che, giusto per sottolineare con quale piglio intendesse interpretare il ruolo, si presentava spezzando il pastorale sul capo del povero Benedetto. Sistemate così le cose sulle rive del Tevere, Ottone se ne tornò in Germania dove, all’incirca un anno dopo, ricevette un’ambasceria romana che, in accordo con quanto previsto dal Privilegium emendato dal sovrano, chiedeva rispettosamente il reintegro di Benedetto V sul soglio pontificio reso vacante dalla morte di Leone. Ottone rifiutò categoricamente esprimendo piuttosto la sua scelta nei confronti del vescovo di Narni, che prese il nome di Giovanni XIII. Costui, originario della famiglia dei Crescenzi e imparentato alla lontana con Alberico II fu proiettato quasi naturalmente nel turbinio delle lotte con cui le fazioni romane si contendevano il controllo della Città.
La sua deposizione, da parte dei romani, nel dicembre del 965 costrinse di nuovo Ottone a intervenire direttamente. A quel punto Ottone, che si dedicò con meticolosa attenzione a mondare tutto l’ambiente romano, mettendo in riga il patriziato e tutti coloro che nutrivano anche solo il più piccolo afflato nazionalista, pensò bene di trarre il massimo beneficio dall’ennesima vacanza trasteverina: così, la vigilia di Natale del 967 fu raggiunto dal figlio quattordicenne Ottone II, al quale affidava il futuro della casata associandolo al trono e incoronandolo imperatore.
Ottone poteva finalmente rivolgersi al Sud Italia, sempre animato dall’antico progetto di riunire la penisola e associarla alla Germania attraverso la sutura della corona imperiale: un’operazione che in pratica avrebbe rappresentato la sostituzione dell’autorità bizantina, perseguita attraverso quella politica di condizionamento della feudalità laica già praticata con apprezzabili risultati in terra tedesca. La graduale sostituzione del potere comitale con quello vescovile incontrò il favore del principe di Benevento e Capua Pandolfo Testadiferro che, in cambio dell’adesione al programma, fu investito del controllo di Spoleto e Camerino. Più difficile risultò far digerire il progetto ai bizantini, nei confronti dei quali l’ormai potentissimo Ottone dovette alternare già a partire dal 967 il bastone delle iniziative militari con la carota delle trattative diplomatiche. Finalmente, nel 972 si giunse a un compromesso che eliminò il pericolo di una guerra dichiarata tra i due imperi. L’usurpatore del trono imperiale di Costantinopoli, Giovanni I Zimisce, probabilmente dietro riconoscimento tacito del titolo imperiale, diede sua nipote Teofano in moglie a Ottone II, che aveva sperato di poter impalmare una principessa della dinastia legittima per dare così valore di autenticità alla sua stessa elezione. L’operazione prevedeva il delinearsi di nuovi ambiti e competenze territoriali, secondo i quali Capua e Benevento sarebbero rimasti nell’orbita imperiale occidentale, mentre il resto dell’area meridionale restava sotto il controllo di Bisanzio. Ottone giudicò soddisfacente le clausole accontentandosi che Pandolfo I Testadiferro si costituisse intorno a Benevento una marca sul tipo di quelle che Gero e Hermann Billung tenevano a oriente in suo nome.
L’imperatore poteva essere più che orgoglioso del suo operato. Sotto di lui, infatti, non solo aveva preso vita un’entità che con alterne vicende sopravvivrà per i successivi 834 anni, ma era riuscito a trasformare la sua corte, esattamente come avvenuto in precedenza con Carlo Magno, in un faro capace di illuminare quell’epoca con un fulgore abbagliante, a dispetto dei tutti coloro che ancora la giudicano annegata in un’oscurità medioevale. Liutprando da Cremona, Raterio da Verona, considerato il massimo scrittore e uno dei maggiori eruditi del mondo, lo stesso fratello di Ottone, il vescovo Brunone, additato dai più come l’uomo più colto del suo tempo, furono i protagonisti di questo rilancio culturale, e a essi si associò addirittura una donna, la poetessa Roswitha di Gandersheim, giusto per sottolineare quanto quella presunta stagione cupa fosse, al contrario, sorprendentemente progressista.
Attraverso la loro opera l’imperatore seppe plasmare un mondo assetato di sapere, all’interno del quale rifiorirono gli studi delle scienze e della storiografia e in cui l’architettura, la pittura, la poesia cominciano a formarsi un nuovo stile capace di imprimere quella che a tutti gli effetti viene riconosciuta come “cultura ottoniana”. Senza contare quanto in campo politico, il tentativo seppur fallito di limitare il potere feudale attraverso il potenziamento delle città vescovili comporterà almeno in nuce l’acquisizione di una “coscienza cittadina”, che costituirà il presupposto su cui si impianterà il processo della formazione dei comuni. Un risultato di cui forse Ottone avrebbe volentieri fatto a mano, considerato quanto questi nuoceranno proprio all’istituzione che il sovrano aveva contribuito a creare, ma che innegabilmente lo proiettarono nel firmamento dei giganti non solo del Medioevo ma di tutta la Storia umana. Fu dunque con l’animo appagato di chi era consapevole di aver seguito fino in fondo il proprio destino che Ottone lasciava questa terra nel maggio del 973, stroncato appena sessantunenne da un non precisato male mentre risiedeva a Memleben in Turingia.
In un’Europa che ancora una generazione addietro rischiava di essere sommersa dalle invasioni degli arabi, dei vichinghi, degli ungari, egli lasciava in eredità all’unico figlio sopravvissutogli un impero compatto, pacificato e consolidato, capace di resistere come un blocco inossidabile all’avanzata dei secoli. Un retaggio che sopravvivrà nonostante il sostanziale fallimento della sua politica, imperniata sulla soggezione della Chiesa all’impero, destinata dopo di lui a intraprendere la strada di un lento epilogo: il declino dell’utopia di un impero universale romano e cristiano, sarà infatti enfatizzato dalla drammatica stagione di lotta che le due più alte istituzioni medievali posero in essere sul terreno delle investiture.

Anche se il termine "Sacro Romano Impero" non venne usato fino a 200 anni dopo, Ottone ne viene considerato il fondatore e viene ricordato come il primo in una successione di Imperatori di varie dinastie che finì solo quando Napoleone dissolse il Sacro Romano Impero e l'ultimo Imperatore della Casa di Asburgo abdicò la Corona nel 1806.


Eugenio Caruso - 14 agosto 2019

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